i poveri
di Giuseppe Caliceti
i poveri
di Giuseppe Caliceti
diteci come fate a dormire con un naufragio nel petto
Diteci come fate a dormire con un naufragio nel petto, come riuscite a non pensare a quei tre bambini vestiti di rosso quando mangiate una pasta al pomodoro. Diteci cosa si prova a interpretare Ponzio Pilato di fronte alla folla, senza neanche lavarsi le mani perché quelli come voi le mani non se le sporcano mai.
di Saverio Tommasi
Caro Matteo Salvini, caro governo Italiano. Vorrei sapere come si dorme con un naufragio di 100 morti che vi bussano sulla coscienza “toc, toc, toc”. Se riuscite a dare la colpa ad altri, a guardare un’altalena senza pensarci. Vorrei sapere se riuscite a dimenticarlo, per esempio davanti a una pasta al pomodoro, e se la fame vi passa quando ci pensate. Vorrei sapere se ce la fate, a non pensare a quei tre fantasmini – tre, fratellini come lo siamo su questa Terra – vestiti di rosso come la vostra pasta al pomodoro. Riuscite a evitare il pensiero? Non dev’essere semplice, ribaltare il cervello per non soccombere ai pensieri: lodare i libici e attaccare le ONG che salvano dalla morte. Vivere come il gatto, stringere la mano a Mangiafuoco e attaccare Geppetto, che “se tuo figlio è nato in una falegnameria allora devi restarci, dovevi pensarci prima, i sogni fuori non sono fatti per te, noi di problemi abbiamo già i nostri”. Come si vive delegando la vita degli altri a qualcuno che sappiamo non ha interesse a prendersi la delega?
Vorrei sapere se poi, stamani, vi siete fatti la barba, e se poi siete andati a cercarle, le foto dei tre bambini con la faccia gonfia come un bambolotto che ha bevuto l’acqua. Sembravano di porcellana quei volti lisci, a cui la barba non ha fatto in tempo a spuntare, e si sono fermati in un giorno feriale, in mezzo al mare, ma non così tanto nel mezzo da non poter essere salvati. Quanto vi costa non aprire quella porta, tenere chiuso quel porto, aver risposto “non intervenite, se ne occuperanno i libici”, come Ponzio Pilato di fronte alla folla, avete fatto “click” con la stessa disinvoltura di una chiamata a debito da un numero sconosciuto. Poi, non vi siete neanche lavati le mani, perché quelli come voi le mani non se le sporcano mai. Caro Ministro dell’Interno, caro governo Italiano, c’è forse qualcosa di più grave del morire in una volta sola, ed è morire piano piano. Lavorare al disfacimento di un Paese – la nostra bella Italia – facendo ricadere la colpa sui poveri, sugli ultimi della fila, sugli esclusi dai banchetti. Per cosa, poi? Cosa state ottenendo, in cambio della negazione dell’esistenza ad altri? Venti minuti di presidenza in più, forse, mezz’ora di poltrona in aggiunta. Tutto qui. Vorrei sapere come fate a dormire la notte, se dormite. Perché a me danno fastidio le zanzare intorno all’orecchio e non ci riuscirei mai, con un naufragio nel petto.
«La rivelazione del nostro peccato non ci inchioda ad esso, bensì mostra come nella donazione di sé e nell’umiliazione Dio abbia saputo infrangere il peccato ed aprire così una via verso la libertà»
D.Schellong
Ti vedo. Ti tieni lontano dagli apparati e dai giochi di potere. Sei impegnato nella vita concreta. Prepari nuovi esodi e costruisci novità. Immagini il riscatto degli ultimi e speri insieme a loro.
Ti vedo. Asciughi la lacrima di una vedova e gridi insieme all’oppresso (1). Non difendi forme e convenzioni, lasci esistere liberamente chiunque. Duro con l’ipocrita, indulgente con il bisognoso e con chi è ferito.
Ti vedo. Lasci tutto e ti prendi il tempo necessario per ascoltarci. Non anticipi anche se conosci le questioni, attendi che ti manifestiamo per intero il nostro dolore. Non ci dai soluzioni, ma vicinanza e calore.
Ti vedo. Sollevi la sbarra dell’iniquità che preme sulle nostre spalle e riprendiamo fiato. Condividi le conseguenze della deformazione della tua idea di convivenza determinata dall’egoismo dell’uomo. Non ti rassegni e continui a testimoniare la compassione (2).
