le curie sono periciolose – parola di papa Francesco

papa Francesco

il “catalogo” delle malattie della curia

da ‘altranarrazione’ dicembre 23, 2016

introduzione:

Burocrazia e Vangelo non vanno d’accordo. Infatti il Vangelo vive nelle strade del mondo non nei palazzi. Collaborare alla costruzione del Sogno di Dio non è un lavoro d’ufficio. Non si può stare in giacca e cravatta né in clergyman perché per strada ci si sporca. Si è operai non amministrativi. Non c’è orario e non è possibile seguire un’agenda prestabilita. Infatti non si può dire al povero torna domani perché oggi c’è la riunione con la Caritas. Non si può dire al malato aspetta a soffrire perché oggi c’è la riunione sulla pastorale sanitaria. Non si può dire alla coppia di giovani precari tornate domani perché oggi c’è il convegno sull’indissolubilità del matrimonio. Dentro i palazzi la realtà si può vedere solo dalle finestre, dall’alto e da lontano. Lo scollamento deforma il giudizio e rende insensibili. Non si sa cos’è la disoccupazione, l’oppressione, l’emarginazione. Non si può essere solidali rimanendo al proprio tavolino, circondati solo dalle proprie sicurezze.

testo di papa Francesco

 

“La Curia è chiamata a migliorarsi, a migliorarsi sempre e a crescere in comunione, santità e sapienza per realizzare pienamente la sua missione. Eppure essa, come ogni corpo, come ogni corpo umano, è esposta anche alle malattie, al malfunzionamento, all’infermità. E qui vorrei menzionare alcune di queste probabili malattie, malattie curiali. Sono malattie più abituali nella nostra vita di Curia. Sono malattie e tentazioni che indeboliscono il nostro servizio al Signore. Credo che ci aiuterà il “catalogo” delle malattie – sulla strada dei Padri del deserto, che facevano quei cataloghi – di cui parliamo oggi: ci aiuterà a prepararci al Sacramento della Riconciliazione, che sarà un bel passo di tutti noi per prepararci al Natale.

  1. La malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile” trascurando i necessari e abituali controlli. Una Curia che non si autocritica, che non si aggiorna, che non cerca di migliorarsi è un corpo infermo. Un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare a vedere i nomi di tante persone, delle quale alcuni forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili! È la malattia del ricco stolto del Vangelo che pensava di vivere eternamente (cfr Lc 12, 13-21) e anche di coloro che si trasformano in padroni e si sentono superiori a tutti e non al servizio di tutti. Essa deriva spesso dalla patologia del potere, dal “complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri, specialmente dei più deboli e bisognosi. L’antidoto a questa epidemia è la grazia di sentirci peccatori e di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 10).
  2. Un’altra: La malattia del “martalismo” (che viene da Marta), dell’eccessiva operosità: ossia di coloro che si immergono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, “la parte migliore”: il sedersi sotto i piedi di Gesù (cfr Lc 10,38-42). Per questo Gesù ha chiamato i suoi discepoli a “riposarsi un po’” (cfr Mc 6,31) perché trascurare il necessario riposo porta allo stress e all’agitazione. Il tempo del riposo, per chi ha portato a termine la propria missione, è necessario, doveroso e va vissuto seriamente: nel trascorrere un po’ di tempo con i famigliari e nel rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica; occorre imparare ciò che insegna il Qoèlet che «c’è un tempo per ogni cosa» (3,1-15).
  3. C’è anche la malattia dell’“impietrimento” mentale e spirituale: ossia di coloro che posseggono un cuore di pietra e un “duro collo” (At 7,51-60); di coloro che, strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando “macchine di pratiche” e non “uomini di Dio” (cfr Eb 3,12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per farci piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la malattia di coloro che perdono “i sentimenti di Gesù” (cfr Fil 2,5-11) perché il loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfr Mt 22,34-40). Essere cristiano, infatti, significa «avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità.
  4. La malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo. Quando l’apostolo pianifica tutto minuziosamente e crede che facendo una perfetta pianificazione le cose effettivamente progrediscano, diventando così un contabile o un commercialista. Preparare tutto bene è necessario, ma senza mai cadere nella tentazione di voler rinchiudere e pilotare la libertà dello Spirito Santo, che rimane sempre più grande, più generosa di ogni umana pianificazione (cfr Gv 3,8). Si cade in questa malattia perché «è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo… – addomesticare lo Spirito Santo! – … Egli è freschezza, fantasia, novità».
  5. La malattia del cattivo coordinamento. Quando i membri perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di squadra. Quando il piede dice al braccio: “non ho bisogno di te”, o la mano alla testa: “comando io”, causando così disagio e scandalo.
  6. C’è anche la malattia dell’“alzheimer spirituale”: ossia la dimenticanza della “storia della salvezza”, della storia personale con il Signore, del «primo amore» (Ap 2,4). Si tratta di un declino progressivo delle facoltà spirituali che in un più o meno lungo intervallo di tempo causa gravi handicap alla persona facendola diventare incapace di svolgere alcuna attività autonoma, vivendo uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie. Lo vediamo in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore; in coloro che non fanno il senso deuteronomico della vita; in coloro che dipendono completamente dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie; in coloro che costruiscono intorno a sé dei muri e delle abitudini diventando, sempre di più, schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani.
  7. La malattia della rivalità e della vanagloria. Quando l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificenza diventano l’obiettivo primario della vita, dimenticando le parole di San Paolo: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,1-4). È la malattia che ci porta a essere uomini e donne falsi e a vivere un falso “misticismo” e un falso “quietismo”. Lo stesso San Paolo li definisce «nemici della Croce di Cristo» perché «si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Fil 3,19).
  8. La malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete. Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15,11-32).
  9. La malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi. Di questa malattia ho già parlato tante volte ma mai abbastanza. E’ una malattia grave, che inizia semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), e in tanti casi “omicida a sangue freddo” della fama dei propri colleghi e confratelli. È la malattia delle persone vigliacche che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle. San Paolo ci ammonisce: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri» (Fil 2,14-18). Fratelli, guardiamoci dal terrorismo delle chiacchiere!
  10. La malattia di divinizzare i capi: è la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare. Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo (cfr Gal 5,16-25). Questa malattia potrebbe colpire anche i Superiori quando corteggiano alcuni loro collaboratori per ottenere la loro sottomissione, lealtà e dipendenza psicologica, ma il risultato finale è una vera complicità.
  11. La malattia dell’indifferenza verso gli altri. Quando ognuno pensa solo a sé stesso e perde la sincerità e il calore dei rapporti umani. Quando il più esperto non mette la sua conoscenza al servizio dei colleghi meno esperti. Quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli altri. Quando, per gelosia o per scaltrezza, si prova gioia nel vedere l’altro cadere invece di rialzarlo e incoraggiarlo.
  12. La malattia della faccia funerea. Ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza. In realtà, la severità teatrale e il pessimismo sterile sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé. L’apostolo deve sforzarsi di essere una persona cortese, serena, entusiasta e allegra che trasmette gioia ovunque si trova. Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo! Ci farà molto bene recitare spesso la preghiera di san Thomas More: io la prego tutti i giorni, mi fa bene.
  13. La malattia dell’accumulare: quando l’apostolo cerca di colmare un vuoto esistenziale nel suo cuore accumulando beni materiali, non per necessità, ma solo per sentirsi al sicuro. In realtà, nulla di materiale potremo portare con noi perché “il sudario non ha tasche” e tutti i nostri tesori terreni – anche se sono regali – non potranno mai riempire quel vuoto, anzi lo renderanno sempre più esigente e più profondo. A queste persone il Signore ripete: «Tu dici: sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo … Sii dunque zelante e convertiti» (Ap 3,17-19). L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente! E penso a un aneddoto: un tempo, i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la “cavalleria leggera della Chiesa”. Ricordo il trasloco di un giovane gesuita che, mentre caricava su di un camion i suoi tanti averi: bagagli, libri, oggetti e regali, si sentì dire, con un saggio sorriso, da un vecchio gesuita che lo stava ad osservare: questa sarebbe la “cavalleria leggera della Chiesa?”. I nostri traslochi sono un segno di questa malattia.
  14. La malattia dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in alcune situazioni, a Cristo stesso. Anche questa malattia inizia sempre da buone intenzioni ma con il passare del tempo schiavizza i membri diventando un cancro che minaccia l’armonia del Corpo e causa tanto male – scandali – specialmente ai nostri fratelli più piccoli. L’autodistruzione o il “fuoco amico” dei commilitoni è il pericolo più subdolo[15]. È il male che colpisce dal di dentro[16]; e, come dice Cristo, «ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Lc 11,17).
  15. E l’ultima: la malattia del profitto mondano, degli esibizionismi, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri. È la malattia delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per tale scopo sono capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri, perfino sui giornali e sulle riviste. Naturalmente per esibirsi e dimostrarsi più capaci degli altri. Anche questa malattia fa molto male al Corpo perché porta le persone a giustificare l’uso di qualsiasi mezzo pur di raggiungere tale scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza! E qui mi viene in mente il ricordo di un sacerdote che chiamava i giornalisti per raccontare loro – e inventare – delle cose private e riservate dei suoi confratelli e parrocchiani. Per lui contava solo vedersi sulle prime pagine, perché così si sentiva “potente e avvincente”, causando tanto male agli altri e alla Chiesa. Poverino!

