che pena l’uomo-zerbino!

così sia

«Non idolatrate i potenti, non strisciate davanti a loro in atteggiamento di servaggio, non è dignitoso questo; è meglio sopportare la fame piuttosto che abbassarsi a lucidare le scarpe alla gente»

don Tonino Bello

 

«Sui potenti sovrasta un’indagine rigorosa

Sapienza 6,8

Con la dignità tipica del ragionier Fantozzi esaltano i potenti e disprezzano i subalterni, quelli, cioè, che si trovano poco sotto di loro nella piramide dell’oppressione.

Il Sistema prima ridicolizza e umilia, sottomettendo ai suoi capricci, poi fornisce il modello vincente su cui proiettare le proprie frustrazioni per dissimularle.

L’oppressione si regge sulla violenza psicologica supinamente accettata e presuppone la massiccia presenza di inetti dal punto di vista etico e pavidi dal punto di vista esistenziale.

Tra il solidale e l’arrampicatore, l’uomo-zerbino sceglie ed imita l’arrampicatore. Tra il giusto e il manipolatore, l’uomo-zerbino sceglie ed imita il manipolatore.

L’uomo-zerbino, infatti, ammira il successo in sé, guardando al fine e non ai mezzi. Archiviano, con facilità, la morte fisica dei lavoratori uccisi dalla scarsa sicurezza e dalla precarietà. E si abituano alla loro quotidiana agonia spirituale causata dalla ripetitività dei gesti. Ripuliscono in fretta i profitti dei padroni dal sangue degli operai e i privilegi delle élite dal sangue dei poveri e chiudono le orecchie ai loro lamenti. La morte, invece, dell’uomo di successo li lascia sgomenti. Quella sì, sembra ingiusta. Era così bravo e buono, al TG ne parlano con tanta enfasi e commozione. Tocca morire pure ai potenti, come uomini qualsiasi. Incredibile!
Solo Uno (che noi di solito chiamiamo Dio) sembra uscire dal coro. Pare, infatti, che rifocilli l’oppresso e faccia attendere il potente.
Che consoli l’oppresso e interroghi il potente.

E questa è la nostra speranza.

Così sia

la croce è ben altro che un orpello da portare al collo o un identificativo da esibire …

la croce

«Dio viene respinto e brutalmente eliminato con la croce quando si avvicina troppo a noi e non ci è più possibile farcene un’immagine che ci convenga e che possiamo forgiare a nostro piacimento»

D. Schellong

Il venerdì santo è il giorno in cui l’uomo rifiuta la convivenza, fondata sull’amore e sul riconoscimento reciproco, immaginata da Dio, preferendo le dinamiche conflittuali e di sopraffazione imposte dal Potere. È il giorno in cui prevale l’antropologia deformata sulla narrazione veritiera. È il giorno di cui non sperimentiamo ancora del tutto la fine. È il giorno in cui siamo chiamati ad abbracciare la croce per ribadire il nostro impegno per la giustizia di Dio e cioè per l’instaurazione del suo Regno. È il giorno in cui siamo chiamati a ribadire da che parte stiamo: sulla croce con i crocifissi o con i manipolatori, i falsi testimoni, i pusillanimi, con la ragione di Stato e di religione, con chi deride gli sventurati. La croce è il testimone che il Dio difensore degli orfani e delle vedove ci ha lasciato. Chi lo ama prosegue il tragitto prendendola su di sé. La croce non come strumento di penitenza, o peggio come simbolo di remissività verso le iniquità del mondo, ma come possibile conseguenza dell’impegno per le vittime della disumanizzazione accettata (per convenienza) dalla maggioranza. La croce rappresenta il sogno infranto di Dio che il discepolo è chiamato a far rivivere. A qualunque costo. Anche della vita. Le croci si trovano sulle strade solitarie ed impervie percorse dai profeti. Chi, invece, non alza la voce contro l’oppressione, chi pronuncia parola di compromesso, generiche e mai di denuncia dei responsabili del malessere sociale incontra incarichi e poltrone, non certo croci.

la ‘partigianeria’ di Dio

 

prima gli oppressi

Ogni lacrima degli oppressi è stata annotata con la mano di un ragioniere scrupoloso, mentre del bilancio dei peccati sembra che se ne siano perse le tracce. È fatto così il nostro Dio: diligente nel medicare ferite, negligente nell’assegnare colpe.

