italiani ed europei disumani – lo dice l’ONU
il commissario per i diritti umani Zeid Ràad al Hussei:
“la sofferenza dei migranti detenuti è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”
anche la ‘gentilezza’ ha la sua giornata – segno che ce n’è bisogno
13 novembre
giornata mondiale della gentilezza
Dire grazie o dare una carezza, il valore grande di piccoli gesti virtuosi
Parole e abitudini nel mondo, dal caffè sospeso italiano all’Ubuntu in Sudafrica
La gentilezza sta nei piccoli gesti, in quel modo di essere e relazionarsi con gli altri con la massima umanità. Il 13 novembre ricorre la Giornata mondiale della gentilezza, una ricorrenza nata dall’iniziativa di gruppi umanitari e dalla loro Dichiarazione della gentilezza risalente al 13 novembre 1997, ricorrenza osservata dal 1998 da Canada, Giappone, Australia, Nigeria, Emirati Arabi Uniti, -dal 2009- da Italia, India e Singapore e dal 2010 da Gran Bretagna. Sono stati i giapponesi a promuovere questa iniziativa: la giornata è nata in Giappone grazie al Japan Small Kindness Movement, fondato nel 1988 a Tokyo, dove due anni prima si era costituito un primo gruppo di organizzazioni riunito nel World Kindness Movement (Movimento mondiale per la Gentilezza).
Una giornata non cambia gli stili di vita è chiaro ma ha il valore di accendere una luce per riflettere sull’importanza della gentilezza e sul circolo virtuoso che innesca. Compiere un atto gentile ci rende, infatti, più felici. Chi è felice tende poi a sua volta a essere gentile con gli altri. Dire grazie, prego, scusa, per favore va infatti al di là della buona educazione per diventare atteggiamento e modo di essere.
– Se vuoi essere amato, ama e sii amabile diceva Benjamin Franklin
– Tre cose sono importanti nella vita umana: la prima è essere gentili, la seconda è essere gentili e la terza è essere gentili (cit. Henry James);
– Dove c’è l’educazione non c’è distinzione di classe (cit. Confucio)
Da circa 20 anni il 13 novembre le persone sono incoraggiate a fare la propria, personale dichiarazione di gentilezza: regalando libri, cibo o vestiti agli altri membri della comunità.
Abitudini, tradizioni e celebrazioni
La Giornata della gentilezza si festeggia in modi diversi in tutto il mondo. Alcuni organizzano flash mob, altri partecipano invece ad eventi caritatevoli. La ricorrenza viene celebrata negli Stati Uniti, in Italia, Emirati Arabi, India, Singapore, Nigeria, Giappone, Australia e Canada. In ogni luogo, però, ad essere al centro dell’attenzione sono sempre i piccoli gesti, come aprire la porta a uno sconosciuto, aiutare un vicino, lasciare al partner il controllo del telecomando per una sera o pagare il caffè a un amico. Ecco dall’app per le lingue Babbel una ricerca su come ‘si festeggia’ la gentilezza nel mondo.
In Italia risale ad almeno un centinaio di anni la tradizione, tutta napoletana, de ‘o cafè suspiso. In cosa consiste? Ci si prende un caffè al bancone, poi si va alla cassa e se ne pagano due invece che uno. In questo modo, chi non può permetterselo può entrare al bar e chiedere se per caso ci sia un “caffè in sospeso”, disponibile e gratuito. Le due persone coinvolte non si incontrano mai, è vero, ma in qualche modo gustano un caffè assieme. Da qualche anno poi, con l’inizio della crisi, questa bella tradizione sembra essersi diffusa in tutta Italia, approdando addirittura nei bar di altri paesi europei.
Altri esempi di gentilezza nel mondo:
Giappone
La senbetsu è la tradizione nipponica di fare un regalo a qualcuno alla vigilia di un viaggio. Allo stesso modo, però, è anche un dono d’addio per chi se ne sta andando o sta cambiando lavoro. Dietro questo gesto c’è la consapevolezza della difficoltà che ogni grosso cambiamento comporta. Un mazzo di fiori, quindi, ha il compito di addolcire il passaggio alla prossima tappa. Non è solo un atto di gentilezza, ma anche un buon augurio per il futuro!
Israele
La tradizione del Mishloach Manot (“dare una porzione”) prevede che, in occasione di Purim, ogni persona di religione ebraica che abbia già celebrato il suo Bar o Bat Mitzvah doni almeno due diversi tipi di pietanze per la festa. A finire nel cesto di Purim sono solitamente vino e dolci, specialmente i biscotti triangolari chiamati hamentashen. Grazie a questa mitvah (“buona azione”) tutti hanno così abbastanza da mangiare in occasione della festa.
Myanmar
Circa l’1% della popolazione del Myanmar è formata da monaci buddisti. La loro sopravvivenza dipende in gran parte dalle donazioni, siano queste in forma di cibo o denaro. I monaci condividono poi il cibo ricevuto con i poveri, offrendo ciotole di riso al curry ai più bisognosi. Questo circolo del dare e ricevere è valso al Myanmar il titolo di “Nazione più caritatevole del mondo”, conferitogli dalla CAF (Charities Aid Foundation) ed è la dimostrazione che, nonostante l’elevato tasso di povertà che contraddistingue il paese, la generosità non ha a che fare solo con la ricchezza: è tutta una questione di buon cuore.
Spagna
Le persone che ogni anno percorrono, in tutto o in parte, i circa 800 chilometri che formano il Cammino di Santiago compiono uno dei pellegrinaggi più popolari della tradizione cattolica. Lungo il tragitto, sono numerosissimi i gesti di gentilezza che vengono abitualmente destinati ai pellegrini: dai rifugi a basso costo o gratuiti; agli abbracci gratis, dati e ricevuti; fino all’offerta di acqua pulita. Bodegas Irache, un ex monastero lungo la strada, si spinge però ancora più in là, offrendo a camminatori e ciclisti del vino “per fare un brindisi alla felicità”.
Sudafrica
L’Ubuntu è una filosofia sudafricana, molto nota e seguita anche in Malawi e Zimbabwe, che definisce il senso di umanità attraverso i rapporti umani e la gentilezza che dimostriamo al nostro prossimo. Ci ricorda, infatti, che ogni essere umano è parte di un legame universale e che quindi siamo più forti quando lavoriamo assieme piuttosto che da soli. Per questo motivo, chi segue l’Ubuntu accoglie sempre con benevolenza anche i viaggiatori sconosciuti che si avventurano in quella regione del mondo. Commemorando Nelson Mandela, l’ex presidente americano Barack Obama ha utilizzato la parola Ubuntu per descrivere il modo in cui Mandela ha vissuto la propria vita: nel segno del perdono, della compassione e dell’amore per gli altri, anche per quelli che gli avevano fatto del male. Regola di vita basata sul rispetto e gentilezza, l’Ubuntu continua a crescere e a diffondersi in tutta l’Africa e nel mondo.
Filippine
Nella lingua locale esiste una parola per definire l’azione di aiutare coloro che si trovano in una situazione di bisogno temporaneo. Il termine tulong può però assumere molte forme diverse: dalla condivisione di cibo, alle offerte in denaro o di un letto per dormire. Pur essendo nato come un gesto solidale tra membri della stessa famiglia (per esempio, in seguito alle migrazioni interne tra un’isola e l’altra), con il passare del tempo il suo significato si è evoluto includendo diversi tipi di sostegno, oltre che regali ai non appartenenti alla famiglia. Per esempio, il Tulong-aral è un gesto di aiuto specifico che riguarda l’istruzione. Il tulong ha inoltre giocato un ruolo tangibile dopo l’ondata di disastri naturali (i recenti tifoni, terremoti ed eruzioni) che hanno provocato disagi a migliaia di persone nelle diverse isole dell’arcipelago filippino.
Cina
Il Mudita è l’esatto opposto dell’invidia e della meschinità. È la felicità che proviamo quando qualcun altro è baciato dalla fortuna e, secondo la tradizione buddista, è la pratica (attenzione, parola-chiave!) della gioia altruistica. Anche il termine yiddish naches ha un significato simile. Praticare il mudita attraverso la meditazione e la consapevolezza porta a un apprezzamento degli altri come esseri “ricchi di sfumature” ed è uno dei prerequisiti per raggiungere l’Illuminazione. Le manifestazioni del mudita includono la celebrazione della realizzazione personale di un amico oppure l’atto di trasmettere conoscenze ai propri sottoposti in ambito lavorativo.
Online / internazionale
Reddit’s Random Acts of Pizza è un sito da cui si può ordinare e far consegnare a casa di qualcuno del cibo, senza alcun motivo specifico. A volte il donatore ottiene qualcosa in cambio, per esempio un’opera d’arte creata da chi ha ricevuto la pizza. L’idea di fondo, però, è quella di donare semplicemente perché ce lo si può permettere. È davvero semplice e, cosa ancora più sorprendente, dimostra che gli sconosciuti su internet sono capaci di compiere atti di gentilezza.
Italiano: Giornata della Gentilezza
Tedesco: Welt-Nettigkeitstag
Spagnolo: Día de la Bondad
Francese: Journée de la gentillesse
Portoghese: Dia da Bondade
Svedese: Snällhetsdagen
Turco: Dünya İyilik Günü
Indonesiano: Hari Kebaikan Dunia
Russo: Den’ dobroty День доброты
Danese: Venlighedsdag
In realtà, il 13 novembre è il giorno clou della Settimana Mondiale della Gentilezza, che in tutto il mondo viene dedicata alla divulgazione di quel che davvero significa essere gentili. E cioè comportarsi in modo da mettere al centro la cura e l’attenzione per gli altri.
*******
Sai davvero cos’è la gentilezza? Innanzitutto, è cortesia, buona educazione, buone maniere . Dire grazie, per favore, prego, scusa. Ma non basta. Gentilezza è anche essere una brava persona: altruista, generosa e disponibile con gli altri, in modo disinteressato.
La gentilezza fa bene non solo a chi la riceve, cioè a tutti coloro che ti stanno intorno, ma soprattutto a chi la fa . Per riflesso sicuramente, ma anche per appagamento del tuo senso del dovere. Per di più fa bene anche al tuo cuore, rendendoti sereno e rilassato!
Ecco quindi tanti motivi in più per imparare a praticarla senza sforzi e con un po’ di attenzione verso il prossimo. E non solo nel giornata mondiale della gentilezza ma ogni giorno della tua vita.
un papa dalla grande “potenza semiotica” – un libro di due professori di semiologia
papa Francesco
un papa “pop” dalla grande “potenza semiotica”
intervista a Paolo Peverini e Anna Maria Lorusso, curatori del libro “Il racconto di Francesco”
in anteprima alcuni dettagli sul portale unico dei media vaticani
Papa Francesco è un “Papa pop”, un “Papa leader” che “produce senso”, che comunica “semplicità”, rivelando una grande “potenza semiotica”. Jorge Mario Bergoglio, a quasi cinque anni dall’elezione al soglio di Pietro, è stato capace di “ridefinire alcune aree di senso della cristianità e forse del più generale vivere insieme”. È questo che sottolinea il libro appena pubblicato dalla Luiss University Press
“Il racconto di Francesco. La comunicazione del Papa nell’era della connessione globale”
che sarà presentato per la prima volta alla stampa giovedì 9 novembre nella sede romana della Rai, nella Sala degli Arazzi di viale Mazzini, alla presenza del presidente Rai, Monica Maggioni, e del prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, mons. Dario Edoardo Viganò.
Il Sir ha incontrato in anteprima i due curatori del volume, i semiologi Paolo Peverini (Università Luiss “Guido Carli”, consultore per la Segreteria per la comunicazione) e Anna Maria Lorusso (Università di Bologna), che coinvolgendo altri noti studiosi – tra cui Ruggero Eugeni, Isabella Pezzini e Maria Pia Pozzato – hanno realizzato un’attenta analisi della comunicazione di Papa Francesco, offrendo una prospettiva inedita d’indagine grazie agli strumenti della Semiotica.
Tra le particolarità della pubblicazione c’è un’importante esclusiva: nel suo saggio Peverini, nell’approfondire la comunicazione del Pontefice, richiama alcuni aspetti del nuovo portale unico dei media della Santa Sede, in corso di messa a punto con la riforma, avendo potuto visionare il progetto grazie alla Segreteria per la comunicazione.
Anzitutto il libro, “Il racconto di Francesco”. Nel testo sottolineate come Papa Francesco rappresenti un’occasione particolarmente “ghiotta” per la semiotica.
Papa Francesco è dal nostro punto di vista una specie di potente “macchina semiotica”. Tutti noi, in quanto soggetti umani, siamo macchine semiotiche, nel senso che produciamo senso continuamente, inevitabilmente, talvolta inconsapevolmente, con tutto il nostro fare (non solo quando parliamo ma quando ci vestiamo, gesticoliamo, fotografiamo, etc.). In Papa Francesco, però, è come se le diverse dimensioni della comunicazione assumessero piena visibilità; la sua capacità di ridare significatività e attenzione a modi di essere spesso non marcati, percepiti come casuali (dove si abita, come si telefona, che scarpe si indossano…), è davvero straordinaria e
il modo in cui riesce a far convivere spontaneità e coerenza (quasi programmatica) potrebbero essere una lezione per tutti coloro che si chiedono, a tavolino, come si realizza una comunicazione strategica.
Di fatto il suo modo di comunicare rinnova i codici della comunicazione istituzionale e rituale quasi a ogni passo; il suo modo di restare in equilibrio fra rinnovamento continuo e riconoscibilità, fra immediatezza e carismaticità, costituisce a nostro avviso un caso piuttosto unico di comunicazione pubblica.
#gallery-2{margin:auto}#gallery-2 .gallery-item{float:left;margin-top:10px;text-align:center;width:33%}#gallery-2 img{border:2px solid #cfcfcf}
È molto interessante, di fatto unica, la prospettiva che offrite nel tratteggiare la comunicazione di Francesco, concentrandovi su come il Papa ridefinisce alcune aree di senso della cristianità.
La domanda da cui siamo partiti, nel riflettere su Papa Francesco, aveva sostanzialmente a che fare col suo “successo”, ovvero col fatto che fosse riuscito in poco tempo a ridare credibilità alla Chiesa, a conquistare il consenso di fasce anche non cattoliche di popolazione, che fosse riuscito a stabilire un legame “diretto” con la gente. Tutto ciò ha a che fare certamente col suo modo di comunicare, ma in un senso molto più radicale ed esteso di quanto “comunicazione pubblica” possa far intendere. Si trattava per noi di indagare il suo modo di essere tout court, anche quando apparentemente non comunica (certe scelte pragmatiche ad esempio, come indossare un determinato orologio o un certo crocifisso) o anche quando non è lui direttamente il responsabile di un certo discorso sulla Chiesa (come nella gestione dei film su di lui) o quando si affida alla sua rete mediatica vaticana. Attraverso questa riflessione a 360° ci siamo resi conto che la grandezza semiotica di Papa Francesco consiste proprio in una cifra ricorrente, che ridefinisce certi spazi, certi riti e certe pratiche della cristianità.
Papa Francesco riesce a rinnovare la Chiesa standoci dentro; ne rispetta i riti ma li reinterpreta (ad esempio, iniziando il suo primo discorso con il famoso “Buonasera!”), ne rispetta gli spazi ma preferisce percorsi marginali (Santa Marta…), sceglie di immergersi fra la gente ma conserva e anzi accresce il suo carisma. Il suo modo di rinnovare il ruolo papale ha a che fare con la sintesi degli opposti, non con l’esclusione e la frattura.
Perché Papa Francesco è considerato “pop”?
