particolare del fronte di copertina del libro di Francesc Escribano Descalzo sobre la tierra roja. Vida del obispo Pere Casaldàliga (Barcelona 2010), immagine tratta dal sito delle edizioni Península-PlanetadeLibros
i 90 anni di dom Pedro Casaldàliga
povertà e liberazione
Leonardo Boff
In occasione del suo 90.mo compleanno, il 16 febbraio, vorrei rendere omaggio a dom Pedro Casaldàliga, pastore, profeta e poeta, con alcune riflessioni relative a ciò che costituisce, credo, il filo rosso di tutta la sua vita di cristiano e di vescovo: la relazione che ha stabilito tra la povertà e la liberazione. Rischiando la vita, ha vissuto e testimoniato tanto la povertà quanto la liberazione dei più oppressi, che sono gli indigeni e i contadini, espulsi dal latifondo nelle terre di São Félix do Araguaia, in Mato Grosso. La povertà è un fatto che ha sempre interpellato la prassi umana, sfidando ogni tipo di interpretazione. Il povero in carne e ossa rappresenta per noi una tale sfida che l’atteggiamento nei suoi confronti finisce per definire la nostra situazione definitiva dinanzi a Dio, come testimonia tanto il Libro dei morti degli antichi egizi quanto la tradizione giudaico-cristiana che culmina nel testo del vangelo di Matteo 25, 31ss. Forse il più grande merito del vescovo Pedro Casaldàliga liga è stato quello di aver preso assolutamente sul serio le sfide che ci lanciano i poveri del mondo intero, specialmente quelli dell’America Latina, e la loro liberazione.
Prima di qualunque riflessione o strategia di aiuto, la prima reazione è di profonda umanità: lasciarsi commuovere e riempirsi di compassione. Come evitare di rispondere alla supplica del povero o non capire cosa vogliono dire le sue mani tese? Quando la povertà appare come miseria, in tutte le persone sensibili, come lo è dom Pedro, irrompe un sentimento di indignazione e di sacra ira, come si nota chiaramente nei suoi testi profetici, specialmente quelli contro il sistema capitalista e imperialista che produce continuamente povertà e miseria. L’amore e l’indignazione sono alla base delle pratiche che mirano ad abolire o mitigare la povertà. È concretamente dalla parte del povero solo chi, prima di tutto, lo ama profondamente e non accetta la sua condizione inumana. E dom Pedro ha testimoniato questo amore senza condizioni.
Ci avverte, realisticamente, il libro del Deuteronomio: «i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese» (15,11). La Chiesa primitiva a Gerusalemme era nota per il fatto che «nessuno tra loro era bisognoso» (At 4,34), in quanto tutto veniva messo in comune. Questi sentimenti di compassione e indignazione hanno spinto dom Pedro a lasciare la Spagna, ad andare in Africa e, infine, a sbarcare non semplicemente in Brasile, ma nel Paese profondo, dove contadini e indigeni soffrono la voracità del capitale nazionale e internazionale.
1. Letture dello scandalo della povertà
In funzione di una comprensione più adeguata dell’anti-realtà della povertà, conviene chiarire alcuni aspetti che ci aiuteranno a definire la nostra presenza effettiva accanto ai poveri. Tre diverse visioni del povero sono ancora oggi presenti nel dibattito. La prima, quella tradizionale, intende il povero come colui che non ha. Che non ha mezzi, non ha un reddito sufficiente, non ha casa, in una parola non ha beni. Sopravvive nella disoccupazione o nella sottooccupazione e con un basso salario. Il sistema dominante lo considera uno zero economico, uno scarto. La strategia è allora quella di mobilitare chi ha perché aiuti chi non ha. In nome di questa visione si è organizzata, per secoli, un’ampia opera di assistenza. E una politica di beneficenza, ma non partecipativa. Un atteggiamento e una strategia che mantengono i poveri nella dipendenza: ancora non è stato scoperto il loro potenziale trasformatore.
