le periferie con il loro ‘esercito di fantasmi’ sono lo specchio del paese

la morte di freddo dei clochard 

una spina nel fianco della società opulenta

intervento di Bassetti sulla presenza di clochard … tra bulimici desideri di benessere e incessante avidità di possesso 

«In Italia e in Europa si muore di freddo. Sono una decina le persone morte nel continente per il freddo, e almeno due i senzatetto che hanno perso la vita, a Milano e a Ferrara, per il gelo che ha colpito il paese e non ha lasciato loro scampo».

“È moralmente accettabile vedere una persona finire ai margini della società dopo un fallimento, condurre una vita di stenti in solitudine e poi morire di freddo nell’abbandono? No, non è accettabile».

Lo scrive il cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, nel suo ultimo articolo dal titolo “Spina nel fianco”  curato per la rubrica “Dialoghi” de Il Settimanale de «L’Osservatore Romano», consultabile sul sito: www.osservatoreromano.va.

Il richiamo a quanti «hanno responsabilità pubbliche» nei confronti di «questo esercito di fantasmi».

«La morte di un povero – evidenzia il cardinale – di solito non fa notizia. Soprattutto a ridosso delle elezioni politiche. Eppure lo spaccato sociale che emerge da questa realtà di emarginazione e disperazione non può non fare sorgere qualche interrogativo in ogni persona di buona volontà e in particolare in coloro che hanno responsabilità pubbliche. I derelitti, gli abbandonati delle nostre periferie, infatti, rappresentano un angolo visuale originale per guardare il mondo in cui viviamo. Sono una sorta di spina nel fianco della società opulenta, tra i bulimici desideri di benessere e l’incessante avidità di possesso. Possiamo far finta che non esistono, ma quei poveri sono sempre lì, davanti ai nostri occhi. Nelle stazioni ferroviarie, sotto le scalinate dei centri storici, sotto i portici delle nostre chiese. Ovunque ci sia un riparo. Queste persone rappresentano un piccolo popolo — circa cinquantamila secondo l’Istat, ma probabilmente sono di più — che vive ai margini della società in condizioni di degrado assoluto. Persone che sopravvivono come scarti umani tra i rifiuti urbani delle nostre città. Senza dubbio sono simboli viventi delle contraddizioni di una società che si considera matura, forte e ricca, ma che è popolata da questo esercito di fantasmi. Fantasmi non per tutti, però. Di queste persone si prendono infatti cura istituzioni locali e associazioni di volontariato d’ispirazione cristiana. Dietro si celano soprattutto storie ed esperienze di vita. Al presente di disperazione, spesso caratterizzato da alcolismo, malattie e solitudine si antepone in genere un passato caratterizzato da fallimenti lavorativi e familiari. Ogni volta che infatti riusciamo ad aprire uno squarcio nella vita di queste persone, veniamo a conoscenza di ferite profondissime che si sono portate dietro per anni e che gravano su di loro».

L’umanità ferita: un’intuizione e un insegnamento di papa Francesco nei primi cinque anni di pontificato.

«Ci troviamo di fronte, dunque, a quell’umanità ferita a cui ha fatto riferimento il Papa sin dall’inizio del suo magistero – sottolinea il porporato –. Un’intuizione e un insegnamento che assumono un significato esemplare proprio in questi giorni in cui si celebrano i cinque anni di pontificato. Nella omelia per la messa d’inizio del servizio papale, nella solennità di san Giuseppe, Francesco parlò di una “vocazione del custodire” che “non riguarda solamente noi cristiani” ma che è “semplicemente umana, riguarda tutti”, per “custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera”».

La vocazione del custodire è una missione sociale e culturale.

«Oggi più che mai – sostiene Bassetti – queste parole s’incarnano nella vita quotidiana. La vocazione del custodire, infatti, non è solo un ideale di vita a cui tendere, ma è soprattutto un’esperienza da vivere concretamente e che può tradursi perfino in una missione sociale e culturale. Prendersi cura delle periferie delle nostre città, troppo spesso caratterizzate da un’anarchia sociale preoccupante, deve diventare un imperativo morale, prima che politico: uno slancio in cui combinare la difesa del creato, la cura delle città e l’impegno concreto verso i poveri».

Fornire una risposta concreta ai problemi da cui potrà nascere la classe dirigente del futuro.

«Solo fornendo una risposta concreta a questi problemi irrisolti – conclude il presidente della Cei – potrà nascere la classe dirigente del futuro. Le periferie sono lo specchio del paese e misurano il suo stato di salute. Proprio per questo i senzatetto uccisi dal freddo non devono lasciarci indifferenti. Non è solo un fatto di cronaca ma una realtà che parla all’Italia intera, interroga profondamente e chiama a un’assunzione di responsabilità comunitaria. È moralmente accettabile vedere una persona finire ai margini della società dopo un fallimento, condurre una vita di stenti in solitudine e poi morire di freddo nell’abbandono? No, non è accettabile».

contro i nostalgici del passato delle ‘radici cristiane’ e dei ‘treni in orario’

 radici cristiane?
“radici marce”
La riflessione del biblista Alberto Maggi si rivolge a chi “rivendica le radici cristiane della nostra civiltà guardando a un passato più ideale che reale, a una società dove l’ordine era garantito dall’obbedienza e dalla sottomissione”. Ma “se queste sono le radici, c’è solo da vergognarsene, e occorre estirparle”.