 

Se gli oppressi non hanno dove posare il capo, hanno però un luogo dove trovare consolazione*. Il cuore di Dio è innanzitutto per loro. Gli altri dovranno attendere prima di essere ammessi. Udranno parole uniche che Dio rivolgerà solo a loro. Nessun altro potrà ascoltarle, neanche origliando. Riceveranno spiegazioni, ogni interrogativo troverà risposta, e scopriranno che Dio non ha dimenticato nulla della loro sofferenza. Ogni lacrima degli oppressi è stata annotata con la mano di un ragioniere scrupoloso, mentre del bilancio dei peccati sembra che se ne siano perse le tracce. È fatto così il nostro Dio: diligente nel medicare ferite, negligente nell’assegnare colpe. D’altronde sembra abitare più in un ambulatorio che in uno di quei lussuosi palazzi dove si emettono sentenze civili o religiose. Ma sempre “umane”, nel senso di terrene. Com’è diverso il senso della Giustizia nella sua logica: per Lui significa riscattare l’infelicità di quest’esilio vissuto dai suoi figli al buio ed esposti ad ogni genere di male. Se per l’uomo giustizia è punire per il Signore è guarire.

Attualmente però Dio è impegnato nella ricerca di persone che si rendano disponibili ad anticipare il suo conforto agli ultimi, qui sulla terra. Le selezioni sono molto difficili e vanno spesso deserte per gli improrogabili impegni degli uomini: accumulare denaro, programmi televisivi, partite di calcio**. È così che a Dio gli tocca vedere morire i suoi figli prediletti nella solitudine. Questa assurda separazione, che ci fa rinviare le dinamiche del Regno all’aldilà, produce molte vittime. Il rinvio è il lago in cui sguazza il male. Non servono lamenti ed invocazioni se non ci convertiamo dalla passività e ci continuiamo a dimenticare che non solo la terra ma anche i nostri/e fratelli/sorelle ci sono stati affidati in custodia.

* “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Vangelo di Matteo 11,28)

** Vangelo di Matteo 22,1-14

il vero e unico posto della chiesa nel mondo

il motto della Chiesa

«La scelta a favore dei poveri, come segno della diaconia profetica, dovrebbe rappresentare per le chiese un imperativo di rottura con le forze e le classi dominanti, responsabili della morte dei poveri»

frei Betto

la via della salvezza passa tra gli scartati

 

«Dove sono i poveri, lì ci troverete» sarà il motto con cui la Chiesa tornerà a convertirsi a Cristo e al Vangelo. Ed inizierà, finalmente, a contrapporsi al grande peccato fattosi struttura. Quel peccato che ha messo su una croce il Salvatore, sconfiggendolo, però, solo per tre giorni. Quel peccato che ancora mette su una croce gli oppressi, sconfiggendoli, però, solo per i tre giorni del tempo storico. La Chiesa tornerà dal suo Signore, si rimetterà alla sua sequela abbandonando le dottrine costruite da menti umane che l’hanno irrigidita, sostituendo la Giustizia di Dio verso i piccoli e gli umili con la giustizia che condanna chi trasgredisce norme. La Chiesa riunirà finalmente le mense dell’epifania di Dio: quella della Parola che annuncia la salvezza, quella dell’Eucaristia e degli altri sacramenti che l’attualizza e quella dei poveri che realizza il Regno di Dio.

«Saremo giudicati sull’amore concreto e sulla misericordia, non su quello cantato o recitato. Convinciamoci che non possiamo dividere le tre mense che fanno la nostra identità cristiana: la mensa della Parola, quella dell’Eucarestia e quella dei poveri. Se ne manca una le altre due sono falsate e non c’è comunità. Né basta scusarsi dicendo che c’è il gruppo della carità. Perché la carità è di tutti e non si può delegare. Ogni mensa rimanda all’altra: la Parola fa desiderare l’Eucarestia che fa sentire il bisogno di muoversi verso il povero» (1).

