da un’economia incentrata sul denaro a un’economia incentrata sulla persona

per restare in salute

di Francesco Gesualdi
in “Avvenire”

 “La prima sfida da vincere per riuscire a costruire una società al servizio della persona è convertirci a un’altra idea di benessere”

La salute non è semplice assenza di malattia, avverte l’Organizzazione mondiale della sanità. La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale. È la capacità di mantenere il nostro corpo in condizioni ottimali perché possiamo respirare una buona aria, abbiamo i mezzi per nutrirci, lavarci, proteggerci, abbiamo il sapere che ci serve per condurre uno stile di vita equilibrato. È la capacità di sentirsi appagati sotto il profilo affettivo perché diamo giusto spazio ai rapporti umani e familiari, viviamo secondo ritmi di vita compatibili con il nostro orologio biologico ed emotivo, viviamo in contesti urbani e abitativi che facilitano l’incontro e la condivisione. È la capacità di mantenere il proprio equilibrio psichico perché viviamo in contesti familiari, culturali, sociali, economici, dove ci si sente accolti, rispettati, valorizzati, incoraggiati. La ‘salute’, dunque, non è solo riconducibile alla quantità di risorse che riusciamo a destinare ai servizi medici e ospedalieri. La salute è un progetto di società. E con essa c’entra molto il passaggio da un’economia incentrata sul denaro a un’economia incentrata sulla persona. La prima sfida da vincere per riuscire a costruire una società al servizio della persona è convertirci a un’altra idea di benessere. Il dominante sistema materialista si sforza di convincerci che la sola cosa che conta è la ricchezza, e ci impone la crescita veicolata dal mercato come unico indicatore di benessere e sviluppo. Ma sappiamo che questa impostazione ci sta procurando molti danni non solo sul piano ambientale e sociale, ma anche su quello esistenziale. Molti di noi sono ricchi, questo è vero, ma nel contempo infelici e impauriti. Infelici perché la corsa al benavere non ci lascia tempo per le relazioni affettive, umane, sociali. Impauriti perché sappiamo che la nostra esistenza dipende dalle bizzarrie del mercato che quando meno te lo aspetti può metterti alla porta trasformandoti in scarto. Fino a oggi abbiamo accettato di vivere in un sistema economico che garantisce il superfluo a pochi e nega il necessario a molti, nella devastazione ambientale. Ora dobbiamo costruire la società dell’armonia che garantisce una vita dignitosa a tutti, nel rispetto dei limiti del pianeta. Gli originari abitanti delle Ande, le popolazioni che definiamo indios, chiamano questo stato di grazia benvivere ed è più una filosofia di vita che una concezione economica. È la convinzione che la buona vita non dipende tanto dalla ricchezza e che il vero benessere è uno stato di armonia in tre direzioni: con se stessi, con gli altri, con la natura. Altrimenti esiste opulenza, abbondanza, lusso, ma non letizia. Il benvivere ci richiede grandi cambiamenti per conciliare produzione e salvaguardia del pianeta, soddisfacimento dei nostri bisogni e bassa produzione di rifiuti, tempo per il lavoro e tempo per la famiglia. Ma solo avviandoci lungo questo percorso potremo trovare la salute che poi diventa sinonimo di felicità. Poi, certo, la malattia è sempre in agguato e la sfida che si pone di fronte a essa è permettere a tutti di curarsi. Un passaggio possibile solo se eleviamo la cura al rango di diritto, a un bisogno, cioè, che tutti devono avere la possibilità di soddisfare indipendentemente se ricchi o poveri, uomini o donne, giovani o vecchi, ma per il solo fatto di esistere. Il riconoscimento dei diritti è lo spartiacque fra civiltà e barbarie. Purtroppo non tutti i popoli hanno interiorizzato questo valore e continuano a pensare che la cura sia un privilegio che spetta solo a chi ha soldi e pertanto un servizio da affidare al mercato affinché possa lucrarci. Negli Stati Uniti la protezione sanitaria è affidata alle assicurazioni private che elargiscono prestazioni in base al premio pagato. In Italia abbiamo ancora un buona sanità pubblica, tra le migliori al mondo, ma c’è il rischio che taglio dopo taglio, spreco su spreco, inefficienza su inefficienza gradatamente si sgretoli e diventi talmente inadeguato da spingere un numero crescente di italiani a buttarsi nelle braccia della sanità privata che opera al di fuori del Servizio sanitario nazionale.
La Corte dei Conti segnala che fra il 2009 e il 2015 la spesa pubblica per sanità si è ridotta dell’1,1% all’anno in termini reali procapite, nello stesso periodo in Francia è aumentata dello 0,8% e in Germania del 2% all’anno. E intanto, fra ticket, ricorso a prestazioni private e riduzione della copertura farmaceutica, la spesa sostenuta dalle famiglie per curarsi cresce sempre di più fino ad avere toccato quota 35 miliardi nel 2016. La conclusione è che nel 2016 sono stati 13 milioni gli italiani che hanno sperimentato difficoltà economiche e una riduzione del tenore di vita per far fronte a spese sanitarie di tasca propria, 7,8 milioni hanno dovuto utilizzare tutti i propri risparmi o indebitarsi con parenti, amici o con le banche, e 1,8 milioni sono entrati nell’area della povertà. È quanto emerge dal Rapporto Censis-Rbm pubblicato nel 2017. Rafforzamento della solidarietà collettiva per la cura di tutti e ripensamento del modello economico sono le strade maestre per tutelare la salute.




gli ‘zingari’ sono troppo parassiti e ladri per fare i poliziotti – parola del sindacato di polizia

assumere ‘zingari’ in Polizia? No, grazie

per la Consap sono tutti ladri e parassiti

Assumere ‘zingari’ in Polizia? No, grazie. Per la Consap sono tutti ladri e parassiti
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Presidente Associazione 21 luglio

Gli “zingari”? Parassiti, ladri, culturalmente lontani dalla legalità. A dirlo non è il solito sondaggio somministrato a un gruppo anonimo di cittadini esasperati, ma nientemeno che la Confederazione sindacale autonoma di Polizia (Consap) che, in virtù delle diverse migliaia di aderenti in tutta Italia è una delle organizzazioni maggiormente rappresentative della Polizia di Stato con strutture in ogni città e rappresentanti in tutti gli uffici di polizia. La sede nazionale dell’organizzazione è a Roma, città dove la Consap è, per numero di iscritti, il secondo sindacato di Polizia. La Consap fa anche parte della più grande associazione europea di Polizia, rappresentativa di oltre 500mila operatori della sicurezza.

Tutto nasce nei giorni scorsi, quando il Parlamento europeo ha emesso un documento per combattere il fenomeno dell’antigitanismo nel nostro Continente. Il testo raccomanda alla Commissione europea e agli Stati membri di compiere sforzi concreti verso una reale inclusione delle comunità rom in condizione di emarginazione sociale. Tra le misure indicate c’è quella di

“garantire che tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, assicurando un uguale accesso alla giustizia e ai diritti; di fornire una formazione sui diritti umani ai dipendenti pubblici e del sistema giudiziario nazionale; di perseguire i crimini d’odio fornendo strumenti per combatterli nella maniera più adeguata; istituire all’interno del corpo di Polizia delle unità che, formate sull’antiziganismo, sappiano combattere in maniera efficace i crimini d’odio; di favorire l’accesso alle giustizia da parte delle donne rom”; “incoraggiare l’assunzione di persone rom all’interno dei Corpi di Polizia”.

