il ‘vangelo’, lo dice la parola, o è una buona notizia per i poveri o non è

l’annuncio

«Più che della sollecitudine dell’uomo per Dio, i profeti si occupano della sollecitudine che Dio nutre nei confronti dell’uomo»

(AJ Heschel)

«Non è possibile rimanere neutrali davanti alla situazione di povertà e alle giuste rivendicazioni che ne derivano da parte di coloro che ne soffrono: sarebbe prendere partito per l’ingiustizia e l’oppressione presenti tra di noi»
(G. Gutiérrez)

Gesù va ad annunziare ai poveri il lieto il messaggio(1). Cioè che Dio costruisce il Regno insieme a loro, che dona la sua salvezza attraverso di loro, che si identifica con loro e che capovolge i giudizi di sventura e di colpa formulati da quelli che se ne intendono.

Noi invece rinchiudiamo ermeticamente il Vangelo in aule universitarie, sale per le conferenze o nelle assemblee liturgiche. D’altronde c’è da difendere uno status quo, quindi l’ordine impartito è rassicurare non scuotere le coscienze.

Gesù va a proclamare ai prigionieri la liberazione. Cioè che Dio desidera l’uomo libero e che l’azione della sua grazia mira ad emanciparlo dai gioghi di ordine materiale o spirituale. Che Dio rimette in piedi chi cade e che non esiste abisso che Lui non conosce o che non frequenta.

Noi invece insegniamo prima a piegare il capo e poi a mantenerlo piegato. A disconoscere la nostra dignità di uomini per essere degli ineccepibili servitori del Sistema. In ginocchio davanti al vitello d’oro del benessere e non per chiedere a Dio il compimento delle sue promesse.

Gesù va a proclamare ai ciechi la vista. Cioè che Dio illumina e dissipa le nostre tenebre. Scioglie i nostri dubbi, guarisce le nostre ferite, consola le nostre malinconie. Che ci sostiene perché cammina con noi.

Noi invece insegniamo la legge e l’adempimento, le forme e i concetti. Costruiamo verità che risultano funzionali al nostro bisogno di affermazione ma non alla ricerca esistenziale e di senso.

Gesù va a proclamare agli oppressi la restituzione della libertà. Cioè che nel progetto di Dio la sopraffazione non trova spazio. Le relazioni corrono solo in orizzontale non in verticale. Che Dio non pensa a fortini con la sorveglianza armata ma a comunità solidali.

Noi insegniamo invece a convivere con l’oppressione spiritualizzandola in sacrificio gradito a Dio. Rinviamo indebitamente il senso di Giustizia di Dio all’aldilà. Pratichiamo conformismo allo stato puro.

Gesù va a predicare un anno di grazia del Signore,

noi un anno di interpretazioni giuridiche.

(1)Vangelo di Luca 4,18

pubblicato da ‘altranarrazione’

il populismo ha la sua motivazione nell’ambito di una sinistra che non fa la sinistra

Habermas

il populismo cresce perché la sinistra non lotta più contro le diseguaglianze

la riflessione del filosofo tedesco

occorre dare una forma socialmente accettabile alla globalizzazione economica

Il filosofo tedesco Jurgen Habermas

il filosofo tedesco Jurgen Habermas

globalist 16 marzo 2017

Parole che andrebbero ascoltate e sulle quali meditare: “Come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi?”. Un interrogativo posto dal filosofo tedesco Jurgen Habermas, in un’intervista a MicroMega: “Solo una marginalizzazione tematica potrebbe togliere l’acqua al mulino del populismo di destra”. “Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliano porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati”, ha affermato Habermas, secondo il quale “l’unica alternativa ragionevole” allo status quo del “capitalismo finanziario selvaggio” e al nazionalismo “è una cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica. L’Unione europea una volta mirava a questo, l’Unione politica europea potrebbe ancora esserlo”.