Ti vedo. Sorridi per un povero sostenuto, un malato accudito, un detenuto visitato, un migrante integrato. Ti è gradito l’incenso della carità praticata mentre non trattieni lo sdegno per l’incenso della carità solo predicata (3).
Ti vedo. Le tenebre interiori non ti resistono, gli abissi si riempiono, i vuoti si risolvono, le trappole non entrano in funzione. L’esilio torna giardino, un assaggio dell’ultimo giorno quando ti riconosceremo da come capovolgi il giudizio del mondo (4).
(1) «Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare?» (Siracide 18-19)
(2) «Poiché Il giogo che gli pesava e la sbarra sulle sue spalle, il bastone del suo aguzzino tu hai spezzato come al tempo di Madian» (Isaia 9,4)
(3) «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità» (Isaia 1,13)
(4) «Una voce grida: “Nel deserto preparate la via del Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura» (Isaia 40, 3-4)
da ‘Altranarrazione’
Assistiamo ad un momento di grande mobilitazione sociale. Stiamo conoscendo tanti nuovi difensori degli oppressi. Una moltitudine, finora sconosciuta e silente, avanza ed esce allo scoperto mettendoci faccia e firma. Si recuperano parole e simboli come Resistenza e Costituzione che parevano destinati ad essere superati (dall’Europa del pensiero unico finanziario) o smantellati (attraverso referendum). Sulla c.d. stampa, sui social, durante gli apericena o il fitness, si moltiplicano le prese di posizione sdegnate. In questi giorni percepiamo una diversa consapevolezza e tentativi di riscatto:
hanno scoperto la categoria dei poveri. Si schierano con convinzione dalla loro parte chiedendo maggiori finanziamenti. Contrordine: non sono più quelli che stanno sul divano a bivaccare;
hanno scoperto la categoria dei disoccupati, dei precari, dei neet, dei riders e si schierano con convinzione dalla loro parte chiedendo salario minimo garantito, tutele assicurative, piani per l’occupazione. Contrordine: agevolare il licenziamento, rimuovendo l’art. 18, crea lavoretti, non lavoro;
hanno scoperto le periferie e soprattutto che le cabine elettorali sono arrivate anche lì. Adesso vogliono frequentarle assiduamente ed occuparsi delle relative problematiche. Contrordine: i grandi eventi e i festival non costruiscono fogne, non piantano alberi, non migliorano il trasporto pubblico dei pendolari;
ed infine la scoperta più importante e commovente: la categoria dei migranti. Chiedono accoglienza per disperati che fuggono da guerre, miseria e che rischiano di morire nelle mani degli scafisti. Contrordine: non aiutiamoli solo a casa loro e non rappresentano più un pericolo per la tenuta democratica del nostro Paese.
Bisogna radicalmente diffidare dai solidali a targhe alterne.
Da quelli che tra un privilegio e l’altro, una rendita di posizione e l’altra, prima collezionano petizioni di principio e poi deridono (o peggio) ostacolano le attività di redistribuzione della ricchezza.
Da quelli che, nell’attuale crisi strutturale, sostengono la necessità di creare lavoro (impossibile per tutti, con questo sistema) e non di erogare un reddito (possibile per tutti).
Da quelli che diffondono il secondo dogma del capitalismo, oltre a quello della massimizzazione del profitto previo sfruttamento dell’altro, e cioè: accettare qualsiasi lavoro anche se malpagato, mal-contrattualizzato, mal gestito.
Da quelli che considerano le periferie come riserve naturali degli schiavi, gli sconfitti che la storia è costretta a sopportare prima di dimenticare.
Da quelli che non si preoccupano della condizione dei migranti nei CIE o CPR (Centri Permanenza Rimpatri), nei CARA (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo), nei campi agricoli, nelle imprese edili.
Da quelli che non si preoccupano dell’integrazione effettiva dei migranti nel tessuto sociale.
Da quelli che sono contrari ad assicurare ai migranti adeguati luoghi di culto.
Da quelli che non si impegnano per l’interruzione dello sfruttamento energetico, il rispetto dell’ambiente, lo smantellamento del traffico di armi nei territori da cui provengono i migranti.
Da quelli che giustificano l’accoglienza dei migranti non per motivi umanitari e di giustizia ma per utilità. Da quelli che giustificano l’accoglienza dei migranti solo per arruolarli come lavapiedi.
Diffidare.
E fidarsi solo di quelli che vedono nei migranti: sofferenza, oppressione, speranza. E di conseguenza si comportano.