Anche perché “il disegno del Signore non è quello di una società tutta cristiana, utopia irrealizzabile e neanche auspicabile…”. E ancora: “Gesù non invita i suoi a occupare o sostituirsi alle strutture sulle quali si regge la società, ma di infiltrarsi, come il sale e come il lievito, per dare sapore, per dilatarle, per renderle sempre più umane e attente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini”
 
Molti di quelli che rivendicano le radici cristiane della nostra civiltà guardando a un passato più ideale che reale, a una società cristiana dove l’ordine era garantito dall’obbedienza e dalla sottomissione, della moglie e dei figli al capofamiglia, dei sudditi ai governanti e dei fedeli alle autorità religiose, in una gerarchia di valori indiscussa, da tutti accettata o subita.
 
Costoro sono i nostalgici di un passato, quando le chiese erano piene di cattolici che assistevano alla messa domenicale perché precettati (l’unica alternativa possibile era commettere peccato mortale e finire all’inferno per tutta l’eternità). Alcuni rimpiangono la famiglia cattolica, quando l’educazione religiosa alle spose le invitava ad accettare con cristiana rassegnazione anche i maltrattamenti da parte del coniuge (ancora negli anni ’60 era in voga un manuale della sposa cattolica, dove tra i doveri delle mogli si elencava quello di obbedire al marito come a un superiore, tacendo quando lo si vedeva alterato, ed essere sottomessa alla suocera).
 
Altri vorrebbero ritornasse quel tempo in cui i treni viaggiavano in orario, non c’era la delinquenza, e si poteva lasciare la chiave sulla porta di casa, in un ordine sociale garantito dall’obbedienza all’indiscusso capo, un uomo sempre inviato dalla Provvidenza, in risposta al bisogno atavico degli uomini di barattare la propria libertà con la sicurezza che offre la sottomissione acritica al potente di turno.
 
Le radici di questa società saranno state anche cristiane, ma i frutti evidentemente no, e in questo clima di soggezione a ogni forma di potere, la libertà era vista come uno spauracchio, una minaccia all’ordine costituito dai potenti e sempre sostenuto e benedetto dalla Chiesa. Obbedienza, sottomissione sono vocaboli assenti nel linguaggio di Gesù, il quale invece di rifarsi al passato, alle radici, invita a osservare i frutti (“dai loro frutti li riconoscerete”, Mt 7,20). Per Gesù “ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi” (Mt 7,17). L’albero che non produce frutti buoni è immagine di quanti non hanno cambiato vita a contatto con il suo messaggio; oppure hanno simulato tale cambiamento e continuano ad essere complici dell’ingiustizia della società.Più che di radici bisognerebbe parlare di catene. Questa civiltà, tanto cristiana e tanto cattolica, all’insegna dell’ordine e dell’obbedienza, ha da sempre temuto la libertà, vista più come una minaccia che come un dono del Signore (Gv 8,32-36): “Cristo ci ha liberati per la libertà!” (Gal 5,1). E la Chiesa, anziché promuovere la dignità umana e il diritto alla libertà, cercò, finché le fu possibile, di sopprimerli, basta pensare a Gregorio XVI, il papa che nell’Enciclica Mirari vos, nel 1832, arrivò a parlare di quella “perversa opinione…errore velenosissimo” [pestilentissimo errori] o piuttosto delirio, che debbasi ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza” (Denz. 2730).
 
C’è da chiedersi quale frutto perverso queste radici cristiane possano aver generato, se papi come Niccolò V, nella bolla Dum Diversas (1452), ribadita poi con la bolla Romanus Pontifex nel 1454, arrivò ad autorizzare i regnanti cattolici a “invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in schiavitù i loro abitanti”. Forte della sua autorità il papa, a difesa delle sue parole, conclude la bolla con questa minaccia: “Se qualcuno oserà attaccarla, sappia di stare per incorrere nello sdegno di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo”. Queste aberranti e disumane dichiarazioni furono purtroppo confermate e convalidate dai pontefici successivi, sempre in nome di Cristo, naturalmente.
 