“I partiti che riservano attenzione al populismo di destra, piuttosto che disprezzarlo, non possono aspettarsi poi che sia la società civile a mettere al bando slogan e violenze di destra”, afferma. Nella sua analisi, si sofferma su quello che definisce “l’egomane Trump”, che “con la sua disastrosa campagna elettorale” ha portato alle estreme conseguenze “una polarizzazione che i repubblicani, a tavolino e in modo sempre più sfacciato, hanno alimentato fin dagli anni Novanta; lo ha fatto però in una forma tale da far sì che questo stesso movimento alla fine sfuggisse totalmente di mano al Grand Old Party, che è pur sempre il partito di Abraham Lincoln. Questa mobilitazione del risentimento ha espresso anche le tensioni sociali che attraversano una superpotenza politicamente ed economicamente in declino”.

un’altra foto che purtroppo è destinata ad indignarci ‘a rate’

Siria
la foto del bimbo nella valigia e l’indignazione a rate

BLOG di Shady Hamadi
Il bambino, mezzo addormentato, trasportato dal padre in una valigia, quasi fosse un abito, è la nuova immagine simbolo del conflitto in Siria. Uno scatto destinato a finire nel dimenticatoio nel giro di ventiquattro ore, facendo ripiombare il consueto silenzio sulla crisi siriana che è, probabilmente, la peggiore al livello umanitario dal secondo dopoguerra a oggi. Questa immagine, come molte altre che hanno fatto il giro del web, rappresenta la routine dell’indignazione a rate: viene pubblicata una foto anomale – come quella di Houda, la bambina che alza le braccia al cielo mentre il fotografo le sta per scattare una foto, pensando che la macchina fotografica sia una pistola o lo scatto del piccolo Aylan Kurdi, riverso deceduto in una spiaggia – milioni di persone la condividono, si scrivono articoli in cui si ricorda la tragedia del Paese mediorientale, si dibatte un po’ e finisce tutto – ancora una volta – nello sgabuzzino dei ricordi.
Il problema di questa indignazione a rate è serio perché si pensa di rispondere alla voce della propria coscienza, quella che ci dice di fare qualcosa, condividendo la foto o mettendo un like. Ma questa è una amara illusione che ci spinge a fuggire dalla responsabilità morale e dall’azione concreta. Quest’ultima significa appelli; raccolta firme e costruire un dialogo fra società civili. Proprio questo punto è forse il più importante: cosa vogliono i siriani? Cosa rappresenta per loro l’immagine di quel bambino? La risposta a questa ultima domanda può essere risolta in una parola: l’esilio, cioè la costrizione all’abbandono della propria casa o terra a causa di motivazioni politiche che portano alla violenza. Dovremmo essere indignati che nel 2018 ci siano ancora popoli costretti a diventare esuli. Allora, partendo da ciò, dobbiamo anche sapere che il bambino nella foto, se arriverà in Italia, non sarà parte di un invasione ma del nostro immobilismo

occorre una nuova politica della migrazione

politica della migrazione

una mancanza che pesa

di Donatella Di Cesare
in “Corriere della Sera” del 15 marzo 2018

Il voto in Italia è la conferma della crisi che da tempo affligge la sinistra europea. Così viene giudicato dai media e dall’opinione pubblica all’estero. Numerose sono le analisi che interpretano l’esito delle elezioni mettendo l’accento sul travaso dei voti dal Pd ai 5 Stelle (che segue peraltro quello degli ex Pci passati alla Lega). La questione riguarda anche Leu e in generale tutta l’area della sinistra. Le cause indicate sono molteplici. Per lo più prevale l’idea, senz’altro vera, ma troppo sbrigativa, che la sinistra abbia abbandonato «i propri territori», che non sia stata capace di dare voce a scontenti, disoccupati, disagiati. In breve: l’emancipazione si sarebbe arrestata. Ecco il motivo — si dice — della crisi, anzi dello spegnimento della sinistra. Sennonché lo scenario è ben più complesso. Lo dimostra il ruolo giocato dal tema della migrazione prima e durante la campagna elettorale. I toni accesi, gli episodi violenti — come dimenticare Macerata? — vanno ricondotti a tale contesto. Per le strade e nel web non si parlava d’altro. O quasi. Perciò nelle analisi politiche sarebbe un grave errore non riconoscere che la migrazione è stata un punto dirimente. Contro questa frontiera della democrazia ha urtato arenandosi una sinistra che non ha saputo intervenire per tempo. Una questione globale ha potuto così essere letta nei termini di un sovranismo provinciale. È mancata una narrazione alternativa in grado di delineare la complessità in modo semplice e non semplicistico, comprensibile a tutti. Nel migliore dei casi è stata fornita quella lettura economicistica dell’immigrazione che trasforma i cittadini-lavoratori in utili risorse umane: «lasciamoli entrare, perché ci servono».

