la grande ‘delusione donna’ nella chiesa di papa Francesco

papa Francesco gela il mondo cattolico femminile che chiede parità di genere

«donne prete non previste»

di Franca Giansoldat

 Colpo basso di Papa Francesco alle donne cattoliche tedesche e a quella ampia fetta di sacerdoti e vescovi favorevoli al diaconato femminile, tra cui anche i vertici della conferenza episcopale. «Il principio petrino non prevede che una donna possa accedere al ministero ordinato» ha chiarito il Papa in una intervista ad America, il mensile dei gesuiti americani. Esattamente come hanno fatto i suoi predecessori – da Wojtyla a Ratzinger – anche Bergoglio ha sbarrato la strada ad ogni tipo di riforma, gelando le tante attese che le donne cattoliche tedesche si aspettavano dal pontefice definito sin dall’inizio un riformatore.

Papa Francesco gela il mondo cattolico femminile che chiede parità: «Donne prete non previste»

Sacerdozio femminile nella Chiesa cattolica, «E’ solo questione di tempo» dice il vescovo di Magonza

Papa Francesco ha anche motivato: «La Chiesa è donna. La Chiesa è una sposa. Non abbiamo sviluppato una teologia della donna che rifletta questo. Il principio petrino è quello del ministero. Ma c’è un altro principio ancora più importante, di cui non parliamo, che è il principio mariano, che è il principio della femminilità nella Chiesa, della donna nella Chiesa, dove la Chiesa vede uno specchio di se stessa perché è donna e sposa».

Donne prete, in Germania cresce il fronte cattolico contro il divieto Vaticano, stavolta sono i francescani tedeschi a pronunciarsi

Da tempo in Germania diversi vescovi, teologi, associazioni di cattolici sono decisi a portare avanti questa istanza all’interno del processo di riforma avviato tre anni fa con il cammino sinodale.  

Il presidente dei vescovi tedeschi, monsignor Georg Baetzing ha rassicurato che continuerà a fare pressioni affinchè il ruolo della donna nella Chiesa si possa rafforzare. Si tratta, ha detto, di una questione centrale per il futuro. «Ammettere le donne ai ministeri ordinati dovrà essere facilitato in qualche modo altrimenti il futuro della Chiesa in Germania è difficile da immaginare». Il riferimento di Baetzing riguarda l’emorragia dei cattolici che ogni anno lasciano la Chiesa, motivando questa decisione per la scarsa trasparenza delle strutture ecclesiali, per come sono finora stati affrontati i casi di abusi e per come vengono marginalizzate le donne senza che sia stata una vera parità.

In questo contesto piuttosto acceso c’è anche chi non ha mancato di fare affiorare le contraddizioni di questo pontificato. Per esempio la responsabile dell’organizzazione cattolica Bibelwerk, la teologa Katrin Brockmoeller, che analizzando il modo di predicare di Francesco e i suoi interventi non ha dubbi sulla sua misoginia di fondo. Brokmoeller, per esempio, ha ricordato che spesso il Papa, quando si rivolge al mondo religioso, tira in ballo le donne in modo che da far risuonare «automaticamente un’associazione negativa nei confronti del genere femminile».

Vaticano, match tra Papa e vescovi tedeschi finisce in pareggio: la rivoluzione per donne prete e coppie gay in Germania continua

«Siete uomini, comportatevi da uomini, non da zitelle». Un «linguaggio sprezzante nei confronti delle donne» ha affermato la teologa Brockmoeller. «Il pettegolezzo non è una caratteristica specifica del genere, ma ha a che fare con il carattere personale. Se voleva essere divertente, lo scherzo funzionava attraverso la svalutazione e la discriminazione e quindi non era divertente. Questo paragone è patriarcale e indegno del ruolo del Papa».

A dare manforte al mondo femminile tedesco c’è anche il vicepresidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Franz-Josef Bode. L’obiettivo a lungo termine è di aprire il dibattito sull’ordinazione sacerdotale delle donne, ha aggiunto il vescovo.




a proposito dei campionati mondiali di calcio in Qatar

la brutta figura dei Mondiali in Qatar e della Fifa

il coraggio degli iraniani


di Stefano Scacchi
il pallone non meritava di vivere tutto questo. L’inizio della competizione ha confermato i timori di chi fin dall’inizio è stato critico verso l’assegnazione a questo Paese: scelta elitaria
Iniziano i campionati mondiali di calcio in Qatar

Il calcio non meritava di vivere tutto questo. L’inizio del Mondiale ha confermato i timori di chi fin dall’inizio è stato critico verso l’assegnazione al Qatar. È bastato vedere la scenografia della tribuna d’onore dello stadio Al Bayt, teatro domenica della partita inaugurale tra i padroni di casa e l’Ecuador, per avere una plastica conferma della natura elitaria di questa edizione: i vertici della famiglia Al Thani assisi su poltrone con tavolinetto a fianco. Ogni emiro su un piccolo trono, col posto più prestigioso riservato a chi ha reso possibile tutto questo accettando la candidatura del Qatar: il presidente della Fifa, Gianni Infantino, che ha entusiasticamente portato avanti l’idea del predecessore Joseph Blatter, adesso pentito ampiamente fuori tempo massimo.

Ogni tribuna d’onore è chiaramente più sfarzosa degli altri settori. Ma raramente si era visto qualcosa di così smaccato in uno stadio. D’altronde non era mai successo che una ricchissima oligarchia, a capo di uno Stato di appena 2,9 milioni di abitanti, riuscisse a conquistarsi il diritto di ospitare la manifestazione sportiva più seguita di tutte, insieme alle Olimpiadi estive, pur non avendo alcuna tradizione nel calcio.