Se queste sono le radici c’è solo da vergognarsene, e occorre estirparle, liberando il terreno sassoso dalle pietre che non hanno permesso il loro sviluppo e dai rovi che le hanno soffocate e tornare a seminare a loro posto la buona notizia di Gesù (Mt 13,3-23), il cui progetto non è volto a conservare il mondo così com’è, ma a cambiarlo (“Convertitevi!”, Mt 4,17). Il disegno del Signore non è quello di una società tutta cristiana, utopia irrealizzabile e neanche auspicabile (il disastro di ogni teocrazia è evidente), ma Gesù chiede ai suoi seguitori di influire positivamente nel mondo, e per questo usa immagini come il sale e il lievito (Mt 5,13; 13,33), elementi che anche in minima quantità possono influire nella massa liberando tutte le loro potenzialità. Gesù non invita i suoi a occupare o sostituirsi alle strutture sulle quali si regge la società, ma di infiltrarsi, come il sale e come il lievito, per dare sapore, per dilatarle, per renderle sempre più umane e attente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini. Per questo la fedeltà al Cristo non può essere rivendicata a parole (“Non chiunque mi dice: “Signore, Signore…”, Mt 7,21), ma solo nei fatti (“Colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”, Mt 7,21). Non sono gli attestati di ortodossia la garanzia di vita cristiana, ma un comportamento il cui unico distintivo è l’amore; non basta rivendicare la sacralità del vangelo, ma è necessario che il credente diventi la buona notizia per ogni persona che si incontra. I cristiani non si riconoscono per i distintivi religiosi ostentati (“Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange”, Mt 23,5), ma per l’umanità che li rende attenti, sensibili e solleciti ai bisogni e necessità degli emarginati e di tutti gli esclusi della società: “Ero straniero e mi avete accolto… ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35).

le ferite che provoca il sistema economico che ha al centro il dio denaro

“l’economia che produce ferite”

le parole nette di papa Francesco

Capitalismo finanziario

Strutture di peccato

 

 La disuguaglianza sociale nel capitalismo finanziario non è un elemento accidentale o temporaneo ma strutturale. Dovendo garantire un extra-benessere a pochi non può tollerare forme di redistribuzione della c.d. ricchezza. È un sistema economico incompatibile con la democrazia: ne impedisce le dinamiche basilari. Dove c’è il capitalismo, al di là delle denominazioni, vige di fatto l’oligarchia. L’1% è in grado di soggiogare il 99% attraverso un uso smaliziato della forza e l’aiuto fondamentale degli intermedi: di coloro cioè che non appartengono all’1% ma sono pronti a tutto pur di raccogliere le briciole che cadono da quel tavolo. Allora li vedi sostenere le tesi della tecnocrazia europea, della finanza e dei globalizzatori dello sfruttamento. Li vedi tristemente al servizio dell’iniquità, attori non protagonisti di una squallida commedia. Il 99% può indignarsi, ne ha facoltà, ma con calma: nei luoghi, nei modi e nei tempi concessi dal potere. L’importante è che dopo lo sfogo  ritorni velocemente alla catena di montaggio.

testo di Papa Francesco

Le ferite che provoca il sistema economico che ha al centro il dio denaro, e che a volte agisce con la brutalità dei ladri della parabola [del samaritano], sono state criminalmente ignorate. Nella società globalizzata, esiste uno stile elegante di guardare dall’altro lato, che si pratica ricorrentemente: sotto le spoglie del politicamente corretto o le mode ideologiche, si guarda chi soffre senza toccarlo, lo si trasmette in diretta, addirittura si adotta un discorso in apparenza tollerante e pieno di eufemismi, ma non si fa nulla di sistematico per curare le ferite sociali e neppure per affrontare le strutture che lasciano tanti esseri umani per strada. Questo atteggiamento ipocrita, tanto diverso da quello del samaritano, manifesta l’assenza di una vera conversione e di un vero impegno con l’umanità. Si tratta di una truffa morale, che, prima o poi, viene alla luce, come un miraggio che si dilegua. I feriti stanno lì, sono una realtà. La disoccupazione è reale, la corruzione è reale, la crisi d’identità è reale, lo svuotamento delle democrazie è reale. La cancrena di un sistema non si può mascherare in eterno, perché prima o poi il fetore si sente e, quando non si può più negare, nasce dal potere stesso che ha generato quello stato di cose la manipolazione della paura, dell’insicurezza, della protesta, persino della giusta indignazione della gente, che trasferisce la responsabilità di tutti i mali a un “non prossimo”.

(Papa Francesco, Messaggio in occasione dell’incontro dei movimenti popolari a Modesto, California, 16-19 febbraio 2017)

pubblicato da ‘altranarrazione’ 

il valore ‘teologale’ della compassione

la compassione come luogo teologico

 Nella sofferenza dell’altro abita Dio e lì si può frequentare e conoscere. Questa è una delle perle evangeliche(1) che porta a disfarsi di tutti gli inganni del mondo: in primis potere e ricchezze varie. Nella compassione si diffonde il regno di Dio. E dalla compassione si possono riconoscere i suoi testimoni e collaboratori. Infatti chi ha costruito il dio che benedice il successo sociale degli uomini rifugge da questo mistero. Non lo comprende ma soprattutto non lo sopporta. Chi offre incenso con mani che grondano sangue deve rimuovere o giudicare la sofferenza altrui per continuare a non soccorrere l’oppresso, a non rendere giustizia all’orfano, a non difendere la causa della vedova(2). L’uso smodato degli schemi razionali porta a considerare il peccato in termini di violazione e non di ferita che produce e ad identificare tragicamente il peccatore con peccato. La ragione dell’uomo conduce alla inevitabile punizione compensatoria del peccatore, la compassione di Dio a curare il peccatore e a combattere il peccato che umilia chi lo compie. La logica retributiva aggiunge il castigo al dolore e spinge alla disperazione, l’Amore gratuito di Dio rimette in piedi, meraviglia e sposta più in là l’orizzonte dell’uomo. La compassione non è una virtù acquisibile con l’esercizio ma un dono di Dio che solo l’anima può riconoscere. Segno profetico di contraddizione in una società fondata sull’egoismo e sull’indifferenza. Strutturalmente malata, irriformabile, da sovvertire con un radicale cambio di paradigma: il Vangelo al posto del capitale.