“Una chiarezza sull’argomento era necessaria, che siano solo i Paesi fisicamente più esposti come l’Italia o la Grecia ad assumersi il peso dell’accoglienza e non tutta l’Unione europea non è giusto ma che si utilizzino le navi cariche di esseri umani per far avanzare posizioni politiche è inaccettabile”.
Lo dice all’ANSA il sostituto della Segreteria di stato vaticana, monsignor Angelo Becciu, cardinale nel concistoro di domani, a proposito della linea dura del governo sui migranti.
“Ricordo quanto il Papa ha recentemente detto – aggiunge Becciu -: gli immigrati sono esseri umani non numeri! Sarà impopolare oggi difendere gli emarginati ma né il Papa, né la Chiesa possono venir meno alla loro missione”.
Il Camping River era considerato un modello europeo: bambini scolarizzati, pulizia, integrazione. Per adeguarsi a Salvini, la sindaca distrugge i container comprati dal Comune: ognuno costa 20mila euro
Era uno dei pochi campi nomadi a funzionare, tra i migliori d’Europa. E si trova a Roma. Ma siccome Salvini ordina, i 5 Stelle per stare al passo (arraffare consensi) si adeguano. Così la sindaca Virginia Raggi sta smantellando, pezzo dopo pezzo, il Camping River una struttura dove non dilagava il degrado, i bambini andavano a scuola, e convivevano più etnie pacificamente. Se non bastasse c’è il costo del luddismo forsennato dei pentastellati in Campidoglio: ogni modulo abitativo distrutto costa la bellezza di 20mila euro. Sono 50 container tutti pagati dal Comune, un autogol nei conti in rosso della Capitale. Complimenti. Neppure l’idea di inviarli nelle zone terremotate. Ma no. Qui nell’Urbe devastata da scandali, dove nulla funziona, si distrugge tutto a colpi di ruspa mentre le famiglie rom urlano e piangono.
Oggi i vigili urbani sono tornati anche oggi nel campo ed hanno “liberato” altri 8 moduli abitativi. L’attività è partita nelle scorse settimane e, secondo quanto si è appreso, sono oltre 30 i moduli sgomberati finora dalla polizia locale.
Le proteste di Sant’Egidio
Le operazioni di sgombero stanno sollevando polemiche e preoccupazioni nel mondo delle associazioni. La Comunità di Sant’Egidio ha lanciato nei giorni scorsi un appello alla sindaca per fermare lo sgombero del Camping River che, a suo giudizio, mette anche a rischio la scolarizzazione dei bambini che aveva funzionato tutto l’anno. E sulla vicenda proprio ieri è intervenuto anche il direttore della Caritas di Roma, monsignor Enrico Feroci, che ha definito lo sgombero “disumano”. “Non so le motivazioni che hanno spinto all’intervento – ha affermato Feroci – ma quello che mi ha inorridito è la modalità con cui sta facendo questo sgomberi: è disumano e non conforme al principio del rispetto delle persone. I bambini guardavano le loro case distrutte e se non fossero stati rom avrebbero già attivato gli psicologici ed i medici”
La foto realizzata da Stefano Costa prima dell’intervento delle ruspe
Il racconto di Stefano, volontario
Scrive su Facebook Stefano Costa, uno dei volontari che ha lavorato nel Camping River. “Oggi la nostra Sindaca ha compiuto l’ultima azione nefanda. A Roma c’era un solo campo rom che funzionava, che non era un lager come gli altri, dove tutto era gestito bene, casette pulite con tendine e gerani, nemmeno una carta per terra, servizio d’ordine all’ingresso gestito dagli stessi rom, più etnie che convivevano pacificamente e tutti i bambini andavano ogni giorno a scuola e si erano perfettamente integrati, a conferma che se si dà loro l’occasione per emanciparsi, loro la colgono. Beh, di tutti i campi che la Raggi in campagna elettorale aveva detto che avrebbe chiuso, stessa demagogia di Salvini, perché il Rom va bene per ogni stagione, orbene, ha fatto smantellare proprio questo campo, ritenuto il migliore in Europa. E senza offrire loro nessuna, dico NESSUNA alternativa abitativa.