La Chiesa non testimonierà più semplicemente l’esistenza di Dio ma la sua Volontà: ossia un diverso paradigma da quello predicato dal mondo e che è chiamata a rifiutare. La Chiesa, così, rigetterà la mercificazione generata dagli attuali modelli economici e predicherà la gratuità, rigetterà il potere e vivrà il dono di se stessa ponendosi, come Cristo, tra gli scartati. La Chiesa si presenterà come radicale alternativa alla cultura dell’utilità e della funzione e testimonierà che la dignità risiede nella scelta di com-patire e nella prassi conseguente.

«La pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo» (2).

Riconoscere il Figlio di Dio in quell’uomo dileggiato, sconfitto dal Potere, ed amaramente abbandonato dai discepoli non era impresa semplice. È un monito sempre valido per la Chiesa che è chiamata alla disponibilità, dimostrata dal centurione (3), ad accogliere l’assurdo di Dio, rispetto alle certezze dei saggi che diventano chiusure. La Chiesa, ancora oggi,  deve avere l’umiltà di imparare la fede da chi non ha fede e mettersi davanti ai reietti e riconoscere in essi il Figlio di Dio “che soffre nella storia” (4).

(1) card. Francesco Montenegro, Discorso pronunciato in occasione dell’apertura del Giubileo della Misericordia nell’arcidiocesi di Agrigento, Chiesa Concattedrale Santa Croce di Agrigento, 13/12/2015

(2) Prima lettera di Pietro 2, 7-8

(3) «Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Vangelo di Marco 15,39)

(4) «Voi siete l’immagine del Crocifisso. Sono venuto a dirvi che voi siete il Cristo che soffre nella storia» (Oscar Romero ai campesinos, in Ettore Masina, L’arcivescovo deve morire. Oscar Romero e il suo popolo, Il Margine, Trento 2011, p. 98)

la logica del ‘prima i nostri’ è ipocrita essendo noi i predoni dell’Africa – parola di vescovo

 

l’arcivescovo di Palermo:

“Siamo noi i predoni dell’Africa che affamano milioni di poveri”

 

vibrante discorso alla città di monsignor Corrado Lorefice 

«La logica del “prima noi” mostra in questa Europa tutta la sua fallacia. La Chiesa non può restare in silenzio»

l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, durante “il discorso alla città” per la festa di Santa Rosalia

Non ostenta mezze misure, monsignor Corrado Lorefice, nel descrivere quelli che Giovanni XXIII definiva «i segni dei tempi». Ed è per questo che, nel suo discorso alla città di Palermo, in occasione della processione della patrona Santa Rosalia,afferma che «non è tempo di dormire, ma di stare svegli!». Con l’immagine del vascello e della navigazione – desunti simbolicamente dai festeggiamenti in onore della “Santuzza” – il presule descrive la navigazione difficile di tre «velieri»: la città di Palermo, l’Italia e l’Europa.   

Il primo vascello, quella della città di Palermo, naviga in un mare perennemente agitato, e prevale la paura, perché – afferma Lorefice – «il lavoro manca, drammaticamente e, a volte, tragicamente; perché i nostri giovani perdono la speranza e si sentono costretti a partire, privandoci della loro presenza, della loro giovinezza forte e creativa; perché nelle nostre periferie cresce il disagio, aumentano i poveri». Ma il vero pericolo non è la paura, sottolinea l’arcivescovo, bensì «la rabbia, la rassegnazione, l’evasione».    

A venticinque anni dal suo martirio, il messaggio di don Pino Puglisi deve risuonare a Palermo, afferma Lorefice: «Don Pino diceva che “è tempo di rimboccarsi le maniche”, di passare “dalle parole ai fatti”, di fare una proposta diversa rispetto alla “cultura dell’illegalità” promossa dai mafiosi, di adottare un nuovo “stile di vita”». L’arcivescovo, poi, ricorda il sacrificio di Libero Grassi e di Piersanti Mattarella:

«Ad aiutarvi nella verità – precisa – non è il politico che vi promette favori, il prete che vi raccomanda, il potente che vi chiede in contraccambio il sacrificio della vostra libertà, non è chi vi dice che risolverà in modo semplicistico e sommario i vostri problemi! Ad aiutarvi è chiunque vi ricordi la bellezza di essere giovani, chiunque abbia rispetto e fiducia in voi, chiunque sia disposto a fare un passo indietro per cedervi strada, chiunque rinnovi in voi la forza dello stare assieme».   