Fratelli, tali malattie e tali tentazioni sono naturalmente un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario. Occorre chiarire che è solo lo Spirito Santo – l’anima del Corpo Mistico di Cristo, come afferma il Credo Niceno-Costantinopolitano: «Credo… nello Spirito Santo, Signore e vivificatore» – a guarire ogni infermità. È lo Spirito Santo che sostiene ogni sincero sforzo di purificazione e ogni buona volontà di conversione. È Lui a farci capire che ogni membro partecipa alla santificazione del corpo e al suo indebolimento. È Lui il promotore dell’armonia[18]: “Ipse harmonia est”, dice san Basilio. Sant’Agostino ci dice: «Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi». La guarigione è anche frutto della consapevolezza della malattia e della decisione personale e comunitaria di curarsi sopportando pazientemente e con perseveranza la cura. Dunque, siamo chiamati – in questo tempo di Natale e per tutto il tempo del nostro servizio e della nostra esistenza – a vivere «secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,15-16)”.

dal Discorso di Papa Francesco per la  presentazione degli auguri natalizi della curia romana, 22/12/2014




fermarsi è importante per ripartire meglio …

presa di coscienza

«Nel sistema, l’unico luogo possibile per l’epifania di Dio sono coloro che non-sono-sistema: l’altro dal sistema, il povero»

Enrique Dussel

 

Fermiamoci. Smettiamola di collaborare con un’organizzazione economico-sociale che devasta sia l’umanità sia il pianeta. Nulla giustifica l’ingiustizia nemmeno la propria sopravvivenza. Il fine infatti non giustifica i mezzi anche se a scuola ci hanno insegnato il contrario. Ci ritroviamo su un campo di battaglia con la lista dei nemici da abbattere. Ci mettono fretta, non abbiamo il tempo di verificare colpe e responsabilità. Agiamo su sentenze emesse da altri.

Fermiamoci. Smettiamola di invidiare i ricchi e il loro benessere sporco del sangue dei poveri, il vuoto in cui si alienano i personaggi famosi e le deformazioni ontologiche a cui si espongono gli arrampicatori sociali. Non c’è cosa più avvilente di un oppresso che desidera diventare come il suo padrone. La liberazione non consiste nel mettersi al posto dell’oppressore ma nel costruire una convivenza pacifica in cui ogni essere umano possa esprimersi e così realizzarsi. È utopia che attende volontà.

Fermiamoci. Smettiamola di obbedire agli ordini che contrastano con la nostra coscienza. Dobbiamo formarci con spirito di iniziativa, da autodidatti, evitando di abbeverarci ai pozzi avvelenati dal Sistema. Dobbiamo uscire dal pantano del gossip, dall’insulto alla morale rappresentato dal calcio milionario e dedicarci alla preghiera e all’analisi. Abbandoniamo la stampa prezzolata e riflettiamo sulla lettera ai giudici di don Milani e sui discorsi di Calamandrei. Abbandoniamo le trasmissioni-spazzatura e leggiamo le omelie di Oscar Romero e i testi di Ignacio Ellacuría. Perché se non conosciamo le lettere dei condannati a morti della resistenza non conosciamo la libertà e non la meritiamo. Perché se non conosciamo il martirio di Iqbal Masih non conosciamo la dignità e non la meritiamo.

Fermiamoci. Smettiamola di produrre debito, non solo finanziario, ma soprattutto ecologico e umanitario. Saremo ricordati dalle generazioni future per le nostre discariche difficilmente trasportabili in musei (e comunque non molto attraenti per i turisti), per aver sostituito il plancton con la plastica e per aver spostato i campi di concentramento e di sterminio in mare.

Fermiamoci e ricominciamo su basi totalmente nuove

Dal Vangelo e dalle Costituzioni nella loro sostanza autentica




attenti al pallone … non sembra ma è pericoloso!

pallone gonfiato

«I 1000 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio netto di poco inferiore al doppio del patrimonio totale dei 2,5 miliardi di individui più poveri»

Luciano Gallino

 

Finalmente sono iniziate le partite del mondiale di calcio

Così posso distrarmi dai problemi personali e sociali, ma soprattutto identificarmi con vincenti, milionari e stelle del firmamento. Questo evento cambia davvero la mia capacità di percezione del mondo. Nei giorni del torneo mi sembra tutto più bello, significativamente diverso, vedo le cose con occhi nuovi.

L’attività compiuta dalla camorra in discariche abusive non mi appare più come sversamento di rifiuti tossici, pericolosi per la salute dei cittadini presenti e futuri, ma come deposito prolungato e sistematico di materiale ecologico riutilizzabile, dopo qualche anno, per la fangoterapia nei centri benessere.