Lo ha dimostrato in modo grottesco quello che è successo nel corso della stessa partita tra Qatar ed Ecuador: lo svuotamento dello stadio, ben prima del 90°, di fronte al risultato deludente dei padroni di casa. La gara inaugurale di un Mondiale trattata dal pubblico alla stregua di una partita di seconda fascia di un campionato nazionale.

Questa sconfitta certifica anche il fallimento dell’approccio della Federazione qatariota che ha mandato in ritiro i giocatori della Nazionale da giugno, facendo saltare loro gli ultimi tre mesi di campionato, col risultato di tenerli senza impegni ufficiali per metà anno.

Sono lontani i tempi della lungimirante assegnazione della Fifa al Sud Africa, segno di apertura del calcio globale al continente nero. Un effetto nostalgia amplificato dalla presenza di Morgan Freeman nel ruolo di stella della cerimonia inaugurale allo stadio Al Bayt. Il grande attore aveva interpretato Nelson Mandela nel film Invictus, magnifico racconto della tenacia di Mandela nel volere i Mondiali di rugby del 1995 in Sud Africa per favorire la pacificazione nazionale del Paese appena uscito dall’apartheid sfruttando anche la formidabile forza dello sport. Mai contrasto avrebbe potuto essere più forte. Da un lato, il ricordo di Madiba (il più formidabile e visionario leader politico dell’ultimo mezzo secolo) che se ne è andato tre anni dopo i Mondiali di calcio in Sud Africa: emblema vero di come la politica possa usare lo sport per migliorare il mondo. Dall’altro, questa baracconata realizzata con i miliardi del gas che sgorga nel deserto intorno a Doha per esaudire il desiderio dell’oligarchia locale di regalarsi un’esibizione di potere planetario grazie al pallone.

Ieri è successo ancora di peggio quando la Fifa ha vietato ai capitani di Inghilterra, Galles, Belgio, Danimarca, Germania, Olanda e Svizzera di indossare la fascia arcobaleno nell’ambito della campagna “One Love” per sensibilizzare sui diritti della comunità gay, non rispettati in Qatar. Le Nazionali hanno rinunciato sotto la minaccia di ammonizione ed espulsione dei capitani che avessero indossato la fascia (quindi più delle multe messe in conto).

L’Inghilterra si è comunque inginocchiata come fa sempre contro il razzismo prima della partita vinta 6-2 con l’Iran. Commovente l’atteggiamento coraggioso dei calciatori iraniani che non hanno cantato l’inno per solidarietà verso i loro connazionali impegnati nelle proteste contro il regime degli ayatollah, represse nel sangue. Un gesto che segue le straordinarie parole del capitano Ehsan Haisafi a sostegno dei manifestanti.

«La Fifa sostiene tutte le cause legittime, come “One Love” – spiega una nota ufficiale – ma nel quadro delle regole note a tutti. Nelle fasi finali il capitano di ciascuna squadra deve indossare la fascia fornita dalla Fifa». Le Federazione delle sette Nazionali hanno reagito con una nota congiunta: «La decisione della Fifa è senza precedenti, siamo delusi e frustrati. Eravamo pronti a pagare le multe, ma non possiamo esporre i nostri capitani al rischio delle sanzioni sportive. Avevamo informato a settembre la Fifa del nostro desiderio di usare questa fascia. Non abbiamo avuto risposta».

Così come non ha ancora avuto risposta l’appello di Amnesty International alla Fifa per un risarcimento di 440 milioni di dollari da destinare alle famiglie delle vittime degli operai morti durante la costruzione degli stadi del Mondiale. Una richiesta che Infantino ha dribblato con acrobazie dialettiche alla vigilia della cerimonia inaugurale, quando ha attaccato l’Europa per la sua posizione sui diritti umani, giudicata selettiva e auto-assolutoria.

Il presidente della Fifa avrebbe potuto prendersela con il doppio binario etico che nel recente passato ha alimentato meno polemiche sulla scelta del Cio di assegnare le Olimpiadi estive 2008 e invernali 2020 alla Cina, dove impera una dittatura spietata. Ma ha preferito prendersela con l’Europa.

Anche la Lega Serie A critica le parole di Infantino: «La lezione di moralità fatta da certi posti suona stonata. Questo è il Mondiale più discusso di sempre. Come siano stati assegnati è sotto gli occhi di tutti. Queste riflessioni ci porteranno a prendere decisioni diverse in futuro», ha detto a Gr Parlamento l’ad Luigi De Siervo che sottolinea la cornice ambientale non degna di un Mondiale: «Gli spettatori sono molto pochi. Sono stati assoldati anche falsi tifosi. Tutto è molto rarefatto».

È stata buona l’audience della cerimonia d’apertura in Italia: 30,1% di share (quasi il 10% in più rispetto a Russia 2018). Si è fermata al 20% l’amichevole Austria-Italia, persa dagli azzurri che così hanno vanificato l’effetto dei tifosi italiani quasi sollevati nel pomeriggio dal non prendere parte a un Mondiale così. Da ieri, primo giorno feriale di partite, è più difficile per gli studenti seguire la prima fase in tv. Alle 14 chi frequenta il tempo pieno è ancora a scuola. Alle 17 bisogna fare i compiti e studiare. Così viene tagliata fuori una generazione di giovani, i primi a cui pensare nell’ottica futura di ogni sport. Inevitabile conseguenza del primo Mondiale giocato in autunno, a scuole aperte, non durante le vacanze estive. Ma nessuna obiezione è stata in grado di fermare questo trasloco forzato del calcio nel deserto, a uso e consumo degli emiri.