Raccomandazioni di buon senso visto che si tratta di misure già adottate con successo in diversi Paesi. In Italia l’unica a commentare la notizia è stata la Consap che, in un comunicato stampa, ha definito quest’ultima raccomandazione “una priorità delirante”. Il motivo è facilmente spiegato: 

“Il concetto di integrazione dei rom è un controsenso, infatti la loro cultura è da sempre quella di vivere ai margini della società per esaltare il loro parassitismo. Buttandola in metafora disneyana, come ha già detto qualcuno, non si rischierebbe di far sorvegliare alla Banda Bassotti il deposito di Paperone? Immaginiamo che le stesse nostre perplessità le potrebbero avere anche i zigani, che vedono, nelle divise, persone da evitare assolutamente e che questa cultura del “lontani dalla Polizia” se la tramandano da generazione in generazione, fin dalla tenera età dove il poliziotto potrebbe impedire loro di chiedere l’elemosina” 

Insomma, “zingari in Polizia?”. No, grazie, perché per il sindacato

“rimane assodato che in polizia può entrare chiunque, a patto che abbia requisiti morali, personali e generazionali per difendere la libertà e la democrazia

e quindi, secondo la Consap, chi ha sangue rom resta fuori.

Eppure la storia, come sempre racconta una verità diversa. Ho conosciuto funzionari rom della polizia bulgara e rumena addetti alla formazione dei loro colleghi. Così come in Abruzzo e Molise ci sono persone di origini rom arruolate in diversi corpi delle forze dell’ordine, qualcuno destinato anche alle missioni all’estero. Pochi lo sanno, visto che generalmente quando si indossa una divisa, non c’è la necessità di dovere sbandierare le proprie origini ai quattro venti. Soprattutto poi, quando a causa di pregiudizi e stereotipi, si potrebbe incorrere in sgradite conseguenze. D’altronde, anche nel Corpo di Polizia romano è da segnalare la presenza di agenti che, senza divisa, sarebbero annoverati tra gli “zingari parassiti, ladri e sfruttatori“.

Non ce lo possiamo nascondere: questi ragazzi, come tanti altri, sono il futuro del nostro Paese, i costruttori del ponte che ci proietta nel futuro di un’Italia ormai irrimediabilmente “contaminata“ dalla multietnicità. Lasciamo tranquillamente a questi giovani con il sogno della divisa – che siano rom o che non lo siano – la responsabilità di difendere la nostra “libertà e democrazia”, messa a rischio non certo da loro ma da prese di posizione offensive e ridicole. Che da un parte preoccupano ma dall’altra fanno sorridere benevolmente per il livello di un comunicato stampa che – per forma e contenuto – si pone sullo stesso piano delle barzellette indecorose sulle forze dell’ordine raccontate anche all’interno delle comunità rom.

Ma quando si è infarciti di pregiudizi reciproci, ognuno combatte la propria battaglia tra “guardie e ladri” (o riprendendo la metafora disneyana tra il commissario Basettoni e la banda Bassotti) utilizzando le armi che sa usare, a colpi di infelici comunicati stampa o di storielle irrispettose




una giornata mondiale dei poveri voluta da papa Francesco

verso la I Giornata Mondiale dei Poveri

In chiusura del Giubileo della Misericordia Papa Francesco ha voluto indire la Giornata Mondiale dei Poveri, con l’intenzione di aiutare le comunità  cristiane, ma anche i singoli cristiani, ad essere più  vicini agli ultimi, alle “vittime dello scarto della società”.
Come stabilito nella sua Lettera Apostolica “Misericordia et misera”, Francesco spiega che “L’evento verrà celebrato ogni anno nella XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, che quest’anno cade il 19 novembre”.
Il pontefice, ricordando l’esempio di Francesco d’Assisi, perché la Giornata non sia solo un evento “una tantum”, dice:
 “Non pensiamo ai poveri solo come destinatori di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana o, tanto meno, di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze pur validi e utili (…) dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita”.
Siamo invitati, in questa particolare occasione, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, pure ad abbracciarli,
“per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine”,
aggiunge ancora il Papa.
Le persone che ci capita di incontrare o vedere nelle piazze o ai bordi delle strade, spesso, hanno
“la loro mano tesa verso di noi, ed è un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce”.
Poi, il papa, più concretamente, suggerisce cosa fare in questa giornata: 
“Invito la Chiesa, gli uomini e le donne di buona volontà a tenere fisso lo sguardo su quanti tendono le loro nani gridando aiuto e chiedendo la nostra solidarietà”.
Si chiede quindi una reazione alla “cultura dello scarto” che vorrebbe dominare nella società e nei cuori delle persone, indicando la strada della condivisione coni poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di solidarietà.
Infatti, in conclusione del suo messaggio, Francesco suggerisce:
 “Se nel nostro quartiere vivono dei poveri che cercano protezione e aiuto, avviciniamoci a loro: sarà un momento propizio per incontrare il Dio che cerchiamo. Invitiamoli a pranzo: potranno essere maestri che ci aiutano a vivere la fede in modo più coerente”.
 
Germano Baldazzi



le idiozie del ‘sacro cuore di Gesù’ della veggente di Varese

LA VEGGENTE DI VARESE

una signora del varesotto sposata con un ex sacerdote dal 1991 riceve messaggi da parte di Gesù, dice lei. Che ultimamente si sta scagliando contro papa Francesco

Papa Francescopapa Francesco

 

Non bastavano i dubia, le lettere di pseudo teologi, gli editoriali del giornalista “esperto”: anche Gesù ce l’ha contro papa Francesco. A questo punto dovrà proprio dimettersi, perché se al “principale” non piace il suo operato, ogni bravo “amministratore delegato” lascia il posto, magari con una liquidazione principesca, Anzi, papale. Vabbè questa volta siamo al delirio, i veggenti de noiartri, i profeti con il conto in banca, gli sfruttatori di anime semplici (e ignoranti). Dal 1991, secondo quando dichiara la signora Sabrina Luraschi, sposata dal 2000 con un ex sacerdote, Angelo Corbetta, residente del varesotto, dice di essere in linea diretta con Gesù. Altro che veggenti di Medjugorje. I due hanno inaugurato ben due siti online, “Il Sacro Cuore di Gesù” dove riportano le locuzioni, e l’Associazione riparazione eucaristica Sacro Cuore tramite la quale ricevono donazioni che, pare, vadano alla mensa dei poveri delle suore Vincenziane di Como. Esclusivamente tramite bonifico bancario. I seguaci non mancano. Il più entusiasta dei quali sarebbe proprio nostro Signore Gesù Cristo che incita la signora a usare il web.

D’altro canto bisogna essere aggiornati coi tempi. Dice che i messaggi di Gesù le arrivano per la maggior parte dei casi durante le adorazioni al Santissimo Sacramento, in altri casi le vengono dettati mentre i fedeli della congregazione recitano il rosario o discutono nei loro gruppetti. Ed ecco un paio di esempi di messaggi:

«Devi dire, o Sabrina, eletta Mia – sul Mio Sito, esso prezioso, amen – alle anime elette e non, che da qui in avanti esse, se vogliono continuare ad esserMi fedeli e grate, più non devono seguire gli insegnamenti di padre Bergoglio, poiché nella Amoris laetitia egli, purtroppo – con immenso dolore oggi Io te lo dico, amen – è andato fuori strada. Amen» (…) «Figli cari, vescovi e presbiteri della Chiesa Cattolica, Io vi scongiuro: non abbandonate la legge morale oggettiva per seguire questo – devastante ed eretico – multisoggettivismo pseudo-gesuitico. Amen».