Al timone del” secondo vascello” c’è l’Italia, che soffre anch’essa paure e povertà, e dove si sta diffondendo, evidenzia il presule, una pericolosa illusione: «Che la chiusura, lo stare serrati, la contrapposizione all’altro siano una soluzione. Ma una civiltà che si fondi sul “mors tua, vita mea”, una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine. È questo che vogliamo?». Più volte il pastore di Palermo viene interrotto da diversi applausi, persino quelli delle autorità civili e militari presenti; nelle sue parole c’è spazio per ricordare anche il patrono d’Italia, San Francesco d’Assisi, e il Papa che ne porta il nome, oltre che la sensibilità verso l’indigenza degli altri.   

Il “terzo vascello”, chiarisce ancora Lorefice, è quello dell’Europa: «La nave che tutti ci comprende in virtù di una geniale intuizione dei nostri padri. La logica del “prima noi” mostra in questa Europa tutta la sua fallacia. Rischiamo fratture insanabili proprio perché ogni Paese europeo comincia a ritenere che il suo benessere venga prima, senza capire che se la casa comune si distrugge tutti resteremo all’addiaccio, privi di un tetto. È la miopia dell’egoismo politico, propugnato da governanti e da politici europei che spesso si vantano – soprattutto nell’Est – di costruire regimi privi delle garanzie e fuori dai confini minimi della democrazia. Di fronte a tutto questo, care sorelle e cari fratelli, la Chiesa non può restare in silenzio, io non posso restare in silenzio».    

Monsignor Lorefice ricorda ancora la figura di Giorgio La Pira, siciliano d’origine, il quale «faceva delle “attese della povera gente” il suo faro e la sua guida, contro ogni esaltazione del mercato senza regole, dell’individualismo economico. E questa convinzione, animata in lui da una fede profonda nell’Evangelo, se la portò dietro a Firenze, dove fu il sindaco dei poveri, dei disoccupati, degli ultimi. Oggi La Pira ci inviterebbe a guardare alle tante navi che dirigono la loro prua verso l’Europa come alle navi della speranza».   

Da qui l’affondo finale: «Tutti dobbiamo sapere che lungo i decenni e soprattutto in questi ultimi trent’anni l’Africa – che è il continente più ricco del mondo – è stata sfruttata dall’Occidente, depredata delle sue materie prime. Ce le siamo portate via, anzi le multinazionali l’hanno fatto per noi, senza pagare un soldo. E abbiamo tenuto in vita governi fantoccio, che non fossero in grado di difendere i diritti della gente. Le potenze occidentali mantengono inoltre in Africa una condizione di guerra perenne che rende più facile lo sfruttamento e consente un fiorente commercio di armi».   

«Siamo noi i predoni dell’Africa!», tuona l’arcivescovo di Palermo, «siamo noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni di poveri, li costringiamo a partire per non morire: bambini senza genitori, padri e madri senza figli. Un esodo epocale si abbatte sull’Europa, che ha deciso di non rilasciare più permessi per entrare regolarmente nel nostro continente. E allora questo esercito di poveri, che non può arrivare da noi in aereo, in nave, in treno, prova ad arrivarci sui barconi dei trafficanti di uomini…».   

Quelli che vengono chiamati centri di smistamento, di detenzione – sottolinea Lorefice – «quei centri che i nostri governi sollecitano e finanziano per “bloccare” il flusso migratorio, spesso richiamano i campi di concentramento. E se settant’anni fa si poté invocare una mancanza di informazione, oggi no. Non lo possiamo fare, perché ci sono le prove, nella carne martoriata di questa gente, nei filmati, nei reportage di giornalisti coraggiosi (mentre giornali e telegiornali di altra fatta parlano dei migranti sulle navi come di un “carico” alla maniera delle merci e delle banane!). Noi sappiamo, e siamo responsabili. E dobbiamo levarci!»   