(1) Vangelo di Matteo 13, 45-46

(2) Isaia 1,17

testo di Isacco di Ninive:

“Segno luminoso della bellezza della tua anima sarà questo: che tu, esaminando te stesso, ti trovi pieno di misericordia per tutti gli uomini, il tuo cuore è afflitto per la compassione che provi per loro, e brucia come nel fuoco, senza fare distinzione di persone. Attraverso ciò, l’immagine del Padre che è nei cieli si rivelerà in te continuamente”.

Isacco di Ninive, in Sabino Chialà, Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita, Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna, Leo S. Olschki, Firenze, p. 259

pubblicato da ‘altranarrazione’

“a immagine di Dio li creò”

ad immagine di Dio

«E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra a nostra immagine, a nostra somiglianza»

Genesi 1,26

Non siamo fatti ad immagine del denaro che infatti non può fare nulla per la nostra miseria morale, la precarietà esistenziale e l’irrinunciabile ricerca di senso.
Non siamo fatti ad immagine della competizione che infatti ci deforma rendendoci estranei a noi stessi ed oppressori degli altri.
Non siamo fatti ad immagine del lavoro che infatti è uno strumento e non un fine.

Non siamo fatti ad immagine del potere che infatti ci manipola convincendoci a servire interessi iniqui.
Non siamo fatti ad immagine del possesso che infatti ci rende sospettosi.
Non siamo fatti ad immagine dell’ipocrisia che infatti ci lascia divisi e mai riconciliati.
Non siamo fatti ad immagine di una dottrina che infatti pur conoscendola non ci impedisce di essere indifferenti nei confronti dei poveri.
Non siamo fatti ad immagine degli idoli che infatti esistono solo nella nostra mente e svaniscono come vapore nell’ultimo giorno.

pubblicato da ‘altranarrazione’

gli auguri di L. Boff per i 90 anni di mons. Casaldàliga

  
Come lui nessuno mai. L'omaggio del mondo a Pedro Casaldàliga

 da: Adista Documenti n° 9 del 10/03/2018
Di tutti i modi esistenti per definire Pedro Casaldàliga, non uno è andato perso nella celebrazione del suo novantesimo compleanno: vescovo dei poveri, santo, profeta, poeta, mistico… E, soprattutto, patrimonio dell’umanità intera, a cominciare da quella povera, a cui ha dedicato l’intera sua esistenza, ricevendo per questo innumerevoli omaggi e riconoscimenti, tra cui anche un film, uscito nel 2013, Descalzo sobre la Tierra Roja, che, tratto dall’omonimo libro di Françes Escribano del 2002, racconta la vita di dom Pedro seguendo il filo rosso delle grandi cause della sua esistenza. Per i suoi 90 anni (16 /2) è stato creato anche un portale, destinato, come spiega l’équipe di Servicios Koinonía che ne dà notizia,  a mettere a disposizione di tutti le sue opere, in forma digitale e gratuita, «per volontà espressa dello stesso autore» (dopo una sola settimana, il portale aveva già ricevuto 10mila visite: si può visitarlo all’indirizzo https://independent.academia.edu/PedroCASALDALIGA). E se è impossibile citare tutti gli articoli che sono stati scritti in occasione del suo compleanno – qui di seguito ne riportiamo, in una nostra traduzione dal portoghese, solo due, quelli dell’ecoteologo della liberazione brasiliano Leonardo Boff e del leader del Movimento dei Senza Terra João Pedro Stédile -, vale la pena citare perlomeno quello di Antonio Gil, canonico della cattedrale di Cordova, in Spagna, il quale, sul sito di Reflexión y Liberación (16/2) riporta un recente e meraviglioso messaggio di quello che egli definisce come «un vescovo unico, speciale, della stirpe dei grandi vescovi latinoamericani, di quelli che hanno conquistato il cuore delle persone». Un messaggio pronunciato da São Félix do Araguaia, dove dom Pedro è voluto restare anche dopo il pensionamento, nel 2005, malgrado le sue condizioni di salute (da 25 anni convive con “fratello Parkinson”), che avrebbero richiesto un luogo più accessibile di un municipio distante 16 ore dal più vicino aeroporto. Queste le parole di don Pedro: «Alla mia età, tutto rientra in una preghiera». E ancora: «Oggi, da pensionato, contemplo la vita relativizzando ciò che è relativo in me, nella società e nella Chiesa, e assolutizzando ciò che è assoluto: Dio e l’umanità». 