Precisissimo Gesù, anche ad usare il linguaggio dei teologi dubbiosi e degli editorialisti di moda. Il più bello è questo, un invito allo scisma:

«In merito a Jorge Mario Bergoglio – quest’uomo che, a breve, porterà ancor più alla deriva la Mia Santa Chiesa in terra, ossia una larga parte di Essa, amen – riguardo a quest’uomo, adunque, sono a dirti che, giunti a questo punto, egli è, ai Miei occhi santi e divini, il papa canonicamente e validamente eletto, ma egli non è più da considerarsi – dai cattolici, figli e figlie della vera Mia Chiesa, amen – come il Mio Vicario sulla terra; e questo in quanto egli non sta più – nella sostanza – ministrando per Me, ma per altri. Amen».

Ci sarebbe da ridere se non ci fosse gente che dà credito a queste idiozie




va bene tradizionalisti e ultracattolici ma così non è da delirio?

quando la bussola perde l’orientamento

gli ultratradizionalisti, la tradizione e la Chiesa

di  

Allibito. !

Non trovo termine migliore per esprimere il mio sentimento di fronte a quanto riportato da certi siti di ultra-tradizionalisti “cattolici”. Una accozzaglia di espressioni colme di presunzione di possesso esclusivo (escludente!) della verità, di arroganza e di malcelata cattiveria. È decisamente interessante che autori che si pongono come difensori della fede cattolica autentica si permettano certe affermazioni.

Una visione esclusiva, escludente di verità

Lascio qualche assaggio di cotanta “saggezza”: Monsignor Mario Delpini, arcivescovo di Milano, definito “ambro-luterano” per aver affermato la necessità, dal mio punto di vista sacrosanta, di diminuire il numero delle Messe a favore di un maggior ascolto della Parola. Poi, a proposito del dialogo ecumenico nel quinto centenario della riforma luterana, uno studioso, riferendosi a Lutero, dice: “le cui letture spirituali protestanti declamate in una basilica cattolica farebbero il pari della lettura del Mein Kampf in una sinagoga”.

Alla faccia del dialogo ecumenico alla luce del Concilio! Poi, diversi attacchi a vescovi e studiosi, tra i quali stimati docenti nelle facoltà pontificie, tacciati di essere persone “a favore delle innovazioni che si battono contro la tradizione”.

Permettete, egregi signori. Io voglio bene alla Chiesa

Ora, signori “difensori della tradizione”, mi permetto il mio parere da semplice curato: non sono uno studioso eccelso; non ho nemmeno la licenza in Teologia… avevo quella da pesca ma è scaduta pure quella. Ma voglio bene alla Chiesa, pur con tutti i miei limiti e i tanti peccati! Non offendetevi, ma credo sia la Chiesa che ha disperato bisogno di difendersi da voi!

Perché se la tradizione è il “si è sempre fatto così”, se i vescovi da difendere perché paladini della tradizione autentica sono quelli che vanno vestiti da alberi di Natale, con chiroteche e mantelli purpurei lunghi metri e metri con tanto di chierici in tricorno che li sostengono, c’è qualcosa che non va.

La nostra non è la Tradizione

Non mi soffermo poi, anche se avrei molto da dire (e da ridire) sulle esternazioni riguardanti Amoris Laetitia e il suo tentativo di aprire mente e cuore alle ferite di molti fratelli e sorelle: un concentrato di fariseismo contemporaneo. No, signori, la vostra non è la tradizione autentica. La Tradizione è la trasmissione di quel Vangelo che sa parlare alle donne e agli uomini di ogni tempo, con l’aiuto dello Spirito del Signore. La Tradizione della Chiesa è viva e richiede un cuore aperto, non rigido.

Certo, per comprendere questo, abbiamo bisogno di una continua e quotidiana conversione, che ci permetta di ricordare e credere alle parole di Gesù: “io sono la via, la Verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. È il Signore che dobbiamo seguire, non una bussola che ha perso l’orientamento. Le chiroteche, guanti preziosi utilizzati dai vescovi molti decenni fa, lasciamole nei musei: noi sporchiamoci le mani nella storia dell’uomo, che è anche storia di Dio.




a 500 anni dalla Riforma di Lutero – dichiarazione comune della chiesa protestante e cattolica italiane