Avrebbe dato loro una sovvenzione se si fossero trovati una casa in affitto. Potete immaginate quanto questo possa essere semplice. Loro ci hanno anche provato, con l’inevitabile e prevedibile risultato. Conosco bene la situazione perché l’ho seguita da vicino, in particolare una donna di 37 anni che ha 10 figli di cui uno di un mese. Ora sono per strada, tutto distrutto, anni di lavoro, di riscatto, di integrazione buttati via così. Questo era il campo, ora non c’è più niente e centinaia di persone tra cui donne, anziani e tantissimi bambini buttati in strada”.
da altraNarrazione
«Il popolo crocifisso è la continuazione storica del servo di Yahvė a cui il peccato del mondo continua a togliere ogni apparenza umana e che i poteri del mondo continuano a spogliare di tutto, strappandogli persino la vita, soprattutto la vita»
Ellacuría
Il dolore dei poveri è un abisso. Di fronte a quegli sguardi senza orizzonte si ha la sensazione di sprofondare insieme a loro.
Il dolore dei poveri svuota le parole del loro contenuto invalidandone forza e senso.
Il dolore dei poveri annulla le certezze ereditate, le presunte competenze, l’ottimismo peloso costruito a tavolino e con il bancomat in tasca.
Il dolore dei poveri fornisce un’altra versione delle poesie sulla bellezza della vita, delle speranze narrate, dei romanzi a lieto fine.
Il dolore dei poveri è l’unica Verità che non può essere contraddetta e per cui vale la pena testimoniare (nel senso di dare la vita).
Il dolore dei poveri verifica l’umanità prima della religiosità.
Il dolore dei poveri è sacro perché è il dolore di Dio.
Il dolore dei poveri giudicherà il mondo.
Il dolore dei poveri annebbia gli sforzi volontaristici e lascia vivere solo la compassione.
Il dolore dei poveri manda in crisi la fede e la ragione, tutte le fedi e tutte le ragioni, ma non l’Amore.
Il dolore dei poveri è pura disperazione da condividere, non da spiegare o trattare in modo infantile.
Il dolore dei poveri rende inique le gioie effimere dei ricchi.
Il dolore dei poveri non è involontario ma causato.
Il dolore dei poveri parla con le lacrime perché ha finito le parole.
Il dolore dei poveri, agli occhi di Dio, rimane innocente anche quando, per le leggi umane, è colpevole.
Il dolore dei poveri è il riassunto di tutta la Bibbia, di tutta la spiritualità, di tutta la morale.
Il dolore dei poveri è l’unico dogma che converte realmente.
«La sofferenza storica è una sofferenza radicalmente ingiusta. Questa sofferenza non è naturale -malattia, terremoti, carestie-, ma è storica – causata dall’umanità»
R. Chopp
Molte volte sembra che abbiano ragione quelli che dicono che Tu non esisti e che sei semplicemente una proiezione dell’uomo*. Il dilagare del male si presenta come una prova inconfutabile insieme ai trascurabili risultati ottenuti da quelli che lottano per la tua istanza principale: il ripristino della giustizia nei confronti dei diseredati. Appaiono abbandonati a se stessi, insieme a quelli che vorrebbero sostenere, impelagati in una lotta personale che non gode di alcuna assistenza dall’alto. Perlomeno visibile. Alla fine schierarsi con i poveri sembra portare esclusivamente a subire la medesima sorte non a modificarla. Eppure la mancanza di solidarietà, e di semplice comprensione nei confronti del dolore altrui, giustificata con le esigenze dell’affermazione personale, deforma la nostra umanità aprendo spazi sempre più ampi all’insoddisfazione e all’infelicità. L’oppressione sembra imbattibile, almeno su questa terra, nel tempo storico. Il rinvio della riparazione e del riscatto nell’altra vita non appare convincente anche in virtù delle promesse per l’immediato contenute nella Sacra Scrittura. Ma chi accantona i valori del Vangelo seguendo le indicazioni dettate dalle logiche di morte del mondo ottiene risultati e riesce a conservare il consenso. Sono piccole voci quelle contrarie, spesso solitarie e facilmente accusate di follia. Rimbalzano sull’impenetrabile muro di gomma del pensiero della maggioranza convintamente a servizio dell’Impero. E non producono effetti, nemmeno collaterali, rispetto ai principali sonniferi e allucinogeni sociali (intrattenimento, informazione di regime, sport) a cui la popolazione ha agevolmente accesso.
* “Dicono: «Il Signore non vede, il Dio di Giacobbe non se ne cura»” (Salmo 94,7)
una bambina gioca tra i rifiuti in un campo rom a Giugliano (Napoli), nella Terra dei Fuochi
Il primo a volerli cacciare è stato Ludovico il Moro: nel 1473 stabilisce che gli zingari vengano allontanati dal territorio del ducato di Milano, pena la morte. Da lì comincia una lunga serie di editti – “grida”, come ci ha insegnato Alessandro Manzoni – contro i gitani che termineranno soltanto ai tempi di Maria Teresa. Anche con lei, però, non avranno piena cittadinanza, semplicemente si passerà dalla persecuzione all’assimilazione.