Come se non fosse proprio questo il dispositivo del mercato neoliberista che, se da un canto attrae, dall’altro respinge i migranti che sono voluti, ma non benvenuti, richiesti come lavoratori, ma indesiderati come stranieri, vittime perciò di una duplice discriminazione, di «razza» e di «classe». Il problema, che ha investito, tutta la sinistra, non solo quella italiana, si può riassumere così: la giustizia sociale funziona unicamente all’interno dei confini nazionali? Occorre farsi carico solo del benessere economico degli autoctoni, salvaguardare e incrementare i diritti dei cittadini, in particolare — è ovvio — dei più poveri? Se è cosi, si accetta la frontiera fra cittadini e stranieri. Ma proprio questa frontiera è inaccettabile per la sinistra che finisce per tradire la sua provenienza e la sua vocazione: l’ideale della solidarietà. La giustizia sociale non può fermarsi ai confini nazionali.

Non è un caso che nel contesto tedesco dove, malgrado la crisi economico-finanziaria, il welfare ha tenuto, il tema della migrazione sia stato affrontato diversamente. Perché non si tratta di addossarsi la miseria del mondo, bensì di accettare una sfida epocale e inaggirabile. «Ce la faremo», sono le parole pronunciate nell’estate del 2015 da Angela Merkel che passerà alla storia per essere stata l’unico leader europeo ad aver richiamato i cittadini a una solidarietà responsabile. Ha fallito? Difficile dirlo. Tanto più che ha spiazzato il partito socialdemocratico. Ma certo ha avuto il coraggio di tentare. Purtroppo in Italia il tema della migrazione è stato affrontato in modo schizofrenico, da una parte consegnandolo alla pur decisiva carità etico-religiosa del volontariato, dall’altra facendone una questione di sicurezza e di ordine pubblico. È mancata e manca una politica della migrazione. Ed è grave che non sia stata sviluppata dalla sinistra con categorie nuove, che non riducano la politica a governance, a mera amministrazione. Proprio il tema della migrazione prova la necessità di una cultura politica in grado di sollevare lo sguardo di chi è ripiegato su di sé e rischia di non vedere quello che avviene oltreconfine

auguri ad Hans Küng per i suoi 90 anni

Laici e credenti festeggiano i 90 anni di Hans Küng, gigante della teologia post conciliare

laici e credenti festeggiano i 90 anni di Hans Küng, gigante della teologia post conciliare

 
 da: Adista Notizie n° 10 del 17/03/2018

 Compie 90 anni, il 19 marzo, uno dei più grandi teologi del Novecento, certamente colui che ha suscitato il più intenso (e fecondo) dibattito nella Chiesa dal post-Concilio: si tratta di Hans Küng (nato a Sursee, in Svizzera, il 19 marzo 1928), prete, teologo, docente universitario costretto, sin dal dicembre 1979, a lasciare l’insegnamento alla Facoltà teologica di Tubinga per le sue tesi contro l’infallibilità papale.