protestanti e cattolici, sempre più vicini

di Gian Mario Gillio
in “www.riforma.it” del 2 novembre 2017

L’Ufficio filatelico e numismatico dello Stato della Città del Vaticano ha mandato alle stampe un francobollo commemorativo della Riforma protestante che ritrae il dipinto del timpano della chiesa di Wittenberg con in primo piano Gesù crocifisso e, sullo sfondo, la città di Wittenberg (il luogo in cui il riformatore tedesco, e frate agostiniano, il 31 ottobre 1517 affisse le sue 95 tesi sulla porta della chiesa del castello della città sassone per contrastare il mercimonio delle indulgenze). La raffigurazione «pittorica» del francobollo fotografa, in atteggiamento di penitenza e inginocchiati, rispettivamente a sinistra e destra della Croce, Martin Lutero che sostiene la Bibbia, fonte e meta della sua dottrina e Filippo Melantone, teologo e amico di Martin Lutero – uno dei maggiori protagonisti della riforma – che, invece, tiene in mano la prima esposizione ufficiale dei principi del protestantesimo da lui redatta: la Confessione di Augusta «Confessio Augustuana». «È la prima volta – dice a Riforma.it il pastore Heiner Bludau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia (Celi) – che il Vaticano decide di dare alle stampe un francobollo celebrativo dedicato a Lutero e alla Riforma protestante. Proprio a Wittenberg abbiamo festeggiato ufficialmente il 31 ottobre, alla presenza delle più alte cariche dello Stato e religiose, la ricorrenza del Cinquecentenario della riforma. Nella città di Lutero è giunta notizia della riproduzione su carta filigranata delle immagini di Lutero e Melantone ritratti accanto a Gesù con lo sfondo della città sassone. Una notizia, per noi luterani, lieta, inaspettata e importante. Devo ammettere che non ancora avuto modo di vedere il francobollo, ma reputo questa iniziativa importante. Proprio come sono state le dichiarazioni congiunte tra luterani e cattolici; in questo caso, il Vaticano, o meglio il suo Ufficio filatelico e numismatico, ha deciso in autonomia di lanciare un segnale importante e di vicinanza, utilizzando un’immagine molto chiara, eloquente e esaustiva, e che ben spiega e raffigura il significato, direi il senso della Riforma innescata da Lutero». A Wittenberg (la città di Lutero e sfondo del francobollo) ricorda ancora Bludau, si sono tenute le celebrazioni per la «Festa della Riforma» con un culto solenne nella chiesa del castello di Wittenberg curato dal presidente della Ekd, Heinrich Bedford-Strohm ed anche un ricevimento ufficiale al quale ha partecipato, tra agli altri, anche la cancelliera Angela Merkel; tutti eventi promossi dalla Chiesa evangelica luterana tedesca – Evangelische Kirche in Deutschland (Ekd) martedì scorso– «occasioni importanti – prosegue Bludau –, nelle quali è emersa, e con forza, la necessità di proseguire il lavoro ecumenico e interreligioso. Un tema dirimente è quello della libertà religiosa. Bedford-Strohm nel suo prezioso sermone ha parlato anche dell’attualità della Riforma e guardando al futuro, un futuro all’insegna della responsabilità, sia collettiva sia personale; la cancelliera Merkel, poi, accostando la libertà religiosa alla Riforma protestante ha ribadito che le libertà non possono però prescindere dai doveri; segnalando altresì l’importanza della presenza religiosa e interreligiosa nel tessuto istituzionale, sociale, politico e comunitario della Germania». Il presidente del Consiglio della Chiesa evangelica tedesca, il vescovo Heinrich Bedford-Strohm, di fronte al presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, alla cancelliera Angela Merkel, al presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble, oltre a numerosi altri ospiti del mondo politico ed ecumenico e a centinaia di fedeli, ha voluto ricordare: «Siamo seduti qui, 500 anni dopo» e poi ha indirizzato un messaggio a papa Francesco: «Fratello in Cristo, ringraziamo Dio per la tua testimonianza di amore e misericordia, che per noi protestanti significa anche testimonianza a Cristo». Parole importanti di riconoscenza dirette al papa, prosegue Bludau «perché, anche se è vero che il percorso di vicinanza e di aperture ecumeniche iniziò grazie al Concilio Vaticano II, è altrettanto vero che l’impulso più significativo al dialogo e alla riconciliazione in questi ultimi anni è partito
dalle mosse di papa Francesco. Un avvicinamento verso tutte le chiese protestanti ed evangeliche. Certamente, importanti sono le dichiarazioni firmate in passato, come quella cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione nel 1999, o quella del 2103 “Dal conflitto alla comunione”, tutti documenti dogmatici importanti. Credo, però, che la visita di papa Francesco a Lund – per aprire le commemorazioni per il Cinquecentenario della Riforma – sia stata la vera scintilla che ha tatto cambiare radicalmente l’atmosfera e la percezione comune: una mossa visibile a tutti, in particolar modo in Italia, dove l’informazione generalista e secolare racconta spesso e spasmodicamente la vita del papa, le sue opere, i suoi viaggi e i suoi pensieri. Il papa aprendo le celebrazioni della Riforma ha mostrato a tutti che non siamo delle “sette”, ma chiese cristiane. Un messaggio che ha saputo entrare anche negli interstizi più irraggiungibili della stessa chiesa cattolica». Dopo i convegni condivisi tra le chiese protestanti ed evangeliche e i vertici della chiesa cattolica, come ad esempio quello realizzato qualche mese fa a Trento insieme all’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo (Unedi) della Cei e dal titolo «Cattolici e protestanti a 500 anni dalla Riforma, è possibile avere uno sguardo comune, così come è avvenuto in occasione della «Festa della riforma» a Roma lo scorso 28 ottobre grazie alla presenza del cardinale Ravasi e alla diretta di Rai Due trasmessa per più di un’ora. Insieme alla Cei – Unedi, ricorda infine Bludau, «è nata l’dea di promuovere anche la dichiarazione congiunta uscita solo lo scorso 31 ottobre. I rapporti che intercorrono tra la chiesa luterana e la chiesa cattolica sono parte, certamente significativa, di un percorso ecumenico ben più ampio. Un percorso intrapreso da molto tempo insieme alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) della quale siamo federati, e con la quale, grazie al loro impegno, abbiamo potuto condividere lo scorso 28 ottobre una giornata davvero ricca e importante che, amplificata dalla Rai, ha permesso di poter far vivere l’evento non come una cosa “intra-protestante” ma di tutti e per tutti gli italiani. Questi rapporti ecumenici e queste attenzioni sono il segnale importante di un percorso in continua evoluzione».

 

500° dalla Riforma di Lutero

dichiarazione comune Chiesa Luterana e C.E.I.

Il testo integrale della Dichiarazione comune della Conferenza episcopale italiana e della Chiesa evangelica luterana in Italia per il 500° anniversario dell’inizio della Riforma

Pubblichiamo il testo integrale della Dichiarazione comune della Conferenza episcopale italiana e della Chiesa evangelica luterana in Italia per il 500° anniversario dell’inizio della Riforma. “Riconciliarsi per annunciare il Vangelo”, questo il titolo del documento che porta la firma di mons. Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei, e del pastore Heiner Bludau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia. “A inizio ottobre – spiegano Bludau e don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso – si è svolto a Trento un breve ma significativo convegno, di cui sul sito dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo ci sono le relazioni e che ha visto ugualmente coinvolti la Chiesa evangelica luterana in Italia e l’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei. A conclusione di quel convegno abbiamo pensato a questa comune dichiarazione. Si tratta di un comune impegno a prendere sul serio ciò che in quest’anno anniversario abbiamo più volte detto e scritto: che il cammino ecumenico ci riguarda e ci impegna tutti, che la passione ecumenica, alla fine, è passione per il Vangelo di Gesù Cristo, per la sua Chiesa, per le donne e gli uomini di oggi. È una dichiarazione che coinvolge tutti, non soltanto cattolici e luterani: perché il cammino di reciproca conoscenza, accoglienza, collaborazione e testimonianza dell’Evangelo è cosa di tutti noi”. Ecco il testo della dichiarazione:

«Piuttosto che i conflitti del passato, il dono divino dell’unità tra di noi guiderà la collaborazione e approfondirà la nostra solidarietà. Stringendoci nella fede a Cristo, pregando insieme, ascoltandoci a vicenda, vivendo l’amore di Cristo nelle nostre relazioni, noi, cattolici e luterani, ci apriamo alla potenza di Dio Uno e Trino. Radicati in Cristo e rendendo a Lui testimonianza, rinnoviamo la nostra determinazione ad essere fedeli araldi dell’amore infinito di Dio per tutta l’umanità» (Dichiarazione congiunta in occasione della Commemorazione cattolico-luterana della Riforma, Lund 31 ottobre 2016). Queste parole hanno guidato il cammino di riconciliazione e di condivisione che ha coinvolto cattolici e luterani in tanti luoghi, in questo anno, per vivere l’esperienza di una commemorazione comune del 500° anniversario dell’inizio della Riforma, nella linea indicata dal documento Dal conflitto alla comunione della Commissione luterano-cattolica per l’unità.

In Italia numerose sono state le iniziative, a vario livello, alle quali hanno preso parte cristiani e cristiane per commemorare la Riforma del XVI secolo in un spirito che, se non può essere considerato una novità alla luce dei passi compiuti negli ultimi decenni, ha sicuramente aperto una nuova stagione nel cammino per la costruzione dell’unità visibile della Chiesa con la quale mettere fine allo scandalo delle divisioni.

Proprio alla luce di queste iniziative, cattolici e luterani auspicano che sia possibile proseguire nell’approfondimento della conoscenza dell’opera e della figura di Martin Lutero per una migliore comprensione delle ricchezze spirituali, teologiche e liturgiche del XVI secolo per una riforma della Chiesa, radicata sulle Sacre Scritture e arricchita dalla tradizione dei concili ecumenici, in grado di rimuovere quei pregiudizi che ancora impediscono una lettura condivisa delle vicende storiche della Riforma in tutte le sue articolazioni.

Nella lettura congiunta delle Sacre Scritture, che costituisce un passaggio fondamentale, da anni, nella scoperta quotidiana di cosa unisce i cristiani, cattolici e luterani invitano a trovare nuove fonti per sviluppare il cammino ecumenico, anche grazie a un rinnovato rapporto con il popolo ebraico proprio a partire dalla comune radice biblica. Leggere insieme le Sacre Scritture illumina l’esperienza di fede con percorsi ecumenici di ascolto e commento della Parola di Dio in modo da condividere tradizioni esegetiche e formulazioni dottrinali, affidando al Signore i tempi e i modi della realizzazione dell’unità visibile della Chiesa.