particolare del fronte di copertina del libro di Francesc Escribano Descalzo sobre la tierra roja. Vida del obispo Pere Casaldàliga (Barcelona 2010), immagine tratta dal sito delle edizioni Península-PlanetadeLibros

i 90 anni di dom Pedro Casaldàliga

povertà e liberazione

Leonardo Boff

In occasione del suo 90.mo compleanno, il 16 febbraio, vorrei rendere omaggio a dom Pedro Casaldàliga, pastore, profeta e poeta, con alcune riflessioni relative a ciò che costituisce, credo, il filo rosso di tutta la sua vita di cristiano e di vescovo: la relazione che ha stabilito tra la povertà e la liberazione. Rischiando la vita, ha vissuto e testimoniato tanto la povertà quanto la liberazione dei più oppressi, che sono gli indigeni e i contadini, espulsi dal latifondo nelle terre di São Félix do Araguaia, in Mato Grosso. La povertà è un fatto che ha sempre interpellato la prassi umana, sfidando ogni tipo di interpretazione. Il povero in carne e ossa rappresenta per noi una tale sfida che l’atteggiamento nei suoi confronti finisce per definire la nostra situazione definitiva dinanzi a Dio, come testimonia tanto il Libro dei morti degli antichi egizi quanto la tradizione giudaico-cristiana che culmina nel testo del vangelo di Matteo 25, 31ss. Forse il più grande merito del vescovo Pedro Casaldàliga liga è stato quello di aver preso assolutamente sul serio le sfide che ci lanciano i poveri del mondo intero, specialmente quelli dell’America Latina, e la loro liberazione.

Prima di qualunque riflessione o strategia di aiuto, la prima reazione è di profonda umanità: lasciarsi commuovere e riempirsi di compassione. Come evitare di rispondere alla supplica del povero o non capire cosa vogliono dire le sue mani tese? Quando la povertà appare come miseria, in tutte le persone sensibili, come lo è dom Pedro, irrompe un sentimento di indignazione e di sacra ira, come si nota chiaramente nei suoi testi profetici, specialmente quelli contro il sistema capitalista e imperialista che produce continuamente povertà e miseria. L’amore e l’indignazione sono alla base delle pratiche che mirano ad abolire o mitigare la povertà. È concretamente dalla parte del povero solo chi, prima di tutto, lo ama profondamente e non accetta la sua condizione inumana. E dom Pedro ha testimoniato questo amore senza condizioni.

Ci avverte, realisticamente, il libro del Deuteronomio: «i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese» (15,11). La Chiesa primitiva a Gerusalemme era nota per il fatto che «nessuno tra loro era bisognoso» (At 4,34), in quanto tutto veniva messo in comune. Questi sentimenti di compassione e indignazione hanno spinto dom Pedro a lasciare la Spagna, ad andare in Africa e, infine, a sbarcare non semplicemente in Brasile, ma nel Paese profondo, dove contadini e indigeni soffrono la voracità del capitale nazionale e internazionale.

1. Letture dello scandalo della povertà

In funzione di una comprensione più adeguata dell’anti-realtà della povertà, conviene chiarire alcuni aspetti che ci aiuteranno a definire la nostra presenza effettiva accanto ai poveri. Tre diverse visioni del povero sono ancora oggi presenti nel dibattito. La prima, quella tradizionale, intende il povero come colui che non ha. Che non ha mezzi, non ha un reddito sufficiente, non ha casa, in una parola non ha beni. Sopravvive nella disoccupazione o nella sottooccupazione e con un basso salario. Il sistema dominante lo considera uno zero economico, uno scarto. La strategia è allora quella di mobilitare chi ha perché aiuti chi non ha. In nome di questa visione si è organizzata, per secoli, un’ampia opera di assistenza. E una politica di beneficenza, ma non partecipativa. Un atteggiamento e una strategia che mantengono i poveri nella dipendenza: ancora non è stato scoperto il loro potenziale trasformatore.

La seconda, progressista, ha scoperto il potenziale dei poveri e si è resa conto che tale potenziale non viene utilizzato. Attraverso l’educazione e la professionalizzazione, il povero riceverà qualificazione e autonomia. Così i poveri si inseriscono nel processo produttivo. Rafforzano il sistema, si trasformano in consumatori, per quanto a una scala ridotta, e aiutano a perpetuare le relazioni sociali ingiuste che continuano a produrre poveri. Si assegna allo Stato la parte principale del compito di creare posti di lavoro per questi poveri sociali. La società moderna, liberale e progressista ha fatto propria questa visione. La lettura tradizionale vede il povero, ma non ne coglie il carattere collettivo. La lettura progressista scopre sì il suo carattere collettivo, ma non il suo carattere conflittuale. Analiticamente considerato, il povero è il risultato di meccanismi di sfruttamento che lo hanno impoverito, generando così un grave conflitto sociale. Mostrare tali meccanismi è stato e continua a essere il merito storico di Karl Marx. Previamente all’integrazione del povero nel processo produttivo vigente, si dovrà procedere a una critica del tipo di società che produce e riproduce costantemente poveri ed esclusi.