La revoca della missio canonica, l’autorizzazione cioè ad insegnare negli atenei cattolici, fu uno dei primi atti del pontificato di Giovanni Paolo II. Certo, non si piò ascrivere a Wojtyla tutta la responsabilità di quella sanzione. Il processo canonico contro Küng era iniziato infatti sin dalla fase successiva alla pubblicazione (1970) del suo libro Infallibile? Una domanda, avvenuta sotto il pontificato di Paolo VI. Ma il fatto che l’atto finale sia stato firmato ed avallato da Giovanni Paolo II rendeva ad alcuni già all’epoca chiaro quale sarebbe stato il tratto distintivo degli anni a venire, ossia la restaurazione vaticanocentrica di ogni aspetto teologico e l’accentramento nel governo della Chiesa che, sotto i pontificati di Wojtyla prima e di Ratzinger poi, si sarebbero pienamente realizzati.

Ed è altrettanto sintomatico che tra le prime vittime di questo processo involutivo del Concilio fosse proprio Küng, che alla temperie culturale ed ecclesiale seguita alla svolta del Vaticano II aveva così intensamente partecipato e che era considerato tra i teologi di punta di quella stagione di rinnovamento.

Dopo gli studi liceali compiuti a Lucerna, Küng si era recato a Roma, per studiare filosofia e teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Ordinato prete nel 1954, aveva poi proseguito gli studi a Parigi, conseguendo il Dottorato in teologia presso l’Institut Catholique con una tesi sulla dottrina della giustificazione del teologo riformato Karl Barth. Poi, a soli 32 anni, nel 1960, venne nominato professore ordinario presso la Facoltà di Teologia cattolica all’Università di Tubinga in Germania, dove fonderà successivamente anche l’Istituto per la ricerca ecumenica. Arrivò quindi, nel 1962, il momento dell’apertura del Concilio cui Küng, giovanissimo, prese parte direttamente, nelle file degli esperti nominati da papa Giovanni XXIII. Tornato a Tubinga, invitò l’università ad assumere Joseph Ratzinger, che aveva conosciuto alla fine degli anni ’50 e ritrovato a Roma durante i lavori dell’ultima sessione del Concilio. Küng voleva che i suoi studenti ascoltassero le lezioni di un professore colto e di tendenza conciliare, seppure distante da lui su diverse questioni. Come spiegò a Gianni Valente (30giorni, maggio 2005) un altro teologo, professore a Tubinga di Teologia fondamentale, Max Seckler, «Küng sapeva che lui e Ratzinger su molte cose la pensavano diversamente, ma diceva: coi migliori si può trattare e collaborare, sono i meschini che creano problemi». Ratzinger, che era professore di teologia dogmatica a Münster, venne così assunto a Tubinga; la cooperazione tra lui e Küng terminò però bruscamente nel 1969; Ratzinger lasciò infatti la prestigiosa facoltà teologica del Baden-Württemberg, scossa dai movimenti studenteschi, per il più tranquillo ateneo di Ratisbona.

Nel secondo volume delle sue memorie Umstrittene Wahrheit. Erinnerungen (“Verità controverse. Ricordi”), che parte dal 1968, è contenuto un autentico atto d’accusa contro il futuro papa Benedetto XVI: «Ratzinger era professore di teologia con me – scrive Küng – ma poi si rivelò figlio di un gendarme, quale era. Si piegò alla Curia, mi denunciò come “non cattolico” e mi fece condannare. E lo fecefacendo il doppio gioco: mi scriveva lettere di riconciliazione e intanto preparava le sanzioni contro di me».

Dopo la revoca della missio canonica (continuerà comunque ad essere prete cattolico, mantenendo anche una cattedra presso il suo Istituto, separato però dalla facoltà teologica cattolica), Küng divenne tra i più lucidi e coerenti critici del pontificato di Giovanni Paolo II e del ruolo svolto, sotto quel papato, dal suo ex collega Ratzinger, che dal 1981 era frattanto diventato prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Proprio dal dicastero che aveva rimosso Küng dall’insegnamento partirono le condanne, le censure, le rimozioni che colpirono la parte più matura e avanzata del mondo teologico e dell’episcopato progressista cattolico.