«Il Vangelo non è un’utopia, ma una regola, una forma di vita, e l’Eucaristia – come ricordava Paolo VI contiene la forma vitae dei popoli», rimarca il prelato. «La stessa cosa di cui era convinto Benedetto da Norcia, patrono d’Europa. Pertanto – conclude – questo è il messaggio su cui ritornare a scommettere:

«Non è questione di accoglienza, non si tratta di essere buoni, ma di essere giusti. Non di fare opere buone, ma di rispettare e, se necessario, ripensare il diritto dei popoli. È in nome del Vangelo che ogni uomo e ogni donna hanno diritto alla vita e alla felicità». 

 

M. NASCA

mettiamoci nei panni dei poveri …

pace e inquietudine

«Chi si lascia provocare dalle necessità degli uomini, leggerà il vangelo non altrimenti che con gli occhi della misericordia e scoprirà la fede conseguente»

O. Fuchs

Vieni, sediamoci ed iniziamo a guardare la nostra vita con gli occhi dei poveri. Togliamoci le lenti ricevute in dotazione dal Sistema. Deformano la realtà: non colgono i contorni della persona ma solo competenze ed attitudini professionali. E togliamoci pure le cuffie ricevute in dotazione dal sistema. Deformano la realtà: infatti, trasmettono, ininterrottamente, la narrazione necessaria alla giustificazione dell’indifferenza e dell’esclusione. Ascoltiamo prima, prendiamo visione e informiamoci, controllando le fonti, poi, verifichiamo i risultati e confrontiamoli con quello che ci hanno iniettato fin da piccoli. È un lungo cammino di disintossicazione, alla fine potremmo ritrovarci soli, ma scopriremo il dono promesso da Dio: la pace interiore. Che non ha nulla a che fare con l’impassibilità frutto di pratiche ascetiche, ma è quella sensazione di giustizia creatrice di senso per la nostra vita. Una pace interiore determinata dal perseguimento della giustizia che si accompagna, dunque, necessariamente, all’inquietudine profetica non certo al disimpegno dei defilati, anche se devoti.

«Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione, hai aperto gli orecchi, ma senza sentire» (Isaia 42, 20)

Mettiamoci nei panni dei poveri, comprendiamo l’assenza di opportunità e la violenza di un’economia fondata sulla funzionalità, un’economia che assorbe uomini e restituisce mansioni, un’economia che non riconosce persone ma solo ruoli. Spogliamoci dei privilegi derivanti dalla condizione sociale, rifiutiamo le dinamiche di asservimento che contraddicono, totalmente, la natura gratuita del nostro essere. Rifiutiamo il servizio all’iniquità e non contribuiamo alla ferocia della reiterazione. Le strutture che producono oppressione (c.d. strutture di peccato) non nascono dal caso e non sono fenomeni naturali, ma camminano sulle gambe di chi sceglie la disumanizzazione e funzionano con le braccia di chi sceglie lo sfruttamento.

Condividiamo il rifiuto che subiscono i poveri e la negazione di un riscatto. Mettiamoci nella condizioni di comprendere la violenza dei “ti faremo sapere”, “ripassa domani”, “torna a casa tua”. Camminiamo con loro per trovare due spiccioli, fatichiamo con loro per una burocrazia fantozziana, proviamo con loro la tristezza di una mensa. Lottiamo non solo per loro ma con loro. Uniamo la nostra voce alla loro e diventiamo la voce di chi è stato ammutolito.

 

Vieni, mettiamoci tra i poveri: non ritroveremo solo Dio ma anche la nostra umanità.

cos’è che rende la nostra terra un inferno

comunità o inferno

«La comunità cristiana è sulla strada di Cristo solo quando si prende cura dei poveri, degli affamati, degli afflitti e lotta contro coloro o contro le situazioni che sono all’origine di tali squilibri»

(Ortensio da Spinetoli)

L’opposizione evangelica è tra amare/servire Dio o amare/servire il denaro-potere, e non tra credenti e atei. L’ateismo, tra l’altro, ha aspetti provvidenziali perché purifica il cristianesimo dalle sue ipocrisie, lo aiuta ad essere più autentico, e cioè radicale. Ne evidenzia gli aspetti ridicoli, e ne demolisce le sovrastrutture escogitate dall’uomo ‘religioso’: il fariseo di tutti i tempi che separa la dottrina dalla Persona, le norme dalla coscienza e dal cammino personale, la pedagogia dalla compassione. L’ateismo nasce, anche, per la cattiva testimonianza dei cristiani, per la loro incoerenza ed ottusità ragionieristica, non certo per contrastare direttamente il Vangelo. D’altronde un ateo che persegue, senza saperlo, la giustizia del Regno può essere molto più vicino a Dio di un cattolico (della domenica) che partecipa, sbrigativamente, all’eucaristia, in attesa di raggiungere la vera “celebrazione” festiva: la partita dei suoi eroi milionari. E parafrasando il testo evangelico di Marco (1) si potrebbe immaginare così:

«I parrocchiani dissero a Gesù: “Maestro abbiamo visto uno che dava dei soldi a un senzatetto in nome della Carità e glielo abbiamo sconsigliato, perché non apparteneva ai gruppi parrocchiali e non conosceva le procedure di aiuto decise dal consiglio pastorale”. Ma Gesù disse: «Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un gesto gratuito e che subito dopo possa disprezzarmi. Chi non è contro l’Amore è per l’Amore».

Ciò che si oppone davvero a Cristo è il non-amore e non certo l’ateismo che è ricerca, critica, possibilità. L’ateismo di per sé non uccide nessuno, non danneggia, non umilia, mentre amare/servire il denaro-potere, (attualmente strutturato nell’organizzazione socio-economica denominata capitalismo (2)), sì. Eccome. L’altro, infatti, viene spersonalizzato, non più riconosciuto.  Esiste la manodopera (braccia meccaniche a forma d’uomo), l’impiegato (digitatore su pc) il manager (referente del Padrone). Mansioni e funzioni prima di storie, aspirazioni, bisogni: quindi la devastazione dell’umanità per garantire il profitto. La maternità di una donna viene insultata considerandola un costo, la giovane età sfruttata e raggirata, l’anzianità umiliata. E poi abbiamo produzioni, esportazioni, vendite, prima dell’ecologia, della bellezza, della giustizia tra generazioni (3): quindi la devastazione della terra per garantire il profitto. L’accesso all’acqua potabile garantito solo ai ricchi, le risorse energetiche sottratte ad altri popoli, il mancato riconoscimento del debito ecologico. In tale quadro, il borghese (colui che rappresenta o appoggia il capitalismo) (4) non potrà mai essere cristiano (colui che ama/serve Cristo), nonostante tutte le tecniche di autoconvincimento e tutte le rassicurazioni di quella parte del clero che si impegna nella sua assistenza spirituale, preferendolo al povero. Convertirsi perché il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino (5) significa in questi tempi: convertirsi dalle logiche del Capitale ed incamminarsi verso la gratuità, la condivisione e la solidarietà. Il tempo è compiuto perché Cristo agisce nella storia. Il Regno di Dio è vicino perché è già operante, potenzialmente realizzabile, anche se qui non completamente. Dipende dalla nostra libertà, dalle nostre scelte: se costruire una comunità (il Regno) o l’inferno (il mercato) e continuare a sprofondarci.

(1) Cfr. Vangelo di Marco 9, 38-40

(2) Cfr. «Imperialismo, colonialismo e capitalismo meritano nel mio ‘credo’ lo stesso anatema» (Pedro Casaldáliga, Credo nella giustizia e nella speranza, Quaderni Asal 27, Associazione per gli Studi e la documentazione dei problemi socio-religiosi dell’America Latina, Roma 1976, p. 193)

(3) Cfr. Papa Francesco, Enciclica Laudato Si’ 137-162

(4) Cfr. «…Voglio assicurarvi almeno la mia preghiera. Perché il vostro cammino di formazione sia improntato alla più trasparente autenticità evangelica, e vi manteniate lontani dal compromesso, e rifuggiate dall’ambiguità, e non scendiate a patti con l’anima borghese accovacciata davanti alla porta». (Don Tonino Bello, Lettera ai seminaristi 21/1/1990, in Tonino Bello, Servi inutili a tempo pieno. Testimoni gioiosi per evangelizzare il mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano)), p. 112

(5) Vangelo di Marco 1,15

e se la chiesa dopo tanti ‘concili dogmatici’ convocasse un ‘concilio sociale’?

concilio sociale

“Come gli uomini devono interamente a Dio la loro giustizia,  allo stesso modo Dio affida tutto all’agire di giustizia degli uomini”