La terza posizione è quella liberatrice, che afferma: i poveri hanno realmente potenzialità, e non solo per ingrossare la forza lavoro e rafforzare il sistema, ma principalmente per trasformarlo nei suoi meccanismi e nella sua logica. I poveri, coscientizzati, autoorganizzati e coordinati con altri alleati, possono essere i costruttori di un altro tipo di società. Possono non solo progettare ma anche mettere in marcia la costruzione di una democrazia partecipativa, economica ed ecologico-sociale. L’universalizzazione e la pienezza di questa democrazia senza fine si chiama socialismo. Questa prospettiva non è né assistenzialista né progressista. È autenticamente liberatrice, perché fa dell’oppresso il principale soggetto della sua liberazione e il creatore di un progetto alternativo di società.

La teologia della liberazione ha assunto questa concezione di povero. L’ha tradotta nell’opzione per i poveri, contro la povertà e in favore della vita e della libertà. Farsi poveri in solidarietà con i poveri significa un impegno contro la povertà materiale, economica, politica, culturale e religiosa. L’opposto di questa povertà non è la ricchezza, ma la giustizia e l’equità.

È quest’ultima prospettiva quella che è stata ed è testimoniata e praticata da dom Pedro Casaldàliga in tutta la sua attività pastorale. Anche a rischio della sua vita, ha appoggiato i contadini espulsi dai grandi latifondisti. Insieme alle Piccole Sorelle di Gesù di p. Foucauld, ha collaborato al riscatto biologico dei tapirapés, minacciati di estinzione. Non c’è movimento sociale e popolare che non sia stato sostenuto da questo pastore di eccezionale qualità umana e spirituale.

2. L’altra povertà: quella evangelica ed essenziale

Vi sono ancora due dimensioni della povertà che sono presenti nella vita di don Pedro: la povertà essenziale e la povertà evangelica. La povertà essenziale è il risultato della nostra condizione di creature, una povertà che ha, pertanto, una base ontologica, indipendente dalla nostra volontà. Parte dal fatto che non ci siamo dati noi l’esistenza. Esistiamo, ma dipendendo da un piatto di cibo, da un po’ d’acqua e dalle condizioni ecologiche della Terra. In questo senso radicale, siamo poveri. La Terra non è nostra né l’abbiamo creata noi. Siamo suoi ospiti, passeggeri di un viaggio che va oltre. Di più: umanamente dipendiamo da persone che ci accolgono e che convivono con noi, con gli alti e i bassi propri della condizione umana. Siamo tutti interdipendenti. Nessuno vive in sé e per sé. Siamo sempre intrecciati in una rete di relazioni che garantiscono la nostra vita materiale, psicologica e spirituale. Per questo siamo poveri e dipendenti gli uni dagli altri.

Accogliere questa condition humaine ci rende umili e umani. L’arroganza e l’eccessiva auto-affermazione non trovano spazio qui perché non hanno una base che le sostenga. Questa situazione ci invita a essere generosi. Se riceviamo l’essere dagli altri, dobbiamo a nostra volta darlo agli altri. Questa dipendenza essenziale ci rende grati a Dio, all’Universo, alla Terra e alle persone che ci accettano così come siamo. È la povertà essenziale. Questo tipo di povertà ha reso dom Pedro un vescovo mistico, grato per tutte le cose. Esiste anche la povertà evangelica, proclamata da Gesù como una delle beatitudini. Nella versione del vangelo di Matteo si dice: «Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli» (5,3). Questo tipo di povertà non è direttamente vincolato all’avere o al non avere, ma a un modo di essere, a un atteggiamento che potremmo tradurre con infanzia spirituale. Povertà qui è sinonimo di umiltà, distacco, vuoto interiore, rinuncia a ogni volontà di potere e di auto-affermazione. Implica la capacità di svuotarsi per accogliere Dio, e il riconoscimento della natura della creatura, dinanzi alla ricchezza dell’amore di Dio che si comunica gratuitamente. L’opposto di questa povertà è l’orgoglio, la fanfaroneria, l’inflazione dell’ego e la chiusura in se stessi dinanzi agli altri e a Dio.

Questa povertà ha significato l’esperienza spirituale del Gesù storico: non solo è stato povero materialmente e ha assunto la causa dei poveri, ma si è fatto anche povero in spirito, poiché «spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,7-9). Questa povertà è il cammino del vangelo, per questo si chiama anche povertà evangelica, secondo il suggerimento di San Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).