Ci sono tante ragioni per cui possiamo definire Papa Francesco “pop”. È pop perché ricorre a un linguaggio irrituale, perché è in grado di declinare contenuti complessi in forme brevi (si pensi al grande successo dei suoi messaggi su Twitter), manifesta curiosità nei confronti di forme attuali di autorappresentazione come i selfie. Privilegia il contatto diretto con l’interlocutore scegliendo il mezzo del telefono; valorizza modi di dire diretti e azioni di vita quotidiana, come l’andare nei negozi. Allo stesso tempo, tuttavia, Papa Francesco riesce a declinare il suo messaggio all’interno di grandi eventi mediali come il discorso tenuto in lingua spagnola in occasione del Super Bowl e incentrato sui valori della pace, dell’amicizia e della solidarietà.
È pop perché alla sacralità che crea distanza preferisce modi espressivi che non solo riducono le distanze ma mirano all’inclusione. È pop perché è amato dalla gente, perché la gente lo sente vicino, lo sente “uno di loro”, in una strana unione tra carisma e normalità.
In ultimo, avete avuto una straordinaria opportunità, la possibilità di visionare e studiare in anteprima il nuovo portale dell’informazione vaticana (SpC) che verrà lanciato nei prossimi mesi. Cosa ci potete svelare?
Grazie alla disponibilità della Segreteria per la comunicazione e in primo luogo del prefetto, mons. Dario Edoardo Viganò, abbiamo avuto l’opportunità preziosa di visionare in anteprima una prima versione (tuttora in fase di evoluzione) del nuovo portale dell’informazione. Da studiosi, quello che ci interessava era in primo luogo prendere in esame la correlazione tra i valori a fondamento del pontificato di Francesco e l’esordio del nuovo portale, un’operazione di portata strategica mirata per la prima volta a riunificare tutti i media della Santa Sede in un’unica struttura fondata sulle logiche dell’efficienza e della convergenza mediale. Secondo questa prospettiva, l’aspetto che ci sembra più significativo è che
il nuovo portale si fonda sul tentativo di operare una sintesi tra la dimensione “apostolica” e quella “informativa”.
Al suo fondamento ci sarebbe cioè una strategia di comunicazione volta a ridurre la distanza con il destinatario, ribadendo l’esigenza della vicinanza all’altro, del dialogo multiculturale e interreligioso. L’invito all’inclusione, all’incontro, temi centrali nell’idea di Chiesa sollecitata e prefigurata da Francesco sin dalla sua elezione al soglio di Pietro, vengono declinati in modo esplicito nel nuovo portale, assumendo un valore simbolico che trascende la dimensione dell’usabilità (i cui criteri sul piano tecnico sono stati in ogni caso ampiamente rispettati).
al di là dello ‘ius soli’ – una cittadinanza ampia come il mondo
la cittadinanza globale
“Il riconoscimento dello ius soli non è che il primo passo (per alcuni addirittura superato) di un processo, già in atto nei fatti, di universalizzazione della cittadinanza. I cittadini del terzo millennio hanno infatti una percezione dell’appartenenza che ha come orizzonte il mondo”
di Giannino Piana
in “Rocca” n. 21 del 1 novembre 2017
Il dibattito che si è sviluppato nel nostro Paese, in questi ultimi mesi, attorno allo ius soli ha visto la presenza di una serie variegata di opinioni, che vanno dal suo pregiudiziale respingimento alla richiesta di clausole mortificanti che tendono a limitarne di molto la possibile applicazione, fino alla sua piena ammissione, da parte di un numero, purtroppo non molto ampio, di forze politiche e di cittadini. Rifiuto e diffidenza ascrivibili a motivazioni di ordine diverso – dai rigurgiti xenofobi e razzisti a paure indotte dal confronto con la diversità, dall’incremento della malavita e dalla minaccia sempre incombente del terrorismo – manifestano l’esistenza di uno stato di disagio diffuso, che non può essere sottaciuto. Sono comprensibili alcune delle ragioni di tale disagio, ma non si può negare che la reazione negativa nei confronti dell’approvazione dello ius soli costituisce una forma di grave anacronismo; rivela, in altri termini, la presenza di un atteggiamento miope, l’incapacità di comprendere i cambiamenti in atto sullo scenario mondiale e di fare i conti con l’inarrestabilità dei processi in corso. Il fenomeno della globalizzazione, che procede con ritmo accelerato, e la caduta delle distanze fisico-geografiche, dovute ai nuovi mezzi di locomozione, favoriscono rapidi trasferimenti di intere popolazioni, soprattutto dal Sud del mondo, e danno luogo a veri e propri esodi dovuti a situazioni di guerra o a condizioni di estrema povertà. contraddizioni e dati preoccupanti L’area dell’interscambio sociale e culturale si è dunque sempre più dilatata fino a raggiungere dimensioni mondiali, sia per l’avanzare di un unico mercato sia per l’affermarsi di un sistema informativo che, grazie alle reti telematiche e al web, dà origine a una società multietnica e multiculturale. Non può pertanto che sorprendere la crescita di forme esasperate di particolarismo e di provincialismo, di settarismo e di nazionalismo, che coinvolgono una parte consistente della popolazione italiana, spesso influenzata dagli interventi scandalistici dei media, che indulgono nella descrizione di episodi incresciosi, alimentando le paure e suscitando atteggiamenti e comportamenti ispirati a una forma di chiusura corporativa e caratterizzati dal respingimento di ogni diversità. Un ruolo particolare riveste, in questo quadro, la politica, che non esita a cavalcare gli istinti meno nobili della gente, in vista della ricerca del consenso. L’attuale periodo preelettorale costituisce un’occasione propizia per il perseguimento di questo obiettivo. Questo spiega la volgarità delle prese di posizione di alcuni partiti – la Lega in particolare (ma, in certa misura, l’intero centrodestra) – nei confronti dello ius soli. I toni apocalittici adottati da uomini politici – Salvini in primis – che insistono sulle ricadute catastrofiche dell’approvazione della legge in questione risentono di questo clima; sono dettate cioè da fini elettoralistici. La scorrettezza morale di questo comportamento è evidente: in gioco vi è la stessa credibilità della politica, già fortemente minata da episodi scandalistici (e non solo), che ne hanno gravemente compromessa l’immagine. La violenza con cui in alcuni strati della popolazione si è reagito (e si reagisce) alla proposta di riconoscimento dello ius soli non è esente, d’altronde, da evidenti contraddizioni. Non sono pochi coloro che danno personalmente scarso rilievo alla cittadinanza, non riconoscendone l’importanza e non assumendosi soprattutto doveri e responsabilità che da essa derivano, e si oppongono, nello stesso tempo, alla condivisione di questo diritto, rifiutando di estenderlo ad altri cittadini nati nella stessa nazione. l’importanza della cittadinanza L’acquisizione del diritto di cittadinanza riveste una grande importanza per la vita della persona: si tratta infatti della dimensione politica della vita personale. Chi non è riconosciuto come cittadino, nei suoi diritti e nei suoi doveri, dalla comunità in cui vive è come se non esistesse nello spazio pubblico. A subentrare è dunque una condizione di marginalità, che, oltre ad impedire ogni forma di partecipazione civile per l’impossibilità di esercitare alcuni fondamentali diritti – in primo luogo quello di voto – genera uno stato di disagio esistenziale, che si traduce nel rifiuto di ogni forma di integrazione e può talora sfociare in forme di violenza. Al di là delle motivazioni di ordine morale, che hanno senz’altro il primato – il diritto di
cittadinanza è conseguenza diretta (e necessaria) dal riconoscimento della uguaglianza e della pari dignità di ogni persona umana e riveste dunque il carattere di un vero imperativo etico – esistono pertanto anche ragioni di opportunità politica che non vanno sottovalutate, se si considera, ad esempio, che molti degli autori delle recenti stragi di matrice islamica sono emigrati di seconda generazione, che, nonostante siano nati nei vari Paesi europei, sperimentano una situazione di estraneità, la quale favorisce la coltivazione di sentimenti di ostilità e di odio nei confronti della nazione, in cui si sono trovati, fin dall’inizio della loro esistenza, inseriti. verso una cittadinanza universale Il riconoscimento dello ius soli non è, d’altronde, che il primo passo (per alcuni addirittura superato) di un processo, già in atto nei fatti, di universalizzazione della cittadinanza. I cittadini del terzo millennio hanno infatti una percezione dell’appartenenza che ha come orizzonte il mondo. La sfida da affrontare è dunque la costruzione di una nuova democrazia cosmopolitica, nella quale prenda forma una cittadinanza, che separi il popolo (demos) dall’etnia di appartenenza (ethnos); che sappia, in altri termini, coniugare popolo multietnico e cittadinanza globale. Le resistenze sono, in proposito, molte e di grande entità. La causa principale è costituita dal persistere del concetto di Stato-nazione, che provoca una situazione di chiusura astorica, non soltanto negativa ma anche inefficace. Negativa, perché l’assolutismo nazionalista preclude la possibilità di uno scambio allargato tra i vari ambiti della vita sociale e lo sviluppo di un confronto arricchente tra culture diverse. Inefficace, perché in realtà i processi in atto, tanto in campo economico che informativo e culturale, scavalcano ampiamente le frontiere delle singole nazioni e rendono del tutto impotenti gli interventi da esse assunti per regolarne il flusso. l’esempio negativo dell’Europa A riprova di questa situazione è sufficiente richiamare qui la condizione di stallo in cui versa oggi l’Europa. La difficoltà a creare condizioni di effettiva convergenza sul terreno sociopolitico è dovuta all’assenza della volontà da parte degli Stati che compongono l’Unione di identificare una piattaforma di obiettivi comuni e di rinunciare a parte del loro potere per consegnarlo a una autorità superiore – quella europea – e fare fronte insieme ai numerosi e complessi problemi emergenti che esigono prese di posizione allargate, le sole in grado di incidere sul tessuto internazionale e mondiale. Non si può che condividere, al riguardo, il giudizio di Donald Sassoon, il quale non manca di segnalare il paradosso che caratterizza l’atteggiamento di molti nei confronti del progetto europeo. «Al momento – egli scrive – lo Stato-nazione è ancora il riferimento principale in materia di identità politica per la maggior parte degli europei, anche se esiste un rigetto crescente verso i politici nazionali. Il paradosso è che sarebbe legittimo aspettarsi che gli europei, delusi della politica nazionale, guardino all’Unione Europea; invece succede che la collera contro la classe politica si trasforma in opposizione contro l’Europa e in sostegno alle destre nazionaliste» (Stati-nazione d’Europa, Il Sole 24 ore, 19 marzo 2017, p. 29). L’assenza di un patriottismo europeo e la scarsa attenzione delle istituzioni europee alla dimensione sociale, con l’inevitabile accentuarsi delle diseguaglianze tra le nazioni, sono fattori che spiegano senza dubbio in parte questa diffidenza, ma non si può negare che, accanto ad essi, sussistano forme pericolose di particolarismo e di provincialismo, che denunciano l’incapacità di prendere consapevolezza di quanto già succede e di guardare, con lungimiranza e coraggio, in avanti. Ben venga, dunque (senza troppe restrizioni) lo ius soli, «l’offerta di cittadinanza – come ha ricordato di recente papa Francesco – slegata da requisiti economici e linguistici». È un primo importante passo dal quale non si può, nella situazione attuale del nostro Paese, prescindere. Ma l’obiettivo a cui tendere, e che appare sempre più necessario, stante la presenza indiscussa di un universalismo inarrestabile, è l’affermarsi di un «orizzonte postnazionale» – come lo definisce Habermas – che ha quale sbocco la realizzazione di una cittadinanza globale volta a garantire a tutti gli uomini e a tutti i popoli una positiva convivenza in una società mondiale solidale e pacifica.
disarmare il mondo non può essere un miraggio utopico
papa Francesco
il disarmo integrale non è un’utopia
non utopia, ma sano realismo
cl
Le armi nucleari producono “catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali”, e sono la conseguenza della “logica di paura” che affligge il pianeta. È il grido d’allarme di Papa Francesco, che ricevendo oggi (10 novembre) in udienza i partecipanti al Simposio internazionale sul disarmo, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, sul tema: “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale”, ha condannato con fermezza la minaccia dell’uso delle armi nucleari – ormai diffuso anche via Internet – ma ha anche esortato a mettere da parte il “fosco pessimismo” a favore di un “sano realismo”. Come quello che ha portato alla recente “storica votazione” all’Onu sulle armi nucleari come illegittimo strumento di guerra. A 50 anni dalla Populorum progressio, “lo sviluppo integrale è la strada del bene che la famiglia umana è chiamata a percorrere”. E il disarmo integrale, auspicato da Giovanni XXIII nella Pacem in terris, attende ancora di essere realizzato. Al Simposio, in corso fino a domani in Vaticano, partecipano 11 premi Nobel per la pace, vertici di Onu e Nato, diplomatici rappresentanti degli Stati tra cui Russia, Stati Uniti, Corea del Sud, Iran, nonché massimi esperti nel campo degli armamenti ed esponenti delle fondazioni, organizzazioni e società civile impegnate attivamente sul tema. Presenti, inoltre, rappresentanti delle Conferenze episcopali e delle Chiese, a livello ecumenico e di altre fedi, e delle delegazioni di docenti e studenti provenienti dalle Università di Stati Uniti, Russia e Unione europea.
“Anche considerando il rischio di una detonazione accidentale di tali armi per un errore di qualsiasi genere – l’esordio di Francesco – è da condannare con fermezza la minaccia del loro uso, nonché il loro stesso possesso, proprio perché la loro esistenza è funzionale a una logica di paura che non riguarda solo le parti in conflitto, ma l’intero genere umano”.
La spirale della corsa agli armamenti non conosce sosta, così come i costi di ammodernamento e sviluppo delle armi – non solo nucleari – che rappresentano una voce di spesa considerevole per le nazioni, al punto da mettere in secondo piano temi come la lotta contro la povertà, la promozione della pace, la realizzazione di progetti educativi, ecologici e sanitari e lo sviluppo dei diritti umani.
“Non possiamo non provare un vivo senso di inquietudine se consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari”, il grido d’allarme del Papa: “Le relazioni internazionali non possono essere dominate dalla forza militare, dalle intimidazioni reciproche, dall’ostentazione degli arsenali bellici”.
Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche, generano un ingannevole senso di sicurezza. Se non vogliamo compromettere il futuro dell’umanità, dobbiamo imparare dalla testimonianza degli “hibakusha”, cioè delle persone colpite dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki: “Che la loro voce profetica sia un monito soprattutto per le nuove generazioni!”. Le tecnologie nucleari si diffondono ormai anche attraverso la Rete, e neanche gli strumenti di diritto internazionale hanno impedito che nuovi Stati si aggiungessero alla cerchia dei possessori di armi atomiche. Il Papa parla di “scenari angoscianti”, che nello scacchiere geopolitico si affiancano a quelli del terrorismo o dei conflitti asimmetrici.
Eppure, nonostante il “fosco pessimismo” di cui potremmo cadere vittime, “un sano realismo non cessa di accendere sul nostro mondo disordinato le luci della speranza”. Francesco cita la recente votazione Onu sulle armi nucleari come illegittimo strumento di guerra, che colma un vuoto giuridico importante e si unisce alla messa al bando, già proibita attraverso Convenzioni internazionali, delle armi chimiche, quelle biologiche, le mine antiuomo e le bombe a grappolo. Risultati, questi, dovuti principalmente
“a una iniziativa umanitaria promossa da una valida alleanza tra società civile, Stati, organizzazioni internazionali, Chiese, accademie e gruppi di esperti”.
In questo contesto si colloca anche il documento consegnato al Papa dagli 11 premi Nobel per la pace presenti al simposio internazionale, per il quale Francesco ha espresso il suo “grato apprezzamento”.