J. Moltmann

 

Ci dai appuntamento nella storia, nelle cose che succedono, in quelle che ancora non succedono e in quelle che non dovrebbero succedere. Ti immaginiamo a tirare i fili e muovere a tuo piacimento, come marionette, uomini e natura, ma non è così. Ti immaginiamo con la bacchetta magica (proiezione delle nostre fantasie) incantarci con qualche effetto speciale, ma non è così. Quando, poi, le cose vanno bene è merito nostro, quando vanno male è colpa tua, con annesso corollario di accuse: assente, contraddittorio, ostile. Vedi, Signore, l’equivoco sta nel senso da riconoscere alla libertà. Per Te è sacra tanto che noi siamo espressione proprio della tua libertà: ci hai voluti, non siamo mica frutto di necessità o peggio di utilità. Per noi, invece, la libertà è importante solo a parole. La mettiamo, ipocritamente, al primo posto nei test di valutazione personale per barattarla, alla prima occasione, per semplice convenienza. Grandi cantori della libertà, nei giorni festivi,  in cerca di padrone che ci garantisca un adeguato benessere, nei giorni feriali. Tu sei presente nella storia, ma non la manovri. La affidi a noi, per cambiarla, e renderla manifestazione della tua bontà. Un luogo in cui tutti possano avere cittadinanza ed esprimersi. Ripetere, cioè, quello che tu hai fatto con noi. Vagavamo nel nulla e ci hai fatto esistere, gratuitamente. Sbarcati sulla terra ti abbiamo dimenticato e tradito, trasformandoci in elaboratori di massimi sistemi e in predatori esistenziali, sfigurando il volto autentico del nostro essere.

Ci siamo espressi su realtà che ci superano come la consustanzialità, lo Spirito Santo, le due nature e l’ipostasi e non si riesce ad organizzare un concilio per affermare che Tu ci proponi il Regno, basato sulla logica della condivisione, che si oppone all’Impero che noi continuiamo a costruire e a sostenere, secondo la logica della proprietà, dell’accumulo e quindi della sottrazione.

anche i vescovi italiani temono l’imbarbarimento

l’accusa della Cei

sui migranti salvare la nostra stessa umanità dall’imbarbarimento

dura nota della Conferenza episcopale: ci sentiamo responsabili di questo esercito di poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture

Madre e bambino morti portati a bordo della Open Arms

madre e bambino morti portati a bordo della Open Arms

Da una parte la cultura dell’odio, dello sfruttamento. Del razzismo. Dall’altra una società – anche se ultimamente messa un po’ all’angolo – che non arretra all’avanzare dell’intolleranza:

“Avvertiamo in maniera inequivocabile che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita. Ogni vita. A partire da quella più esposta, umiliata e calpestata”.

Lo ha detto la Cei in una dichiarazione sulla questione dei migranti.

“Rispetto a quanto accade non intendiamo né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi. Non possiamo lasciare che inquietudini e paure condizionino le nostre scelte, determino le nostre risposte, alimentino un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto”.

La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana ha aggiunto:

“Gli occhi sbarrati e lo sguardo vitreo di chi si vede sottratto in extremis all’abisso che ha inghiottito altre vite umane sono solo l’ultima immagine di una tragedia alla quale non ci è dato di assuefarci. Ci sentiamo responsabili di questo esercito di poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture. È la storia sofferta di uomini e donne e bambini che – mentre impedisce di chiudere frontiere e alzare barriere – ci chiede di osare la solidarietà, la giustizia e la pace”.
“Come Pastori della Chiesa non pretendiamo di offrire soluzioni a buon mercato. Rispetto a quanto accade non intendiamo, però, né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi”, sottolineano i vescovi

“Animati dal Vangelo di Gesù Cristo continuiamo a prestare la nostra voce a chi ne è privo. Camminiamo con le nostre comunità cristiane, coinvolgendoci in un’accoglienza diffusa e capace di autentica fraternità. Guardiamo con gratitudine a quanti – accanto e insieme a noi – con la loro disponibilità sono segno di compassione, lungimiranza e coraggio, costruttori di una cultura inclusiva, capace di proteggere, promuovere e integrare. Avvertiamo in maniera inequivocabile che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita”, conclude la nota.

