le tante bufale sull’immigrazione

tutto quello che sapete sull’immigrazione è sbagliato

Siete terrorizzati dagli stranieri? Pensate sia un’emergenza? Avete la sindrome dell’invasione? Tranquilli, non sta succedendo nulla di tutto questo (soprattutto se non abitate in una grande città): bastano un po’ di dati e qualche esempio

Sadiq Kahn Linkiesta

Sadiq Kahn, immigrato pakistano di seconda generazione e attuale sindaco di Londra

È lo spettro che si aggira per l’Europa, perlomeno in questo scorcio di ventunesimo secolo. Parliamo dell’immigrazione, ovviamente, un processo che sta cambiando i connotati alle agende politiche, distruggendo partiti, alzando muri – o minacciando di farlo – là dove fino a pochi mesi fa c’erano frontiere aperte. A monte di tutto, una premessa che tutti o quasi danno per scontata: che si tratti di un’emergenza e che come tale vada trattata. Che “se mettiamo un muro, o l’esercito alle frontiere smetteranno di arrivare”. O che se “li aiutiamo a crescere a casa loro, smetteranno di partire”.

Ecco: spiacenti di deludervi. Ma no, niente di tutto questo ha senso. No, le migrazioni non sono un’emergenza. No, la gente non smetterà di partire, di muoversi, di arrivare, né se gli darete il pesce, e nemmeno se gli darete la canna per pescare. E no, peraltro, l’Europa è un continente che è solo tangenzialmente interessato dalla questione migratoria. E quando lo è, in modo significativo, la soluzione ai problemi dei migranti sono anche un’opportunità di sviluppo economico e sociale, oltre che un fattore di inversione demografica non irrilevante e fondamentale, per l’unico continente al mondo la cui popolazione decresce.

A dirlo sono i numeri. Più precisamente i numeri raccolti da un rapporto del World Economic Forum pubblicato il 25 ottobre, intitolato “Migration and its impact on cities”, le migrazioni e il loro impatto sulle città. Che smonta un bel po’ di luoghi comuni. E che ha il pregio, soprattutto, di inquadrare il problema da un punto di vista globale. Un rapporto delle cui numerose evidenze che emergono ne abbiamo scelte cinque.

Le migrazioni (e non la stanzialità) sono il futuro del mondo
No, dicevamo: le migrazioni non sono un’emergenza, ma una tendenza inesorabile e inevitabile che sta cambiando il modo in cui abitiamo il pianeta. Di fatto, la rappresentazione plastica di una parola come “globalizzazione” che molto spesso pronunciamo senza saperle dare un significato preciso. Mentre state leggendo questo articolo, nel mondo ci sono più di un miliardo di persone che sono emigrate o che stanno migrando: parliamo di un settimo della popolazione globale. Nello stesso momento, 66 milioni di persone hanno in animo di migrare nei prossimi dodici mesi. E 23 milioni tra loro si stanno gia preparando per farlo.

Se pensate che l’Europa sia immune da pulsioni migratorie siete fuori strada e di molto. Un abitante su cinque dell’Unione Europea, infatti, vorrebbe migrare da dove vive, sette punti in più rispetto alla media globale, poco meno degli abitanti del Nord Africa e del Medio Oriente devastati da miseria e carestie (22%)

I migranti vogliono andare nelle metropoli, non in Occidente
Se state già preparandovi con malta, mattoni e filo spinato, vi diamo una notizia: buona parte di quei migranti non stanno venendo da voi. Almeno, questo ci dice la storia recente: del miliardo di migranti, sono solo 244 milioni quelli che sono usciti dal loro Paese. I restanti 763 milioni di migranti si sono mossi per raggiungere un’altra area della nazione in cui già vivevano E come i nostri migranti degli anni ’50, si stanno muovendo per raggiungere le grandi metropoli del loro Paese. In Africa, dove la crescita urbana è undici volte superiore a quella delle città europee. In India, dove la migrazione interna è raddoppiata tra il 2001 e il 2011. E soprattutto in Cina, nei confini della quale ci sono più di 220 milioni di migranti diretti verso le metropoli della costa pacifica, quasi quanti se ne muovono da un Paese all’altro in tutto il resto del mondo. Sydney, Londra e New York, tanto per fare tre esempi, sono città in cui un terzo della popolazione è migrante. Una percentuale che supera addirittura il 62% a Bruxelles e l’83% a Dubai.