Francesco ha poi menzionato il 50° anniversario della Populorum progressio, “memorabile e attualissimo documento in cui Paolo VI ha coniato la definizione di “sviluppo umano integrale”, cioè “volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”.
“Occorre dunque innanzitutto rigettare la cultura dello scarto e avere cura delle persone e dei popoli che soffrono le più dolorose disuguaglianze, attraverso un’opera che sappia privilegiare con pazienza i processi solidali rispetto all’egoismo degli interessi contingenti”. Si è concluso con questo invito il discorso del Papa, secondo il quale soltanto
“un progresso effettivo e inclusivo può rendere attuabile l’utopia di un mondo privo di micidiali strumenti di offesa, nonostante la critica di coloro che ritengono idealistici i processi di smantellamento degli arsenali”.
In questa prospettiva, resta sempre valido il magistero di Giovanni XXIII, che ha indicato con chiarezza l’obiettivo di un disarmo integrale, e quello di Paolo VI, a 50 anni dalla Populorum progressio.
il messaggio ‘antirazzista’ di Gesù
un cristiano autentico non può essere razzista
‘ero straniero e mi avete accolto’
la grande attualità del messaggio ‘antirazzista’ di Gesù
L’AUTORE –Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici«G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita, Roba da preti; Nostra Signora degli eretici;Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ da poco uscito per Garzanti L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita.
“Prima noi”, è il mantra con il quale si mascherano spietati egoismi e si giustificano inaudite durezze di cuore. È la formula magica di quanti chiariscono subito “non sono razzista, però…”, un “però” eretto come un invalicabile muro a difesa del “noi”, pronome che include, a secondo degli interessi, un popolo o la famiglia, una religione o un quartiere. Mentre per “prima” s’intende l’accesso e l’esclusiva precedenza a tutto quel che permette alla vita di essere dignitosa, dalla casa al lavoro, dall’assistenza sanitaria alla scuola; beni e valori che, sono fuori discussione, devono essere riservati per primi a chi ne ha pienamente diritto per questioni di lignaggio. Ovviamente, al “noi” si contrappone il “loro”, che include per escluderli, tutti quelli che non appartengono allo stesso popolo, alla stessa cultura, società, religione, o famiglia.
“Prima noi”, poi, eventualmente, se proprio ci avanza, si possono dare le briciole a chi ne ha bisogno, ovvero all’estraneo che attenta al nostro benessere economico, ai valori civili e religiosi della nostra società e alle nostre sacrosante tradizioni. “Loro” sono gli stranieri, i barbari. In ogni cultura chi proviene da fuori, incute paura. Lo straniero è un barbaro, colui cioè che emette suoni incomprensibili, (dal sanscrito barbara = balbuziente), colui che parla una lingua incomprensibile e che nel mondo greco passò a significare quel che è selvaggio, rozzo, feroce, incivile, indigeno.
Nonostante nella Scrittura si trovino indicazioni che mirano alla protezione dello straniero (“Non maltratterai lo straniero e non l’opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”, Es 22,21), Gesù si è trovato a vivere in una realtà dove il forestiero andava evitato, e persino dopo la morte veniva seppellito a parte, in un luogo considerato impuro (“Il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri” Mt 27,7). Al tempo di Gesù vige una separazione totale tra giudei e stranieri, come riconosce Pietro: “Voi sapete come non sia lecito a un giudeo di aver relazioni con uno straniero o di entrar in casa sua” (At 10,28).
In questo ambiente stupisce il comportamento del Cristo che da una parte arriva a identificarsi con gli ultimi della società (“Ero straniero e mi avete accolto”, Mt 25,35.43), e proclama benedetti quanti avranno ospitato lo straniero (“Venite benedetti del Padre mio”¸ Mt 25,34), dall’altra, Gesù accusa con parole tremende quelli che non lo fanno (“Via, lontano da me, maledetti… perché ero straniero e non mi avete accolto”, Mt 25,41.43), con una maledizione che richiama quella del primo assassino della Bibbia, il fratricida Caino (“Ora sii maledetto”, Gen 4,11). Se la risposta alle altrui necessità era un fattore di vita, la mancata risposta è causa di morte. Per Gesù negare l’aiuto all’altro è come ucciderlo.Gesù non solo si identifica nello straniero, ma nei vangeli il suo elogio va proprio per i pagani, personaggi tutti positivi (eccetto Pilato in quanto incarnazione del potere) e portatori di ricchezza. Si teme sempre cosa e quanto si debba dare allo straniero e non si riconosce quel che si riceve dallo stesso. Nella sua attività Gesù si troverà di fronte ottusità e incredulità persino da parte della sua famiglia e dei suoi stessi paesani, ma resterà ammirato dalla fede di uno straniero, il Centurione, e annuncerà che mentre i pagani entreranno nel suo regno, gli israeliti ne resteranno esclusi (Mt 8,5-13; Mt 27,54).
Nella sinagoga di Nazaret, il suo paese, Gesù rischierà il linciaggio per aver avuto l’ardire di tirare fuori dal dimenticatoio due storie che gli ebrei preferivano ignorare: Dio in casi di emergenza e di bisogno non fa distinzione tra il popolo eletto e i pagani, ma dirige il suo amore a chi più lo necessita. Così nel caso di una grande carestia che colpì tutto il paese, aiutò una straniera, una pagana, “una vedova a Sarepta di Sidone” (Lc 4,26), e con tutti i lebbrosi che c’erano al tempo del profeta Eliseo, il signore guarì uno straniero: “Naamàn, il Siro” (Lc 4,27).Prima noi? Gesù, manifestazione vivente dell’amore universale del Padre, vuole condividere i pani in terra pagana così come ha fatto in Israele (Mt 14,13-21). La resistenza dei discepoli di portare anche agli stranieri la buona notizia, viene dagli evangelisti raffigurata nell’incontro di Gesù con una donna straniera, cananea (fenicia) che invoca la liberazione della figlia da un demonio (Mt 15,22). La donna, succube dell’ideologia nazional religiosa che faceva ritenere i pagani inferiori ai Giudei, si accontenterebbe di poco, anche delle briciole (“Sì, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro signori”, Mt 15,27). Nella tradizione biblica i figli di Israele sono chiamati a dominare le nazioni pagane, mentre i pagani sono destinati ad essere dominati. Non c’è uguaglianza tra gli appartenenti al popolo eletto e gli esclusi. Gli uni sono figli, e gli altri cani, animali ritenuti impuri e portatori del demonio. Per questo non si può dare il pane a quanti, per la loro condizione di pagani, sono veicolo di impurità e contaminazione.Sarà una donna, per giunta pagana, a impartire una lezione ai discepoli del Cristo. Costei ha infatti compreso che non ci sono dei figli e dei cani, quelli che meritano e gli esclusi, quelli che hanno diritto e quelli no, un prima (noi) e un dopo (gli altri), ma tutti possono cibarsi insieme, e allo stesso tempo, dell’unico pane che alimenta la vita. Essa comprende quello che i discepoli fanno fatica a capire e ad accettare, cioè, che la compassione e l’amore vanno al di là delle divisioni razziali, etniche e religiose.La reazione di Gesù è di grande ammirazione: “Allora Gesù le replicò: Donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come vuoi”. (Mt 15,28), e ai pagani Gesù non concederà le briciole, ma anche in terra straniera ci sarà l’abbondante condivisione dei pani, segni della benedizione divina (Mt 15,32-39).
L’esperienza e il messaggio di Gesù verranno poi raccolti dagli altri autori del Nuovo Testamento, in particolare da Paolo, che in occasione di un naufragio, si stupirà per la “rara umanità” con cui lui e gli altri naufraghi sono stati ospitati dai barbari di Malta (At 28,2), e arriverà a capire una verità importante: “Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11; Gal 3,28).La Chiesa ha compreso e annuncia che con Gesù non si possono innalzare barriere, ma solo abbattere tutti i muri che gli uomini hanno costruito (“Egli infatti è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che ci divideva…”, Ef 2,14), non solo i muri esteriori (mattoni), forse i più facili da demolire, ma quelli interiori (pregiudizi), mentali, teologici, morali, religiosi, i più difficili da estirpare perché li crediamo buoni o di provenienza divina.
la teologia verso il superamento dell’idea di laicato come paternalistica concessione a dei ‘sudditi’
non laici ma cristiani testimoni
di Franco Giulio Brambilla
in “Avvenire” dell’8 novembre 2017
una riflessione del vescovo di Novara sul saggio di Vergottini dedicato al superamento dell’attuale idea di laicato
Marco Vergottini
Edb, pagine 302, euro 25,00
Durante il Concilio il laico è stato il convitato di pietra per un profondo ripensamento della missione della chiesa nel mondo. ‘Accelerare l’ora dei laici’: questo è stato il Leitmotiv del postconcilio, tanto retoricamente proclamato, quanto praticamente poco esplorato. La ‘teologia del laicato’ del Novecento ha cercato di custodire lo ‘spazio del laico’ all’interno dello schema della teologia dei due ordini (natura e soprannatura), rimanendone in qualche modo imbrigliata. Il lavoro di Marco Vergottini (Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato; Edb, pagine 302, euro 25,00) disegna tale parabola per cavarne il ‘sugo della storia’. Dopo averla praticata per molto tempo, ne ha raccolto il guadagno. Bisogna dichiarare esaurita la ‘teologia del laicato’ proprio per ereditare lo ‘spazio del laico’ nella missione della Chiesa. La questione del laico cristiano ha oscillato tra la rivendicazione di uno spazio nella Chiesa accanto ai chierici e ai religiosi e la concessione di un compito nel mondo che riconosca la sua ‘indole secolare’. Pare che il laico per trovare la sua specificità nella chiesa debba traslocare nel mondo per ‘animarlo cristianamente’ o, secondo l’altra formula, per «ordinare le cose del mondo secondo Dio». In tale slittamento consiste la questione del laico, ma la sua soluzione non sta nel déplacement del laico nel mondo. Questo è il filo rosso nella ricostruzione di Vergottini lungo il secolo XX. I capitoli dispari formano come un trittico che aiuta a leggere il plesso laico-laicato-laicità con una freschezza che toglie la discussione dalle secche dei poteri e pone la questione del laico come asse per ripensare il rapporto chiesa-mondo, e più ancora radicalmente la relazione cristologiaantropologia. L’avventura della ricerca parte mettendo in discussione la polisemia del rapporto laico-laicità-laicato nella storia, dichiarando sia l’indeterminatezza della cifra linguistica (laikós, idiótes, laicus, plebeius, rispettivamente in greco e latino), sia la diversità del referente storico. Mette in guardia da ogni intelligenza teologica solo a partire dall’analisi dei campi linguistici. Per non parlare dell’utilizzo moderno e odierno della semantica laico-laicità, tra cui emerge l’uso francofono di laïcité, che significa neutralità pubblica nei confronti della religione e marginalizzazione della religione nello spazio privato. Merita una sosta nel terzo capitolo sul pensiero di alcune personalità (G.B. Montini – J. Guitton). Si tratta di due figure che promuovono lo ‘spazio del laico’ oltre la sua univoca codificazione teologica. Si legge con vero diletto questa parte che mostra come la teologia del laicato non può non considerare la mutazione storica della presenza civile del laico. Il percorso si concentra, infine, sull’episodio più rilevante del postconcilio, che porta alla riapertura del dossier sui laici intorno al Sinodo dell’87 (Christifideles Laici). Qui la discussione entra nel conflitto delle interpretazioni: a) la ‘secolarità’ come indole peculiare dei laici; b) la ‘teologia dei ministeri’ nel quadro del binomio comunità- ministeri; c) la ‘laicità’ come dimensione caratteristica di tutto il popolo di Dio; d) il superamento della figura del ‘laico’ in quella del ‘cristiano’. È un dibattito tutto italiano sulla cui scena sfilano i protagonisti del Novecento (Lazzati, Forte, Dianich, Canobbio, la ‘scuola di Milano’). È stato il momento più alto del postconcilio nella discussione ecclesiologica sul laico. I capitoli pari del racconto presentano una disamina della ‘teologia del laicato’ nel maggiore dei suoi rappresentanti (Y. Congar) e nel momento epocale del Vaticano II. Vergottini qui non fa solo un’opera di compilazione, ma esercita la sua maestria proponendo una vera decostruzione del
lavoro pionieristico di Congar e una ricostruzione della teologia conciliare. Senza la pretesa di appiattirla in una visione omogenea. Il ‘prendere congedo’ dalla teologia sui laici comporta «la ricomprensione in una prospettiva più originaria della loro identità cristiana e della condizione in cui versano». La proposta finale è secca: non bisogna parlare del cristiano laico, ma del cristiano testimone. Che ci si guadagna? Vergottini innesta il principio ‘distintivo’ del concetto di laico (l’indole secolare) nella struttura ‘unificante’ del cristiano (l’essere testimone). La ‘definizione tipologica’ conciliare del laico faticava a coordinare la necessità del suo rapporto al mondo (suo carattere secolare) e del suo riferimento a Cristo (da ordinare secondo Dio). Andando al di là di una definizione essenziale o di un compito funzionale del laico, l’essere testimoni è la modalità ‘spirituale’ con cui Cristo è donato al mondo e il mondo entra in comunione con Cristo. Ciò accade in una pluralità di figure cristiane, di cui la categoria di laico ha finora difeso lo spazio, ma non ne ha esaltata la missione. Tale definizione ha sospinto il laico in un luogo separato dalle altre figure cristiane, senza mostrare che anch’esse (chierici e religiosi) erano connotate dalla stessa dinamica della testimonianza. Liberata da questa strettoia, la testimonianza del laico si potrà attuare in una pluralità infinita di figure, così ricche per il contributo dell’immersione del credente nella storia del mondo, ma anche così diverse per la genialità dello Spirito nel ricondurre questa storia a Cristo. Alla fine resta la domanda cruciale: la riflessione sul laico può ereditare la ‘teologia del laicato’ mettendo al centro la questione del ‘cristiano testimone’? Forse è necessario abbozzare il profilo del cristiano sotto l’aspetto teologico-pratico. Solo il cimento pratico del cristiano nella storia e la configurazione a Cristo delle vicende umane nella vita di ogni battezzato possono diventare il luogo di uno scambio simbolico che accade nella carne viva della testimonianza del cristiano. La vita della Chiesa è a servizio di tale ‘meraviglioso scambio’ che brilla nella testimonianza del credente. Del cristiano testimone!
il cristiano testimone
intervista a Marco Vergottini
a cura di Redazione Azione Cattolica Ambrosiana
Marco Vergottini
“Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato”
Il testo consiste in una vera e propria ricerca, che affonda le sue origini nell’interesse dell’autore stesso per la figura del laico, maturata in Azione Cattolica a Milano. Il volume presenta in apertura una Prefazione del vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla, che così apre il contributo: «L’opera di Marco Vergottini, che abbiamo tra le mani, si presenta con la veste di una quaestio disputata su uno dei temi che ha maggiormente marcato l’ecclesiologia del Vaticano II ed è stato ripreso più volte nella teologia seguente. Il laico, infatti, è stato il convitato di pietra per un profondo ripensamento della dottrina del concilio sulla Chiesa, nonostante sia noto che le discussioni più accanite siano avvenute sul rapporto tra primato ed episcopato. Nel post-concilio, il Leitmotiv è stato “accelerare l’ora dei laici”, uno slogan tanto retoricamente proclamato, quanto praticamente poco esplorato».
Ne parliamo con l’autore.