Il profeta Sofonia testimonia questa povertà di spirito quando scrive: «In quel giorno non avrai vergogna di tutti i misfatti commessi contro di me, perché allora eliminerò da te tutti i superbi millantatori e tu cesserai di inorgoglirti sopra il mio santo monte. Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele» (3,11-13). Questa povertà evangelica e questa infanzia spirituale costituiscono uno dei riflessi più visibili e convincenti della personalità di dom Pedro Casaldàliga, che appare nel suo modo povero ma sempre pulito di vestire, nel suo linguaggio pieno di humor anche quando diventa fortemente critico nei confronti degli spropositi della globalizzazione economico-finanziaria e della prepotenza neoliberista, o quando profeticamente denuncia le visioni mediocri del governo centrale della Chiesa di fronte alle sfide dei condannati della Terra o a questioni che interessano tutta l’umanità. Questo atteggiamento di povertà si è manifestato in maniera esemplare quando negli incontri con i cristiani di base, generalmente poveri, si poneva in mezzo a loro e ascoltava attentamente quello che dicono, o quando si sedeva ai piedi dei relatori, fossero teologi, sociologi e portatori di un altro sapere qualificato, per ascoltarli, annotarne i pensieri e formulare umilmente domande. Questa apertura rivela uno svuotamento interiore che lo rende capace di imparare continuamente e di riflettere saggiamente sui cammini della Chiesa, dell’America Latina, del Brasile e del mondo.

Quando gli attuali tempi di stravolgimento saranno passati, quando i sospetti e le meschinità saranno stati divorati dalla voragine del tempo, quando ci volteremo indietro e valuteremo gli ultimi decenni del XXI secolo, identificheremo una stella nel cielo della nostra fede, splendente, dopo aver attraversato nubi, sopportato oscurità e superato tempeste: la figura semplice, povera, umile, spirituale e santa di un vescovo che, straniero, si è fatto compatriota, lontano, si è fatto vicino, e si è fatto fratello di tutti, fratello universale: dom Pedro Casaldàliga, che compie oggi novant’anni.

dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell’autore

c’è da sperare che il delirio delle armi non arrivi anche da noi …

fucili e corone di pallottole

quando il culto delle armi arriva in chiesa

gli adepti della setta del reverendo Moon considerano le armi un diritto dato da Dio per tutelare il genere umano

Armi in chiesa

armi in chiesa

La vergogna di un paese di un c’è un culto perfino religioso delle armi: così molti fedeli si sono presentati in chiesa con l’Ar-15, il fucile semiautomatico prodotto dalla compagnia statunitense Armalite e usata da Nikolas Cruz per compiere la strage nel liceo di Parkland.
Ma il fucile è considerato anche il simbolo della “verga di ferro” citata nel Libro dell’Apocalisse, secondo l’Associazione Spirituale per l’Unificazione del Mondo Cristiano (o Chiesa dell’unificazione, come è più nota a livello mondiale).
Per questo motivo i fedeli di questo credo (fondato dal reverendo coreano Sun Myung Moon, morto nel 2012) sono stati incoraggiati a portalo con sé nella cerimonia di rinnovo dei voti nuziali che ha avuto luogo mercoledì a Newfoundland, in Pennsylvania. Sposi e spose si sono presentati in massa: reggevano gli AR-15 e il capo di molti di loro era circondato da una corona metallica, in alcuni casi una corona fatta di pallottole.
Le armi erano scariche: un addetto alla porta le ha controllate tutte scrupolosamente. Uno dei vertici dell’Associazione ha puntualizzato alla stampa americana che si trattava di benedire le coppie e non «gli oggetti inanimati» considerandoli tuttavia dei semplici «corredi religiosi». Ma ovviamente non è v

contro una ‘lettura estetico-intimistica’ del vangelo

vangelo e politica

Il vangelo è un testo specificatamente politico. Intendendo con tale termine: l’atto di scegliere, di schierarsi affinché le problematiche della convivenza vengano decise secondo giustizia. Di sicuro invece il Vangelo non prevede tifo calcistico per un partito o peggio ancora l’appoggio per garantirsi dei privilegi anche quando il partito stesso si definisce cristiano/cattolico (e soprattutto quando profana, con le sue scelte scellerate, la croce inserita nel simbolo). Seguire Cristo ha poco a che fare anche con certi racconti bucolici che ci vengono propinati: fiorellini, tramonti e gite in montagne varie. Seguire Cristo è essenzialmente un’opzione. Significa camminare dove ha camminato Lui: negli stessi abissi e nelle stesse sofferenze. Significa morire come lui: senza applausi e consensi ma da reietti. I borghesi hanno l’idolo della legalità, i cristiani seguono un condannato a morte per sovversione. Per i seguaci di Cristo la legge della carità viene prima di tutte le leggi dell’Impero. I seguaci di Cristo, come il buon samaritano, si fermano a soccorrere i disperati, ad ospitarli a proteggerli anche se l’Impero lo vieta. I seguaci di Cristo non fanno come Pilato ma distinguono ciò che è resistenza e ciò che è repressione. I seguaci di Cristo si schierano con gli oppressi e non con il manganello anche nel caso abbia il permesso dell’Impero. Seguendo il loro Maestro i cristiani credono che le leggi siano fatte per l’uomo e non l’uomo per le leggi(1) e che quando è necessario “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”(2). I seguaci di Cristo costituiscono un problema per mammona (il potere) perché scelgono di contrapporsi e non di allearsi. Chi non agisce così, invece, si domandi chi segue.