 

Schermata 2017 10 27 Alle 14

Anche noi europei siamo migranti (o vorremmo esserlo)
Se è vero che ci si muove prevalentemente dalle campagne alle città, vuol dire che le migrazioni riguardano tutti, non solo gli abitanti dei Paesi poveri o in via di sviluppo. Quel che cerchiamo nelle metropoli ci accomuna tutti: la modernità, le opportunità economiche, l’emancipazione da un contesto culturalmente arretrato, una vita culturale più stimolante. Ad esempio, se pensate che l’Europa sia immune da pulsioni migratorie siete fuori strada e di molto. Un abitante su cinque dell’Unione Europea, infatti, vorrebbe migrare da dove vive, sette punti in più rispetto alla media globale, poco meno degli abitanti del Nord Africa e del Medio Oriente devastati da miseria e carestie (22%). Curiosità: il luogo nel quale ci sono meno persone che se ne vogliono andare – solo sette su cento – è il sud est asiatico.

 

Schermata 2017 10 27 Alle 14

In Italia non c’è nessuna grande invasione
Dovreste già esserci arrivati da soli, se siete intelligenti: in Italia non ci sono molte metropoli e di conseguenza non c’è nessuna grande invasione. Per dire: la città italiana con più migranti al suo interno – interni o esterni che siano – è Milano, col 19% di popolazione che viene da fuori. Il resto è quasi ordinaria amministrazione: per i migranti che si spostano da una nazione all’altra, siamo l’undicesimo Paese di destinazione dopo gli Stati Uniti, la Germania, il Canada, il Regno Unito, la Francia, l’Australia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Russia e la Spagna. E in percentuale sul totale della popolazione hanno più migranti di noi anche Paesi come l’Ucraina, la Svizzera, il Kazakhstan, la Giordania.

 

Schermata 2017 10 27 Alle 14

I migranti spaventano chi non ce li ha
In Europa i migranti si muovono nel 61% dei casi verso le grandi città e solo il restante 39% si dirige verso città medie (25%) e aree rurali (14%). In altre parole, i migranti vanno in città come Parigi, in cui il Front National prende il 5% appena. O come Londra che ha eletto come sindaco il pakistano Sadiq Kahn. Non in Polonia o in Ungheria, che nemmeno compaiono nelle classifiche di destinazione dei migranti e nemmeno in tutta l’ex Germania Est, Berlino esclusa, in cui dominano le frange più estreme di Alternative fur Deutschland. In altre parole, gli “stranieri” spaventano chi non ce li ha. Meglio ancora: chi vive in campagna o nelle valli e ha paura dei migranti è come il bambino di città che ha paura dei lupi. Basterebbe dirglielo: tranquillo, non hanno nessuna intenzione di venire a mangiarti.

Schermata 2017 10 27 Alle 14




il grido profetico di Zanotelli contro la globalizzazione della riccheza contro i poveri

l’illusione dei ricchi

 

Incredibile l’abuso che noi occidentali abbiamo fatto della Bibbia per dominare il mondo

 

meraviglioso Dio. Così quelli che oggi stanno fuori entreranno e quelli che credono di stare dentro usciranno o comunque aspetteranno. Così quelli piegati dalla sbarra dell’oppressione saranno sollevati, rimessi in piedi e saliranno, quelli che stanno sul piedistallo, sui pulpiti del legalismo/moralismo/rigorismo scenderanno e senza gli applausi a cui sono abituati. Così quelli calunniati, perseguitati, uccisi per i loro richiami profetici saranno ascoltati pubblicamente, quelli che hanno predicato di giorno il Vangelo e stretto accordi di notte con il potere saranno messi a tacere.

(1) Vangelo di Matteo 20,16

Vangelo di Luca 16, 19-31

C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

pubblicato da altranarrazione




halloween e gli ultracattolici che hanno paura del sorriso

HALLOWEEN

“Ogni anno, con l’avvicinarsi della festa di Halloween, riprende con forza la crociata degli ultrà cattolici che vedono in questo evento il trionfo del male…”. Su ilLibraio.it il commento del biblista frate Alberto Maggi: “Perché i super cattolici hanno paura del riso?”

LA PAURA DEL SORRISO

Ogni anno, con l’avvicinarsi della festa di Halloween, riprende con forza la crociata degli ultrà cattolici che vedono in questo evento il trionfo del male, una sorta di sabba satanico, popolato da streghe, diavoli, demòni, e ogni altra infernale creatura. Questi zelanti crociati sono sempre in guerra, devono continuamente combattere contro qualcuno, e se non trovano il nemico, lo inventano. Per essi la festa di Halloween è un’attrazione irresistibile, non si trattengono e tirano fuori tutta la cattiveria repressa e la violenza verbale contro chi sorride di questa festa.

Da che nasce tutto quest’astio? Perché i super cattolici hanno paura del riso? Per costoro, che indubbiamente vivono una loro spiritualità, questa s’intende come qualcosa contrapposta al corpo, alla carnalità, alla materia, qualcosa che entra in conflitto con la felicità umana, quasi che per essere spirituali occorra rinnegare una parte importante ed essenziale della propria vita, quella dei sensi e del piacere. La spiritualità per costoro sembra relegata al mondo dello spirito e non della materia, del divino e non dell’umano, del religioso e non del profano, dell’eterno e non del temporale.