solo supplicando il perdono dei disperati potremo salvarci l’anima …

perdonaci fratello migrante

di padre Enzo Fortunato Direttore sala stampa Sacro Convento di Assisi

Fratello migrante, brucia l’acqua salata sulla tua ferita. La ferita che è stata lasciata aperta dalla carneficina del Mediterraneo, inghiottiti per sempre dall’acqua, la stessa che la fa bruciare. Anche io mi sento responsabile. Un cortocircuito d’umanità aggravato – come ha dichiarato papa Francesco nel suo primo viaggio a Lampedusa – dalla “globalizzazione dell’indifferenza che ci ha tolto la capacità di piangere”. Vorrei piangere con te, ma non basterebbe a rimarginare la ferita.
Siamo assuefatti, siamo diventati cinici e creduloni a presunte minacce di invasione, dimenticando che l’intera storia dell’uomo è stata (e lo sarà sempre) segnata da flussi migratori. Quello attuale verso l’Italia non è tra i più numerosi, ma sembra sufficiente a provocare il panico che serve da pilastro a una ininterrotta campagna elettorale. Perdonaci fratello migrante se troviamo mille scuse che ci portano a dire “prima gli italiani e poi gli altri”. Se penso che i nostri nonni ci hanno reso grandi migrando sulle coste statunitensi.
Una nave carica di persone è stata tenuta in ostaggio in mezzo al mare, impedendone l’approdo a un porto sicuro. Scatenando un tifo da stadio, esultando perché abbiamo avuto la capacità di “alzare la voce e farci sentire dall’Europa”. Non è così. Un gesto del genere è stato dimostrazione di crudeltà: abbandonare uomini, donne e bambini in balia dei flutti, in un braccio di ferro che ha stremato queste persone, non è “alzare la voce”. Perdonaci se non riusciamo più a leggere la realtà con obiettività: il rapporto fra italiani e profughi è di 2,4 stranieri ogni 100 abitanti, il più basso in tutta Europa.
Ecco perché perdiamo la nostra umanità quando non siamo più in grado di capire che i migranti, prima di essere tali, sono persone fatte “a Sua immagine”, proprio come ognuno di noi. Noi che rimbalziamo il nostro pensiero nell’etere regolato dalla comunicazione social, leggiamo quello degli altri, affidandoci a poche parole, senza andare in profondità. Perdiamo la nostra umanità quando siamo complici di questo scempio dei diritti umani che imprigiona persone in una sorta di limbo, che contribuisce a far considerare l’altro come scarto dell’umanità.
Sulle navi, in mezzo al mare, ci sono individui che si portano dietro una sequenza ininterrotta di perdite, fino a vivere il dramma di essere naufraghi. Hanno perso la patria, l’ambiente e il tessuto sociale in cui sono nati e dove si erano guadagnati il loro posto nel mondo; non riescono a ritrovarne una nuova. Sono apolidi. Vivono in una dimensione di vuoto in cui è impossibile essere classificati. Non hanno più un posto nel mondo e tra gli uomini. Descrizione che Hannah Arendt ha delineato in “Noi profughi”, testo in cui racconta la sua condizione: senza una casa, senza un lavoro, una lingua, senza parenti, ma decisa a rifarsi una vita altrove.
Quando scegliamo di chiudere i porti stiamo negando a chi già ha perso molto, quasi tutto. Quando esultiamo perché qualcuno decide di chiudere i porti stiamo negando un futuro.
La sbandierata “svolta del cambiamento” si pone ora come una soglia, un margine sottile che ci divide da una tragica perdita di umanità, in cui si potrebbe perdere di vista il valore della vita, a prescindere dal colore della pelle. Non siamo poi così diversi da quelle donne e quegli uomini che lasciamo in mezzo al mare.
Non sono numeri da gestire e condividere con gli Stati membri dell’Unione Europea, ma uomini, donne e bambini da accogliere come fratelli e sorelle insieme agli altri governi. “E chiunque verrà da loro, – san Francesco diceva ai suoi frati – amico o avversario, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà” (Fonti Francescane). Oggi Francesco direbbe fratello migrante.
Restiamo umani, restiamo “aperti”. 
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