Clima di sospetto. E i teologi tacciono

Dopo la morte di Wojtyla, Küng scrisse un articolo, pubblicato in Germania ed in Italia (Corriere della Sera, 2/1/2006) in cui evidenziava le tante, enormi contraddizioni del pontificato che si era appena concluso: «Come Pio XII fece perseguitare i più importanti teologi del suo tempo, allo stesso modo si comportano Giovanni Paolo II e il suo Grande Inquisitore Ratzinger con Schillebeeckx, Balasuriya, Boff, Bulányi, Curran, Fox, Drewermann e anche il vescovo di Evreux Gaillot e l’arcivescovo di Seattle Hunthausen. Nella vita pubblica mancano oggi intellettuali e teologi cattolici della levatura della generazione del Concilio. Questo è il risultato di un clima di sospetto, che circonda i pensatori critici di questo pontificato. I vescovi si sentono governatori romani invece che servitori del popolo della Chiesa. E troppi teologi scrivono in modo conformista oppure tacciono». «Quando verrà il momento – proseguiva l’articolo – il nuovo papa dovrà decidere di affrontare un cambio di rotta e dare alla Chiesa il coraggio di nuove spaccature, recuperando lo spirito di Giovanni XXIII e l’impulso riformistico del Concilio Vaticano II».

Cena per due

E chissà che Küng non abbia pensato che quel pontefice, nonostante tutto, potesse essere proprio il teologo suo ex collega a Tubinga, divenuto papa col nome di Benedetto XVI, quel Ratzinger che il Concilio lo aveva inizialmente abbracciato per poi cambiare decisamente rotta. Molti ipotizzarono questa possibile svolta nel rapporto tra i due il giorno che (24 settembre 2006) Küng accettò l’invito a cena di Benedetto XVI nella residenza estiva di Castel Gandolfo, conversando con lui per oltre due ore. In quella occasione, presentò al papa i risultati della sua ricerca degli ultimi anni, quella su un’etica mondiale

“non è l’uomo che è stato fatto per il ‘sabato’ ma il ‘sabato’ per l’uomo”

servire il vangelo o le strutture?

Nel Vangelo troviamo l’indirizzo di Dio. Possiamo sapere dove abita, che lavoro fa e cosa fare per aiutarlo. Dobbiamo però “rivedere” l’idea di Dio socialmente accettata e rinunciare alla recita del personaggio che ci siamo costruiti.  Dobbiamo accogliere un Dio che non viene per realizzare le nostre smanie ma il suo Regno che prevede opzioni precise e non negoziabili: la misericordia per le nostre miserie e la compassione per gli ultimi. Dobbiamo depositare le maschere e calarci con Lui nell’abisso scavato dal male.
Il Vangelo apre strade, percorsi per andare incontro a chi si è fermato; le strutture aprono sedi per ricevere quelli che si muovono. Il Vangelo non ha orari, agende, programmi; le strutture selezionano gli ingressi, accettano o respingono. Il Vangelo rende fratelli e sorelle; le strutture utenti. Il Vangelo risveglia e alimenta carismi; le strutture assegnano ruoli. Il Vangelo costruisce comunità; le strutture organizzano uffici.

È impossibile evangelizzare le strutture, visto che il Vangelo si arresta nel punto esatto in cui inizia la struttura. Fuori il Vangelo dentro lo statuto e le regole fatte a misura d’uomo. D’altronde il Vangelo è rinuncia o perdita di ogni status symbol, è abbassamento e non prevede l’esaltazione di se stessi utilizzando Dio. Le strutture costituiscono a tutt’oggi un’insuperabile pietra d’inciampo per molti. Occorre recuperare l’immediatezza dell’esperienza di fede, come relazione con Colui che non si stanca di attenderci sulle vie dell’Amore.

pubblicato da ‘altranarrazione’

“gli ultimi, gli scartati, devono essere i primi … ” così per papa Francesco

gli scartati

la denuncia di papa Francesco

«nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze»

(, Evangelii Gaudium, 201)