armi, armi, armi, … a danno dell’ambiente e dei paesi più poveri

le armi battono il clima 38 volte
di Tonio Dell’Olio
in “www.mosaicodipace.it” del 16 novembre 2022


Un articolo di Lucia Capuzzi sulle pagine di Avvenire di oggi ci informa dello “studio del
Transnational Institute, presentato in occasione della Cop27 che compara, con minuziosa
precisione, gli stanziamenti per le forze armate dei differenti governi con quanto destinato alla lotta al cambiamento climatico”. I dieci Paesi più ricchi spendono in armi trentotto volte la somma che investono negli aiuti climatici. “La Commissione Europea prevede un incremento del budget per gli eserciti da parte dei propri membri intorno ai 200 miliardi. Washington ha approvato un bilancio senza precedenti di 840 miliardi. La Russia, pur nel mezzo della crisi economica, porterà i fondi per l’esercito a quota 83,5 miliardi nel 2023, + 27 per cento. Molto di questo denaro è sottratto alla transizione energetica piuttosto che ai fondi per le vittime – incolpevoli, riconoscono tutti – della catastrofe ambientale”. Oltre il danno anche la beffa: le dieci nazioni che investono di più in strumenti di morte (Usa, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia, Giappone e Germania) sono le stesse che inquinano di più e che pertanto dovrebbero risarcire i paesi più poveri per i danni che provocano su loro.




questo papa anticapitalista, ecologista, anticlericalista, popolare e pacifista …

il papa anticapitalista e pacifista non piace più

di Daniela Ranieri
in “il Fatto Quotidiano” 

Ci viene il sospetto che il Papa non stia più tanto simpatico alla stampa padronale.

 Altrimenti non si spiega perché i suoi discorsi, le sue conferenze stampa dall’aereo, i suoi Angelus siano spariti da tutte le prime pagine per finire nei colonnini accanto ai problemi della ginnastica ritmica e all’ultimo best-seller di una influencer.
Si sa che il Papa è inviso alla destra salviniana di marca trumpiana, quella beghina dei rosari e del Sacro Cuore di Maria a cui consacrare le peggiori azioni nei confronti del prossimo, nel caso non sia maschio bianco caucasico, per il principale motivo che Bergoglio predica i valori del Vangelo anziché quelli dei teoconservatori americani. Anche la destra meloniana, quella di “Dio Patria e Famiglia”, non può apprezzare un Papa che predica l’accoglienza, avendo come principale preoccupazione la difesa della “tradizione” e dell’“identità” contro “l’islamizzazione dell’Europa”.
Basta leggere le cosiddette “Tesi di Trieste”, il manifesto ideologico di Fratelli d’Italia: qui un tessuto di destra purissima è impunturato con citazioni dal Vangelo (“Ama il prossimo tuo come te stesso”) per giustificare il principio “prima gli italiani”; “l’immigrazione non è un diritto, e la cittadinanza lo è ancora di meno”; il profugo “è un clandestino fino a prova contraria” e deve essere detenuto in un Cie e rimpatriato o meglio trattenuto a casa sua (come peraltro prevede la dottrina Minniti).
Ora ai conservatori complottisti che vedono il Papa come un alleato della “teoria gender”,
dell’omosessualità e del meticciato, cioè in definitiva di Satana, si aggiungono nuovi nemici silenziosi che – privi di apparato ideologico sovranista e anticonciliare – si limitano a ignorare quello che dice. Per quel centrosinistra che persegue da decenni le politiche neoliberiste che hanno ridotto sul lastrico milioni di persone (5,6 in povertà assoluta), che ha adottato la politica dei respingimenti facendo accordi con la Libia e che ha sposato appieno la linea bellicista Nato-Usa, Bergoglio è una spina nel fianco.
Domenica, pranzando con senzatetto, migranti, poveri adulti e bambini assistiti da Caritas,
Comunità di Sant’Egidio e Acli, il Papa ha fatto un identikit inequivocabile: “Non dobbiamo lasciarci ingannare. Non facciamoci incantare dalle sirene del populismo, che strumentalizza i bisogni del popolo proponendo soluzioni troppo facili e sbrigative. Non seguiamo i falsi messia che proclamano ricette utili solo ad accrescere la ricchezza di pochi”. Con la parola “ingannare” il Papa intende che c’è qualcuno che compie una torsione semantica per farci credere che la realtà sia diversa da quella che è. Ce l’ha con la parte politica che ha affermato la tesi per cui il soggetto sociale pericoloso per chi sta appena meglio è il reietto, non il detentore di privilegi. Questa parte politica non è solo la destra: il povero non è solo il migrante, ma anche il percettore di Reddito di cittadinanza, divenuto ormai il nemico pubblico numero uno per tutti i partiti tranne il M5S. Chi
“persegue la ricchezza dei pochi” non è solo il partito (trasversale) della flat tax, ma anche chi ha smantellato i diritti dei lavoratori per favorire imprese e padronati. Anche la parola “populista”, usata dal Papa, non deve fuorviare. Non sta dicendo che l’establishment mondialista e neoliberista sia meglio (la riprova: per i nostri liberali, alcuni dei quali editorialisti del Corriere, del Foglio etc., è il Papa argentino a essere un pericoloso “populista”, se non proprio un peronista anti-occidentale): sta dicendo che il populismo è un prodotto di quelle politiche. Il Papa dice che il traffico di esseri  umani e di armi vanno sempre di pari passo. Gli aguzzini libici che tengono la gente nei lager in cambio della moneta sonante dei nostri governanti “democratici” sono spesso gli stessi che smerciano armi. Per ciò ha smesso di essere simpatico anche ai lib-dem atlantisti, che dal 24
febbraio parlano solo il linguaggio dei tank e tifano per la marcia su Mosca. Quando disse: “Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si è compromesso a spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi, pazzi!”, il Papa ce l’aveva col governo Draghi e con chi aveva votato quella risoluzione. Quando disse che le guerre vengono fatte anche per “provare le armi”, diede un bel calcio sui denti agli esaltati difensori della democrazia e “dei nostri valori” per mezzo dei blindati Iveco (e non solo politici, ma anche editori e direttori di giornali). La sua frase “fabbricare armi è un commercio assassino” non dovrebbe toccare solo la coscienza del ministro della Difesa che fino a pochi giorni fa commerciava in armi, ma anche tutti quelli che tifano per l’escalation fino alle soglie
della guerra nucleare. Nessuna sorpresa, quindi, se questo papa anticapitalista, ecologista,
anticlericalista, popolare e pacifista finisca nel colonnino delle curiosità.