Cattolici e luterani ritengono che questi percorsi vanno sostenuti e incoraggiati nella prospettiva di favorire un ripensamento della catechesi in chiave ecumenica, soprattutto in relazione alla celebrazione del battesimo e del matrimonio e, più in generale, alle liturgie ecumeniche di riconciliazione, così da aiutare a vivere questi momenti della vita delle comunità locali come opportunità per riaffermare che per cattolici e luterani l’ecumenismo costituisce una scelta irreversibile, quotidiana, non emergenziale, in grado di aiutare una migliore comprensione delle proprie identità, rendendo più vivace e pregnante la missione della Chiesa. Cattolici e luterani vogliono rendere sempre più dinamico il proprio impegno nella cura del creato, proponendo un modello di sviluppo economico che non sia interessato alla logica del profitto, che tanti danni ha fatto anche nel nostro paese con l’inquinamento dell’aria, delle acque e della terra, ma, superando gli interessi individuali o di gruppo, sappia utilizzare le risorse del creato nel rispetto dell’ambiente e avendo sempre di mira il bene comune e quello stesso della terra di cui siamo custodi e non padroni.

Per cattolici e luterani, le peculiarità del cammino ecumenico devono portare a moltiplicare le occasioni per testimoniare l’amicizia e l’aiuto verso i poveri, in particolare oggi verso i migranti che fuggono da guerre e calamità naturali. Davanti al bisogno loro e anche di un numero crescente di nostri concittadini, ci impegniamo a coinvolgere le nostre comunità in uno sforzo maggiore di solidarietà, avendo sempre come modello il Buon Samaritano, quel Gesù che si china sulle ferite dell’umanità sofferente. Siamo aperti a collaborare con tutti i nostri fratelli e sorelle a cui ci accomuna la fede nel Signore Gesù, ed anche con le donne e gli uomini di altre religioni e con tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese e del mondo.

Rafforzare l’amicizia nella fraternità, ai piedi della croce di Cristo, ci aiuterà a favorire una riconciliazione delle memorie in grado di sostenere cattolici e luterani nell’annuncio e nella testimonianza della Parola di Dio nella società contemporanea, per promuovere una riforma sempre più evangelica della vita quotidiana delle comunità locali.

Mons. Ambrogio Spreafico,

presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana

Pastore Heiner Bludau,

Decano della Chiesa Evangelica Luterana in Italia

Roma, 31 ottobre 2017, nel quinto centenario dall’inizio della Riforma di Martin Lutero.




fa rabbrividire la mancanza di argine a un razzismo ormai tronfio di se stesso

le “colpe” del genocidio e dei razzismi

l’inchiesta di Lunaria analizza l’escalation del rancore

Migranti a pochi metri dall'approdo

migranti a pochi metri dall’approdo

di Delia Vaccarello

Il volto tumefatto insanguinato e bendato di Kartik Chondro, il giovane bengalese massacrato di botte a Roma a due passi da Largo Argentina, fa rabbrividire. Sei nero, ti ammazziamo: devono aver “ragionato” così i neanche ventenni che lo hanno aggredito. Fa altrettanto rabbrividire la mancanza di argine a un razzismo ormai tronfio di se stesso. Ed è l’anello di una catena che vede saldate le responsabilità politiche con quelle istituzionali, sia nazionali che europee, con la delegittimazione della solidarietà, nonché con la presenza massiccia di una ideologia del rancore.

A quel volto forse non tutti siamo sensibili. Perché il migrante termine falsamente neutro che spesso viene associato a criminale, è considerato non umano, una specie di “cosa” che però è capace di nuocere. Erba infestante.

Rimanda al concetto utile al potere di “nuda vita”. Scrive Cristiana Cimino in “La nuda vita dei migranti”: “A fronte di una concezione moderna della sacralità, o sacertà, della vita in quanto diritto imprescindibile anche in opposizione al potere sovrano, esiste una originaria e assoluta esposizione della vita al potere e alla sua uccidibilità e a quella che Agamben chiama relazione di abbandono. In quanto vita nuda e uccidibile il soggetto che ne è portatore in qualche modo è già morto, è uno zombie il cui statuto di esclusione/inclusione è necessario, tuttavia, alla costituzione del potere stesso, o meglio, della sua componente violenta”.

Dunque, anche se nel Mediterraneo sta avvenendo un genocidio, ad alcuni non sembra. Per alcuni (molti) non stanno morendo donne uomini e bambini, stanno morendo “nude vite”, cose, pezzi, zombie.

Partiamo dai numeri. Lo facciamo con il conforto del quarto libro bianco sul razzismo di Lunaria. 

Dal 1° gennaio al 22 giugno 2017 i decessi accertati lungo le tre rotte del Mediterraneo sono stati almeno 2.108, esclusi quelli lungo le rotte terrestri. Occhio, sono stime al minimo, come avverte il Missing Migrant Project, facente capo all’Oim (Organizzazione mondiale per le migrazioni). Nello stesso periodo 2.848 sono state le vittime di migrazioni ed esodi su scala planetaria. Vuol dire che tre persone su quattro che muoiono nel corso di un esodo in tutto il pianeta perdono la vita nel Mediterraneo, sotto i nostri occhi, a casa nostra. Nel mare che è nostro (2.108 corrisponde a più del 74per cento del totale mondiale).

A questi numeri vanno aggiunti i “decessi per fame, sete, disidratazione, nonché conseguenti a rapine, aggressioni, sequestri, stupri e torture fino alla morte, inflitti a migranti e rifugiati in Paesi quali la Libia. Qui – dove la “caccia al nero” è prassi abituale – le violenze, anche estreme, si compiono nei pressi dei check-point, anche da parte di uomini in divisa; nei centri di detenzione, veri e propri lager, alcuni dei quali gestiti dalle milizie, in cui vengono rinchiusi migranti, rifugiati e richiedenti-asilo: tutti considerati e trattati al pari di criminali. Per non dire delle brutalità, anche letali, compiute dalle bande che si aggirano nel deserto tra il Niger, il Mali, il Sudan e la stessa Libia: paesi con i quali, nondimeno, l’Unione Europea e l’Italia sottoscrivono accordi bilaterali”.

Che tipo di politica serve? Il governo ai tempi di Letta aveva lanciato una operazione ritenuta capace di dare sostegno e salvataggio. Il nome: Mare Nostrum (nei nomi, il senso). Peccato che per l’Unione Europea Mare Nostrum era troppo costosa. A rimpiazzarla è la missione Triton. Volta non più a salvare i naufraghi, bensì tesa a difendere i confini. E qui facciamo una domanda a coloro che ritengono che i nemici siano i migranti : difendere le frontiere dall’arrivo di disperati che scappano dai conflitti e dalla fame, dalla tortura e dalle violenze, che desiderano cambiare paese aumenta o no il numero dei morti?

Dice Lunaria: “Uno studio di Charles Heller e Lorenzo Pezzani, pubblicato il 18 aprile 2016, dimostra che la sostituzione di un’operazione di salvataggio con una di controllo e salvaguardia delle frontiere (tale è Triton) è da annoverare fra le cause del vertiginoso incremento della mortalità nel Mediterraneo”.