Il colore rosso nell’aria di Taranto e quella sensazione di respirare ferro non mi appaiono più come conseguenze dell’inquinamento industriale, ma come il risultato della simultanea e multiforme accensione di fumogeni a scopo celebrativo.

La fila multioraria al pronto soccorso non mi appare più come una disfunzione, generata dalla politica, del sistema sanitario pubblico, ma come un tentativo di organizzare spazi di socializzazione, di condivisione delle preoccupazioni legate alla salute e di scambio di informazioni su diagnosi e cure.

La precarietà di milioni di persone non mi appare più come un fenomeno endemico ad un sistema economico-sociale basato sullo sfruttamento della manodopera, ma come opportunità di festeggiamento, ogni 15 giorni circa, per la firma di un nuovo contratto di lavoretto.

La disoccupazione di milioni di persone non mi appare più come tragedia determinata dalla politica che si inginocchia (per tornaconto) davanti al Capitale, ma come occasione di tempo libero per visitare centri per l’impiego, siti internet con offerte di lavoro, e per perfezionarsi nella compilazione del CV.

Grazie al pallone gonfiato nulla è come sembra.




la paura è una brutta consigliera … costruire ‘comunità accoglienti’

comunità accoglienti 

uscire dalla paura

lettera alle comunità cristiane

a 25 anni dal documento “Ero forestiero e mi avete ospitato” (1993-2018)

  1. Introduzione

Venticinque anni fa, la Commissione ecclesiale per le migrazioni pubblicava il documento Ero forestiero e mi avete ospitato, interpretando e accompagnando il fenomeno dell’immigrazione nei suoi inizi e sviluppi in Italia “con gli occhi della fede”. A venticinque anni di distanza avvertiamo la necessità, come pastori, di condividere una riflessione sul tema dell’immigrazione: parola di aiuto al discernimento comunitario, di stimolo a rendere la nostra fede capace, ancora una volta, di incarnarsi nella storia, di gratitudine e di incoraggiamento a quelle comunità che già hanno accolto.

Ciò che ci spinge a prendere nuovamente la parola è il profondo cambiamento che in questi anni continua a segnare il fenomeno migratorio nel nostro Paese, per rispondere nuovamente alla domanda del Signore a Caino, richiamata da papa Francesco nel suo viaggio a Lampedusa: “Dov’è tuo fratello?” (Gn 4,9).

  1. L’immigrazione nel 1993

L’immigrazione nel 1993 era un fenomeno “nuovo” ed emergente, di cui non si riusciva ancora a cogliere le dimensioni e le prospettive. Secondo i dati del Ministero dell’Interno gli immigrati regolari in Italia erano infatti 987.405, in maggioranza europei dell’Unione Europea e dell’Europa orientale (36,85%); seguivano gli africani (29,13%), gli asiatici (17,47%) e gli americani (15,95%); 559.294 erano stati i permessi di soggiorno per lavoro e 144.410 per ricongiungimento familiare; 7.476 le richieste d’asilo, 65.385 erano gli studenti nelle scuole1; 10.000 i matrimoni misti e tra stranieri (3% del totale); 17.000 i nati nelle famiglie con almeno un genitore straniero2.

  1. L’immigrazione nel 2018

Dal 1993 ad oggi l’immigrazione è diventata nel nostro Paese un fenomeno sorprendente nel suo incremento, anche se negli ultimi anni esso si è fermato ed è aumentato invece il numero degli emigranti italiani.

3. Alla fine del 2017 erano in accoglienza nel nostro Paese 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti4.

nei cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita dignitosa.

  1. Immigrazione, sfida pastorale

Nel Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018 papa Francesco, in continuità con il Magistero di Papa Benedetto e del Santo Papa Giovanni Paolo II, ha ribadito che «tutti i credenti e gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a rispondere alle numerose sfide poste dalle migrazioni contemporanee con generosità, alacrità, saggezza e lungimiranza, ciascuno secondo le proprie responsabilità»6. I Vescovi italiani – negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 – hanno ricordato che il fenomeno delle migrazioni è «senza dubbio una delle più grandi sfide educative»7. Siamo consapevoli che nemmeno noi cristiani, di fronte al fenomeno globale delle migrazioni, con le sue opportunità e i suoi problemi, possiamo limitarci a risposte prefabbricate, ma dobbiamo affrontarlo con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche. Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza. Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza, perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese. «L’opera educativa – hanno ricordato sempre i Vescovi italiani – deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione. Particolare attenzione va riservata al numero crescente di minori, nati in Italia, figli di stranieri»8. Per quanto riguarda nello specifico l’educazione dei giovani all’integrazione, sembra importante richiamare qui il ruolo che potrebbero avere alcune delle realtà che ruotano attorno alle parrocchie, in particolare quella degli oratori e dell’associazionismo.

Vogliamo ricordare inoltre che il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente.

  1. Siate premurosi nell’ospitalità” (Rm 12,13)

La realtà del fenomeno, la sua complessità, le domande che suscita, chiedono alle nostre comunità di avviare “processi educativi” che vadano al di là dell’emergenza, verso l’edificazione di comunità accoglienti capaci di essere “segno” e “lievito” di una società plurale costruita sulla fraternità e sul rispetto dei diritti inalienabili di ogni persona, come ci ricorda papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci»9.

a. Le migrazioni “segno dei tempi”

Un processo che inizia con un atto di umiltà e di ascolto di ciò che l’immigrazione, con i suoi volti, le sue storie, le sue domande dice a noi, comunità cristiane. Si tratta di cogliere le migrazioni come “un segno dei tempi”10, come hanno ricordato gli ultimi Pontefici: un luogo frequentato da Dio, che chiede al credente di “osare” la solidarietà, la giustizia e la pace.

Leggere le migrazioni come “segno dei tempi” richiede innanzitutto uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada “più lontano” e cerchi di individuare il perché del fenomeno. Prima ancora di “aprire” o “chiudere” gli occhi davanti allo straniero è necessario interrogarsi sulle cause che lo muovono, anche se – e forse proprio perché – oggi appare più difficile che mai riuscire a distinguere quanti fuggono da guerre e persecuzioni da quanti sono mossi dalla fame o dai cambiamenti climatici. Papa Francesco ci ricorda la necessità di «avere “una sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi”. Si tratta di una responsabilità grave, giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui poi è difficile tornare indietro»11. Si tratta di prendere coscienza dei meccanismi generati da un’economia che uccide e della inequità che genera violenza: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità»12. Significa riscoprire la capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire efficacemente, ovunque si trovino, poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, cominciando dai trafficanti di armi fino a quelli di esseri umani.

b. Uno sguardo purificato

Occorre avere uno sguardo diverso di fronte a coloro che bussano alle nostre porte, che inizia da un linguaggio che non giudica e discrimina prima ancora di incontrare. I termini stessi che spesso ancora utilizziamo per parlare di immigrati (clandestini, extracomunitari…) portano in sé una matrice denigratoria Se noi siamo parte di una comunità, essi ne sono esclusi.

c. Per una “convivialità delle differenze”

Incontrare un immigrato significa fare i conti con la diversità. La prima diversità è quella fisica, la più visibile: «La sua singolarità colpisce: quegli occhi, quelle labbra, quegli zigomi, quella pelle diversa dalle altre lo distinguono e ricordano che si ha a che fare con qualcuno. […] quel volto così altro porta il segno di una soglia»13. Egli è l’altro, non è colui che scegliamo di invitare a casa nostra, bensì colui che si erge, non scelto, davanti a noi: è colui che giunge a noi portato semplicemente dall’accadere degli eventi.

In questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure si ritrovano a confronto: la mia paura e quella che prova lo straniero. La sua paura è quella di chi è venuto in un mondo a lui radicalmente estraneo, dove non è di casa e non ha casa, un mondo di cui non conosce nulla. La mia è quella di ritrovarmi di fronte ad uno sconosciuto che è entrato nella “mia” terra, che è presente nel “mio” spazio e che, nonostante sia solo, mi lascia intravvedere che forse molti altri lo seguiranno. «Queste paure sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, all’incontro con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore»14.

d. Dalla paura… all’incontro

Tutto questo lo sanno bene quelle comunità e parrocchie che in questi anni hanno deciso in vario modo di accogliere, anche a seguito dell’appello di papa Francesco del settembre 2015, appello che sta ancora producendo i suoi frutti. Per questo è nostra intenzione promuovere nei primi mesi del prossimo anno un meeting di queste realtà di accoglienza.

e. Dall’incontro… alla relazione

Da un incontro vero nasce la relazione e il dialogo: non più una semplice conoscenza dell’altro, non più solo un confronto di identità, ma una conoscenza “simpatica” dei valori dell’altro. Un dialogo che non ha come fine l’uniformità, ma il camminare insieme, il ricercare un “con-senso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. è nel dialogo, allora, che si modificano i pregiudizi, le immagini, gli stereotipi, e siamo indotti a riflettere sui nostri condizionamenti culturali, storici, psicologici, sociologici: siamo interrogati sulle nostre certezze e sulla nostra identità. Nel dialogo, aperto alle persone di altre Chiese e di altre religioni, si allarga anche la comunione e la fraternità. Questo è l’inizio di un cammino che può trasformare la possibilità della convivenza in una scelta consapevole. L’immigrazione, con le reazioni di rigetto che talvolta suscita, mette in luce un atteggiamento presente nelle società occidentali e che non le è direttamente connesso: il crescente individualismo, che sempre più spesso si manifesta anche fra connazionali e addirittura all’interno delle famiglie.

f. Dalla relazione… all’interazione

la partecipazione attiva di tutti alla vita economica, produttiva, sociale, culturale e politica, avviando processi di cittadinanza e non soltanto di mera ospitalità. «In conformità con la sua tradizione pastorale, la Chiesa – scrive papa Francesco – è disponibile ad impegnarsi in prima persona per realizzare tutte le iniziative (…), ma per ottenere i risultati sperati è indispensabile il contributo della comunità politica e della società civile, ciascuno, secondo le responsabilità proprie»16. L’opera della Chiesa nel campo della mobilità umana non può che essere sussidiaria all’azione dello Stato e delle istituzioni internazionali.

  1. Conclusione

«La civiltà ha fatto un passo decisivo – scriveva il cardinale e teologo Jean Daniélou – forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes) […]. Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo»17. È il passo che le nostre comunità devono saper compiere, non dimenticando l’importanza dell’ospitalità che porta all’incontro: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).

Roma, 20 maggio 2018

Solennità di Pentecoste

CEMi – Commissione Episcopale per le Migrazioni della CEI

1 I dati riportati sono presenti in: Caritas di Roma, Dossier Statistico Immigrazione 1994, Anterem Edizioni Ricerca, Roma, 1994.

2Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese 1994.

3 I dati riportati sono presenti in: Caritas e Migrantes, Rapporto Immigrazione 2016, Tau Editrice, Todi (PG), 2017.

4 Fondazione Migrantes, Il Diritto d’Asilo 2018 “Accogliere, proteggere, promuovere, integrare”, Tau Editrice, Todi (PG), 2018.

5 Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2017, Tau Editrice, Todi (PG), 2017.

6 Papa Francesco, Messaggio per la 104a Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018.

7 Cei, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, Roma, 2010, n. 14.

8 Ibidem.

9 Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 222.

10Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2006.

11 Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 51.

12 Ivi, n. 59.

13 J. Kristeva, Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, Donzelli, Milano 2014, p. 7.

14 Papa Francesco, Omelia 14 gennaio 2018.

15 «Intesa come processo bidirezionale che riconosce e valorizza la ricchezza della cultura dell’altro» (Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, Rispondere ai rifugiati e ai migranti. Venti punti di azione pastorale, 2018).

16 Papa Francesco, Messaggio per la 104a Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018.

17 J. Danielou (1905-1974), Pour une théologie de l’hospitalité, in La vie spirituelle 367 (1951), p. 340.




se non hai soldi puoi crepare …

l’alba dei migranti

«Quale diritto avete di opprimere il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?»

profeta Isaia 3,15

 

Sei malato, ma devi dormire fuori perché non hai i documenti e neanche i soldi.
Non basta la malattia, il bisogno; ci vogliono i documenti o almeno i soldi.
Infatti, se hai i soldi, anche malato e senza documenti, un posto te lo trovano.

Nel cuore dell’Impero (e dicono del cristianesimo) funziona così: i documenti contano più della malattia e del bisogno. E i soldi contano più dei documenti, della malattia e del bisogno.

Gli abitanti felici di questo inferno la chiamano legalità: che hanno promosso a quarta virtù teologale accanto alla  fede, alla speranza e alla carità. Sulle ultime tre un compromesso si trova ma sulla legalità sono rigidi. È ammessa solo una deroga: i soldi.

Gli abitanti felici di questo inferno difendono il decoro:  che sei tu a violare dormendo sui cartoni, non loro a lasciarti fuori.

Sei malato, non hai documenti e neanche i soldi.

Quindi dormi fuori.
Domani l’alba arriverà solo per te. Per gli abitanti dell’inferno infatti è sempre notte.




la vera motivazione di Francesco d’Assisi e di papa Francesco

Francesco d’Assisi: alterità e identità

«Quando crollano i beni di un istituto religioso, io dico: “Grazie, Signore!”, perché questi incominceranno ad andare sulla via della povertà e della vera speranza nei beni che ti dà il Signore»

papa Francesco

 

La povertà di Francesco era diversa da quella dei suoi contemporanei: non era protesta verso i ricchi né riflessione sociologica.