Un po’ in tutta Italia, e pure nel resto d’Europa, dal Cinquecento in poi gli zingari diventano oggetto di bandi e persecuzioni, ma da nessuna parte accade con tanta ossessività come a Milano. Con gli spagnoli si arriverà a una sessantina di grida sul tema. Il che, in un paio di secoli, fa una media di una legge ogni poco più di tre anni, con un crescendo di pene talmente esagerato da rivelarne l’assoluta inefficacia.
E pensare che all’inizio gli zingari vengono accolti con simpatia: sono costretti a lasciare i Balcani dopo le conquiste ottomane del XV secolo e sciamano un po’ in tutta Europa. Quando già a Milano li si perseguitava, a Venezia attorno al 1505 Giorgione dipinge un quadro, La Tempesta, destinato a cambiare la storia dell’arte: è il primo dove il paesaggio diventa protagonista. Viene descritto come “paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et sodato” e se una zingara aveva un tale posto di prestigio all’interno dell’opera di uno degli artisti più celebri dell’epoca, significa che non era ancora stata colpita dalla riprovazione sociale. Mancava poco. «È finito quel brevissimo lasso di tempo in cui lo zingaro, esotico e misterioso, incuriosiva la gente e commuoveva con la sua triste storia di pellegrino: inizia ora la caccia allo zingaro ladro, pigro e imbroglione», scrive Giorgio Viaggio nel suo Storia degli zingari in Italia.
La Serenissima non vede l’ora di prendere gli zingari e incatenarli ai remi delle proprie galee. Il decreto papale del 1557 stabilisce che «gli zingari debbino uscire di Roma e suo territorio» e concede tre giorni di tempo, pena la galera per gli uomini e la frusta per le donne. Nel 1570 a Cremona un gruppo di ventidue zingari viene assalito dalla popolazione cittadina che ne brucia la casa provocando la morte degli occupanti. Nel 1572 trecento zingari nella provincia di Parma vengono attaccati e sterminati dai soldati del duca, accompagnati da una folla inferocita.
A Milano dopo la fine della dinastia Sforza (1498) i francesi ribadiscono le norme anti gitani che vengono riprese e rafforzate dagli spagnoli. Col duca di Terra Nova (1568) e Carlo d’Aragona (1587) inizia la repressione vera e propria, con la condanna a cinque anni di remo per gli uomini e alla «pubblica frusta» per le donne; nel decreto del 1587 si parla di «cingheri, gente pessima, infame, data solo alle rapine, ai furti e ogni sorte di mali». Una grida del 1605 comanda invece che «niuna persona, ancora privilegiata o feudataria, ardisca alloggiare, dare ricetto, aiuto o favorire in alcun modo a detti cingari».
Nel 1624 in una legge contro le delinquenza comune gli zingari vengono definiti i più pericolosi tra i malfattori e si dichiara lecito derubarli delle loro cose, senza tener conto di permessi e licenze da essi posseduti (spesso avevano autorizzazioni all’accattonaggio e al girovagare emesse in Germania). Inoltre si intima il divieto di frequentarli. Evidentemente le autorità del ducato di Milano non riescono a fare nulla di concreto contro i nomadi, visto che autorizzano la giustizia fai da te: nel 1657 si concede alle popolazioni di riunirsi al suono della campane a martello «e perseguitare detti cingari prenderli e consignarli prigioni».
Non si riesce a farli star buoni? E allora che non entrino nemmeno: il 15 marzo 1663 una nuova grida vieta l’accesso agli zingari nel ducato, pena sette anni di galera agli uomini e alle donne di essere pubblicamente frustate e mutilate di un orecchio (la pena della galera non significa andare in prigione, ma diventare “forzati da remo” a bordo delle unità militari: Milano “affittava” vogatori forzati a Venezia). Trent’anni dopo, nell’agosto 1693, è prevista l’impiccagione immediata per gli zingari che fossero trovati nel territorio milanese. Di più: qualunque cittadino ha diritto di «ammazzarli impune» e poi di «levar loro ogni sorta di robbe, bestiami denari che gli trovasse», in regime di esenzione fiscale, «senza che s’habbia a interessare il regio fisco». Si ha diritto di ammazzare e di far bottino come se si fosse in guerra, ma il nemico, in questo caso, non sono i soldati stranieri, bensì gli zingari.
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