Il mio primo studio sulla bibliografia dei laici è comparso in una raccolta di contributi dal titolo Laicità e vocazione dei laici nella Chiesa e nel mondo, pubblicato 30 anni fa, a cura del Centro Studi dell’Azione Cattolica milanese, coordinato da Antonietta Cargnel. Don Franco Giulio coglie puntualmente il “cuore” della proposta. Il mio intento è proprio di mettere a fuoco la figura del fedele laico ‒ categoria su cui l’Ac durante i suoi 150 anni di storia ha dedicato con passione la sua riflessione teologica e il suo apostolato. Basti pensare al contributo di Giuseppe Lazzati, Vittorio Bachelet, Alberto Monticone, Paola Bignardi, per fare solo alcuni nomi. Ebbene, la mia sollecitazione – un po’ provocatoria ‒ è che forse i molti studi sul laicato hanno privilegiato il IV capitolo della Lumen gentium, dedicato ai fedeli laici e il decreto sull’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem), mettendo un po’ la sordina sul capitolo II della Lumen gentium, in cui è messa a fuoco la realtà della Chiesa come popolo di Dio. In questo senso, ho cercato di mostrare come la nozione di cristiano risulti più radicale e pregnante rispetto a quella di laico.
La tua proposta provoca in positivo l’Azione Cattolica, che da sempre, fin da prima del Concilio, ha insistito con forza sulla cifra del laico e sulla sua indole secolare.
Se si scorre la monumentale produzione letteraria del cardinale Martini, ci si imbatte in un uso tutto sommato parco e trattenuto dell’espressione laici, per indicare i comuni fedeli cristiani. La qual cosa – va da sé – è un segnale di una scelta intenzionale, niente affatto accidentale. In un intervento del 1969, padre Martini si poneva un duplice interrogativo «Che cosa vuol dire essere cristiani? Che cosa significa testimoniare Cristo nel mondo di oggi?», istituendo una perspicace corrispondenza fra cristiano e testimone (ora in C.M. Martini, Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel mondo di oggi, Milano, In Dialogo 2016, 35). In breve, si potrebbe concludere che il laico altri non è che il “cristiano testimone”.
Ritorniamo al Vaticano II. Come giustifichi il fatto che la categoria di laico possa essere inverata in quella di “cristiano testimone”, se è vero che nel Concilio il termine laico ritorna in ben 14 dei 16 testi promulgati?
Nel mio libro cerco di mostrare che l’effettivo incremento della prospettiva del Vaticano II sull’argomento non dev’essere ritrovato nel cap. IV di Lumen Gentium, laddove la “secolarità” è presentata come nota qualificante del fedele laico (un’impostazione che di fatto costituisce una ripresa mitigata delle tesi della tradizionale “teologia del laicato”) e neppure nel decreto sui laici, Apostolicam actuositatem. La vera novità del Vaticano II è costituita piuttosto dall’insistenza con cui i padri conciliari hanno inteso propiziare nei fedeli laici la consapevolezza di dover fuoriuscire da una condizione di effettiva minorità rispetto ai ministri ordinati e a quanti hanno abbracciato la vita religiosa: da un lato, infatti, col Concilio si assiste a una reintegrazione di ogni battezzato entro il quadro di un’appartenenza ecclesiastica più egualitaria e partecipata; dall’altro, in ogni momento e situazione del vivere ordinario ‒ sul piano delle relazioni familiari, professionali, civili e politiche ‒ i comuni credenti sono chiamati a riscoprire la qualità spirituale dell’esperienza di fede. Coerentemente, c’è da chiedersi se un’autentica ermeneutica della lezione conciliare ‒ il cui nocciolo è costituito dall’insegnamento del carattere storico della rivelazione, della dimensione esperienziale del credere, del processo di inculturazione che contraddistingue la realtà della fede cristiana e della Chiesa come popolo (storico) di Dio ‒ non solleciti la coscienza credente a smettere i panni di quella rappresentazione essenzialistica, fissistica, intellettualistica del dato cristiano, entro cui si origina l’illusione di poter quasi isolare in vitro la “quintessenza” del laico.
Quindi tu proponi di superare la stagione della “teologia del laicato” e “archiviare” l’espressione laico?
Precisamente! Basti solo pensare che dalla ricerca etimologica sui primi secoli del cristianesimo, emerge come il termine laikos non designi affatto il «membro del popolo di Dio», bensì il suddito, colui che è sottoposto alla gerarchia. La novità del mio studio ‒ che certo amerei potesse essere fatto oggetto di discussione non soltanto da parte della stretta cerchia degli specialisti, ma anche nell’ambito dell’Azione cattolica, di cui mi vanto di essere aderente da sempre ‒ risiede nella proposta di “storicizzare” il termine e la figura del laico, per innescare un ripensamento radicale della questione, in vista di un fattivo riassestamento della sistematica teologica e della teologia pratica, lasciando affiorare un promettente e suggestivo rilancio nella nozione teologicofondamentale di cristiano-testimone.
la campagna dei vescovi italiani a favore dei migranti
migrazioni
al via la campagna Cei
«liberi di partire, liberi di restare»
È online il sito dell’iniziativa della Chiesa italiana per il sostegno ai migranti nei paesi di partenza, di transito e di accoglienza, finanziato con 30 milioni di euro dell’8 per mille
alcuni dei 304 migranti salvati il 18 agosto dalla ong maltese Moas
Si chiama significativamente «Liberi di partire, liberi di restare» la campagna lanciata dalla Conferenza episcopale italiana per dare una risposta concreta al fenomeno, non di rado drammatico, delle migrazioni dai paesi in via di sviluppo. Una definizione che è anche l’indirizzo web dell’omonimo sito liberidipartireliberidirestare.it realizzato per seguire lo sviluppo delle iniziative. Per finanziarle la Cei ha assegnato 30 milioni di euro dell’8xmille
L’agenzia Sir, che lancia l’iniziativa, definisce la campagna «una finestra sul mondo, lo specchio di un impegno corale che va oltre i cori da stadio e l’indifferenza». Scopo del progetto è sensibilizzare la popolazione italiana sul tema, e allo stesso tempo realizzare progetti concreti nei Paesi di partenza, di transito e di accoglienza di quanti. Nei paesi cioè da cui, specialmente bambini e donne, fuggono da guerre, fame e violenza.
Perché dire «aiutiamoli a casa loro significa solo scaricare il problema». Occorre invece dare a tutti la possibilità di decidere. È questo il senso della Campagna della Cei “Liberi di partire, liberi di restare” che ha come tema centrale il diritto alla libertà, presupposto fondamentale per la pace e la giustizia. «Nessuno deve essere costretto a stare in un posto dove non può vivere una vita dignitosa o dove c’è violenza. Nello stesso tempo ognuno ha il diritto di muoversi perché la terra è di tutti, non di alcuni sì e di altri no», afferma don Leonardo Di Mauro, responsabile del Servizio degli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo, sottolineando che con questa iniziativa «vorremmo che il concetto di libertà di partire, di emigrare, valesse a 360 gradi».
Il portale accompagnerà lo svolgersi della Campagna, raccontando le storie e le testimonianze delle persone coinvolte, sia dei promotori delle attività sia dei loro beneficiari. Al momento sono 6 i paesi coinvolti attraverso 4 progetti, finanziati con 600 mila euro. La grande mappa, che campeggia sulla home page, permette di visitare virtualmente i luoghi di intervento, per scoprire cosa vi si realizza e con quante risorse. La sezione news invece aiuta ad approfondire il significato e gli ambiti di questa iniziativa straordinaria della Cei grazie alle voci dei protagonisti e di quanti – uffici Cei, associazioni, diocesi e realtà locali- vi sono impegnati. Il sito, disponibile anche in inglese e francese, raccoglie infine tutti i materiali che l’agenzia Sir, il quotidiano Avvenire, RadioinBlu e Tv2000 pubblicano a riguardo.
Tra i progetti al momento attivati c’è a Catania «Semi di accoglienza», partito a giugno con un contributo di 86 mila euro. Si tratta di un laboratorio di sartoria etnica e uno di pasta fresca per aiutare l’inserimento nel mondo del lavoro delle ragazze che hanno vissuto il dramma della tratta. Il progetto, presentato dalle suore Serve della Divina Provvidenza di Catania, ha come obiettivo la formazione professionale delle ragazze ospiti delle diverse realtà di accoglienza de “la Casa di Agata”. I fondi saranno utilizzati per potenziare le attività già in atto, migliorando la qualità delle realizzazioni di sartoria, e per creare un negozio per la vendita diretta di prodotti di pasta fresca con un canale di commercializzazione di prenotazione e consegna domiciliare.
Poi c’è «Il diritto a non fuggire», avviato a maggio con 420 mila euro, che ha come obiettivo la formazione in Italia di giovani per sviluppare in Mali progetti che possano incidere nella realtà locale, innescando un cambiamento sociale, economico e politico. Grazie al progetto promosso dall’Associazione Rondine Cittadella della Pace, sei giovani maliani frequenteranno un master di primo livello o una scuola di alta professionalizzazione sui temi della gestione dei conflitti, della riconciliazione e delle abilità di comunicazione. Per dare un contributo concreto al processo di pace in Mali, un Paese ancora caratterizzato da instabilità e insicurezza.
Con 66 mila euro infine è stato lanciato a Pozzallo in Sicilia il progetto «Tutori volontari per minori non accompagnati». L’inixiativa nasce dalla constatazione che sono stati oltre 17 mila i minori non accompagnati arrivati in Italia nel 2016. Si tratta di bambini e ragazzi vulnerabili che, per essere tutelati, hanno bisogno di un adulto che possa accompagnarli e rappresentarli legalmente negli adempimenti amministrativi. Per questo la cooperativa sociale Fo.Co, che coordina il Centro Mediterraneo di Studi e Formazione Giorgio La Pira di Pozzallo, promuove in Sicilia un progetto per sensibilizzare, informare e formare 300 tutori volontari per minori non accompagnati.
si tratta di non imbarbarire il dialogo uccidendo la pietà
non imbarbariamo il dialogo
mettendo
i ricchi contro i poveri,
i poveri contro i miseri,
i miseri contro chi appena sopravvive
QUANDO MUORE LA PIETÀ
la morte richiede sempre rispetto
tanto più se ci si dice cristiani
tanto più se si chiede di preservare i valori del nostro paese
Non si tratta di discutere come accogliere e come integrare, si tratta di non imbarbarire il dialogo, di non appestare l’aria con insulti, violenze verbali, richiesta di cancellare la vita degli altri. Mettendo I ricchi contro I poveri, I poveri contro I miseri, I miseri contro chi appena sopravvive. In una discesa verso il basso che cancella, questa sì, i valori del nostro paese. Quelli che la Costituzione ha sancito. Quelli che dobbiamo imparare a rispettare per primi se vogliamo che lo facciano anche coloro che arrivano DA noi.
papa Francesco non è eretico – parola dei professori della Gregoriana
“dal chiodo alla chiave: la teologia fondamentale di Papa Francesco”
un libro scritto da nove professori della Gregoriana che hanno accolto la sfida del Pontefice: fare questa disciplina insieme, nella chiesa e per il mondo
la copertina del libro
di marco roncalli
Di quale teologia ha bisogno oggi la Chiesa? Di teologi che si compiacciono di un pensiero completo e concluso? No. Perché il teologo deve «trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non un cumulo di nozioni non collegate tra loro». Perché alla Chiesa oggi non serve «una sintesi», ma «una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede». E, in quest’atmosfera, anche la teologia è chiamata a fare proprio «un movimento evangelico» che va dal centro alla periferia e viceversa «secondo la logica di Dio che giunge al centro partendo dalla periferia e per tornare alla periferia». Da qui anche un’ immagine di teologo, tanto più «fecondo ed efficace quanto più sarà animato dall’ amore a Cristo e alla Chiesa, quanto più sarà solida e armoniosa la relazione tra studio e preghiera».
Così Papa Francesco il 10 aprile 2014 rivolgendosi alla comunità della Pontificia Università Gregoriana, sede della facoltà teologica con il più alto numero di studenti, da secoli fucina di teologi per tutti i continenti. Parole che ora aprono il volume
«Dal chiodo alla chiave. La teologia fondamentale di Papa Francesco» (LEV, pagg. 160, 10 euro)
curato da Michelina Tenace, con il contributo di nove professori del Dipartimento di Teologia Fondamentale
della Gregoriana: un libro che, raccogliendo le provocazioni lanciate ai teologi dal pontefice in questa università, ne recupera nel titolo la parola «chiodo»: pronunciata da Francesco quando il gesuita François- Xavier Dumortier, allora Rettore della Gregoriana – nell’incontro ricordato – gli presentò il Direttore del Dipartimento di teologia fondamentale. «Teologia fondamentale! È come succhiare un chiodo!», disse Bergoglio per descrivere questa disciplina spesso declinata nella presunzione di un sapere teologico chiuso su sé stesso (e magari dedotto a priori da enunciati metacronici o predizioni, per dirla con Karl Rahner), o talmente sigillato da favorire quell’aridità del cuore sempre dannosa (e fuori luogo in qualsiasi riflessione su Dio). Un’uscita estemporanea, non dimentica della propria esperienza di studente, chino su manuali dove la morale era fatta di «si può» e «non si può», «fin qui sì» e «fin qui no», alquanto estranea al discernimento. Un modo di fare teologia, avrebbe ricordato in un’altra occasione, che «ha provocato l’atteggiamento casuistico» per risolvere i problemi. «Ciò che c’era nei libri era più reale di ciò che succedeva nella vita ». E tuttavia: «La “grande scolastica”, quella del “grande Tommaso” è quella che “tiene conto della vita”…». E ancora «Quando un’espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde di vista l’umano», così Papa Francesco nel colloquio spontaneo con i Gesuiti il 24 ottobre scorso durante la loro ultima Congregazione Generale, affrontando temi diversi: dal coraggio profetico al clericalismo, dalla pace alla crisi delle vocazioni, dalla politica al discernimento delle situazioni morali in alcune delle quali solo nella preghiera si ha luce sufficiente. In realtà, come coglie nell’introduzione Michelina Tenace, «quando Francesco descrive il vero teologo, in realtà, senza volerlo, rivela sé stesso». «Perciò» – aggiunge – «osiamo dire che, oggi, la teologia fondamentale ha un maestro e un testimone affascinante: il Papa Francesco, che è il papa della teologia fondamentale per il terzo millennio». Beninteso, una volta capito che anche la teologia fondamentale va integrata con l’impegno missionario, la carità fraterna, la condivisione con i poveri, la cura della vita interiore nel rapporto con il Signore; e che – diversamente dal passato in cui si mettevano in opposizione i teologi che si occupavano di dottrina e quelli dediti alla pastorale – in realtà «l’incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale [ma] è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale» (così nel videomessaggio papale al Congresso Internazionale di Teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina all’inizio del settembre 2015). E allora la teologia fondamentale ha in questo anche un suo statuto chiaro. «Si occupa di aprire un passaggio dentro alla Chiesa, fra più realtà in contatto fra di loro: fede, credenza e non credenza; credenze varie a confronto; mondi e culture in dialogo, passato e futuro in ricerca di un senso in Cristo», sintetizza Tenace. Cristo, comunque – detto con von Balthasar – chiave ermeneutica anche di tutte le esperienze dell’umano. Insomma la teologia che non ha legame con la vita e la preghiera è una scienza su Dio che rischia di diventare ideologia: che porta a vedere anche la Chiesa in modo ideologico. Ben diversa la teologia fondamentale delineata nelle pagine di questa raccolta di saggi, che diventa luogo di incontro e di dialogo. Così chiedono a gran voce i nove professori – sei gesuiti e tre professoresse – coautori di questo libro.
Vediamoli qui in sintesi.