contro la minaccia di un’apocalisse nucleare l’appello di intellettuali

l’appello

 un negoziato credibile per fermare la guerra


le firme di 11 intellettuali
La minaccia di un’apocalisse nucleare non è una novità. L’atomica è già stata usata. Non è impossibile che si ripeta. È caso ampiamente contemplato nei manuali di strategia…

Un negoziato credibile per fermare la guerra

La minaccia di un’apocalisse nucleare non è una novità. L’atomica è già stata usata. Non è impossibile che si ripeta. È caso ampiamente contemplato nei manuali di strategia. Di fronte a questa minaccia l’opinione pubblica sembra pericolosamente assuefatta. Nessuna forte reazione popolare, nessuna convinta e razionale volontà di impedirla. Si diffonde una pericolosa sensazione di inevitabilità e di rassegnazione, o, peggio, l’idea che solo una “resa dei conti” possa far nascere un nuovo e stabile ordine mondiale. Ma oggi nessuna guerra può imporre un ordine sotto le cui macerie non restino il pianeta, i popoli, l’umanità tutta. Non ci si può rassegnare. Ma a una volontà razionale di pace bisogna offrire uno scenario credibile per chiudere questo conflitto, divampato con l’aggressione russa al di là delle gravissime tensioni nel Donbass. Un conflitto che non può avere la vittoria tutta da una parte e la sconfitta tutta dall’altra, secondo una concezione manichea del mondo e della storia.

Tutti gli attori in conflitto, quelli che stanno sul teatro di guerra e quelli che l’alimentano o non lo impediscono, ne devono essere consapevoli. Bisogna fermare l’escalation e impedire la catastrofe del sonnambulismo. In quest’ottica riteniamo che i governi responsabili debbano muoversi su queste linee: 1) Neutralità di un’Ucraina che entri nell’Unione Europea, ma non nella Nato, secondo l’impegno riconosciuto, anche se solo verbale, degli Stati Uniti alla Russia di Gorbaciov dopo la caduta del muro e lo scioglimento unilaterale del Patto di Varsavia. 2) Concordato riconoscimento dello status de facto della Crimea, tradizionalmente russa e illegalmente “donata” da Kruscev alla Repubblica Sovietica Ucraina. 3) Autonomia delle Regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina secondo i Trattati di Minsk, con reali garanzie europee o in alternativa referendum popolari sotto la supervisione dell’Onu. 4) Definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass per gestire il melting pot russo-ucraino che nella storia di quelle Regioni si è dato ed eventualmente con la creazione di un ente paritario russo-ucraino che gestisca le ricchezze minerarie di quelle zone nel loro reciproco interesse. 5) Simmetrica descalation delle sanzioni europee e internazionali e dell’impegno militare russo nella regione. 6) Piano internazionale di ricostruzione dell’Ucraina.

A nostro avviso questi possono essere i punti di partenza realistici e credibili per un cessate il fuoco. In una direzione simile va da ultimo la proposta di Elon Musk, e da tempo le sollecitazioni di Henry Kissinger a una soluzione che nel rispetto delle ragioni dell’Ucraina offra insieme una via d’uscita al fallimento militare di Putin sul terreno. Fondamentalmente sono le linee più credibili di un negoziato possibile e necessario, anche per l’unica Agenzia mondiale all’opera davvero per la pace, la Chiesa di Roma. Questa soluzione conviene a tutti, anche all’Occidente e in particolare ai Paesi dell’Unione Europea, i più minacciati dall’ipotesi di un disperato attacco nucleare russo. E all’Ucraina stessa, se non vorrà essere la nuova Corea nel cuore dell’Europa per i prossimi 50 anni. Liberiamo la ragione e la politica dalle pastoie dell’odio, e forse troveremo anche il cuore e l’intelligenza per mettere fine a questo macello. È un invito rivolto a tutti, a quanti ascoltandolo vorranno rilanciarlo e farsene carico.

Antonio Baldassarre, Pietrangelo Buttafuoco, Massimo Cacciari, Franco Cardini, Agostino Carrino, Francesca Izzo, Mauro Magatti, Eugenio Mazzarella, Giuseppe Vacca, Marcello Veneziani, Stefano Zamagni




un papa poco ‘prudente’!

l’esclusione criminale

di  Tonio Dell’Olio

Quando si parla in pubblico bisogna pesare bene le parole. Quando si parla al mondo ancora di più. Quando si rappresenta un’autorità morale che è guida per i credenti e riferimento per tante persone nel mondo, è necessario misurare gli accenti, gli aggettivi e le virgole. Ieri il Papa ha detto:

“L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale non aprire le porte a chi ha bisogno!”