 

 La reificazione (vedi Marx e G. Lukacs) è una delle conseguenze più inquietanti del modo di produzione capitalistico. Non solo si determina lo spostamento di valore dalle persone alle cose ma i singoli stessi si valutano secondo parametri di utilità funzionale o produttiva.  Chi è in esubero secondo le esigenze del capitale, chi non può produrre o semplicemente non raggiunge risultati quantificabili in termini economici non serve e quindi può essere scartato. Questa visione antropologica, ad altissima capacità di propagazione, riduce e uccide. Fa leva sugli istinti peggiori quelli cioè che sembrano realizzare l’uomo ed invece lo deformano. Riuscire a far parte di un sistema lasciando morti e feriti dietro il proprio passaggio appaga solo il delirio di onnipotenza ed innesca un inarrestabile processo di svuotamento dei contenuti essenziali.

testo di papa Francesco:

…è inaccettabile, perché disumano, un sistema economico mondiale che scarta uomini, donne e bambini, per il fatto che questi sembrano non essere più utili secondo i criteri di redditività delle aziende o di altre organizzazioni. Proprio questo scarto delle persone costituisce il regresso e la disumanizzazione di qualsiasi sistema politico ed economico: coloro che causano o permettono lo scarto degli altri – rifugiati, bambini abusati o schiavizzati, poveri che muoiono per la strada quando fa freddo – diventano essi stessi come macchine senza anima, accettando implicitamente il principio che anche loro, prima o poi, verranno scartati – è un boomerang questo! Ma è la verità: prima o poi loro verranno scartati – quando non saranno più utili ad una società che ha messo al centro il dio denaro”.
(dal Discorso di Papa Francesco alla Delegazione della “Global Foundation“, 14/01/2017)

 da ‘altranarrazione

i primi cinque anni di papa Francesco

i cinque anni del papa che ha capovolto la chiesa

di Alberto Melloni
in “la Repubblica” del 12 marzo 2018

“chi vuole può sentire la commovente dolcezza del vangelo come vangelo, che alla chiesa pellegrina nella storia dà rimprovero e consolazione, fortezza e grazia”

Lo so. L’egocentrismo cattolico che non scolora la papolatria istintiva in Italia, lo iato morale che da decenni separa i pontefici da molti leader politici — tutto potrebbe far pensare che quello che si dice di Francesco da cinque anni lo si sarebbe detto di chiunque altro fosse stato eletto il 13 marzo 2013. Ma non è vero. Perché Francesco ha un baricentro peculiare, nudo, secco, perfino unilaterale: quello di un papato “kerygmatico”. Il “kèrygma” (annuncio), nel Nuovo Testamento è il nucleo del vangelo di Gesù. Non cancella la catechesi, la dottrina, le norme: queste Francesco le lascia ad altri, se sono capaci. Lui tiene per sé l’annuncio che smaschera l’idolo del potere, così da non sciupare quel che “Dio ha scelto”. Così quando tacciono i denigratori e quelli che lui chiama i “pappagalli bergogliani” (che cinguettano di “periferie”, di “chiesa in uscita” o di “migranti” sperandone una carriera), chi vuole può sentire la commovente dolcezza del vangelo come vangelo, che alla chiesa pellegrina nella storia dà rimprovero e consolazione, fortezza e grazia. Se nel marzo 2013 la maggioranza che Ratzinger sperava eleggesse il cardinale Scola fosse stata solida o sincera, in questi giorni festeggeremmo l’anno quinto di Paolo VII (dicono avrebbe scelto questo nome). Fine teologo, il “papa ciellino”, avrebbe scritto dotte encicliche. La causa di beatificazione di Giussani sarebbe avanzata. Renzi non avrebbe toccato Lupi. Parolin sarebbe nunzio in Venezuela e Bassetti vescovo emerito di Perugia, entrambi senza porpora. Chi campa lodando qualunque Papa, lo loderebbe; i critici sarebbero bastonati senza pietà. Unico dato comune: un fiume d’inchiostro avrebbe seguito i suoi atti sui beni mobiliari e immobiliari della chiesa, sulla riforma della curia e sui pedofili preti. Perché il disordine sistemico che aveva scosso la chiesa e Benedetto XVI aveva portato il Conclave a ritenere (sbagliando) che esso dipendesse solo dagli italiani e solo da queste tre piaghe purulente. Di quelle piaghe, in effetti, anche Francesco si è dunque dovuto occupare: e chi ne monitora i passi falsi credendo di smascherarne le debolezze, non ha capito che Francesco onora il capitolato conclavario col disincanto dell’uomo privo di ansie da prestazione religiosa. Il denaro, ad esempio, non è riformabile. Dopo Porta Pia fu pensato come un surrogato del potere temporale a difesa della chiesa: ma non si tenne conto (dice il cardinale Silvestrini) che quando appaiono i soldi i preti buoni sono spesso così buoni che si fidano dei delinquenti, e i preti delinquenti si fidano sempre dei delinquenti perché sono come loro. Dunque Francesco ha agito sullo Ior con troppe commissioni e troppe nomine: sapendo che però si può ottenere solo lo stesso grado di moralità che c’è nel mondo finanziario. Dicono non sia alto. Qualcosa di simile vale per la curia: la riforma in cantiere da un lustro riguarda i mansionari e lascerà alla bolla di promulgazione la sostanza teologica.