Il genocidio sale alle stelle perché le politiche sposano una logica semplice: il migrante è lo straniero e noi dobbiamo difendere le nostre frontiere dallo straniero. Il migrante è delinquente, se non terrorista. Non ha diritto di cambiare paese, è zombie. Noi dobbiamo fare di tutto per non lasciarlo arrivare. Secondo il quarto libro bianco sul razzismo: “A rendere i viaggi sempre più rischiosi, e spesso fatali, sono anzitutto le politiche proibizioniste europee, gli accordi con Paesi terzi tutt’altro che “sicuri”, il rifiuto di realizzare corridoi umanitari e percorsi migratori protetti e legali, nonché il mancato o maldestro soccorso in mare da parte di missioni militari quali Triton”.

Ma cosa cambia nella percezione dell’Altro? Facciamo un passo indietro. Venti anni fa vide la luce il lavoro straordinario di Giovanni Maria Bellu “I fantasmi di Porto Palo”. Storia di un naufragio di trecento migranti che si fece di tutto per dimenticare. Era il Natale 1996. Leggendo l’opera di Bellu si capì subito che stavamo assistendo all’abbassamento della percezione dell’umanità dell’Altro. Naufraghi? Meglio tacere, meglio non dire cosa tiravano su i pescherecci nei giorni dopo quel terribile Natale. Perché tiravano su pezzi di corpi. In fondo i cadaveri sono muti. Sono pezzi. Sono cose. Non sono persone ora morte e un tempo vive, con legami, patria, sogni, e qualcuno che ancora vuole sapere di loro. Abbiamo ragione di credere che questo sentimento di “deumanizzazione” dell’Altro abbia messo radici. Così dinanzi al problema delle grandi e incessanti migrazioni in atto da un lato ci si difende, dall’altro si attacca chi vuole dare una mano.

Se dobbiamo difenderci dagli sbarchi, occorre prendere le distanze da chi non lo fa. Inizia così la campagna del sospetto contro le Organizzazioni non governative, le Ong “impegnate in operazioni di ricerca e soccorso nel tratto di mare tra l’Italia e la Libia”. A far partire tale discredito è Frontex. Cioè la nuova Frontex, Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. La precedente, che ha operato fino al 2015, è stata “debole”, la nuova ha più poteri. “In un rapporto “confidenziale”, rivelato dal Financial Times il 15 dicembre 2016, Frontex accusava le Ong di agire d’intesa coi trafficanti e di contribuire in tal modo a incrementare le partenze, quindi le stragi nef Mediterraneo”.

Tale atteggiamento a livello europeo è stato rafforzato in casa nostra. Scrive il rapporto: “All’opera denigratoria hanno partecipato i più vari soggetti politici, compreso il Movimento 5 Stelle. Lo ha fatto con un editoriale su Il blog delle Stelle, tanto disinformato quanto calunnioso, che ha ricevuto una valanga di commenti apertamente razzisti; ed è stato rilanciato da Luigi Di Maio, vice-Presidente della Camera, il quale ha definito “taxi del Mediterraneo” le imbarcazioni delle Ong impegnate nell’opera di ricerca e soccorso”.

Ancora, facendo esplicito riferimento alle accuse lanciate da Frontex, il Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro nei mesi scorsi annuncia di aver aperto un’inchiesta sulle presunte “collusioni” tra Ong e trafficanti libici. Dopo un po’ però, le presunte collusioni si rivelano solo ipotesi senza prove, prive di appigli. Ma le polemiche hanno lasciato il segno. Il primo pensiero che viene in mente è semplice: le Ong sono testimoni, osservatori neutri in acque “calde”, frequentate da imbarcazioni di trafficanti e da operazioni di difesa delle frontiere. Meglio che non ci siano.

E il ruolo dei media? Troppo spesso non aiutano. Nel libro bianco non mancano i casi di allarmismo e di vera e propria diffusione del razzismo. La dice lunga il modo in cui venne ricordato, dopo giorni di dimenticanza, il profilo di Faye Dame non inserito subito nella lista dei dispersi della tragedia dell’hotel Rigopiano. Era il 23 gennaio scorso, di lui chiesero con insistenza due turisti. Questo il lancio di agenzia che ne diede conto: “Aveva da poco rinnovato il suo permesso di soggiorno, presso gli uffici della Questura di Torino dove risulta residente, Faye Dame, l’immigrato senegalese al lavoro all’hotel Rigopiano quando è stato travolto dalla valanga. L’uomo, 42 anni, aveva ottenuto il rinnovo del permesso esibendo il contratto di lavoro con l’albergo. Incensurato….”. Ma di quale superstite ci siamo chiesti se fosse o meno “incensurato”?

Se fa notizia l’uomo che morde il cane, e non viceversa, qui nell’immaginario del giornalista ha fatto notizia il fatto che il povero disperso senegalese avesse la fedina penale bianca come la neve che lo ha travolto.

L’elenco dei piccoli e grandi veleni che fomentano le aggressioni come quelle ai danni di Kartik Chondro è lungo e articolato. Il quarto libro bianco sul razzismo analizza e fornisce dati e dettagli. Accennando a qualche conclusione: “Le discriminazioni istituzionali, l’allarmismo dei media, il costante amalgama fra migranti o rifugiati e terroristi, nonché la cattiva gestione dell’accoglienza, almeno in alcuni Stati-membri, non fanno che favorire ondate ricorrenti di xenofobia – che a volte assume tratti paranoidi –, alimentando anche violenza razzista “spontanea” nei confronti degli indesiderabili, spesso usati come capri espiatori”. Certo la crisi economica non aiuta, e neanche la “voragine che separa le classi super-agiate dalla moltitudine d’indigenti, disoccupati, impoveriti, declassati, salariati a basso reddito. Per non dire del peso che ha la crisi della democrazia e della rappresentanza , la quale incrementa, tra l’altro, quel senso di frustrazione, spaesamento” rabbia che facilmente s’indirizza verso capri espiatori, verso categorie fra le più deboli e vulnerabili “. Ne viene fuori un mix di reazione in crescendo, fatto di egoismo, cecità, odio, insensibilità sociale, ricerca dei facili colpevoli. Fatto di “caccia al nero”. Una miccia pronta ad accendersi, collegata a quell’esplosivo che il tempo non disinnesca e che si chiama rancore.




papa Francesco contro i consevatori e la loro pastorale da custodi di musei

«Guai a chi predica il Regno di Dio con l’illusione di non sporcarsi le mani»

“serve coraggio di gettare il seme cristiano, non stare nelle sicurezze”

Messa del Papa a Santa Marta

domenico agasso jr

Per far crescere il Regno di Dio, bisogna gettare seme cristiano. Per riuscirci, ai fedeli serve coraggio, non una «pastorale di conservazione» che punta solo alle sicurezze. Lo dice papa Francesco nella Messa a Casa Santa Marta di questa mattina, 31 ottobre 2017. Il Pontefice avverte: «Guai a chi predica il Regno di Dio» senza «sporcarsi le mani».   

Jorge Mario Bergoglio – riporta Radio Vaticana – basa l’omelia sul Vangelo odierno, da San Luca, in cui Cristo paragona il Regno del Signore al granello di senape e al lievito: il Vescovo di Roma osserva che entrambi gli elementi sono piccoli, sì, ma «hanno dentro una potenza» che cresce. E così è il Regno di Dio: la Sua potenza proviene dall’interno. 