 Certo, la prudenza e la diplomazia avrebbero suggerito toni meno perentori e netti. Forse un giudizio più sfumato sarebbe stato più gradito. Ma poi ci si rende conto che il Vangelo di Gesù non è stato redatto né dalle curie né dalle cancellerie dei governi del suo tempo. E allora un papa non può e non deve prendere le distanze né dal merito né dalla forma del Vangelo che è chiamato ad annunciare. E così ieri Papa Francesco ha dato del criminale, peccatore e schifoso a ogni politico di ogni governo del mondo che in questi anni ha contribuito a varare politiche di respingimento e rifiuto di uomini, donne e bambini che chiedevano pane e dignità. Un tono profetico che pesa bene le parole, misura gli accenti, gli aggettivi e le virgole. D’altra parte le ragioni dei governi le diffondono abbondantemente gli uffici stampa ma chi fa sentire le ragioni dei poveri?




migranti come risorsa per le nostre comunità

papa Francesco:

migranti, potenziale enorme

ecco perché sono una vera risorsa


di Paolo Lambruschi
«Lavoro e sacrificio degli stranieri arricchiscono le nostre comunità»
e una ricerca della Fondazione Moressa conferma l’impatto positivo per l’Italia: 28 miliardi di entrate contro 26 di uscite

Papa Francesco: migranti, potenziale enorme. Ecco perché sono una vera risorsa

«I migranti non basta accoglierli: vanno anche accompagnati, promossi e integrati». Con questa frase, a braccio, papa Francesco si è rivolto ai partecipanti alla Conferenza internazionale sui rifugiati e i migranti promossa dalla Facoltà di scienze sociali della Pontificia Università Gregoriana, in collaborazione con Refugee & Migrant Education Network, la Fondazione Being the Blessing. Il Pontefice ha ribadito che le diversità che portano i migranti, nelle società in cui sono accolti, sono «una ricchezza» e il loro contributo ha «un potenziale enorme».

«Il loro lavoro, la loro capacità di sacrificio, la loro giovinezza e il loro entusiasmo arricchiscono le comunità che li accolgono. Ma questo contributo potrebbe essere assai più grande se valorizzato e sostenuto attraverso programmi mirati», ha aggiunto il Papa, che ha poi chiesto di «riflettere sulle cause dei flussi migratori e sulle forme di violenza che spingono a partire verso altri Paesi. Mi riferisco naturalmente ai conflitti che devastano tante regioni del mondo. Ma vorrei anche sottolineare un altro tipo di violenza, che è l’abuso della nostra casa comune – ha detto il Papa –. Il pianeta è indebolito dall’eccessivo sfruttamento delle sue risorse e logorato da decenni di inquinamento».

Quanto al ruolo di chi accoglie, per Francesco «tutte le istituzioni educative sono chiamate ad essere luoghi di accoglienza, protezione, promozione e integrazione per tutti, senza escludere nessuno».

Nonostante il Covid e gli scostamenti di bilancio per le esauste casse dello stato gli immigrati restano una risorsa. Se si ignora la prevalente narrazione mediatica emergenziale concentrata sui barconi e agli sbarchi dal Nord-Africa e la popolazione dei centri di accoglienza in Italia (80 mila presenze a fine 2020) e la si sposta invece sulla realtà dei 5,2 milioni di immigrati regolarmente residenti nel Belpaese la musica cambia. Secondo uno studio sull’impatto fiscale dell’immigrazione in Italia curata dalla Fondazione Moressa – che il 18 ottobre presenterà il rapporto 2022 sull’economia dell’immigrazione – alla voce uscite si registrano 26,8 miliardi di euro contro 28,2 di entrate. Una conferma di quello che affermava tra le polemiche l’Ocse un anno fa: «I migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione».

Il metodo di calcolo della “Moressa” si è basato sui “costi medi”, stimando l’incidenza degli stranieri per ciascuna voce della spesa pubblica in base all’utenza presente in quel determinato servizio nel 2020, anno pandemico.

Sfatiamo per l’ennesima volta stereotipi duri a morire. Data la giovane età media della popolazione straniera residente in Italia, li si trova soprattutto nei reparti maternità e nei pronto soccorso ospedalieri. Per fortuna. Una conferma empirica che l’impatto calcolato sulla sanità pubblica dai ricercatori della Fondazione Moressa è solo 6,1 miliardi di spesa per i pazienti immigrati contro i 130 complessivi.

Alla voce scuola, mantenendo il metodo basato sull’incidenza degli utenti, viene considerato un decimo della spesa totale a favore degli alunni nati all’estero e privi di cittadinanza, in tutto 6 miliardi. I curatori delle ricerca sottolineano un aspetto scomodo e non descritto dai numeri, ma che rende ancor più preziosa la risorsa dei minori stranieri per la scuola. Nell’inverno demografico italiano «la maggiore presenza straniera garantisce la sostenibilità del sistema, che altrimenti vedrebbe chiudere molte scuole e ridurre l’organico».

La voce “servizi sociali, servizi locali e casa” raggiunge complessivamente 1,3 miliardi di euro. L’edilizia pubblica vede il 12,5% a livello nazionale di inquilini immigrati nonostante l’alto livello di bisogno per la mancanza di turnover. Insomma, gli italiani restano sempre primi. Ovviamente la ricerca non può considerare le occupazioni abusive degli alloggi gestiti dai racket etnici afferenti alla mafie italiche. E la situazione dei grandi quartieri popolari metropolitani della capitale come di Milano fa media con altre realtà dove gli stranieri non sono numerosi. Una voce di spesa che invece diminuisce è quella per “immigrazione e accoglienza”, legata al progressivo decongestionamento dei centri di accoglienza.