Tutto ciò nasce dal fatto che nel cattolicesimo siamo eredi di una spiritualità che distaccatasi dai vangeli ha devastato a volte in maniera irrimediabile la vita dei credenti. Uno dei grandi responsabili di questa devastazione fuunpapa del medioevo, Innocenzo III. Quando ancora era cardinale, scrisse Il disprezzo del mondo, libro che per circa sei secoli fu un bestseller e formò, o meglio deformò, la spiritualità cristiana.

Lotario, confondendo il suo tetro pessimismo per sante ispirazioni, scrisse: “L’uomo viene concepito dal sangue putrefatto per l’ardore della libidine, e si può dire che già stanno accanto al suo cadavere i vermi funesti. Da vivo generò lombrichi e pidocchi, da morto genererà vermi e mosche; da vivo ha creato sterco e vomito, da morto produrrà putredine e fetore; da vivo ha ingrassato un unico uomo, da morto ingrasserà numerosissimi vermi… Felici quelli che muoiono prima di nascere e che prima di conoscere la vita hanno provato la morte… mentre viviamo continuamente moriamo e finiremo di essere morti allorquando finiremo di vivere, perché la vita mortale altro non è che una morte vivente…” (De cont. mundi 3,4).

I danni prodotti da questa letteratura tetra (basta citare l’Imitazione di Cristo) sono stati devastanti. La teologia nei secoli si è occupata più della sofferenza che dell’allegria, della mortificazione anziché del piacere, del pianto più del riso (“Gesù non ha mai riso” era nel sec. XVIII l’imperativo di predicatori incapaci di un sorriso), e l’abito da lutto divenne la divisa di preti e suore.

I teologi si sono interessati più della morte che della vita. L’unica vita che li interessava era quella eterna, dell’al di là. La vita terrena non era altro che un’immensa valle di lacrime nella quale sguazzavano le pie anime devote in attesa della morte: “La mattina, fa’ conto di non arrivare alla sera: e quando poi si farà sera, non osare sperare nel domani. Sii dunque sempre pronto…” (Imitazione di Cristo, XXIII, 1).

Una spiritualità che divinizzava la sofferenza e la morte non aveva altro rimedio che insegnare ai credenti di porre l’unica speranza nell’altra vita, la sola degna di essere chiamata tale. La felicità degli uomini in questa esistenza non era contemplata.

Per spiritualità cristiana, evangelica, s’intende una vita guidata, potenziata, arricchita dallo Spirito di Gesù, lo Spirito Santo, la forza vitale che proviene da Dio ed è la vita stessa di Dio che viene comunicata. Questa spiritualità non entra in conflitto con la vita, ma la potenzia, non è una rivale della felicità, ma la permette, non diminuisce la persona, ma l’arricchisce, non toglie il sorriso, ma lo illumina.




chi sono i nemici di papa Francesco

i nemici del papa sono nella chiesa

e stanno combattendo una guerra

in una lunga inchiesta il quotidiano britannico The Guardian analizza chi sono i nemici di Bergoglio in Vaticano e perché contro il pontefice argentino monta un’opposizione sempre più forte

I nemici del papa sono nella Chiesa. E stanno combattendo una guerra

Papa Francesco ha moltissimi nemici. E non tanto tra gli atei, i protestanti o tra i musulmani. Quelli più convinti si trovano all’interno del Vaticano e nelle curie di tutto il mondo perché fanno parte anche loro parte del clero e siedono tra le file dei più convinti conservatori. Sin dalla sua nomina nel 2013 Bergoglio ha mostrato di preferire (a parole e nei fatti) uno stile modesto e umile. Guida una Fiat, porta da solo le sue valige, si reca personalmente in un negozio di occhiali per cambiare le lenti – ma non la montatura – e paga il conto in hotel. Lava i piedi alle donne musulmane rifugiate e dei gay dice “Chi sono io per giudicare?” Le sue parole e i suoi gesti hanno colpito il mondo intero ma dentro le mura di ‘casa’  Francesco ha provocato un contraccolpo enorme tra i conservatori che temono che lo stile ‘francescano’ possa dividere la Chiesa o addirittura mandarla in frantumi. È quanto emerge da un lungo articolo del Guardian scritto dal giornalista Andrew Brown che si è infiltrato nel clero e ha parlato con sacerdoti e non solo. “Quest’estate un prete inglese molto in vista mi ha detto: ‘Non possiamo che aspettare che muoia. Quello che ci diciamo in privato non si può riportare. Ma quando due preti si incontrano parlano di quanto terribile sia Bergoglio… È come Caligola: se avesse un cavallo lo nominerebbe cardinale’”. Poi la raccomandazione al giornalista: “Non devi pubblicare nulla di quello che ho detto altrimenti verrò fatto fuori”. 