 Francesco non ne sapeva niente di queste cose: giovane commerciante di stoffe, desiderava solo vestirsi come il suo Dio. Quel Signore che indossa la povertà con i poveri; la misericordia con i peccatori; la compassione con i deboli; la vicinanza con i lontani.
Quel Signore che indossa una tunica, senza sandali né bastone e va per le strade augurando la pace.




papa Francesco sta cambiando la chiesa

 

“il papato sta cambiando”

José María Castillo

dal blog di José Maria Castillo in “Religión Digital” dell’8 giugno 2018

Senza che noi cristiani ce ne rendiamo conto, stiamo assistendo a quello che molti non si immaginano: papa Francesco, senza toccare il «dogma», sta cambiando il papato.
Mi spiego. Contro coloro che attaccano l’ortodossia e la rettitudine di papa Francesco, la mia coscienza mi dice che non debbo tacere. Si tratta di qualcosa di fondamentale per il papato e quindi anche per la Chiesa. Per questo voglio e debbo affermare quello che spiego qui di seguito.
Questo papa non ha toccato nessun «dogma di fede divina e cattolica», così come questa questione fondamentale è stata espressa e definita nel concilio Vaticano I (costituzione dogmatica Dei Filius, cap. 3, Denz 3011). Per questo insisto sul fatto che papa Francesco sta cambiando il papato non per quello che dice, ma per la sua maniera di vivere.
Cosa significa questo? Il Vangelo prima di tutto non è una «dottrina religiosa», ma è soprattutto un «progetto di vita». E sottolineo il fatto fondamentale che ogni cristiano sia certo che il centro del Vangelo non è la «fede» in Gesù, ma la «sequela» di Gesù. Ma è successo che la teologia ed il governo della Chiesa hanno posto il centro del cristianesimo nell’«ortodossia della fede» ed hanno spostato la «sequela di Gesù» nell’ambito della spiritualità. Ebbene, stando così le cose, si capisce quello che sta succedendo nella Chiesa. Il Magistero della Chiesa può controllare (e controlla) la «dottrina della fede». Quello che non può e non ha motivo di controllare è la «generosità della sequela» di Gesù.
Ebbene, in una Chiesa che funziona così, è capitato quello che doveva capitare. L’ortodossia religiosa si è preoccupata fino all’eccesso di considerare come dottrine di fede non poche cose che non appartengono alla fede. Mentre la sequela di Gesù si considera come un tema relativo alla generosità dei più ferventi.
C’è un vuoto enorme nella Chiesa. Un vuoto che non si spiega alla gente. Se leggiamo i vangeli con attenzione, quello che vi si sottolinea è che, quando Gesù si riferisce alla fede dei discepoli e degli apostoli, lo fa per rimproverarli per la loro vigliaccheria, la loro paura, i loro dubbi e la loro incredulità (Mt 8, 26; 14, 31; 16, 8; 17, 20; Mc 4, 40; 16, 11.13.14; Lc 8, 25; 24,11.41; Gv 20, 25-31).
Tuttavia Gesù è stato sempre rispettoso e tollerante con quegli uomini che avevano una fede così piccola, più piccola di un granello di senape (Mc 11, 23 par; Mt 21, 21; 17, 20; Lc 17, 6). Molto diverso è stato il problema della «sequela». In questa questione Gesù è stato esigente ed intollerante fino a livelli che fanno impressione e non sono facili da comprendere. Gesù esige di lasciare tutto di fronte ad una sola parola: «Seguimi». Senza spiegazioni, ragioni o motivi. Famiglia, casa, denaro, attività…, qualunque sia. Tutto si subordina alla chiamata di Gesù. Non per avere alcune credenze o osservanze religiose. Ma per vivere il «progetto di vita» che Gesù ha vissuto. Nella maniera in cui ognuno possa fare questo.
E questo sta facendo papa Francesco. Che è l’ultima parola che Gesù ha detto a san Pietro: «Tu seguimi» (Gv 21, 22). È vero: il papato sta cambiando. Dai papi che centravano tutto nel comandare nella fede degli altri al papa che centra tutto nel seguire Gesù, facendo quello che ha fatto Gesù: aiutare coloro che soffrono, stare con quelli con cui nessuno vuole stare, realizzando ogni giorno (nella maniera in cui questo sia possibile) il «progetto di vita» che ha vissuto Gesù.
Il papato sta cambiando. Non perché papa Francesco stia modificando quello in cui bisogna credere. E non perché stia riformando la Curia Vaticana. Tutto questo non cambia il papato e non cambia la Chiesa. Il cambiamento si realizzerà quando le cose si metteranno al loro posto. La fede come deve essere e dove deve stare. Ed al centro di tutto la sequela di Gesù. Come lo stesso Gesù ha lasciato detto nel Vangelo. E questo sta facendo (senza dirlo) papa Francesco.
Con l’ortodossia della fede tutto continua e continuerà così come sta continuando. La sequela di Gesù ed il suo Vangelo ci fanno tanta paura che è normale abbandonare la proposta di Gesù e continuare con la nostra (grande o piccola) ricchezza. Come ha fatto quel giovane di cui raccontano i vangeli.




l’ “antirazzismo” di Gesù

‘ero straniero e mi avete accolto’

la grande attualità del messaggio ‘antirazzista’ di Gesù

di Alberto Maggi

 
 
“Prima noi”, è il mantra con il quale si mascherano spietati egoismi e si giustificano inaudite durezze di cuore. È la formula magica di quanti chiariscono subito “non sono razzista, però…”, un “però” eretto come un invalicabile muro a difesa del “noi”, pronome che include, a secondo degli interessi, un popolo o la famiglia, una religione o un quartiere. Mentre per “prima” s’intende l’accesso e l’esclusiva precedenza a tutto quel che permette alla vita di essere dignitosa, dalla casa al lavoro, dall’assistenza sanitaria alla scuola; beni e valori che, sono fuori discussione, devono essere riservati per primi a chi ne ha pienamente diritto per questioni di lignaggio. Ovviamente, al “noi” si contrappone il “loro”, che include per escluderli, tutti quelli che non appartengono allo stesso popolo, alla stessa cultura, società, religione, o famiglia.
 
“Prima noi”, poi, eventualmente, se proprio ci avanza, si possono dare le briciole a chi ne ha bisogno, ovvero all’estraneo che attenta al nostro benessere economico, ai valori civili e religiosi della nostra società e alle nostre sacrosante tradizioni. “Loro” sono gli stranieri, i barbari. In ogni cultura chi proviene da fuori, incute paura. Lo straniero è un barbaro, colui cioè che emette suoni incomprensibili, (dal sanscrito barbara = balbuziente), colui che parla una lingua incomprensibile e che nel mondo greco passò a significare quel che è selvaggio, rozzo, feroce, incivile, indigeno.
 
Ero straniero
 
Nonostante nella Scrittura si trovino indicazioni che mirano alla protezione dello straniero (“Non maltratterai lo straniero e non l’opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”, Es 22,21), Gesù si è trovato a vivere in una realtà dove il forestiero andava evitato, e persino dopo la morte veniva seppellito a parte, in un luogo considerato impuro (“Il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri” Mt 27,7). Al tempo di Gesù vige una separazione totale tra giudei e stranieri, come riconosce Pietro: “Voi sapete come non sia lecito a un giudeo di aver relazioni con uno straniero o di entrar in casa sua” (At 10,28).
 