Infine la spesa previdenziale, altra antica polemica. Secondo un report pubblicato dall’Inps nel luglio 2022, la spesa pensionistica riferita ai cittadini non comunitari ammonta a 1,2 miliardi (0,4% del totale). A questa vanno aggiunte disoccupazione, malattia, maternità, assegni nucleo familiare, pari a 6,2 miliardi. In tutto fanno 8,45 miliardi, il 2,6% del totale.

Ma i migranti non sono solo beneficiari, anzi. Sono soprattutto 4,17 milioni di contribuenti che hanno dichiarato 57,5 miliardi di euro di redditi e versato 8,2 miliardi di Irpef nel 2020. La comunità più rappresentata rimane quella romena con oltre 560 mila contribuenti, seguita da Albania (157 mila) e Cina (147 mila).

Sono consumatori che pagano l’Iva, anche se tra i contribuenti nati all’estero, quasi la metà (48,7%) ha dichiarato un reddito annuo inferiore a 10 mila euro. E sono cittadini che versano per rinnovi di permessi di soggiorno e acquisizioni di cittadinanza quasi 800 milioni. I regolari, comparando entrate e uscite del bilancio pubblico, sono una voce in attivo per 1,4 miliardi. Perché gli immigrati continuino ad essere una risorsa portando benefici economici, ammonisce lo studio, devono però proseguire i processi di integrazione. Un cambio di narrazione dei media aiuterebbe gli italiani ad esserne più consapevoli.




la chiesa divisa sulla politica perché divisa sui poveri

Vaticano diviso sul governo Meloni

ecco chi è preoccupato e chi lo incoraggia

di Nico Spuntoni 

quale sarà l’accoglienza riservata dal Vaticano ad un eventuale governo Meloni? Tra gli addetti ai lavori c’è grande curiosità per ciò che avverrà sull’asse Santa Marta-Palazzo Chigi con la nascita di quello che potrebbe essere il governo più a destra della storia repubblicana

 

Un’anticipazione è arrivata ieri con le parole cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, che ieri ha presentato alla stampa la nuova organizzazione dell’organismo dopo l’entrata in vigore della Praedicate evangelium. Interrogato sulle possibili preoccupazioni della Chiesa per la nascita del nuovo esecutivo italiano, il gesuita canadese ha detto che la risposta spetta alla Chiesa italiana ma ci ha tenuto a ricordare che “quando qualcuno e’ in difficolta’ in mare esiste l’obbligo morale ed umano ad aiutare, non a rendere le cose piu’ difficili”

Il cardinale, uno degli uomini più fidati di Francesco, indossa sempre una croce di legno ricavata da una barca utilizzata da migranti sbarcati a Lampedusa e che dietro ha una targa con la parola “Suscipe”, ovvero “Ricevere”. Il suo riferimento all’accoglienza in una risposta ad una domanda sul nuovo governo italiano sembra far capire il fastidio del capo dicastero per quel blocco navale che ha dominato in questi anni la campagna di Fratelli d’Italia e che però, come ha ricordato recentemente il braccio destro di Giorgia Meloni, il senatore Giovambattista Fazzolari, sarebbe stato previsto dalla missione Sophia dell’Ue.  La frecciata dal Vaticano arriva il giorno dopo l’intervista ad Aldo Cazzullo rilasciata dall’ex presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, dai toni decisamente diversi: il porporato italiano, infatti, si è dichiarato piuttosto ottimista su un eventuale esecutivo a guida Meloni, dicendo di pensare che la leader di Fdi saprà dissipare le preoccupazioni di chi teme la presenza fiamma tricolore nel simbolo del partito più votato dagli italiani.




una ‘chiesa in uscita’ come la vuole papa Francesco

una chiesa in uscita con la missione nel DNA

padre Ermes Ronchi, dell’Ordine dei Servi di Maria, teologo e volto noto ai telespettatori italiani, ha condiviso con noi i suoi appunti sull’identità missionaria della “Chiesa in uscita”. Una pagina da leggere con il cuore e da meditare, intrisa di poesia e ricca di citazioni bibliche.

«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade che una Chiesa malata per la chiusura» (EG 49). Fa eco e sponda a questa visione di Papa Francesco una bellissima poesia di Jacques Brel:

Conosco delle barche che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.

Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

Conosco delle barche talmente incatenate
che hanno disimparato come liberarsi.
Conosco delle barche che restano ad ondeggiare
per essere veramente sicure di non capovolgersi.

Conosco delle barche che vanno in gruppo
ad affrontare il vento forte al di là della paura.
Conosco delle barche che si graffiano un po’
sulle rotte dell’oceano ove le porta il loro gioco.

Conosco delle barche che tornano in porto lacerate dappertutto,
ma più coraggiose e più forti.
Conosco delle barche traboccanti di sole
perché hanno condiviso anni meravigliosi.

Conosco delle barche che tornano sempre
che hanno navigato fino al loro ultimo giorno,
e sono pronte a spiegare le loro ali giganti
perché hanno un cuore a misura di ocean

In quelle barche, che riportano una metafora antichissima della Chiesa, vediamo descritta la stessa dinamica vitale dell’uscire, salpare, navigare oltre. “Chiesa in uscita” è una espressione diventata virale, una Chiesa che si immerge invece di una che attende; che sa curare le ferite, riscaldare i cuori, piangere e accarezzare invece di rinchiudersi nelle norme.