La seconda, progressista, ha scoperto il potenziale dei poveri e si è resa conto che tale potenziale non viene utilizzato. Attraverso l’educazione e la professionalizzazione, il povero riceverà qualificazione e autonomia. Così i poveri si inseriscono nel processo produttivo. Rafforzano il sistema, si trasformano in consumatori, per quanto a una scala ridotta, e aiutano a perpetuare le relazioni sociali ingiuste che continuano a produrre poveri. Si assegna allo Stato la parte principale del compito di creare posti di lavoro per questi poveri sociali. La società moderna, liberale e progressista ha fatto propria questa visione. La lettura tradizionale vede il povero, ma non ne coglie il carattere collettivo. La lettura progressista scopre sì il suo carattere collettivo, ma non il suo carattere conflittuale. Analiticamente considerato, il povero è il risultato di meccanismi di sfruttamento che lo hanno impoverito, generando così un grave conflitto sociale. Mostrare tali meccanismi è stato e continua a essere il merito storico di Karl Marx. Previamente all’integrazione del povero nel processo produttivo vigente, si dovrà procedere a una critica del tipo di società che produce e riproduce costantemente poveri ed esclusi.
La terza posizione è quella liberatrice, che afferma: i poveri hanno realmente potenzialità, e non solo per ingrossare la forza lavoro e rafforzare il sistema, ma principalmente per trasformarlo nei suoi meccanismi e nella sua logica. I poveri, coscientizzati, autoorganizzati e coordinati con altri alleati, possono essere i costruttori di un altro tipo di società. Possono non solo progettare ma anche mettere in marcia la costruzione di una democrazia partecipativa, economica ed ecologico-sociale. L’universalizzazione e la pienezza di questa democrazia senza fine si chiama socialismo. Questa prospettiva non è né assistenzialista né progressista. È autenticamente liberatrice, perché fa dell’oppresso il principale soggetto della sua liberazione e il creatore di un progetto alternativo di società.
La teologia della liberazione ha assunto questa concezione di povero. L’ha tradotta nell’opzione per i poveri, contro la povertà e in favore della vita e della libertà. Farsi poveri in solidarietà con i poveri significa un impegno contro la povertà materiale, economica, politica, culturale e religiosa. L’opposto di questa povertà non è la ricchezza, ma la giustizia e l’equità.
È quest’ultima prospettiva quella che è stata ed è testimoniata e praticata da dom Pedro Casaldàliga in tutta la sua attività pastorale. Anche a rischio della sua vita, ha appoggiato i contadini espulsi dai grandi latifondisti. Insieme alle Piccole Sorelle di Gesù di p. Foucauld, ha collaborato al riscatto biologico dei tapirapés, minacciati di estinzione. Non c’è movimento sociale e popolare che non sia stato sostenuto da questo pastore di eccezionale qualità umana e spirituale.
2. L’altra povertà: quella evangelica ed essenziale
Vi sono ancora due dimensioni della povertà che sono presenti nella vita di don Pedro: la povertà essenziale e la povertà evangelica. La povertà essenziale è il risultato della nostra condizione di creature, una povertà che ha, pertanto, una base ontologica, indipendente dalla nostra volontà. Parte dal fatto che non ci siamo dati noi l’esistenza. Esistiamo, ma dipendendo da un piatto di cibo, da un po’ d’acqua e dalle condizioni ecologiche della Terra. In questo senso radicale, siamo poveri. La Terra non è nostra né l’abbiamo creata noi. Siamo suoi ospiti, passeggeri di un viaggio che va oltre. Di più: umanamente dipendiamo da persone che ci accolgono e che convivono con noi, con gli alti e i bassi propri della condizione umana. Siamo tutti interdipendenti. Nessuno vive in sé e per sé. Siamo sempre intrecciati in una rete di relazioni che garantiscono la nostra vita materiale, psicologica e spirituale. Per questo siamo poveri e dipendenti gli uni dagli altri.