In questo ambiente stupisce il comportamento del Cristo che da una parte arriva a identificarsi con gli ultimi della società (“Ero straniero e mi avete accolto”, Mt 25,35.43), e proclama benedetti quanti avranno ospitato lo straniero (“Venite benedetti del Padre mio”¸ Mt 25,34), dall’altra, Gesù accusa con parole tremende quelli che non lo fanno (“Via, lontano da me, maledetti… perché ero straniero e non mi avete accolto”, Mt 25,41.43), con una maledizione che richiama quella del primo assassino della Bibbia, il fratricida Caino (“Ora sii maledetto”, Gen 4,11). Se la risposta alle altrui necessità era un fattore di vita, la mancata risposta è causa di morte. Per Gesù negare l’aiuto all’altro è come ucciderlo.
Gesù non solo si identifica nello straniero, ma nei vangeli il suo elogio va proprio per i pagani, personaggi tutti positivi (eccetto Pilato in quanto incarnazione del potere) e portatori di ricchezza. Si teme sempre cosa e quanto si debba dare allo straniero e non si riconosce quel che si riceve dallo stesso. Nella sua attività Gesù si troverà di fronte ottusità e incredulità persino da parte della sua famiglia e dei suoi stessi paesani, ma resterà ammirato dalla fede di uno straniero, il Centurione, e annuncerà che mentre i pagani entreranno nel suo regno, gli israeliti ne resteranno esclusi (Mt 8,5-13; Mt 27,54).
Nella sinagoga di Nazaret, il suo paese, Gesù rischierà il linciaggio per aver avuto l’ardire di tirare fuori dal dimenticatoio due storie che gli ebrei preferivano ignorare: Dio in casi di emergenza e di bisogno non fa distinzione tra il popolo eletto e i pagani, ma dirige il suo amore a chi più lo necessita. Così nel caso di una grande carestia che colpì tutto il paese, aiutò una straniera, una pagana, “una vedova a Sarepta di Sidone” (Lc 4,26), e con tutti i lebbrosi che c’erano al tempo del profeta Eliseo, il signore guarì uno straniero: “Naamàn, il Siro” (Lc 4,27).
Prima noi? Gesù, manifestazione vivente dell’amore universale del Padre, vuole condividere i pani in terra pagana così come ha fatto in Israele (Mt 14,13-21). La resistenza dei discepoli di portare anche agli stranieri la buona notizia, viene dagli evangelisti raffigurata nell’incontro di Gesù con una donna straniera, cananea (fenicia) che invoca la liberazione della figlia da un demonio (Mt 15,22). La donna, succube dell’ideologia nazional religiosa che faceva ritenere i pagani inferiori ai Giudei, si accontenterebbe di poco, anche delle briciole (“Sì, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro signori”, Mt 15,27). Nella tradizione biblica i figli di Israele sono chiamati a dominare le nazioni pagane, mentre i pagani sono destinati ad essere dominati. Non c’è uguaglianza tra gli appartenenti al popolo eletto e gli esclusi. Gli uni sono figli, e gli altri cani, animali ritenuti impuri e portatori del demonio. Per questo non si può dare il pane a quanti, per la loro condizione di pagani, sono veicolo di impurità e contaminazione.
Sarà una donna, per giunta pagana, a impartire una lezione ai discepoli del Cristo. Costei ha infatti compreso che non ci sono dei figli e dei cani, quelli che meritano e gli esclusi, quelli che hanno diritto e quelli no, un prima (noi) e un dopo (gli altri), ma tutti possono cibarsi insieme, e allo stesso tempo, dell’unico pane che alimenta la vita. Essa comprende quello che i discepoli fanno fatica a capire e ad accettare, cioè, che la compassione e l’amore vanno al di là delle divisioni razziali, etniche e religiose.
La reazione di Gesù è di grande ammirazione: “Allora Gesù le replicò: Donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come vuoi”. (Mt 15,28), e ai pagani Gesù non concederà le briciole, ma anche in terra straniera ci sarà l’abbondante condivisione dei pani, segni della benedizione divina (Mt 15,32-39).
L’esperienza e il messaggio di Gesù verranno poi raccolti dagli altri autori del Nuovo Testamento, in particolare da Paolo, che in occasione di un naufragio, si stupirà per la “rara umanità” con cui lui e gli altri naufraghi sono stati ospitati dai barbari di Malta (At 28,2), e arriverà a capire una verità importante: “Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11; Gal 3,28).
La Chiesa ha compreso e annuncia che con Gesù non si possono innalzare barriere, ma solo abbattere tutti i muri che gli uomini hanno costruito (“Egli infatti è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che ci divideva…”, Ef 2,14), non solo i muri esteriori (mattoni), forse i più facili da demolire, ma quelli interiori (pregiudizi), mentali, teologici, morali, religiosi, i più difficili da estirpare perché li crediamo buoni o di provenienza divina.



messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del povero

papa Francesco a pranzo insieme alle persone povere nell’Aula Paolo VI 

“I poveri ci evangelizzano”

messaggio per la II Giornata Mondiale dei Poveri

Messaggio del Santo Padre

 di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Francesco per la II Giornata Mondiale dei Poveri che si celebrerà la XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – quest’anno il 18 novembre 2018 – sul tema Questo povero grida e il Signore lo ascolta:

1. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34,7). Le parole del Salmista diventano anche le nostre nel momento in cui siamo chiamati a incontrare le diverse condizioni di sofferenza ed emarginazione in cui vivono tanti fratelli e sorelle che siamo abituati a designare con il termine generico di “poveri”.

Chi scrive quelle parole non è estraneo a questa condizione, al contrario. Egli fa esperienza diretta della povertà e, tuttavia, la trasforma in un canto di lode e di ringraziamento al Signore. Questo Salmo permette oggi anche a noi, immersi in tante forme di povertà, di comprendere chi sono i veri poveri verso cui siamo chiamati a rivolgere lo sguardo per ascoltare il loro grido e riconoscere le loro necessità. Ci viene detto, anzitutto, che il Signore ascolta i poveri che gridano a Lui ed è buono con quelli che cercano rifugio in Lui con il cuore spezzato dalla tristezza, dalla solitudine e dall’esclusione. Ascolta quanti vengono calpestati nella loro dignità e, nonostante questo, hanno la forza di innalzare lo sguardo verso l’alto per ricevere luce e conforto. Ascolta coloro che vengono perseguitati in nome di una falsa giustizia, oppressi da politiche indegne di questo nome e intimoriti dalla violenza; eppure sanno di avere in Dio il loro Salvatore. Ciò che emerge da questa preghiera è anzitutto il sentimento di abbandono e fiducia in un Padre che ascolta e accoglie.

Sulla lunghezza d’onda di queste parole possiamo comprendere più a fondo quanto Gesù ha proclamato con la beatitudine «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). In forza di questa esperienza unica e, per molti versi, immeritata e impossibile da esprimere appieno, si sente comunque il desiderio di comunicarla ad altri, prima di tutto a quanti sono, come il Salmista, poveri, rifiutati ed emarginati. Nessuno, infatti, può sentirsi escluso dall’amore del Padre, specialmente in un mondo che eleva spesso la ricchezza a primo obiettivo e rende chiusi in sé stessi.