Ma Francesco sa che la curia si riforma non se il Papa si agita: ma se l’episcopato, senza coniglismi, entra nella logica di sinodalità che si apprende facendola. Quanto poi ai pedofili preti, coperti da vescovi eretici (ché se un vescovo segue la “ragion di chiesa” contro le vittime è posseduto da un demone anticristiano) Francesco sa che le grida sulla “tolleranza zero” non bastano e prima o poi permetteranno killeraggi mirati. Per cui, fatto tutto quello che è necessario sul piano giuridico, bisogna interrogarsi sulla elezione dei vescovi e sulla formazione dei preti: cioè guardare negli occhi la questione del ministero, che Francesco non ha voluto ancora affrontare. Questa attitudine non a tutti basta. Ma se uno guarda ai siti del fondamentalismo cattolico, troverà accuse febbricitanti, giochi di specchi social per far pensare che i nemici di Francesco siano tanti e pronti a deporlo. In realtà i nemici del Papa vorrebbero sembrare la metà della chiesa, ma sono pochi: una rumorosa armata in cerca di un cardinal Brancaleone, che li conduca al Conclave della rivincita che sperano vicino. Francesco, non senza crudeltà di un gesuita, glielo fa credere vicino da tempo, dicendo che si aspetta un papato corto, cinque anni. Adesso al quinto anno ci siamo: il Papa sta bene e la buona salute di Ratzinger impedisce ogni pensiero di rinunzia. Il magistero fragile del papa “kerygmatico” continua. Papa Bergoglio, sia chiaro, non ha un angelicato disinteresse per il domani: non dà posti cardinalizi ad alcuni perché quando il suo pontificato finirà — lo decida solo Dio o lo decidano insieme si vedrà — non li vuole al Conclave. Con la rarefazione dei cardinali italiani favorisce il primo papato italiano del secolo XXI, che prima o poi verrà. Ma non ha nessuna intenzione di manovrare e non fa neppure norme per proteggere quel che ha fatto o predicato. Se quel che fa viene da Dio, pensa, durerà. E il “kerygma” è da Dio. Se quel che ha fatto è fatto “in pace”, durerà: e l’uomo risolto in un mondo di maschi irrisolti, è in pace. Ma “ha fatto anche errori!”, dice la gauche caviar della teologia. Effettivamente se avesse fatto votare Amoris laetitia al sinodo avrebbe dato voce ad un organo fin qui muto e si sarebbe liberato delle polemiche bigotte di chi ignora la grande tradizione della chiesa. Se avesse voluto usare fino in fondo le sue prerogative di primate d’Italia avrebbe potuto impuntarsi perché i contenuti del suo potente discorso alla chiesa italiana a Firenze nel 2015 venissero almeno presi sul serio, se non proprio obbediti. Ma Francesco non ambisce all’Oscar come migliore attore protagonista del film della chiesa cattolica. Sa che il premio della fede è la fede. Crede che i processi di riforma riguardano le sfere della conversione che solo uno stupido politicismo penserebbe di poter misurare. E dunque fa “quel che crede” in senso stretto. Senza illusioni, senza posa, senza attivismi. Il papato kerygmatico varca la soglia dell’anno quinto e “la sua vita perentoria” insegna solo a chi sa ascoltare.