Joseph Xavier, nel suo saggio, dato risalto alla riflessione di Francesco collocandola nel solco dei predecessori, testimonia nell’esperienza di Jorge Bergoglio l’importanza del suo incontro personale con Gesù. Notando poi come Papa Francesco insista sul fatto che la fede cristiana derivi dal principio fondamentale che Dio ci ha amati per primo e che, appreso ciò, lo stile di vita del cristiano cambia, nella consapevolezza che lo Spirito Santo continua a fare da guida negli eventi quotidiani. È, a ben guardare, l’invito a un continuo discernimento. Una volta che una persona è divenuta vero discepolo di Cristo, si rende conto che la sua fede non è una teoria prestabilita, ma una prassi. La fede è un invito ad agire come Cristo. Tra i temi più ricorrenti nei testi papali Xavier si sofferma inoltre su due in particolare: la nozione di cammino e l’incapacità di farsi guidare da Dio. In tal caso, Dio è solo un’idea convenzionale, non una realtà vivente che tocca la vita d’ogni giorno. Seguendo le dinamiche di fede nel pensiero del pontefice, Xavier evidenzia infine come per Francesco quando la fede si riduce ad un bandolo di principi e dottrine senza interruzioni, può degenerare in un sistema schiavistico di regole e come essa non possa mai esistere in un assoluto isolamento, ma debba essere condivisa.. Insomma «La fede diventa realtà solo nella vita del popolo» (e qui come non riconoscere con Xavier l’influenza che arriva dalla «teologia del popolo» degli argentini Lucio Gera e Rafael Tello o delle riflessioni della Conferenza Episcopale dell’America Latina?).
Ferenc Patsch descrivendo la situazione mondiale come un «tempo di transizione», dall’era industriale all’era post-industriale, indica la teologia di Francesco come la risposta più adeguata alle sfide che ne conseguono e tra le cifre del Magistero attuale sottolinea il costante riconoscimento della contestualità e della storicità («il modo di dirsi e la condizionatezza socio-culturale della verità, anche quella teologica»). A tal proposito elabora tre applicazioni concrete – la teologia morale, la missiologia, la teologia ecumenica -mostrando come si manifestano i principi individuati nel lavoro concreto del «teologare». Infine individua la vera novità del Magistero di Papa Francesco nell’«autocoscienza dei limiti», nel coraggio con cui esprime «la situazionalità storico-culturale della teologia», nella «convinzione dell’inopportunità di sostituirsi agli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche sui loro territori». È questo il contributo in cui si dilata anche il confronto con il testo di «Amoris Laetitia», nel quale per Patsch Francesco ha dimostrato un grande realismo e un atteggiamento eminentemente pastorale affrontando «in modo compassionevole» la condizione di coloro che vivono in «diverse situazioni dette “irregolari”», e pur «mantenendo il depositum fidei, ovvero salvaguardando l’indissolubilità del matrimonio voluto dallo stesso Cristo» introducendo «una nuova regolazione disciplinare (nota bene: non dottrinale!), concernente la possibilità di ammettere alla comunione eucaristica “in certi casi” i divorziati risposati, dopo un necessario discernimento personale e pastorale e senza più esigere in ogni caso l’impegno alla continenza sessuale».
Andrew Downing i testi di Francesco, in particolare le encicliche sviluppano diversi aspetti di un’unica credenza di base: la fede cristiana affonda le radici nell’incontro storico con Dio; il suo compito nella situazione storica attuale e la sua speranza sono da scoprire in un futuro che Dio e il suo popolo costruiscono insieme. In questo modo, il pontefice palesa come lo stile della sua riflessione teologica sia modellato da una consapevolezza storica della realtà del presente e del passato, anche quando questa rimane aperta all’orizzonte del futuro.
Nicolas Steeves che tratteggia il profilo di Francesco quale Papa tifoso delle immagini (difficile persino contare le tante metafore usate nei suoi discorsi, come pure i tanti gesti simbolici sapientemente diffusi ai media, materiale sovente motivo di critiche), interrogandosi sulla relazione di questa «tattica immaginifica» con la teologia che diviene per Francesco un vero «locus theologicus». E non a caso Steeves richiama quale prima fonte della teologia fondamentale immaginale di Francesco il pensatore Romano Guardini. Non a caso nota che questo ruolo dato alle immagini e all’immaginazione, porta inevitabilmente Francesco ad apprezzare e accogliere, nel rispetto della coerenza della Rivelazione, una certa pluralità nell’ermeneutica della Rivelazione stessa (non consentita da una teologia meramente concettuale). Conclude il gesuita: «Ovviamente, per alcuni, dalla forma mentis più nozionale o sistematica, un tale modus procedendi può disturbare. Tuttavia, bisogna notare che lo stesso Gesù di Nazareth parlava quasi sempre in parabole o con metafore…».
Lumen Gentium e Gaudium et Spes; quarto, operando da gesuita, ha governato in maniera innovativa e ha richiamato l’attenzione al principio che “la fede opera la giustizia”; quinto, ha fatto teologia in modo nuovo». Come? Meno esigente dal punto di vista accademico, gesuita già alla scuola della teologia kerygmatica, nella sua teologia contestuale afferma che i nostri pensieri devono avere sempre qualcosa di incompiuto. Torna il leit motiv del sistema chiuso, che, oggi, può essere considerato tutt’al più una caricatura della teologia.
«Dal chiodo alla chiave: la teologia fondamentale di Papa Francesco», a cura di Michelina Tenace insieme ai professori del Dipartimento di Teologia Fondamentale della Pontificia Università Gregoriana, Libreria Editrice Vaticana, pagg. 160, euro 10
anche la ‘gentilezza’ ha la sua giornata – segno che ce n’è bisogno
un papa dalla grande “potenza semiotica” – un libro di due professori di semiologia
papa Francesco
un papa “pop” dalla grande “potenza semiotica”
intervista a Paolo Peverini e Anna Maria Lorusso, curatori del libro “Il racconto di Francesco”
in anteprima alcuni dettagli sul portale unico dei media vaticani
Papa Francesco è un “Papa pop”, un “Papa leader” che “produce senso”, che comunica “semplicità”, rivelando una grande “potenza semiotica”. Jorge Mario Bergoglio, a quasi cinque anni dall’elezione al soglio di Pietro, è stato capace di “ridefinire alcune aree di senso della cristianità e forse del più generale vivere insieme”. È questo che sottolinea il libro appena pubblicato dalla Luiss University Press
“Il racconto di Francesco. La comunicazione del Papa nell’era della connessione globale”
che sarà presentato per la prima volta alla stampa giovedì 9 novembre nella sede romana della Rai, nella Sala degli Arazzi di viale Mazzini, alla presenza del presidente Rai, Monica Maggioni, e del prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, mons. Dario Edoardo Viganò.
Il Sir ha incontrato in anteprima i due curatori del volume, i semiologi Paolo Peverini (Università Luiss “Guido Carli”, consultore per la Segreteria per la comunicazione) e Anna Maria Lorusso (Università di Bologna), che coinvolgendo altri noti studiosi – tra cui Ruggero Eugeni, Isabella Pezzini e Maria Pia Pozzato – hanno realizzato un’attenta analisi della comunicazione di Papa Francesco, offrendo una prospettiva inedita d’indagine grazie agli strumenti della Semiotica.
Tra le particolarità della pubblicazione c’è un’importante esclusiva: nel suo saggio Peverini, nell’approfondire la comunicazione del Pontefice, richiama alcuni aspetti del nuovo portale unico dei media della Santa Sede, in corso di messa a punto con la riforma, avendo potuto visionare il progetto grazie alla Segreteria per la comunicazione.
Anzitutto il libro, “Il racconto di Francesco”. Nel testo sottolineate come Papa Francesco rappresenti un’occasione particolarmente “ghiotta” per la semiotica.
Papa Francesco è dal nostro punto di vista una specie di potente “macchina semiotica”. Tutti noi, in quanto soggetti umani, siamo macchine semiotiche, nel senso che produciamo senso continuamente, inevitabilmente, talvolta inconsapevolmente, con tutto il nostro fare (non solo quando parliamo ma quando ci vestiamo, gesticoliamo, fotografiamo, etc.). In Papa Francesco, però, è come se le diverse dimensioni della comunicazione assumessero piena visibilità; la sua capacità di ridare significatività e attenzione a modi di essere spesso non marcati, percepiti come casuali (dove si abita, come si telefona, che scarpe si indossano…), è davvero straordinaria e
il modo in cui riesce a far convivere spontaneità e coerenza (quasi programmatica) potrebbero essere una lezione per tutti coloro che si chiedono, a tavolino, come si realizza una comunicazione strategica.
Di fatto il suo modo di comunicare rinnova i codici della comunicazione istituzionale e rituale quasi a ogni passo; il suo modo di restare in equilibrio fra rinnovamento continuo e riconoscibilità, fra immediatezza e carismaticità, costituisce a nostro avviso un caso piuttosto unico di comunicazione pubblica.
#gallery-2{margin:auto}#gallery-2 .gallery-item{float:left;margin-top:10px;text-align:center;width:33%}#gallery-2 img{border:2px solid #cfcfcf}
È molto interessante, di fatto unica, la prospettiva che offrite nel tratteggiare la comunicazione di Francesco, concentrandovi su come il Papa ridefinisce alcune aree di senso della cristianità.
La domanda da cui siamo partiti, nel riflettere su Papa Francesco, aveva sostanzialmente a che fare col suo “successo”, ovvero col fatto che fosse riuscito in poco tempo a ridare credibilità alla Chiesa, a conquistare il consenso di fasce anche non cattoliche di popolazione, che fosse riuscito a stabilire un legame “diretto” con la gente. Tutto ciò ha a che fare certamente col suo modo di comunicare, ma in un senso molto più radicale ed esteso di quanto “comunicazione pubblica” possa far intendere. Si trattava per noi di indagare il suo modo di essere tout court, anche quando apparentemente non comunica (certe scelte pragmatiche ad esempio, come indossare un determinato orologio o un certo crocifisso) o anche quando non è lui direttamente il responsabile di un certo discorso sulla Chiesa (come nella gestione dei film su di lui) o quando si affida alla sua rete mediatica vaticana. Attraverso questa riflessione a 360° ci siamo resi conto che la grandezza semiotica di Papa Francesco consiste proprio in una cifra ricorrente, che ridefinisce certi spazi, certi riti e certe pratiche della cristianità.
Papa Francesco riesce a rinnovare la Chiesa standoci dentro; ne rispetta i riti ma li reinterpreta (ad esempio, iniziando il suo primo discorso con il famoso “Buonasera!”), ne rispetta gli spazi ma preferisce percorsi marginali (Santa Marta…), sceglie di immergersi fra la gente ma conserva e anzi accresce il suo carisma. Il suo modo di rinnovare il ruolo papale ha a che fare con la sintesi degli opposti, non con l’esclusione e la frattura.
Perché Papa Francesco è considerato “pop”?
Ci sono tante ragioni per cui possiamo definire Papa Francesco “pop”. È pop perché ricorre a un linguaggio irrituale, perché è in grado di declinare contenuti complessi in forme brevi (si pensi al grande successo dei suoi messaggi su Twitter), manifesta curiosità nei confronti di forme attuali di autorappresentazione come i selfie. Privilegia il contatto diretto con l’interlocutore scegliendo il mezzo del telefono; valorizza modi di dire diretti e azioni di vita quotidiana, come l’andare nei negozi. Allo stesso tempo, tuttavia, Papa Francesco riesce a declinare il suo messaggio all’interno di grandi eventi mediali come il discorso tenuto in lingua spagnola in occasione del Super Bowl e incentrato sui valori della pace, dell’amicizia e della solidarietà.
È pop perché alla sacralità che crea distanza preferisce modi espressivi che non solo riducono le distanze ma mirano all’inclusione. È pop perché è amato dalla gente, perché la gente lo sente vicino, lo sente “uno di loro”, in una strana unione tra carisma e normalità.
In ultimo, avete avuto una straordinaria opportunità, la possibilità di visionare e studiare in anteprima il nuovo portale dell’informazione vaticana (SpC) che verrà lanciato nei prossimi mesi. Cosa ci potete svelare?
Grazie alla disponibilità della Segreteria per la comunicazione e in primo luogo del prefetto, mons. Dario Edoardo Viganò, abbiamo avuto l’opportunità preziosa di visionare in anteprima una prima versione (tuttora in fase di evoluzione) del nuovo portale dell’informazione. Da studiosi, quello che ci interessava era in primo luogo prendere in esame la correlazione tra i valori a fondamento del pontificato di Francesco e l’esordio del nuovo portale, un’operazione di portata strategica mirata per la prima volta a riunificare tutti i media della Santa Sede in un’unica struttura fondata sulle logiche dell’efficienza e della convergenza mediale. Secondo questa prospettiva, l’aspetto che ci sembra più significativo è che
il nuovo portale si fonda sul tentativo di operare una sintesi tra la dimensione “apostolica” e quella “informativa”.
Al suo fondamento ci sarebbe cioè una strategia di comunicazione volta a ridurre la distanza con il destinatario, ribadendo l’esigenza della vicinanza all’altro, del dialogo multiculturale e interreligioso. L’invito all’inclusione, all’incontro, temi centrali nell’idea di Chiesa sollecitata e prefigurata da Francesco sin dalla sua elezione al soglio di Pietro, vengono declinati in modo esplicito nel nuovo portale, assumendo un valore simbolico che trascende la dimensione dell’usabilità (i cui criteri sul piano tecnico sono stati in ogni caso ampiamente rispettati).