San Paolo nella Lettera ai Romani, proposta dalla Prima Lettura di oggi, evidenzia le tensioni della vita: sono dolori, angosce e sofferenze che però «non sono paragonabili alla gloria che ci aspetta». Si affronta continuamente «una tensione fra sofferenza e gloria». E nelle tensioni dell’esistenza c’è «un’ardente aspettativa» per una «rivelazione grandiosa del Regno di Dio».  

È un’aspettativa anche della Creazione, che non può sfuggire alla caducità «come noi», ed è «protesa verso la rivelazione dei figli di Dio». Questa è la forza che si ha dentro e che «ci porta in speranza alla pienezza del Regno di Dio»; è l’energia dello Spirito Santo. 

Ed è «la speranza quella che ci porta alla pienezza – spiega – la speranza di uscire da questo carcere, da questa limitazione, da questa schiavitù, da questa corruzione e arrivare alla gloria: un cammino di speranza. E la speranza è un dono dello Spirito. È proprio lo Spirito Santo che è dentro di noi e porta a questo: a una cosa grandiosa, a una liberazione, a una grande gloria». E perciò il Figlio di Dio afferma: «Dentro il seme di senape, di quel grano piccolino, c’è una forza che scatena una crescita inimmaginabile». 

Sottolinea Papa Bergoglio: «Dentro di noi e nella creazione c’è una forza che scatena: c’è lo Spirito Santo», il Quale «ci dà la speranza».  

Il Papa illustra il significato di vivere in speranza: permettere che «queste forze dello Spirito ci aiutino a crescere» verso la pienezza che attende ogni essere umano nella gloria eterna. Ma come il lievito deve essere mescolato e il granello di senape buttato, perché altrimenti quella forza resta lì rinchiusa e non si espande, così è per il Regno di Dio che aumenta «da dentro», e «non per proselitismo», ammonisce il Pontefice. 

Il Regno del Signore «cresce da dentro, con la forza dello Spirito Santo. E sempre la Chiesa ha avuto sia il coraggio di prendere e gettare, di prendere e mescolare, anche ha avuto la paura di farlo. E tante volte noi vediamo che si preferisce una pastorale di conservazione e non di lasciare che il Regno cresca. Ma, rimaniamo quelli che siamo, piccolini, lì, stiamo sicuri… E il Regno non cresce». Affinché «il Regno cresca ci vuole il coraggio: di gettare il granello, di mescolare il lievito». 

Francesco riconosce che se si getta il seme, lo si perde, e che se si mescola il lievito, «mi sporco le mani», perché «sempre c’è qualche perdita nel seminare il Regno di Dio». Ma «guai a quelli che predicano il Regno di Dio con l’illusione di non sporcarsi le mani», esclama. Queste persone sono «custodi di musei: preferiscono le cose belle, e non questo gesto di gettare perché la forza si scateni, di mescolare perché la forza faccia crescere». È il messaggio di «Gesù e di Paolo: questa tensione che va dalla schiavitù del peccato, per essere semplice, alla pienezza della gloria». E la «speranza è quella che va avanti, la speranza non delude: perché la speranza è troppo piccola, la speranza è tanto piccola come il grano e come il lievito. È la virtù più umile, la serva», però, dove è la speranza, c’è lo Spirito Santo, che conduce sempre in avanti il Regno di Dio.




anche l’ “humanae vitae” deve cambiare – parola di mons. Bettazzi

mons. Bettazzi

anche per l’ “Humanae vitae” è ora di attuare il Concilio


“la decisione di Paolo VI fu tormentata”
“temeva di non essere compreso e scelse il rigore
Anche per Humanae vitae è ora di attuare il Concilio
 
Luciano Moia

Mezzo secolo dopo è forse arrivato il momento di ripensare alle conclusioni indicate da Paolo VI nell’Humanae vitae e di “scongelare”, come sta tentano di fare papa Francesco, l’eredità del Vaticano II. Lo afferma il vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, 94 anni il prossimo novembre, ultimo testimone del Concilio:

Che rapporto c’è tra la teologia di Humanae vitae e quella espressa dal Vaticano II?
Era uno dei temi che Paolo VI si era riservato. Al Concilio non fu possibile parlare di contraccezione. Com’è noto della questione si occupò una commissione. Il Papa ne allargò la partecipazione e poi sposò la tesi della minoranza.

Perché questa scelta?
Pensava che forse, lasciando la possibilità di discutere il tema al Concilio, sarebbe uscita una linea che non condivideva. Sul piano provvidenziale non riteneva che fosse opportuno aprire modifiche alla teologia consolidata. Ora, cinquant’anni dopo, può darsi invece che sia arrivato il momento di ripensare la questione. Ma affermare questo oggi, non vuol dire concludere che allora la decisione di Paolo Vi non fu chiara.

Fu comunque tormentata. La stessa scelta di aprire un supplemento di indagini dopo l’esito della commissione, non dimostra che il Papa stesso soppesò a lungo la questione?
Non poteva che essere così. Sapeva che sia la maggioranza dei padri conciliari, sia della commissione di esperti, propendeva per un parere più sfumato rispetto al “no” che poi sarebbe arrivato nell’Humanae vitae. Per questo venne contestato sia da molti teologi sia da tante conferenze episcopali.

Da dove nascevano le sue incertezze?
Temeva di non essere compreso. La Chiesa non ama i balzi in avanti. Nella storia è sempre stato così. Nell’Ottocento si aveva paura della democrazia. Cinquant’anni fa Paolo VI si convinse di non poter venire meno al rigore dottrinale sui temi della generazione. Oggi forse è arrivato il momento di ascoltare Giovanni XXIII: non è il Vangelo che cambia, siamo noi che con il trascorrere degli anni, riusciamo a capirlo sempre meglio. E quindi non sono le dottrine a cambiare, siamo noi che riusciamo a comprenderne sempre meglio il significato leggendole alla luce dei segni dei tempi.

Oggi la situazione sociale è profondamente diversa e anche la riflessione teologica è andata molto avanti. Amoris laetitia esprime questo cambio di prospettive.
Sì, perché riprende il Vaticano II. Non era facile a quei tempi affermare che nel matrimonio quello che conta è l’amore degli sposi e poi c’è la procreazione. Non che non sia importante. Ma al primo posto c’è l’amore coniugale. Era una posizione molto avanzata.

Quando pesarono in quella scelta i pareri di chi consigliava Paolo VI di non staccarsi dalla tradizione?
L’enciclica venne firmata da lui e quindi dobbiamo pensare che la decisione fu sua. Forse non vedeva chiaramente gli esiti di una decisione diversa. Forse arrivarono pressioni importanti. Ma non possiamo mettere in discussione il fatto che fu lui a decidere. Certo, i tormenti ci furono. E anche le sollecitazioni. La posizione rigorosa del cardinale Ottaviani e dell’allora Sant’Uffizio non è un mistero.

È vero che di fronte al dilagare delle proteste, Paolo VI avrebbe voluto tornare sulla questione?
Questo non saprei dirlo. Certo, l’attuazione del Concilio era un tema che lo preoccupava molto. In un senso e nell’altro. Ci teneva, ma lo portava avanti con molta prudenza. Tanto che il vescovo brasiliano Helder Camara scrisse in un suo libro di aver sollecitato più volte Paolo VI perché istituisse una commissione per l’attuazione del Concilio.

Perché questa esigenza?
Ma è chiaro. Camara, e tanti vescovi con lui, si chiedevano come sarebbe stato possibile lasciare l’attuazione del Concilio in mano a quelli che non l’avevano voluto…

E invece andò proprio così…
Purtroppo sì. Poi arrivò la rivoluzione del ’68, la Chiesa si spaventò ancora di più. E prevalsero i nemici del Concilio. Non che non ci fossero esagerazioni postconciliari da correggere. Ma invece di correggere, abbiamo congelato tutto. Con l’acqua sporca abbiamo buttato via anche il bambino.