(1)“Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!” (Vangelo di Marco 2,27)

(2) Atti degli Apostoli 5,29

 da ‘altranarrazione’

la parabola del ‘ricco Epulone’ letta oggi

il ricco garantito e il precario Lazzaro

C’era un ricco garantito, che vestiva in giacca e cravatta perché fa tanto manager e tutti i giorni sfruttava lautamente. Un precario, di nome Lazzaro, attendeva alla sua porta, coperto di CV e di contratti a termine, bramoso di trovare un impiego dignitoso e quindi stabile. Arrivato finalmente il suo turno, venne introdotto in uno dei tanti ed ambiti templi del capitalismo. Il ricco garantito era oberato ma dimostrò, immediatamente, le sue qualità di problem solver, decidendo di riparare, senza ritardi, un bottone che ciondolava dalla sua giacca. Però, nell’ottica di valorizzazione delle risorse, l’intervento materiale con ago e filo venne affidato alla c.d. segretaria. Il ricco garantito si prese a cuore il bisogno del precario Lazzaro proponendo un contratto mensile (invece che di 15 giorni), per un totale di 3 ore settimanali (invece che di 2). Prima di congedarlo riempì Lazzaro di complimenti per il suo adattamento alle esigenze del mercato. Gli parlò abbondantemente della sua contrarietà al riconoscimento di un reddito di dignità per precari e disoccupati, sottolineando: «Carissimo, per garantire plusvalenze e profitti ci serve gente all’occorrenza e non oltre, e pure a basso costo. Il Sistema funziona  così. Ci dobbiamo adeguare”. Un giorno, il povero Lazzaro, proprio durante un colloquio di lavoro si accasciò a terra e morì. Fu portato dagli angeli davanti a Gesù che, dopo averlo fissato negli occhi, lo abbracciò. Morì anche il ricco garantito, nonostante le costosissime cure e l’assistenza all’avanguardia. Fu sepolto insieme alla vanità delle sue opere.  Fu portato dagli angeli davanti a Gesù e il ricco garantito, stupito disse: «Ci conosciamo? Ho l’impressione di averti già visto!». «Sì sono venuto molte volte nel tuo ufficio per i colloqui di lavoro», gli rispose Gesù.

I ricchi garantiti recitano sul palcoscenico della storia come se non conoscessero il finale. L’ultimo giorno, però, sarà il giorno degli oppressi. Il giorno della vittoria senza tempo.

vangelo di Luca

16, 19-31

C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvedranno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

 da ‘altranarrazione’

solo i poveri ci salveranno …

i poveri

luogo di guarigione

Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.  (Vangelo di Matteo 25, 37-40)

Chi disprezza i poveri o è semplicemente indifferente ha una conoscenza distorta di Cristo. Nonostante tutti gli sforzi ascetici, le elucubrazioni dottrinarie, i ministeri esercitati, il consenso della comunità chi evita i poveri evita Dio. Alcune cose di se stesso Dio ha deciso di rivelarle solo attraverso di loro. È la sua scelta di abbassamento, di capovolgimento che meraviglia i piccoli e infastidisce gli ipocriti (quelli che recitano un ruolo diverso dal proprio essere). I poveri non sono solo un luogo teologico accanto alla Parola e all’Eucaristia ma sono anche un luogo di guarigione specifica.

Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. (Isaia 58, 6-8)

Solo la relazione con i poveri può spezzare la catena dell’egoismo consentendoci l’esodo dall’autoreferenzialità che ci deforma all’alterità che ci fa scoprire la dignità della figliolanza. Ai poveri è stata consegnata la ricetta per curare la nostra ferita esistenziale. Sono i medici a cui dobbiamo rivolgerci per disintossicarci dagli idoli e per la profilassi contro l’infezione della indifferenza. Andiamo da loro per essere aiutati. Sono la nostra ultima speranza. Nella compassione ritroviamo l’immagine di Dio e constatiamo la brutalità delle seduzioni del mondo. I poveri portano sulle spalle il peccato sociale per questo Gesù si identifica con loro, sono i suoi fratelli più intimi perché i più simili a Lui.

Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se offrirai il pane all’affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono. La tua gente riedificherà le antiche rovine, ricostruirai le fondamenta di epoche lontane. Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi. (Isaia 58, 9-12)

L’incontro con i poveri rischiara le nostre tenebre interiori, ci apre nuove prospettive, ci porta fuori dalle camere asettiche in cui ci nascondiamo inutilmente per conservarci. I poveri ci chiamano anche quando non parlano o non li vediamo. Sono l’eterno appello alla nostra autenticità. Ci spingono nel profondo, ci costringono a deporre le maschere e ad avvertire le nostre viscere. Le analisi, i sistemi, e tutte le retoriche devono lasciare spazio all’assurdità della sofferenza.

 da ‘altranarrazione’

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