al di là dello ‘ius soli’ – una cittadinanza ampia come il mondo
la cittadinanza globale
“Il riconoscimento dello ius soli non è che il primo passo (per alcuni addirittura superato) di un processo, già in atto nei fatti, di universalizzazione della cittadinanza. I cittadini del terzo millennio hanno infatti una percezione dell’appartenenza che ha come orizzonte il mondo”
di Giannino Piana
in “Rocca” n. 21 del 1 novembre 2017
Il dibattito che si è sviluppato nel nostro Paese, in questi ultimi mesi, attorno allo ius soli ha visto la presenza di una serie variegata di opinioni, che vanno dal suo pregiudiziale respingimento alla richiesta di clausole mortificanti che tendono a limitarne di molto la possibile applicazione, fino alla sua piena ammissione, da parte di un numero, purtroppo non molto ampio, di forze politiche e di cittadini. Rifiuto e diffidenza ascrivibili a motivazioni di ordine diverso – dai rigurgiti xenofobi e razzisti a paure indotte dal confronto con la diversità, dall’incremento della malavita e dalla minaccia sempre incombente del terrorismo – manifestano l’esistenza di uno stato di disagio diffuso, che non può essere sottaciuto. Sono comprensibili alcune delle ragioni di tale disagio, ma non si può negare che la reazione negativa nei confronti dell’approvazione dello ius soli costituisce una forma di grave anacronismo; rivela, in altri termini, la presenza di un atteggiamento miope, l’incapacità di comprendere i cambiamenti in atto sullo scenario mondiale e di fare i conti con l’inarrestabilità dei processi in corso. Il fenomeno della globalizzazione, che procede con ritmo accelerato, e la caduta delle distanze fisico-geografiche, dovute ai nuovi mezzi di locomozione, favoriscono rapidi trasferimenti di intere popolazioni, soprattutto dal Sud del mondo, e danno luogo a veri e propri esodi dovuti a situazioni di guerra o a condizioni di estrema povertà. contraddizioni e dati preoccupanti L’area dell’interscambio sociale e culturale si è dunque sempre più dilatata fino a raggiungere dimensioni mondiali, sia per l’avanzare di un unico mercato sia per l’affermarsi di un sistema informativo che, grazie alle reti telematiche e al web, dà origine a una società multietnica e multiculturale. Non può pertanto che sorprendere la crescita di forme esasperate di particolarismo e di provincialismo, di settarismo e di nazionalismo, che coinvolgono una parte consistente della popolazione italiana, spesso influenzata dagli interventi scandalistici dei media, che indulgono nella descrizione di episodi incresciosi, alimentando le paure e suscitando atteggiamenti e comportamenti ispirati a una forma di chiusura corporativa e caratterizzati dal respingimento di ogni diversità. Un ruolo particolare riveste, in questo quadro, la politica, che non esita a cavalcare gli istinti meno nobili della gente, in vista della ricerca del consenso. L’attuale periodo preelettorale costituisce un’occasione propizia per il perseguimento di questo obiettivo. Questo spiega la volgarità delle prese di posizione di alcuni partiti – la Lega in particolare (ma, in certa misura, l’intero centrodestra) – nei confronti dello ius soli. I toni apocalittici adottati da uomini politici – Salvini in primis – che insistono sulle ricadute catastrofiche dell’approvazione della legge in questione risentono di questo clima; sono dettate cioè da fini elettoralistici. La scorrettezza morale di questo comportamento è evidente: in gioco vi è la stessa credibilità della politica, già fortemente minata da episodi scandalistici (e non solo), che ne hanno gravemente compromessa l’immagine. La violenza con cui in alcuni strati della popolazione si è reagito (e si reagisce) alla proposta di riconoscimento dello ius soli non è esente, d’altronde, da evidenti contraddizioni. Non sono pochi coloro che danno personalmente scarso rilievo alla cittadinanza, non riconoscendone l’importanza e non assumendosi soprattutto doveri e responsabilità che da essa derivano, e si oppongono, nello stesso tempo, alla condivisione di questo diritto, rifiutando di estenderlo ad altri cittadini nati nella stessa nazione. l’importanza della cittadinanza L’acquisizione del diritto di cittadinanza riveste una grande importanza per la vita della persona: si tratta infatti della dimensione politica della vita personale. Chi non è riconosciuto come cittadino, nei suoi diritti e nei suoi doveri, dalla comunità in cui vive è come se non esistesse nello spazio pubblico. A subentrare è dunque una condizione di marginalità, che, oltre ad impedire ogni forma di partecipazione civile per l’impossibilità di esercitare alcuni fondamentali diritti – in primo luogo quello di voto – genera uno stato di disagio esistenziale, che si traduce nel rifiuto di ogni forma di integrazione e può talora sfociare in forme di violenza. Al di là delle motivazioni di ordine morale, che hanno senz’altro il primato – il diritto di
cittadinanza è conseguenza diretta (e necessaria) dal riconoscimento della uguaglianza e della pari dignità di ogni persona umana e riveste dunque il carattere di un vero imperativo etico – esistono pertanto anche ragioni di opportunità politica che non vanno sottovalutate, se si considera, ad esempio, che molti degli autori delle recenti stragi di matrice islamica sono emigrati di seconda generazione, che, nonostante siano nati nei vari Paesi europei, sperimentano una situazione di estraneità, la quale favorisce la coltivazione di sentimenti di ostilità e di odio nei confronti della nazione, in cui si sono trovati, fin dall’inizio della loro esistenza, inseriti. verso una cittadinanza universale Il riconoscimento dello ius soli non è, d’altronde, che il primo passo (per alcuni addirittura superato) di un processo, già in atto nei fatti, di universalizzazione della cittadinanza. I cittadini del terzo millennio hanno infatti una percezione dell’appartenenza che ha come orizzonte il mondo. La sfida da affrontare è dunque la costruzione di una nuova democrazia cosmopolitica, nella quale prenda forma una cittadinanza, che separi il popolo (demos) dall’etnia di appartenenza (ethnos); che sappia, in altri termini, coniugare popolo multietnico e cittadinanza globale. Le resistenze sono, in proposito, molte e di grande entità. La causa principale è costituita dal persistere del concetto di Stato-nazione, che provoca una situazione di chiusura astorica, non soltanto negativa ma anche inefficace. Negativa, perché l’assolutismo nazionalista preclude la possibilità di uno scambio allargato tra i vari ambiti della vita sociale e lo sviluppo di un confronto arricchente tra culture diverse. Inefficace, perché in realtà i processi in atto, tanto in campo economico che informativo e culturale, scavalcano ampiamente le frontiere delle singole nazioni e rendono del tutto impotenti gli interventi da esse assunti per regolarne il flusso. l’esempio negativo dell’Europa A riprova di questa situazione è sufficiente richiamare qui la condizione di stallo in cui versa oggi l’Europa. La difficoltà a creare condizioni di effettiva convergenza sul terreno sociopolitico è dovuta all’assenza della volontà da parte degli Stati che compongono l’Unione di identificare una piattaforma di obiettivi comuni e di rinunciare a parte del loro potere per consegnarlo a una autorità superiore – quella europea – e fare fronte insieme ai numerosi e complessi problemi emergenti che esigono prese di posizione allargate, le sole in grado di incidere sul tessuto internazionale e mondiale. Non si può che condividere, al riguardo, il giudizio di Donald Sassoon, il quale non manca di segnalare il paradosso che caratterizza l’atteggiamento di molti nei confronti del progetto europeo. «Al momento – egli scrive – lo Stato-nazione è ancora il riferimento principale in materia di identità politica per la maggior parte degli europei, anche se esiste un rigetto crescente verso i politici nazionali. Il paradosso è che sarebbe legittimo aspettarsi che gli europei, delusi della politica nazionale, guardino all’Unione Europea; invece succede che la collera contro la classe politica si trasforma in opposizione contro l’Europa e in sostegno alle destre nazionaliste» (Stati-nazione d’Europa, Il Sole 24 ore, 19 marzo 2017, p. 29). L’assenza di un patriottismo europeo e la scarsa attenzione delle istituzioni europee alla dimensione sociale, con l’inevitabile accentuarsi delle diseguaglianze tra le nazioni, sono fattori che spiegano senza dubbio in parte questa diffidenza, ma non si può negare che, accanto ad essi, sussistano forme pericolose di particolarismo e di provincialismo, che denunciano l’incapacità di prendere consapevolezza di quanto già succede e di guardare, con lungimiranza e coraggio, in avanti. Ben venga, dunque (senza troppe restrizioni) lo ius soli, «l’offerta di cittadinanza – come ha ricordato di recente papa Francesco – slegata da requisiti economici e linguistici». È un primo importante passo dal quale non si può, nella situazione attuale del nostro Paese, prescindere. Ma l’obiettivo a cui tendere, e che appare sempre più necessario, stante la presenza indiscussa di un universalismo inarrestabile, è l’affermarsi di un «orizzonte postnazionale» – come lo definisce Habermas – che ha quale sbocco la realizzazione di una cittadinanza globale volta a garantire a tutti gli uomini e a tutti i popoli una positiva convivenza in una società mondiale solidale e pacifica.
disarmare il mondo non può essere un miraggio utopico
papa Francesco
il disarmo integrale non è un’utopia
non utopia, ma sano realismo
cl
Le armi nucleari producono “catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali”, e sono la conseguenza della “logica di paura” che affligge il pianeta. È il grido d’allarme di Papa Francesco, che ricevendo oggi (10 novembre) in udienza i partecipanti al Simposio internazionale sul disarmo, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, sul tema: “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale”, ha condannato con fermezza la minaccia dell’uso delle armi nucleari – ormai diffuso anche via Internet – ma ha anche esortato a mettere da parte il “fosco pessimismo” a favore di un “sano realismo”. Come quello che ha portato alla recente “storica votazione” all’Onu sulle armi nucleari come illegittimo strumento di guerra. A 50 anni dalla Populorum progressio, “lo sviluppo integrale è la strada del bene che la famiglia umana è chiamata a percorrere”. E il disarmo integrale, auspicato da Giovanni XXIII nella Pacem in terris, attende ancora di essere realizzato. Al Simposio, in corso fino a domani in Vaticano, partecipano 11 premi Nobel per la pace, vertici di Onu e Nato, diplomatici rappresentanti degli Stati tra cui Russia, Stati Uniti, Corea del Sud, Iran, nonché massimi esperti nel campo degli armamenti ed esponenti delle fondazioni, organizzazioni e società civile impegnate attivamente sul tema. Presenti, inoltre, rappresentanti delle Conferenze episcopali e delle Chiese, a livello ecumenico e di altre fedi, e delle delegazioni di docenti e studenti provenienti dalle Università di Stati Uniti, Russia e Unione europea. “Anche considerando il rischio di una detonazione accidentale di tali armi per un errore di qualsiasi genere – l’esordio di Francesco – è da condannare con fermezza la minaccia del loro uso, nonché il loro stesso possesso, proprio perché la loro esistenza è funzionale a una logica di paura che non riguarda solo le parti in conflitto, ma l’intero genere umano”. La spirale della corsa agli armamenti non conosce sosta, così come i costi di ammodernamento e sviluppo delle armi – non solo nucleari – che rappresentano una voce di spesa considerevole per le nazioni, al punto da mettere in secondo piano temi come la lotta contro la povertà, la promozione della pace, la realizzazione di progetti educativi, ecologici e sanitari e lo sviluppo dei diritti umani. “Non possiamo non provare un vivo senso di inquietudine se consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari”, il grido d’allarme del Papa: “Le relazioni internazionali non possono essere dominate dalla forza militare, dalle intimidazioni reciproche, dall’ostentazione degli arsenali bellici”. Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche, generano un ingannevole senso di sicurezza. Se non vogliamo compromettere il futuro dell’umanità, dobbiamo imparare dalla testimonianza degli “hibakusha”, cioè delle persone colpite dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki: “Che la loro voce profetica sia un monito soprattutto per le nuove generazioni!”. Le tecnologie nucleari si diffondono ormai anche attraverso la Rete, e neanche gli strumenti di diritto internazionale hanno impedito che nuovi Stati si aggiungessero alla cerchia dei possessori di armi atomiche. Il Papa parla di “scenari angoscianti”, che nello scacchiere geopolitico si affiancano a quelli del terrorismo o dei conflitti asimmetrici. Eppure, nonostante il “fosco pessimismo” di cui potremmo cadere vittime, “un sano realismo non cessa di accendere sul nostro mondo disordinato le luci della speranza”. Francesco cita la recente votazione Onu sulle armi nucleari come illegittimo strumento di guerra, che colma un vuoto giuridico importante e si unisce alla messa al bando, già proibita attraverso Convenzioni internazionali, delle armi chimiche, quelle biologiche, le mine antiuomo e le bombe a grappolo. Risultati, questi, dovuti principalmente “a una iniziativa umanitaria promossa da una valida alleanza tra società civile, Stati, organizzazioni internazionali, Chiese, accademie e gruppi di esperti”. In questo contesto si colloca anche il documento consegnato al Papa dagli 11 premi Nobel per la pace presenti al simposio internazionale, per il quale Francesco ha espresso il suo “grato apprezzamento”. Francesco ha poi menzionato il 50° anniversario della Populorum progressio, “memorabile e attualissimo documento in cui Paolo VI ha coniato la definizione di “sviluppo umano integrale”, cioè “volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. “Occorre dunque innanzitutto rigettare la cultura dello scarto e avere cura delle persone e dei popoli che soffrono le più dolorose disuguaglianze, attraverso un’opera che sappia privilegiare con pazienza i processi solidali rispetto all’egoismo degli interessi contingenti”. Si è concluso con questo invito il discorso del Papa, secondo il quale soltanto “un progresso effettivo e inclusivo può rendere attuabile l’utopia di un mondo privo di micidiali strumenti di offesa, nonostante la critica di coloro che ritengono idealistici i processi di smantellamento degli arsenali”. In questa prospettiva, resta sempre valido il magistero di Giovanni XXIII, che ha indicato con chiarezza l’obiettivo di un disarmo integrale, e quello di Paolo VI, a 50 anni dalla Populorum progressio.
il messaggio ‘antirazzista’ di Gesù
‘ero straniero e mi avete accolto’
la grande attualità del messaggio ‘antirazzista’ di Gesù
L’AUTORE –Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici«G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita, Roba da preti; Nostra Signora degli eretici;Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ da poco uscito per Garzanti L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita.
“Prima noi”, è il mantra con il quale si mascherano spietati egoismi e si giustificano inaudite durezze di cuore. È la formula magica di quanti chiariscono subito “non sono razzista, però…”, un “però” eretto come un invalicabile muro a difesa del “noi”, pronome che include, a secondo degli interessi, un popolo o la famiglia, una religione o un quartiere. Mentre per “prima” s’intende l’accesso e l’esclusiva precedenza a tutto quel che permette alla vita di essere dignitosa, dalla casa al lavoro, dall’assistenza sanitaria alla scuola; beni e valori che, sono fuori discussione, devono essere riservati per primi a chi ne ha pienamente diritto per questioni di lignaggio. Ovviamente, al “noi” si contrappone il “loro”, che include per escluderli, tutti quelli che non appartengono allo stesso popolo, alla stessa cultura, società, religione, o famiglia.
“Prima noi”, poi, eventualmente, se proprio ci avanza, si possono dare le briciole a chi ne ha bisogno, ovvero all’estraneo che attenta al nostro benessere economico, ai valori civili e religiosi della nostra società e alle nostre sacrosante tradizioni. “Loro” sono gli stranieri, i barbari. In ogni cultura chi proviene da fuori, incute paura. Lo straniero è un barbaro, colui cioè che emette suoni incomprensibili, (dal sanscrito barbara = balbuziente), colui che parla una lingua incomprensibile e che nel mondo greco passò a significare quel che è selvaggio, rozzo, feroce, incivile, indigeno.
Nonostante nella Scrittura si trovino indicazioni che mirano alla protezione dello straniero (“Non maltratterai lo straniero e non l’opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”, Es 22,21), Gesù si è trovato a vivere in una realtà dove il forestiero andava evitato, e persino dopo la morte veniva seppellito a parte, in un luogo considerato impuro (“Il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri” Mt 27,7). Al tempo di Gesù vige una separazione totale tra giudei e stranieri, come riconosce Pietro: “Voi sapete come non sia lecito a un giudeo di aver relazioni con uno straniero o di entrar in casa sua” (At 10,28).
In questo ambiente stupisce il comportamento del Cristo che da una parte arriva a identificarsi con gli ultimi della società (“Ero straniero e mi avete accolto”, Mt 25,35.43), e proclama benedetti quanti avranno ospitato lo straniero (“Venite benedetti del Padre mio”¸ Mt 25,34), dall’altra, Gesù accusa con parole tremende quelli che non lo fanno (“Via, lontano da me, maledetti… perché ero straniero e non mi avete accolto”, Mt 25,41.43), con una maledizione che richiama quella del primo assassino della Bibbia, il fratricida Caino (“Ora sii maledetto”, Gen 4,11). Se la risposta alle altrui necessità era un fattore di vita, la mancata risposta è causa di morte. Per Gesù negare l’aiuto all’altro è come ucciderlo.Gesù non solo si identifica nello straniero, ma nei vangeli il suo elogio va proprio per i pagani, personaggi tutti positivi (eccetto Pilato in quanto incarnazione del potere) e portatori di ricchezza. Si teme sempre cosa e quanto si debba dare allo straniero e non si riconosce quel che si riceve dallo stesso. Nella sua attività Gesù si troverà di fronte ottusità e incredulità persino da parte della sua famiglia e dei suoi stessi paesani, ma resterà ammirato dalla fede di uno straniero, il Centurione, e annuncerà che mentre i pagani entreranno nel suo regno, gli israeliti ne resteranno esclusi (Mt 8,5-13; Mt 27,54).