Adesso però papa Francesco sta tentato l’operazione “scongelamento del Concilio”. Ci riuscirà?
Sì, ma deve farlo con prudenza. Perché come già aveva intuito Paolo VI, non bisogna sgomentare i fedeli più semplici. E anche quella parte della Chiesa dove la situazione sociale è diversa rispetto all’Occidente. Non è un caso che le resistenze più forti ad Amoris laetitia siano arrivate dall’Africa e dall’Europa dell’Est. E poi ci sono i tradizionalisti. Ma questo dura fin dai tempi del Vangelo. Gli oppositori di Gesù provenivano dall’area più intransigente, da coloro che guardavano alla lettera della religione, scribi e farisei. Oggi come allora, cambiare significa rinunciare a determinate posizioni, a una fetta del proprio potere, quello politico e quello ideologico. Pensarla diversamente è normale e anche giusto, ma il confronto deve avvenire nella carità, nel rispetto reciproco.

Gli attacchi che oggi vengono rivolti al Papa non sembrano proprio nel segno della carità…
No, infatti. Mi ha molto amareggiato l’uscita dei quattro cardinali con i Dubia. Si sono giustificati dicendo che inizialmente avevano scritto in privato. Ma nel momento in cui si esce pubblicamente, si tratta quasi di una sovrapposizione al potere del Papa. Certa gente è papista finché pensa che il Papa sia dalla loro parte.

Anche dopo Humanae vitae si visse questo clima di attacco al papa?
Sicuramente sì. Nella sostanza l’opposizione, anche da parte di intere conferenze episcopali, fu molto netta. Si pronunciarono per un’applicazione estensiva di Humanae vitae più di 40 conferenze episcopali. Ma in modo rispettoso, non come gli attacchi che abbiamo visto in questi mesi contro Francesco. Allora la preoccupazione dei vescovi era di tipo interpretativo. Non volevano che i divieti mettessero in secondo piano il tema dell’amore nella coppia, che anche il Concilio aveva indicato come punto di svolta.




In Vaticano un convegno sul disarmo nucleare

In Vaticano un convegno sul disarmo nucleare

il 10-11 novembre

atteso il segretario generale delle Nazioni Unite e alcuni premi Nobel. Il portavoce della Santa Sede Greg Burke precisa: non è una mediazione tra Stati Uniti e Corea

iacopo scaramuzzi

Il dicastero vaticano per la Promozione umana integrale organizza il 10 e 11 novembre un convegno sul disarmo e, tra l’altro, sul disarmo nucleare.

 

Il programma non è ancora ufficiale ma è attesa la partecipazione del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, dell’alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue Federica Mogherini, e del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, nonché un intervento del Papa. È prevista la partecipazione di numerosi premi Nobel.

Il congresso «non è una mediazione» tra Stati Uniti e Corea del Nord, ha precisato il direttore della Sala stampa vaticana Greg Burke, ma un «convegno di alto livello»: «Il Santo Padre – ha dichiarato – lavora con determinazione per promuovere le condizioni necessarie per un mondo senza armi nucleari, come lui stesso ha ribadito lo scorso mese di marzo in un messaggio indirizzato all’Onu riunita a tale scopo. Proprio per questo ci sarà un importante convegno la prossima settimana, “Perspectives for a World Free from Nuclear Weapons and for Integral Development”, organizzato dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale. Ma è falso parlare di una mediazione da parte della Santa Sede».

Proprio questa mattina, peraltro, il Papa si è recato in visita al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, oltre che al Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita.  

La posizione della Santa Sede sul tema, del resto, è nota. Lo scorso 26 settembre, in occasione della Giornata internazionale dell’Onu per la totale eliminazione delle armi nucleari, il Papa aveva scritto su Twitter: «Impegniamoci per un mondo senza armi nucleari, applicando il Trattato di non proliferazione per abolire questi strumenti di morte».   

Pochi giorni prima l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, Segretario della Santa Sede per i Rapporti con gli Stati, ha firmato a settembre il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, adottato il 7 luglio 2017 al termine della Conferenza delle Nazioni Unite. Alle crescenti tensioni legate al programma nucleare della Corea del Nord – ha sottolineato in quell’occasione il «ministro degli Esteri» vaticano – si deve rispondere cercando di rilanciare i negoziati. Si devono in particolare superare – ha sottolineato monsignor Gallagher in occasione della decima Conferenza per facilitare l’entrata in vigore del Trattato – la minaccia nucleare, la superiorità militare, l’ideologia e l’unilateralismo che ricordano la logica della guerra fredda.   

Sempre in quell’occasione Gallagher ha anche ricordato quanto indicato da papa Francesco nel messaggio dello scorso 23 marzo incentrato sul tema delle armi nucleari: «La comunità internazionale – ha scritto il Papa – è chiamata ad adottare strategie lungimiranti per promuovere l’obiettivo della pace e della stabilità ed evitare approcci miopi ai problemi di sicurezza nazionale e internazionale».  

Quanto allo specifico scenario coreano, il Papa di ritorno dal recente viaggio in Colombia aveva risposto tra l’altro a una domanda circa la corsa agli armamenti da parte di Pyongyang, affermando: «Mi viene in mente una frase dell’Antico Testamento: l’uomo è uno stupido, è un testardo che non vede. L’unico animale del creato che mette la gamba nella stessa buca, è l’uomo. Il cavallo e gli altri no, non lo fanno. C’è la superbia, la presunzione di dire: “No, ma non sarà così”. E poi c’è il “dio Tasca”, no? Non solo riguardo al creato: tante cose, tante decisioni, tante contraddizioni e alcune di queste dipendono dai soldi». E ancora: «L’uomo è uno stupido, diceva la Bibbia. E così, quando non si vuol vedere, non si vede. Si guarda soltanto da una parte».   

Quanto alla Corea del Nord, «ti dico la verità – diceva il Papa al giornalista che aveva posto la domanda – io non capisco, davvero. Perché davvero non capisco quel mondo della geopolitica, è molto forte per me. Ma credo che, per quello che vedo, lì c’è una lotta di interessi che mi sfuggono, non posso spiegare davvero». In una recente intervista a La Civiltà Cattolica, poi, Hyginus Kim Hee-Joong, arcivescovo cattolico di Gwangju e presidente della Conferenza episcopale coreana , confermava, tra l’altro, di essere stato inviato in Vaticano a maggio dal nuovo presidente della Repubblica coreana, Moon Jae-in, subito dopo la sua elezione, con l’incarico di consegnare al Pontefice una lettera personale: «In quel momento – riferiva l’arcivescovo Hyginus – c’era la minaccia di guerra nella Penisola coreana a causa del conflitto tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord. Il nuovo presidente della Corea del Sud voleva spiegare la sua posizione per la pace della Penisola coreana e chiedere la preghiera e l’aiuto di Papa Francesco, prima che egli desse udienza al presidente Trump (udienza concessa il 24 maggio, ndr). Penso che la mia missione sia stata positiva, grazie anche all’aiuto del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin. Il nuovo presidente, Moon Jae-in, il cui nome di battesimo è “Timoteo” – aggiunge l’Arcivescovo coreano in merito a quell’episodio – ha ringraziato il Pontefice e tutti coloro che ci hanno aiutato».