2. Il Salmo caratterizza con tre verbi l’atteggiamento del povero e il suo rapporto con Dio. Anzitutto, “gridare”. La condizione di povertà non si esaurisce in una parola, ma diventa un grido che attraversa i cieli e raggiunge Dio. Che cosa esprime il grido del povero se non la sua sofferenza e solitudine, la sua delusione e speranza? Possiamo chiederci: come mai questo grido, che sale fino al cospetto di Dio, non riesce ad arrivare alle nostre orecchie e ci lascia indifferenti e impassibili? In una Giornata come questa, siamo chiamati a un serio esame di coscienza per capire se siamo davvero capaci di ascoltare i poveri. E’ il silenzio dell’ascolto ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere la loro voce. Se parliamo troppo noi, non riusciremo ad ascoltare loro. Spesso, ho timore che tante iniziative pur meritevoli e necessarie, siano rivolte più a compiacere noi stessi che a recepire davvero il grido del povero. In tal caso, nel momento in cui i poveri fanno udire il loro grido, la reazione non è coerente, non è in grado di entrare in sintonia con la loro condizione. Si è talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere direttamente.

3. Un secondo verbo è “rispondere”. Il Signore, dice il Salmista, non solo ascolta il grido del povero, ma risponde. La sua risposta, come viene attestato in tutta la storia della salvezza, è una partecipazione piena d’amore alla condizione del povero. E’ stato così quando Abramo esprimeva a Dio il suo desiderio di avere una discendenza, nonostante lui e la moglie Sara, ormai anziani, non avessero figli (cfr Gen 15,1-6). E’ accaduto quando Mosè, attraverso il fuoco di un roveto che bruciava intatto, ha ricevuto la rivelazione del nome divino e la missione di far uscire il popolo dall’Egitto (cfr Es 3,1-15). E questa risposta si è confermata lungo tutto il cammino del popolo nel deserto: quando sentiva i morsi della fame e della sete (cfr Es 16,1-16; 17,1-7), e quando cadeva nella miseria peggiore, cioè l’infedeltà all’alleanza e l’idolatria (cfr Es 32,1-14). La risposta di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a riprendere la vita con dignità. La risposta di Dio è anche un appello affinché chiunque crede in Lui possa fare altrettanto nei limiti dell’umano.

La Giornata Mondiale dei Poveri intende essere una piccola risposta che dalla Chiesa intera, sparsa per tutto il mondo, si rivolge ai poveri di ogni tipo e di ogni terra perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Probabilmente, è come una goccia d’acqua nel deserto della povertà; e tuttavia può essere un segno di condivisione per quanti sono nel bisogno, per sentire la presenza attiva di un fratello e di una sorella. Non è un atto di delega ciò di cui i poveri hanno bisogno, ma il coinvolgimento personale di quanti ascoltano il loro grido. La sollecitudine dei credenti non può limitarsi a una forma di assistenza – pur necessaria e provvidenziale in un primo momento –, ma richiede quella «attenzione d’amore» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 199) che onora l’altro in quanto persona e cerca il suo bene.

4. Un terzo verbo è “liberare”. Il povero della Bibbia vive con la certezza che Dio interviene a suo favore per restituirgli dignità. La povertà non è cercata, ma creata dall’egoismo, dalla superbia, dall’avidità e dall’ingiustizia. Mali antichi quanto l’uomo, ma pur sempre peccati che coinvolgono tanti innocenti, portando a conseguenze sociali drammatiche. L’azione con la quale il Signore libera è un atto di salvezza per quanti hanno manifestato a Lui la propria tristezza e angoscia. La prigionia della povertà viene spezzata dalla potenza dell’intervento di Dio. Tanti Salmi narrano e celebrano questa storia della salvezza che trova riscontro nella vita personale del povero: «Egli non ha disprezzato né disdegnato l’afflizione del povero, il proprio volto non gli ha nascosto ma ha ascoltato il suo grido di aiuto» (Sal 22,25). Poter contemplare il volto di Dio è segno della sua amicizia, della sua vicinanza, della sua salvezza. «Hai guardato alla mia miseria, hai conosciute le angosce della mia vita; […] hai posto i miei piedi in un luogo spazioso» (Sal 31,8-9). Offrire al povero un “luogo spazioso” equivale a liberarlo dal “laccio del predatore” (cfr Sal 91,3), a toglierlo dalla trappola tesa sul suo cammino, perché possa camminare spedito e guardare la vita con occhi sereni. La salvezza di Dio prende la forma di una mano tesa verso il povero, che offre accoglienza, protegge e permette di sentire l’amicizia di cui ha bisogno. E’ a partire da questa vicinanza concreta e tangibile che prende avvio un genuino percorso di liberazione: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 187).

5. E’ per me motivo di commozione sapere che tanti poveri si sono identificati con Bartimeo, del quale parla l’evangelista Marco (cfr 10,46-52). Il cieco Bartimeo «sedeva lungo la strada a mendicare» (v. 46), e avendo sentito che passava Gesù «cominciò a gridare» e a invocare il «Figlio di Davide» perché avesse pietà di lui (cfr v. 47). «Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte» (v. 48). Il Figlio di Dio ascoltò il suo grido: «“Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”» (v. 51). Questa pagina del Vangelo rende visibile quanto il Salmo annunciava come promessa. Bartimeo è un povero che si ritrova privo di capacità fondamentali, quali il vedere e il lavorare. Quanti percorsi anche oggi conducono a forme di precarietà! La mancanza di mezzi basilari di sussistenza, la marginalità quando non si è più nel pieno delle proprie forze lavorative, le diverse forme di schiavitù sociale, malgrado i progressi compiuti dall’umanità… Come Bartimeo, quanti poveri sono oggi al bordo della strada e cercano un senso alla loro condizione!

Quanti si interrogano sul perché sono arrivati in fondo a questo abisso e su come ne possono uscire! Attendono che qualcuno si avvicini loro e dica: «Coraggio! Alzati, ti chiama!» (v. 49). Purtroppo si verifica spesso che, al contrario, le voci che si sentono sono quelle del rimprovero e dell’invito a tacere e a subire. Sono voci stonate, spesso determinate da una fobia per i poveri, considerati non solo come persone indigenti, ma anche come gente portatrice di insicurezza, instabilità, disorientamento dalle abitudini quotidiane e, pertanto, da respingere e tenere lontani. Si tende a creare distanza tra sé e loro e non ci si rende conto che in questo modo ci si rende distanti dal Signore Gesù, che non li respinge ma li chiama a sé e li consola.

Come risuonano appropriate in questo caso le parole del profeta sullo stile di vita del credente: «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo […] dividere il pane con l’affamato, […] introdurre in casa i miseri, senza tetto, […] vestire uno che vedi nudo» (Is 58,6-7). Questo modo di agire permette che il peccato sia perdonato (cfr 1 Pt 4,8), che la giustizia percorra la sua strada e che, quando saremo noi a gridare verso il Signore, allora Egli risponderà e dirà: eccomi! (cfr Is 58,9).