Nella sinagoga di Nazaret, il suo paese, Gesù rischierà il linciaggio per aver avuto l’ardire di tirare fuori dal dimenticatoio due storie che gli ebrei preferivano ignorare: Dio in casi di emergenza e di bisogno non fa distinzione tra il popolo eletto e i pagani, ma dirige il suo amore a chi più lo necessita. Così nel caso di una grande carestia che colpì tutto il paese, aiutò una straniera, una pagana, “una vedova a Sarepta di Sidone” (Lc 4,26), e con tutti i lebbrosi che c’erano al tempo del profeta Eliseo, il signore guarì uno straniero: “Naamàn, il Siro” (Lc 4,27).Prima noi? Gesù, manifestazione vivente dell’amore universale del Padre, vuole condividere i pani in terra pagana così come ha fatto in Israele (Mt 14,13-21). La resistenza dei discepoli di portare anche agli stranieri la buona notizia, viene dagli evangelisti raffigurata nell’incontro di Gesù con una donna straniera, cananea (fenicia) che invoca la liberazione della figlia da un demonio (Mt 15,22). La donna, succube dell’ideologia nazional religiosa che faceva ritenere i pagani inferiori ai Giudei, si accontenterebbe di poco, anche delle briciole (“Sì, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro signori”, Mt 15,27). Nella tradizione biblica i figli di Israele sono chiamati a dominare le nazioni pagane, mentre i pagani sono destinati ad essere dominati. Non c’è uguaglianza tra gli appartenenti al popolo eletto e gli esclusi. Gli uni sono figli, e gli altri cani, animali ritenuti impuri e portatori del demonio. Per questo non si può dare il pane a quanti, per la loro condizione di pagani, sono veicolo di impurità e contaminazione.Sarà una donna, per giunta pagana, a impartire una lezione ai discepoli del Cristo. Costei ha infatti compreso che non ci sono dei figli e dei cani, quelli che meritano e gli esclusi, quelli che hanno diritto e quelli no, un prima (noi) e un dopo (gli altri), ma tutti possono cibarsi insieme, e allo stesso tempo, dell’unico pane che alimenta la vita. Essa comprende quello che i discepoli fanno fatica a capire e ad accettare, cioè, che la compassione e l’amore vanno al di là delle divisioni razziali, etniche e religiose.La reazione di Gesù è di grande ammirazione: “Allora Gesù le replicò: Donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come vuoi”. (Mt 15,28), e ai pagani Gesù non concederà le briciole, ma anche in terra straniera ci sarà l’abbondante condivisione dei pani, segni della benedizione divina (Mt 15,32-39).
L’esperienza e il messaggio di Gesù verranno poi raccolti dagli altri autori del Nuovo Testamento, in particolare da Paolo, che in occasione di un naufragio, si stupirà per la “rara umanità” con cui lui e gli altri naufraghi sono stati ospitati dai barbari di Malta (At 28,2), e arriverà a capire una verità importante: “Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11; Gal 3,28).La Chiesa ha compreso e annuncia che con Gesù non si possono innalzare barriere, ma solo abbattere tutti i muri che gli uomini hanno costruito (“Egli infatti è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che ci divideva…”, Ef 2,14), non solo i muri esteriori (mattoni), forse i più facili da demolire, ma quelli interiori (pregiudizi), mentali, teologici, morali, religiosi, i più difficili da estirpare perché li crediamo buoni o di provenienza divina.
la teologia verso il superamento dell’idea di laicato come paternalistica concessione a dei ‘sudditi’
non laici ma cristiani testimoni
di Franco Giulio Brambilla
in “Avvenire” dell’8 novembre 2017
una riflessione del vescovo di Novara sul saggio di Vergottini dedicato al superamento dell’attuale idea di laicato
Marco Vergottini
Edb, pagine 302, euro 25,00
Durante il Concilio il laico è stato il convitato di pietra per un profondo ripensamento della missione della chiesa nel mondo. ‘Accelerare l’ora dei laici’: questo è stato il Leitmotiv del postconcilio, tanto retoricamente proclamato, quanto praticamente poco esplorato. La ‘teologia del laicato’ del Novecento ha cercato di custodire lo ‘spazio del laico’ all’interno dello schema della teologia dei due ordini (natura e soprannatura), rimanendone in qualche modo imbrigliata. Il lavoro di Marco Vergottini (Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato; Edb, pagine 302, euro 25,00) disegna tale parabola per cavarne il ‘sugo della storia’. Dopo averla praticata per molto tempo, ne ha raccolto il guadagno. Bisogna dichiarare esaurita la ‘teologia del laicato’ proprio per ereditare lo ‘spazio del laico’ nella missione della Chiesa. La questione del laico cristiano ha oscillato tra la rivendicazione di uno spazio nella Chiesa accanto ai chierici e ai religiosi e la concessione di un compito nel mondo che riconosca la sua ‘indole secolare’. Pare che il laico per trovare la sua specificità nella chiesa debba traslocare nel mondo per ‘animarlo cristianamente’ o, secondo l’altra formula, per «ordinare le cose del mondo secondo Dio». In tale slittamento consiste la questione del laico, ma la sua soluzione non sta nel déplacement del laico nel mondo. Questo è il filo rosso nella ricostruzione di Vergottini lungo il secolo XX. I capitoli dispari formano come un trittico che aiuta a leggere il plesso laico-laicato-laicità con una freschezza che toglie la discussione dalle secche dei poteri e pone la questione del laico come asse per ripensare il rapporto chiesa-mondo, e più ancora radicalmente la relazione cristologiaantropologia. L’avventura della ricerca parte mettendo in discussione la polisemia del rapporto laico-laicità-laicato nella storia, dichiarando sia l’indeterminatezza della cifra linguistica (laikós, idiótes, laicus, plebeius, rispettivamente in greco e latino), sia la diversità del referente storico. Mette in guardia da ogni intelligenza teologica solo a partire dall’analisi dei campi linguistici. Per non parlare dell’utilizzo moderno e odierno della semantica laico-laicità, tra cui emerge l’uso francofono di laïcité, che significa neutralità pubblica nei confronti della religione e marginalizzazione della religione nello spazio privato. Merita una sosta nel terzo capitolo sul pensiero di alcune personalità (G.B. Montini – J. Guitton). Si tratta di due figure che promuovono lo ‘spazio del laico’ oltre la sua univoca codificazione teologica. Si legge con vero diletto questa parte che mostra come la teologia del laicato non può non considerare la mutazione storica della presenza civile del laico. Il percorso si concentra, infine, sull’episodio più rilevante del postconcilio, che porta alla riapertura del dossier sui laici intorno al Sinodo dell’87 (Christifideles Laici). Qui la discussione entra nel conflitto delle interpretazioni: a) la ‘secolarità’ come indole peculiare dei laici; b) la ‘teologia dei ministeri’ nel quadro del binomio comunità- ministeri; c) la ‘laicità’ come dimensione caratteristica di tutto il popolo di Dio; d) il superamento della figura del ‘laico’ in quella del ‘cristiano’. È un dibattito tutto italiano sulla cui scena sfilano i protagonisti del Novecento (Lazzati, Forte, Dianich, Canobbio, la ‘scuola di Milano’). È stato il momento più alto del postconcilio nella discussione ecclesiologica sul laico. I capitoli pari del racconto presentano una disamina della ‘teologia del laicato’ nel maggiore dei suoi rappresentanti (Y. Congar) e nel momento epocale del Vaticano II. Vergottini qui non fa solo un’opera di compilazione, ma esercita la sua maestria proponendo una vera decostruzione del
lavoro pionieristico di Congar e una ricostruzione della teologia conciliare. Senza la pretesa di appiattirla in una visione omogenea. Il ‘prendere congedo’ dalla teologia sui laici comporta «la ricomprensione in una prospettiva più originaria della loro identità cristiana e della condizione in cui versano». La proposta finale è secca: non bisogna parlare del cristiano laico, ma del cristiano testimone. Che ci si guadagna? Vergottini innesta il principio ‘distintivo’ del concetto di laico (l’indole secolare) nella struttura ‘unificante’ del cristiano (l’essere testimone). La ‘definizione tipologica’ conciliare del laico faticava a coordinare la necessità del suo rapporto al mondo (suo carattere secolare) e del suo riferimento a Cristo (da ordinare secondo Dio). Andando al di là di una definizione essenziale o di un compito funzionale del laico, l’essere testimoni è la modalità ‘spirituale’ con cui Cristo è donato al mondo e il mondo entra in comunione con Cristo. Ciò accade in una pluralità di figure cristiane, di cui la categoria di laico ha finora difeso lo spazio, ma non ne ha esaltata la missione. Tale definizione ha sospinto il laico in un luogo separato dalle altre figure cristiane, senza mostrare che anch’esse (chierici e religiosi) erano connotate dalla stessa dinamica della testimonianza. Liberata da questa strettoia, la testimonianza del laico si potrà attuare in una pluralità infinita di figure, così ricche per il contributo dell’immersione del credente nella storia del mondo, ma anche così diverse per la genialità dello Spirito nel ricondurre questa storia a Cristo. Alla fine resta la domanda cruciale: la riflessione sul laico può ereditare la ‘teologia del laicato’ mettendo al centro la questione del ‘cristiano testimone’? Forse è necessario abbozzare il profilo del cristiano sotto l’aspetto teologico-pratico. Solo il cimento pratico del cristiano nella storia e la configurazione a Cristo delle vicende umane nella vita di ogni battezzato possono diventare il luogo di uno scambio simbolico che accade nella carne viva della testimonianza del cristiano. La vita della Chiesa è a servizio di tale ‘meraviglioso scambio’ che brilla nella testimonianza del credente. Del cristiano testimone!
il cristiano testimone
intervista a Marco Vergottini
a cura di Redazione Azione Cattolica Ambrosiana
Marco Vergottini
“Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato”
Il testo consiste in una vera e propria ricerca, che affonda le sue origini nell’interesse dell’autore stesso per la figura del laico, maturata in Azione Cattolica a Milano. Il volume presenta in apertura una Prefazione del vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla, che così apre il contributo: «L’opera di Marco Vergottini, che abbiamo tra le mani, si presenta con la veste di una quaestio disputata su uno dei temi che ha maggiormente marcato l’ecclesiologia del Vaticano II ed è stato ripreso più volte nella teologia seguente. Il laico, infatti, è stato il convitato di pietra per un profondo ripensamento della dottrina del concilio sulla Chiesa, nonostante sia noto che le discussioni più accanite siano avvenute sul rapporto tra primato ed episcopato. Nel post-concilio, il Leitmotiv è stato “accelerare l’ora dei laici”, uno slogan tanto retoricamente proclamato, quanto praticamente poco esplorato».
Ne parliamo con l’autore.
Il mio primo studio sulla bibliografia dei laici è comparso in una raccolta di contributi dal titolo Laicità e vocazione dei laici nella Chiesa e nel mondo, pubblicato 30 anni fa, a cura del Centro Studi dell’Azione Cattolica milanese, coordinato da Antonietta Cargnel. Don Franco Giulio coglie puntualmente il “cuore” della proposta. Il mio intento è proprio di mettere a fuoco la figura del fedele laico ‒ categoria su cui l’Ac durante i suoi 150 anni di storia ha dedicato con passione la sua riflessione teologica e il suo apostolato. Basti pensare al contributo di Giuseppe Lazzati, Vittorio Bachelet, Alberto Monticone, Paola Bignardi, per fare solo alcuni nomi. Ebbene, la mia sollecitazione – un po’ provocatoria ‒ è che forse i molti studi sul laicato hanno privilegiato il IV capitolo della Lumen gentium, dedicato ai fedeli laici e il decreto sull’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem), mettendo un po’ la sordina sul capitolo II della Lumen gentium, in cui è messa a fuoco la realtà della Chiesa come popolo di Dio. In questo senso, ho cercato di mostrare come la nozione di cristiano risulti più radicale e pregnante rispetto a quella di laico.
La tua proposta provoca in positivo l’Azione Cattolica, che da sempre, fin da prima del Concilio, ha insistito con forza sulla cifra del laico e sulla sua indole secolare.
Se si scorre la monumentale produzione letteraria del cardinale Martini, ci si imbatte in un uso tutto sommato parco e trattenuto dell’espressione laici, per indicare i comuni fedeli cristiani. La qual cosa – va da sé – è un segnale di una scelta intenzionale, niente affatto accidentale. In un intervento del 1969, padre Martini si poneva un duplice interrogativo «Che cosa vuol dire essere cristiani? Che cosa significa testimoniare Cristo nel mondo di oggi?», istituendo una perspicace corrispondenza fra cristiano e testimone (ora in C.M. Martini, Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel mondo di oggi, Milano, In Dialogo 2016, 35). In breve, si potrebbe concludere che il laico altri non è che il “cristiano testimone”.
Ritorniamo al Vaticano II. Come giustifichi il fatto che la categoria di laico possa essere inverata in quella di “cristiano testimone”, se è vero che nel Concilio il termine laico ritorna in ben 14 dei 16 testi promulgati?
Nel mio libro cerco di mostrare che l’effettivo incremento della prospettiva del Vaticano II sull’argomento non dev’essere ritrovato nel cap. IV di Lumen Gentium, laddove la “secolarità” è presentata come nota qualificante del fedele laico (un’impostazione che di fatto costituisce una ripresa mitigata delle tesi della tradizionale “teologia del laicato”) e neppure nel decreto sui laici, Apostolicam actuositatem. La vera novità del Vaticano II è costituita piuttosto dall’insistenza con cui i padri conciliari hanno inteso propiziare nei fedeli laici la consapevolezza di dover fuoriuscire da una condizione di effettiva minorità rispetto ai ministri ordinati e a quanti hanno abbracciato la vita religiosa: da un lato, infatti, col Concilio si assiste a una reintegrazione di ogni battezzato entro il quadro di un’appartenenza ecclesiastica più egualitaria e partecipata; dall’altro, in ogni momento e situazione del vivere ordinario ‒ sul piano delle relazioni familiari, professionali, civili e politiche ‒ i comuni credenti sono chiamati a riscoprire la qualità spirituale dell’esperienza di fede. Coerentemente, c’è da chiedersi se un’autentica ermeneutica della lezione conciliare ‒ il cui nocciolo è costituito dall’insegnamento del carattere storico della rivelazione, della dimensione esperienziale del credere, del processo di inculturazione che contraddistingue la realtà della fede cristiana e della Chiesa come popolo (storico) di Dio ‒ non solleciti la coscienza credente a smettere i panni di quella rappresentazione essenzialistica, fissistica, intellettualistica del dato cristiano, entro cui si origina l’illusione di poter quasi isolare in vitro la “quintessenza” del laico.
Quindi tu proponi di superare la stagione della “teologia del laicato” e “archiviare” l’espressione laico?
Precisamente! Basti solo pensare che dalla ricerca etimologica sui primi secoli del cristianesimo, emerge come il termine laikos non designi affatto il «membro del popolo di Dio», bensì il suddito, colui che è sottoposto alla gerarchia. La novità del mio studio ‒ che certo amerei potesse essere fatto oggetto di discussione non soltanto da parte della stretta cerchia degli specialisti, ma anche nell’ambito dell’Azione cattolica, di cui mi vanto di essere aderente da sempre ‒ risiede nella proposta di “storicizzare” il termine e la figura del laico, per innescare un ripensamento radicale della questione, in vista di un fattivo riassestamento della sistematica teologica e della teologia pratica, lasciando affiorare un promettente e suggestivo rilancio nella nozione teologicofondamentale di cristiano-testimone.
la campagna dei vescovi italiani a favore dei migranti
migrazioni
al via la campagna Cei
«liberi di partire, liberi di restare»
È online il sito dell’iniziativa della Chiesa italiana per il sostegno ai migranti nei paesi di partenza, di transito e di accoglienza, finanziato con 30 milioni di euro dell’8 per mille
alcuni dei 304 migranti salvati il 18 agosto dalla ong maltese Moas
Si chiama significativamente «Liberi di partire, liberi di restare» la campagna lanciata dalla Conferenza episcopale italiana per dare una risposta concreta al fenomeno, non di rado drammatico, delle migrazioni dai paesi in via di sviluppo. Una definizione che è anche l’indirizzo web dell’omonimo sito liberidipartireliberidirestare.it realizzato per seguire lo sviluppo delle iniziative. Per finanziarle la Cei ha assegnato 30 milioni di euro dell’8xmille
L’agenzia Sir, che lancia l’iniziativa, definisce la campagna «una finestra sul mondo, lo specchio di un impegno corale che va oltre i cori da stadio e l’indifferenza». Scopo del progetto è sensibilizzare la popolazione italiana sul tema, e allo stesso tempo realizzare progetti concreti nei Paesi di partenza, di transito e di accoglienza di quanti. Nei paesi cioè da cui, specialmente bambini e donne, fuggono da guerre, fame e violenza.