L’uscita, la strada, la navigazione sono nel DNA della Chiesa. Chiamò a sé i dodici e li inviò dicendo: “strada facendo…”.  Gli apostoli sono gli in-viati, i messi in via. Tutta la Bibbia è attraversata da un comando: alzati, kum in aramaico. Elia, kum; Giona, kum; Mosè, kum, alzati e scendi in Egitto. Per centinaia di volte: alzati e va’. Verbo per chi era a terra, ordine per chi se ne stava chiuso: verbo della risurrezione e di una vita in uscita. Kum verbo degli inizi, di chi ama avviare percorsi, iniziare processi; di chi parte e si fida del percorso. Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio, è una forza che fa partire. Mette in cammino, e camminare è un atto di libertà e di leggerezza, scoprire se stessi mentre si scopre il mondo. Ma risalendo indietro, verso le sorgenti, verso là dove è nata la Chiesa, vediamo che la prima comunità nasce sulle strade di Galilea, non nelle aule di una scuola, non in una sinagoga, ma sui sentieri attorno al lago di Tiberiade, durante tre anni di itineranza battagliera, libera e felice.

La Chiesa è nata in uscita.

Gesù cammina, ma non da solo; con lui si muove un gruppo vivace di uomini e donne, in una intimità itinerante: proto-struttura della Chiesa. E tutta la simbolica della strada è dentro il DNA del cristiano. Da allora, da subito, la comunità è in uscita, è a suo agio sulle strade e ama gli orizzonti. Prima di essere chiamati con il nome di cristiani, i seguaci di Gesù sono detti “quelli della via”, oi tes odou in greco.

Siamo figli di una beatitudine dimenticata, proclamata dai salmi di pellegrinaggio: «beato l’uomo che ha sentieri nel cuore» (Salmo 84, 6), felice la donna che ha la strada nel cuore. È la spiritualità biblica: Mio padre era un arameo errante. Siamo tutti figli di nomadi, non stanziali ma migratori, passatori di frontiere. La Bibbia fa nascere una fede nomade, incamminata, mai installata.

Vai al largo, ha detto a Pietro…
Le barche, le piccole barche sono al sicuro, attaccate ai loro ormeggi nel porto, ma non è per questo che sono state costruite. Sono fatte per navigare, e anche per affrontare tempeste. Il nostro posto non è nei successi e nei risultati trionfali, ma in una barca in mare aperto, dove prima o poi durante la navigazione della vita verranno acque agitate e vento contrario. La vera formazione che Gesù trasmette ai suoi non consiste nella capacità di costruire una barca o una zattera, oppure nell’insegnare il codice nautico, ma nel trasmettere la passione del navigare, il gusto per il grande mare aperto e infinito. In Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga. (Fray Luis de Leon). Vera pedagogia, vera pastorale è la consegna amorosa e contagiosa del vangelo-orizzonte, vangelo-oceano. Il vangelo non proclama divieti, offre ali. I veri maestri dello spirito sono quelli che non mettono lacci ulteriori, ma ulteriori ali, le crescono, le accarezzano, le pettinano, le fanno forti, perché possano volare più lontano e più sicuri.

– Andate, guarite, risuscitate, purificate, scacciate, date… (Mt 10,7-15)
Gesù manda i suoi, gli in-viati, verso il mondo, affidando loro cinque opere che disegnano il volto di una Chiesa ospedale da campo. Che come in tutti gli ospedali incontra persone ferite, sangue, sporco, piaghe e anche bestemmie, ma non giudica nessuno, si prende cura di tutti. Istituisce una Chiesa in missione, una Chiesa che sia autorevole non per la dottrina, ma per la misericordia; per la quale di non negoziabile siano non i principi, ma solo l’uomo. Chiesa autorevole perché si abbassa, pulisce, lava, solleva come il samaritano buono. Il mondo non ha bisogno di giudici ma di samaritani. Scrive Papa Francesco: “Desidero una chiesa che non attende ma va incontro; sa curare le ferite e riscaldare i cuori; sa piangere e accarezzare invece di rinchiudersi nelle norme. Una Chiesa che non ha nulla da difendere, ma molto da offrire. Che non si contrappone agli altri in conflitti teorici ma si immerge nelle persone. Sognando la vita insieme (EG 74). Chiesa sognatrice.

– Il distacco di Gesù dai suoi, in Luca, è di una sobrietà incantevole.
«Gesù li condusse fuori verso Betania»: è colui che precede, che indica la via, che avanza sicuro anche quando la meta è il Calvario. Inizia su quell’altura la “Chiesa in uscita”, con un invio che chiede agli apostoli un cambio di sguardo. Devono passare da un gruppo che mette se stesso al centro, ad una Chiesa al servizio dell’uomo, della vita, della cultura, della casa comune, delle nuove generazioni. Voi siete la luce, che non illumina se stessa, ma accarezza le cose e ne fa emergere la bellezza; voi siete il sale, che non dà sapore a se stesso ma al pane dell’uomo.

– Convertite, significa coltivate e custodite i semi divini di ciascuno.
Come Gesù che in Galilea andava alla ricerca delle faglie, delle fenditure nelle persone, là dove scorrevano acque sepolte, come con la samaritana al pozzo, così la Chiesa è inviata al servizio dei germi santi che sono in ciascuno. Per ridestarli. Una Chiesa rabdomante del buono, inviata a captare e far emergere le forze più belle, per la fioritura dell’essere, per la valorizzazione del grammo di luce che è seminato in ciascuno: noi camminiamo, calpestiamo gioielli e non ce ne rendiamo conto.