i primi cinque anni di papa Francesco e la sua opzione per i più poveri

papa Francesco

5 anni con gli ultimi nel cuore

l’anno che si apre avrà i giovani in primo piano e ‘sogno’ Cina

 Dal “Buonasera” del 13 marzo 2013 ai pianti con le vittime della pedofilia, dai viaggi nelle periferie del pianeta agli appelli per affrontare “la sfida epocale” dei migranti, dall’accelerazione nel cammino ecumenico e interreligioso al ‘sogno’ di vedere una chiesa unita in Cina. Papa Francesco chiuderà martedì 13 marzo il suo quinto anno di pontificato. Ora si apre un periodo ancora ricco di sfide: in primo piano i giovani, ai quali il pontefice ha voluto dedicare il prossimo Sinodo dei vescovi, e la famiglia, con l’incontro mondiale in Irlanda che dovrebbe suggellare le indicazioni della Amoris Laetitia, nella quale il pontefice chiede alla Chiesa di avere uno sguardo di misericordia sull’uomo. Resta forte l’impegno sulle riforme. Sul fronte della politica internazionale, è sempre fitto quel lavoro del pontefice nel tessere relazioni, nel costruire ponti. E’ la pace la priorità da raggiungere, in un mondo frantumato in cui sono gli ultimi, “gli scartati”, a vivere la situazione peggiore

papa Francesco contro la paura dello straniero

migranti

l’appello del papa

“no alla paura dello straniero”

il papa contro “chi alza nuovi muri”

“i cristiani sono fratelli di ogni uomo, serve una globalizzazione della solidarietà”

 papa Francesco torna a parlare di immigrazione e a chiedere accoglienza:
Le paure si concentrano spesso su chi è straniero, diverso da noi, povero, come se fosse un nemico“,
dice Bergoglio parlando nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, in occasione dei 50 anni della Comunità di Sant’Egidio

“Il mondo oggi è spesso abitato dalla paura”, aggiunge il Pontefice, “E anche dalla rabbia che è una sorella della paura. È una malattia antica. Il nostro tempo conosce grandi paure di fronte alle vaste dimensioni della globalizzazione. E allora ci si difende da queste persone, credendo di preservare quello che abbiamo o quello che siamo. L’atmosfera di paura può contagiare anche i cristiani che, come quel servo della parabola, nascondono il dono ricevuto. Se siamo soli, siamo presi facilmente dalla paura“.

Per questo Papa Francesco chiede di ripensare la globalizzazione: “Il mondo è diventato globale, l’economia e le comunicazioni si sono unificate. Ma per tanta gente, specialmente per i poveri, si sono alzati nuovi muri”, sottolinea il Capo della Chiesa,

Le diversità sono occasione di ostilità e di conflitto. È ancora da costruire una globalizzazione della solidarietà e dello spirito. Il futuro del mondo globale è vivere insieme: questo ideale richiede l’impegno di costruire ponti, di tenere aperto il dialogo, di continuare a incontrarsi. Il cristiano, per sua vocazione, è fratello di ogni uomo, specie se povero e anche se è nemico. La Chiesa è segno di unità del genere umano, tra i popoli, le famiglie, le culture. Dobbiamo creare una società in cui nessuno sia più straniero: è la missione di valicare i confini e i muri, per riunire“.

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