Perché dire «aiutiamoli a casa loro significa solo scaricare il problema». Occorre invece dare a tutti la possibilità di decidere. È questo il senso della Campagna della Cei “Liberi di partire, liberi di restare” che ha come tema centrale il diritto alla libertà, presupposto fondamentale per la pace e la giustizia. «Nessuno deve essere costretto a stare in un posto dove non può vivere una vita dignitosa o dove c’è violenza. Nello stesso tempo ognuno ha il diritto di muoversi perché la terra è di tutti, non di alcuni sì e di altri no», afferma don Leonardo Di Mauro, responsabile del Servizio degli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo, sottolineando che con questa iniziativa «vorremmo che il concetto di libertà di partire, di emigrare, valesse a 360 gradi».
Il portale accompagnerà lo svolgersi della Campagna, raccontando le storie e le testimonianze delle persone coinvolte, sia dei promotori delle attività sia dei loro beneficiari. Al momento sono 6 i paesi coinvolti attraverso 4 progetti, finanziati con 600 mila euro. La grande mappa, che campeggia sulla home page, permette di visitare virtualmente i luoghi di intervento, per scoprire cosa vi si realizza e con quante risorse. La sezione news invece aiuta ad approfondire il significato e gli ambiti di questa iniziativa straordinaria della Cei grazie alle voci dei protagonisti e di quanti – uffici Cei, associazioni, diocesi e realtà locali- vi sono impegnati. Il sito, disponibile anche in inglese e francese, raccoglie infine tutti i materiali che l’agenzia Sir, il quotidiano Avvenire, RadioinBlu e Tv2000 pubblicano a riguardo.
Tra i progetti al momento attivati c’è a Catania «Semi di accoglienza», partito a giugno con un contributo di 86 mila euro. Si tratta di un laboratorio di sartoria etnica e uno di pasta fresca per aiutare l’inserimento nel mondo del lavoro delle ragazze che hanno vissuto il dramma della tratta. Il progetto, presentato dalle suore Serve della Divina Provvidenza di Catania, ha come obiettivo la formazione professionale delle ragazze ospiti delle diverse realtà di accoglienza de “la Casa di Agata”. I fondi saranno utilizzati per potenziare le attività già in atto, migliorando la qualità delle realizzazioni di sartoria, e per creare un negozio per la vendita diretta di prodotti di pasta fresca con un canale di commercializzazione di prenotazione e consegna domiciliare.
Poi c’è «Il diritto a non fuggire», avviato a maggio con 420 mila euro, che ha come obiettivo la formazione in Italia di giovani per sviluppare in Mali progetti che possano incidere nella realtà locale, innescando un cambiamento sociale, economico e politico. Grazie al progetto promosso dall’Associazione Rondine Cittadella della Pace, sei giovani maliani frequenteranno un master di primo livello o una scuola di alta professionalizzazione sui temi della gestione dei conflitti, della riconciliazione e delle abilità di comunicazione. Per dare un contributo concreto al processo di pace in Mali, un Paese ancora caratterizzato da instabilità e insicurezza.
Con 66 mila euro infine è stato lanciato a Pozzallo in Sicilia il progetto «Tutori volontari per minori non accompagnati». L’inixiativa nasce dalla constatazione che sono stati oltre 17 mila i minori non accompagnati arrivati in Italia nel 2016. Si tratta di bambini e ragazzi vulnerabili che, per essere tutelati, hanno bisogno di un adulto che possa accompagnarli e rappresentarli legalmente negli adempimenti amministrativi. Per questo la cooperativa sociale Fo.Co, che coordina il Centro Mediterraneo di Studi e Formazione Giorgio La Pira di Pozzallo, promuove in Sicilia un progetto per sensibilizzare, informare e formare 300 tutori volontari per minori non accompagnati.
si tratta di non imbarbarire il dialogo uccidendo la pietà
QUANDO MUORE LA PIETÀ
la morte richiede sempre rispetto
tanto più se ci si dice cristiani
tanto più se si chiede di preservare i valori del nostro paese
Non si tratta di discutere come accogliere e come integrare, si tratta di non imbarbarire il dialogo, di non appestare l’aria con insulti, violenze verbali, richiesta di cancellare la vita degli altri. Mettendo I ricchi contro I poveri, I poveri contro I miseri, I miseri contro chi appena sopravvive. In una discesa verso il basso che cancella, questa sì, i valori del nostro paese. Quelli che la Costituzione ha sancito. Quelli che dobbiamo imparare a rispettare per primi se vogliamo che lo facciano anche coloro che arrivano DA noi.
papa Francesco non è eretico – parola dei professori della Gregoriana
“dal chiodo alla chiave: la teologia fondamentale di Papa Francesco”
la copertina del libro
Di quale teologia ha bisogno oggi la Chiesa? Di teologi che si compiacciono di un pensiero completo e concluso? No. Perché il teologo deve «trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non un cumulo di nozioni non collegate tra loro». Perché alla Chiesa oggi non serve «una sintesi», ma «una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede». E, in quest’atmosfera, anche la teologia è chiamata a fare proprio «un movimento evangelico» che va dal centro alla periferia e viceversa «secondo la logica di Dio che giunge al centro partendo dalla periferia e per tornare alla periferia». Da qui anche un’ immagine di teologo, tanto più «fecondo ed efficace quanto più sarà animato dall’ amore a Cristo e alla Chiesa, quanto più sarà solida e armoniosa la relazione tra studio e preghiera».
Così Papa Francesco il 10 aprile 2014 rivolgendosi alla comunità della Pontificia Università Gregoriana, sede della facoltà teologica con il più alto numero di studenti, da secoli fucina di teologi per tutti i continenti. Parole che ora aprono il volume
«Dal chiodo alla chiave. La teologia fondamentale di Papa Francesco» (LEV, pagg. 160, 10 euro)
curato da Michelina Tenace, con il contributo di nove professori del Dipartimento di Teologia Fondamentale
della Gregoriana: un libro che, raccogliendo le provocazioni lanciate ai teologi dal pontefice in questa università, ne recupera nel titolo la parola «chiodo»: pronunciata da Francesco quando il gesuita François- Xavier Dumortier, allora Rettore della Gregoriana – nell’incontro ricordato – gli presentò il Direttore del Dipartimento di teologia fondamentale. «Teologia fondamentale! È come succhiare un chiodo!», disse Bergoglio per descrivere questa disciplina spesso declinata nella presunzione di un sapere teologico chiuso su sé stesso (e magari dedotto a priori da enunciati metacronici o predizioni, per dirla con Karl Rahner), o talmente sigillato da favorire quell’aridità del cuore sempre dannosa (e fuori luogo in qualsiasi riflessione su Dio). Un’uscita estemporanea, non dimentica della propria esperienza di studente, chino su manuali dove la morale era fatta di «si può» e «non si può», «fin qui sì» e «fin qui no», alquanto estranea al discernimento. Un modo di fare teologia, avrebbe ricordato in un’altra occasione, che «ha provocato l’atteggiamento casuistico» per risolvere i problemi. «Ciò che c’era nei libri era più reale di ciò che succedeva nella vita ». E tuttavia: «La “grande scolastica”, quella del “grande Tommaso” è quella che “tiene conto della vita”…». E ancora «Quando un’espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde di vista l’umano», così Papa Francesco nel colloquio spontaneo con i Gesuiti il 24 ottobre scorso durante la loro ultima Congregazione Generale, affrontando temi diversi: dal coraggio profetico al clericalismo, dalla pace alla crisi delle vocazioni, dalla politica al discernimento delle situazioni morali in alcune delle quali solo nella preghiera si ha luce sufficiente. In realtà, come coglie nell’introduzione Michelina Tenace, «quando Francesco descrive il vero teologo, in realtà, senza volerlo, rivela sé stesso». «Perciò» – aggiunge – «osiamo dire che, oggi, la teologia fondamentale ha un maestro e un testimone affascinante: il Papa Francesco, che è il papa della teologia fondamentale per il terzo millennio». Beninteso, una volta capito che anche la teologia fondamentale va integrata con l’impegno missionario, la carità fraterna, la condivisione con i poveri, la cura della vita interiore nel rapporto con il Signore; e che – diversamente dal passato in cui si mettevano in opposizione i teologi che si occupavano di dottrina e quelli dediti alla pastorale – in realtà «l’incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale [ma] è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale» (così nel videomessaggio papale al Congresso Internazionale di Teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina all’inizio del settembre 2015). E allora la teologia fondamentale ha in questo anche un suo statuto chiaro. «Si occupa di aprire un passaggio dentro alla Chiesa, fra più realtà in contatto fra di loro: fede, credenza e non credenza; credenze varie a confronto; mondi e culture in dialogo, passato e futuro in ricerca di un senso in Cristo», sintetizza Tenace. Cristo, comunque – detto con von Balthasar – chiave ermeneutica anche di tutte le esperienze dell’umano. Insomma la teologia che non ha legame con la vita e la preghiera è una scienza su Dio che rischia di diventare ideologia: che porta a vedere anche la Chiesa in modo ideologico. Ben diversa la teologia fondamentale delineata nelle pagine di questa raccolta di saggi, che diventa luogo di incontro e di dialogo. Così chiedono a gran voce i nove professori – sei gesuiti e tre professoresse – coautori di questo libro.
Vediamoli qui in sintesi.
Joseph Xavier, nel suo saggio, dato risalto alla riflessione di Francesco collocandola nel solco dei predecessori, testimonia nell’esperienza di Jorge Bergoglio l’importanza del suo incontro personale con Gesù. Notando poi come Papa Francesco insista sul fatto che la fede cristiana derivi dal principio fondamentale che Dio ci ha amati per primo e che, appreso ciò, lo stile di vita del cristiano cambia, nella consapevolezza che lo Spirito Santo continua a fare da guida negli eventi quotidiani. È, a ben guardare, l’invito a un continuo discernimento. Una volta che una persona è divenuta vero discepolo di Cristo, si rende conto che la sua fede non è una teoria prestabilita, ma una prassi. La fede è un invito ad agire come Cristo. Tra i temi più ricorrenti nei testi papali Xavier si sofferma inoltre su due in particolare: la nozione di cammino e l’incapacità di farsi guidare da Dio. In tal caso, Dio è solo un’idea convenzionale, non una realtà vivente che tocca la vita d’ogni giorno. Seguendo le dinamiche di fede nel pensiero del pontefice, Xavier evidenzia infine come per Francesco quando la fede si riduce ad un bandolo di principi e dottrine senza interruzioni, può degenerare in un sistema schiavistico di regole e come essa non possa mai esistere in un assoluto isolamento, ma debba essere condivisa.. Insomma «La fede diventa realtà solo nella vita del popolo» (e qui come non riconoscere con Xavier l’influenza che arriva dalla «teologia del popolo» degli argentini Lucio Gera e Rafael Tello o delle riflessioni della Conferenza Episcopale dell’America Latina?).
Ferenc Patsch descrivendo la situazione mondiale come un «tempo di transizione», dall’era industriale all’era post-industriale, indica la teologia di Francesco come la risposta più adeguata alle sfide che ne conseguono e tra le cifre del Magistero attuale sottolinea il costante riconoscimento della contestualità e della storicità («il modo di dirsi e la condizionatezza socio-culturale della verità, anche quella teologica»). A tal proposito elabora tre applicazioni concrete – la teologia morale, la missiologia, la teologia ecumenica -mostrando come si manifestano i principi individuati nel lavoro concreto del «teologare». Infine individua la vera novità del Magistero di Papa Francesco nell’«autocoscienza dei limiti», nel coraggio con cui esprime «la situazionalità storico-culturale della teologia», nella «convinzione dell’inopportunità di sostituirsi agli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche sui loro territori». È questo il contributo in cui si dilata anche il confronto con il testo di «Amoris Laetitia», nel quale per Patsch Francesco ha dimostrato un grande realismo e un atteggiamento eminentemente pastorale affrontando «in modo compassionevole» la condizione di coloro che vivono in «diverse situazioni dette “irregolari”», e pur «mantenendo il depositum fidei, ovvero salvaguardando l’indissolubilità del matrimonio voluto dallo stesso Cristo» introducendo «una nuova regolazione disciplinare (nota bene: non dottrinale!), concernente la possibilità di ammettere alla comunione eucaristica “in certi casi” i divorziati risposati, dopo un necessario discernimento personale e pastorale e senza più esigere in ogni caso l’impegno alla continenza sessuale».
Andrew Downing i testi di Francesco, in particolare le encicliche sviluppano diversi aspetti di un’unica credenza di base: la fede cristiana affonda le radici nell’incontro storico con Dio; il suo compito nella situazione storica attuale e la sua speranza sono da scoprire in un futuro che Dio e il suo popolo costruiscono insieme. In questo modo, il pontefice palesa come lo stile della sua riflessione teologica sia modellato da una consapevolezza storica della realtà del presente e del passato, anche quando questa rimane aperta all’orizzonte del futuro.
Nicolas Steeves che tratteggia il profilo di Francesco quale Papa tifoso delle immagini (difficile persino contare le tante metafore usate nei suoi discorsi, come pure i tanti gesti simbolici sapientemente diffusi ai media, materiale sovente motivo di critiche), interrogandosi sulla relazione di questa «tattica immaginifica» con la teologia che diviene per Francesco un vero «locus theologicus». E non a caso Steeves richiama quale prima fonte della teologia fondamentale immaginale di Francesco il pensatore Romano Guardini. Non a caso nota che questo ruolo dato alle immagini e all’immaginazione, porta inevitabilmente Francesco ad apprezzare e accogliere, nel rispetto della coerenza della Rivelazione, una certa pluralità nell’ermeneutica della Rivelazione stessa (non consentita da una teologia meramente concettuale). Conclude il gesuita: «Ovviamente, per alcuni, dalla forma mentis più nozionale o sistematica, un tale modus procedendi può disturbare. Tuttavia, bisogna notare che lo stesso Gesù di Nazareth parlava quasi sempre in parabole o con metafore…».
Lumen Gentium e Gaudium et Spes; quarto, operando da gesuita, ha governato in maniera innovativa e ha richiamato l’attenzione al principio che “la fede opera la giustizia”; quinto, ha fatto teologia in modo nuovo». Come? Meno esigente dal punto di vista accademico, gesuita già alla scuola della teologia kerygmatica, nella sua teologia contestuale afferma che i nostri pensieri devono avere sempre qualcosa di incompiuto. Torna il leit motiv del sistema chiuso, che, oggi, può essere considerato tutt’al più una caricatura della teologia.
«Dal chiodo alla chiave: la teologia fondamentale di Papa Francesco», a cura di Michelina Tenace insieme ai professori del Dipartimento di Teologia Fondamentale della Pontificia Università Gregoriana, Libreria Editrice Vaticana, pagg. 160, euro 10