Accogliere questa condition humaine ci rende umili e umani. L’arroganza e l’eccessiva auto-affermazione non trovano spazio qui perché non hanno una base che le sostenga. Questa situazione ci invita a essere generosi. Se riceviamo l’essere dagli altri, dobbiamo a nostra volta darlo agli altri. Questa dipendenza essenziale ci rende grati a Dio, all’Universo, alla Terra e alle persone che ci accettano così come siamo. È la povertà essenziale. Questo tipo di povertà ha reso dom Pedro un vescovo mistico, grato per tutte le cose. Esiste anche la povertà evangelica, proclamata da Gesù como una delle beatitudini. Nella versione del vangelo di Matteo si dice: «Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli» (5,3). Questo tipo di povertà non è direttamente vincolato all’avere o al non avere, ma a un modo di essere, a un atteggiamento che potremmo tradurre con infanzia spirituale. Povertà qui è sinonimo di umiltà, distacco, vuoto interiore, rinuncia a ogni volontà di potere e di auto-affermazione. Implica la capacità di svuotarsi per accogliere Dio, e il riconoscimento della natura della creatura, dinanzi alla ricchezza dell’amore di Dio che si comunica gratuitamente. L’opposto di questa povertà è l’orgoglio, la fanfaroneria, l’inflazione dell’ego e la chiusura in se stessi dinanzi agli altri e a Dio.
Questa povertà ha significato l’esperienza spirituale del Gesù storico: non solo è stato povero materialmente e ha assunto la causa dei poveri, ma si è fatto anche povero in spirito, poiché «spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,7-9). Questa povertà è il cammino del vangelo, per questo si chiama anche povertà evangelica, secondo il suggerimento di San Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).
Il profeta Sofonia testimonia questa povertà di spirito quando scrive: «In quel giorno non avrai vergogna di tutti i misfatti commessi contro di me, perché allora eliminerò da te tutti i superbi millantatori e tu cesserai di inorgoglirti sopra il mio santo monte. Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele» (3,11-13). Questa povertà evangelica e questa infanzia spirituale costituiscono uno dei riflessi più visibili e convincenti della personalità di dom Pedro Casaldàliga, che appare nel suo modo povero ma sempre pulito di vestire, nel suo linguaggio pieno di humor anche quando diventa fortemente critico nei confronti degli spropositi della globalizzazione economico-finanziaria e della prepotenza neoliberista, o quando profeticamente denuncia le visioni mediocri del governo centrale della Chiesa di fronte alle sfide dei condannati della Terra o a questioni che interessano tutta l’umanità. Questo atteggiamento di povertà si è manifestato in maniera esemplare quando negli incontri con i cristiani di base, generalmente poveri, si poneva in mezzo a loro e ascoltava attentamente quello che dicono, o quando si sedeva ai piedi dei relatori, fossero teologi, sociologi e portatori di un altro sapere qualificato, per ascoltarli, annotarne i pensieri e formulare umilmente domande. Questa apertura rivela uno svuotamento interiore che lo rende capace di imparare continuamente e di riflettere saggiamente sui cammini della Chiesa, dell’America Latina, del Brasile e del mondo.
Quando gli attuali tempi di stravolgimento saranno passati, quando i sospetti e le meschinità saranno stati divorati dalla voragine del tempo, quando ci volteremo indietro e valuteremo gli ultimi decenni del XXI secolo, identificheremo una stella nel cielo della nostra fede, splendente, dopo aver attraversato nubi, sopportato oscurità e superato tempeste: la figura semplice, povera, umile, spirituale e santa di un vescovo che, straniero, si è fatto compatriota, lontano, si è fatto vicino, e si è fatto fratello di tutti, fratello universale: dom Pedro Casaldàliga, che compie oggi novant’anni.
dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell’autore