6. I poveri sono i primi abilitati a riconoscere la presenza di Dio e a dare testimonianza della sua vicinanza nella loro vita. Dio rimane fedele alla sua promessa, e anche nel buio della notte non fa mancare il calore del suo amore e della sua consolazione. Tuttavia, per superare l’opprimente condizione di povertà, è necessario che essi percepiscano la presenza dei fratelli e delle sorelle che si preoccupano di loro e che, aprendo la porta del cuore e della vita, li fanno sentire amici e famigliari. Solo in questo modo possiamo scoprire «la forza salvifica delle loro esistenze» e «porle al centro della vita della Chiesa» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 198).

In questa Giornata Mondiale siamo invitati a dare concretezza alle parole del Salmo: «I poveri mangeranno e saranno saziati» (Sal 22,27). Sappiamo che nel tempio di Gerusalemme, dopo il rito del sacrificio, avveniva il banchetto. In molte Diocesi, questa è stata un’esperienza che, lo scorso anno, ha arricchito la celebrazione della prima Giornata Mondiale dei Poveri. Molti hanno trovato il calore di una casa, la gioia di un pasto festivo e la solidarietà di quanti hanno voluto condividere la mensa in maniera semplice e fraterna. Vorrei che anche quest’anno e in avvenire questa Giornata fosse celebrata all’insegna della gioia per la ritrovata capacità di stare insieme. Pregare insieme in comunità e condividere il pasto nel giorno della domenica.

Un’esperienza che ci riporta alla prima comunità cristiana, che l’evangelista Luca descrive in tutta la sua originalità e semplicità: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. […] Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,42.44-45).

7. Sono innumerevoli le iniziative che ogni giorno la comunità cristiana intraprende per dare un segno di vicinanza e di sollievo alle tante forme di povertà che sono sotto i nostri occhi. Spesso la collaborazione con altre realtà, che sono mosse non dalla fede ma dalla solidarietà umana, riesce a portare un aiuto che da soli non potremmo realizzare. Riconoscere che, nell’immenso mondo della povertà, anche il nostro intervento è limitato, debole e insufficiente conduce a tendere le mani verso altri, perché la collaborazione reciproca possa raggiungere l’obiettivo in maniera più efficace. Siamo mossi dalla fede e dall’imperativo della carità, ma sappiamo riconoscere altre forme di aiuto e solidarietà che si prefiggono in parte gli stessi obiettivi; purché non trascuriamo quello che ci è proprio, cioè condurre tutti a Dio e alla santità.

Il dialogo tra le diverse esperienze e l’umiltà di prestare la nostra collaborazione, senza protagonismi di sorta, è una risposta adeguata e pienamente evangelica che possiamo realizzare. Davanti ai poveri non si tratta di giocare per avere il primato di intervento, ma possiamo riconoscere umilmente che è lo Spirito a suscitare gesti che siano segno della risposta e della vicinanza di Dio. Quando troviamo il modo per avvicinarci ai poveri, sappiamo che il primato spetta a Lui, che ha aperto i nostri occhi e il nostro cuore alla conversione. Non è di protagonismo che i poveri hanno bisogno, ma di amore che sa nascondersi e dimenticare il bene fatto. I veri protagonisti sono il Signore e i poveri. Chi si pone al servizio è strumento nelle mani di Dio per far riconoscere la sua presenza e la sua salvezza. Lo ricorda San Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto, che gareggiavano tra loro nei carismi ricercando i più prestigiosi: «Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; oppure la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1 Cor 12,21).

L’Apostolo fa una considerazione importante osservando che le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie (cfr v. 22); e che quelle che «riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno» (vv. 23-24). Mentre dà un insegnamento fondamentale sui carismi, Paolo educa anche la comunità all’atteggiamento evangelico nei confronti dei suoi membri più deboli e bisognosi. Lungi dai discepoli di Cristo sentimenti di disprezzo e di pietismo verso di essi; piuttosto sono chiamati a rendere loro onore, a dare loro la precedenza, convinti che sono una presenza reale di Gesù in mezzo a noi. «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

8. Qui si comprende quanto sia distante il nostro modo di vivere da quello del mondo, che loda, insegue e imita coloro che hanno potere e ricchezza, mentre emargina i poveri e li considera uno scarto e una vergogna.

Le parole dell’Apostolo sono un invito a dare pienezza evangelica alla solidarietà con le membra più deboli e meno dotate del corpo di Cristo: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1 Cor 12,26). Alla stessa stregua, nella Lettera ai Romani ci esorta: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile» (12,15-16). Questa è la vocazione del discepolo di Cristo; l’ideale a cui tendere con costanza è assimilare sempre più in noi i «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). 9. Una parola di speranza diventa l’epilogo naturale a cui la fede indirizza. Spesso sono proprio i poveri a mettere in crisi la nostra indifferenza, figlia di una visione della vita troppo immanente e legata al presente. Il grido del povero è anche un grido di speranza con cui manifesta la certezza di essere liberato. La speranza fondata sull’amore di Dio che non abbandona chi si affida a Lui (cfr Rm 8,31-39).

Scriveva santa Teresa d’Avila nel suo Cammino di perfezione: «La povertà è un bene che racchiude in sé tutti i beni del mondo; ci assicura un gran dominio, intendo dire che ci rende padroni di tutti i beni terreni, dal momento che ce li fa disprezzare» (2, 5). E’ nella misura in cui siamo capaci di discernere il vero bene che diventiamo ricchi davanti a Dio e saggi davanti a noi stessi e agli altri. E’ proprio così: nella misura in cui si riesce a dare il giusto e vero senso alla ricchezza, si cresce in umanità e si diventa capaci di condivisione.

10. Invito i confratelli vescovi, i sacerdoti e in particolare i diaconi, a cui sono state imposte le mani per il servizio ai poveri (cfr At 6,1-7), insieme alle persone consacrate e ai tanti laici e laiche che nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti rendono tangibile la risposta della Chiesa al grido dei poveri, a vivere questa Giornata Mondiale come un momento privilegiato di nuova evangelizzazione. I poveri ci evangelizzano, aiutandoci a scoprire ogni giorno la bellezza del Vangelo. Non lasciamo cadere nel vuoto questa opportunità di grazia. Sentiamoci tutti, in questo giorno, debitori nei loro confronti, perché tendendo reciprocamente le mani l’uno verso l’altro, si realizzi l’incontro salvifico che sostiene la fede, rende fattiva la carità e abilita la speranza a proseguire sicura nel cammino verso il Signore che viene.

Dal Vaticano, 13 giugno 2018
FRANCESCO




una parabola attualissima

il fariseo e il pubblicano

In quel tempo, Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era cattolico benpensante e l’altro era Rom, divorziato risposato, gay. Il cattolico benpensante, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come questo Rom, divorziato risposato, gay. Prego due volte alla settimana il rosario, la domenica vado a Messa e destino l’8 per mille alla Chiesa”. Il Rom, divorziato risposato, gay, invece, temendo il giudizio degli altri, non osava nemmeno avvicinarsi, ma incrociando le mani diceva: “Signore, so che almeno tu mi accogli”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, sperando nella Misericordia di Dio ha compreso cos’è il Regno di Dio».

vangelo di Luca 18,9-14
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
da ‘altranarrazione’