– Vi precede.
Anche la pasqua è stata una ripartenza. Gli angeli dicono alle donne: non è qui, vi precede, andate in Galilea. Vi precede: è davanti, è sulla strada a prendere in faccia il vento, il sole, il grido d’aiuto e le lacrime. E anche le tempeste; è un Dio da sorprendere nelle strade, come i due di Emmaus. È un passo avanti, e avanza ancora.
Un Dio migratore, abbiamo, che ama gli spazi aperti, che apre cammini. Attraversa muri e spalanca porte. Che non ama i paletti, ma gli orizzonti.
Il regalo che ci fanno la Bibbia e i profeti di ogni tempo: noi come credenti apparteniamo ad un sistema aperto, generativo e non a un sistema chiuso, dove tutto è già definito, proclamato, bloccato. Apparteniamo ad un sistema di ricerca, naviganti e cercatori mai arresi del nome di Dio e del nome dell’Uomo.

Ermes Ronchi




a proposito di “Dio Patria Famiglia” come valori assoluti, così A. Maggi

 

 

quei valori “sacri” smascherati da Gesù

In ogni società esistono valori sacri, principi sui quali si basano le fondamenta della collettività. Per valore sacro s’intende un ideale così im­portante da essere superiore al bene stesso dell’uomo, e per difenderlo si può arrivare a sacrificare la propria vita o a togliere quella di quanti vi si oppongono. I valori sacri, indiscutibili e non negoziabili, sui quali da sempre ci si è basati, sono Dio-Patria-Famiglia. Quel che accomuna questi tre valori è il potere: quello esercitato da Dio, attraverso l’istituzione religiosa sulle coscienze dei credenti, quello dello Stato, sulla vita delle persone e infine il potere indiscusso del capo famiglia sulla moglie e sui figli.

Poi è venuto Gesù, e ha smascherato questi valori sacri rivelandoli come ostili al disegno del Padre sull’umanità. Il Cristo, per il quale l’unico valore sacro è il bene dell’uomo, denuncerà che quel che era considerato apparentemente a favore del­l’uomo era in realtà il principale ostacolo alla realizzazione del progetto del Creatore: che ogni uomo diventi suo figlio raggiungendo la pienezza della condizione divina. Ed è proprio questo quel che allarma la società: che l’uomo raggiunga la condizione divina, diventi esso stesso Signore e, in quanto tale, pienamente libero. Infatti, ogni potere, da quello meno appariscente ma non meno mici­diale della famiglia, a quello civile e a quello sacrale vuole impedire la pienezza umana proposta da Gesù.

Per questo Gesù avvisa i suoi che faranno la stessa fine del loro maestro, condannato a morte come bestemmiatore in nome di Dio da parte dei rappresentanti della religione, ritenuto un pericoloso sovversivo da parte del potere civile e abbandonato dalla famiglia che lo riteneva un demente. I nemici o gli ostacoli alla realizzazione del progetto divino, Gesù li individua, infatti, proprio nella famiglia, dove il marito era l’indiscusso padrone della moglie e dei figli (“sarete traditi perfino dai genitori, Lc 21,16-17), nella nazione, dove chi deteneva il comando, spadroneggiava sui sudditi (“sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia…”, Mt 10,18) e nella  religione, dove il dominio veniva esercitato in nome di Dio e giungeva dove gli altri poteri si fermavano: la coscienza della persona (“vi consegneranno ai sinedri e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe…”, Mt 10,17); “viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”, Gv 16,3).

A questi falsi valori che impediscono la crescita e la maturazione dell’uomo Gesù opporrà i veri valori, quelli che, comunicando agli uomini energia divina, saranno fattore di crescita, consentendo a ogni uomo di realizzare in lui il progetto divino (Gv 1,12; Ef 1,4). Per questo, a Dio, nome comune di ogni religione, Gesù preferirà il Padre, nome specifico del messaggio cristiano, e all’obbedienza a Dio, Gesù contrapporrà l’assomiglianza al Padre:  se in nome di Dio si può togliere la vita, in nome del Padre si può solo donarla. Alla Patria, ambito delimitato da confini e barriere edificate sulle paure, sull’ignoranza e sugli egoismi, Gesù contrapporrà il Regno di Dio, spazio d’amore dove tutti sono accolti, amati e rispettati nella loro diversità. Gesù non è venuto ad innalzare muri contro gli altri popoli, ma ad abbatterli (Ef 2,14), perché l’amore del Signore si estende a tutte le nazioni. Mentre la patria sacralizza se stessa (il sacro suolo), ponendo come valore sacro quelli che in realtà sono i suoi interessi, nel Regno l’unico sacro è l’uomo. Gesù ha ampliato anche l’angusto orizzonte della fami­glia vincolata dagli obblighi familiari, e l’estende a ogni uomo, senza distinzione di popoli e razza. L’unità viene realizzata dall’accoglienza dello stesso Spirito e non dall’avere lo stesso sangue: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35).

La sequela a Gesù richiede la piena libertà dell’individuo, che deve rendersi indipendente da tutto quel che gli impedisce piena libertà di movimento, compresi quei rapporti familiari che proprio per la loro costrizione vengono chiamati “vincoli” o “legami”“Chi vuol bene al padre o la madre più di me non è degno di me; chi vuol bene al figlio o la figlia più di me non è degno di me” (Mt 10,37). Gesù non viene a distruggere la famiglia, ma a liberarla da quei ricatti affettivi che impediscono ai suoi componenti di crescere, accedendo a quella pienezza di vita alla quale ogni individuo viene da Dio chiamato.