I nemici del papa sono nella Chiesa. E stanno combattendo una guerra

perché Bergoglio si è fatto i nemici

Che Bergoglio si facesse dei nemici era già previsto. E per diversi motivi: è il primo papa non europeo ed è stato letto come outsider, tanto per iniziare. Ma nessuno immaginava che i suoi avversari fossero cosi tanti. Forse perché nessuno aveva previsto che, una volta eletto, Bergoglio avrebbe scelto il nome del santo dell’umiltà e che, come lui, (o quasi) avrebbe condotto la sua vita, iniziando col dire no ai fasti del Vaticano. Non sono andate giù nemmeno le sue parole di accoglienza nei confronti dei migranti, i suoi attacchi al capitalismo e, soprattutto, la sua decisione di riesaminare gli insegnamenti della Chiesa sul sesso. “Stando a quanto emerso dall’ultimo incontro mondiale dei vescovi, quasi un terzo del Collegio Cardinalizio ritiene che il papa stia flirtando con l’eresia”.

Uno dei principali punti di rottura – secondo The Guardian – è rappresentato dal divorzio: rompendo con la tradizione secolare, Francesco ha incoraggiato i preti cattolici a dare la comunione anche ai divorziati, a coloro che si sono risposati e alle coppie che convivono. “A lungo i suoi avversari hanno cercato di distoglierlo e di convincerlo a rinunciare all’iniziativa. Lui non ha voluto e si è ritrovato a combattere contro il malcontento generale che ora sta montando in una guerra”. Le armi sono le accuse di eresia. “L’anno scorso, un cardinale, appoggiato da alcuni colleghi in pensione, ha fatto emergere la possibilità di una dichiarazione formale di eresia, un peccati punibile con la scomunica. Lo scorso mese, invece, 62 sacerdoti e studiosi cattolici e laici, tra cui figurano un vescovo in pensione e l’ex presidente dello Ior – Ettore Gotti Tedeschi – hanno pubblicato una lettera aperta di 25 pagine che accusa Papa Francesco di 7 eresie per la sua Amoris Laetitia”. Il documento, scritto da Francesco, affronta il dibattito sul divorzio e apre – seppur non direttamente – alla comunione ai divorziarti.

I nemici del papa sono nella Chiesa. E stanno combattendo una guerra

cosa significa essere accusati di eresia

(per un papa)

Si tratta di un’accusa cruciale per un papa perché lo mette con le spalle al muro: secondo la dottrina, un papa non può sbagliare quando affronta temi di fondamentale importanza come quelli legati alla fede. Così, se cade in errore significa che non è degno di essere papa, se invece ha ragione significa che hanno sbagliato tutti i suoi predecessori. In più, quella sulla comunione ai divorziati è una questione più che altro di forma: Bergoglio non ha proposto una rivoluzione ma ha semplicemente riconosciuto quello che accade già in tutto il mondo. E che potrebbe essere essenziale per la sopravvivenza della Chiesa. Se si applicassero le regole alla lettera, nessuno potrebbe più fare sesso con il nuovo partner dopo il fallimento del proprio matrimonio.

La crisi più grave dopo le spaccature degli anni ‘60

L’attuale crisi, ricorda il Guardian, è la più profonda dai tempi delle riforme liberali degli anni ’60 che portarono il gruppo dei conservatori più convinti, guidati dall’arcivescovo Marcel Lefebvre, a staccarsi dalla Chiesa. Furono gli anni del Concilio Vaticano II e dell’apertura di Roma al resto del mondo sotto la guida di Papa Giovanni XXIII. Il Concilio condannò l’antisemitismo, abbracciò la democrazia, proclamò i diritti umani universali e abolì la messa in latino. Il Vaticano ha trascorso la maggior parte del secolo scorso a lottare contro la rivoluzione sessuale, spingendosi su posizioni assolutistiche come, ad esempio, il divieto assoluto di usare contraccettivi. Francesco ha riconosciuto che non è così che agiscono i fedeli. E lo sanno anche i membri del clero ma si comportano come se non lo sapessero. “La dottrina ufficiale non deve essere messa in discussione, ma nemmeno può essere osservata del tutto”.

I nemici del papa sono nella Chiesa. E stanno combattendo una guerra
papa Francesco apre la Porta Santa della Basilica di San Giovanni in Laterano, la terza compiuta personalmente da Bergoglio dopo quelle di Bangui in Centrafrica e di San Pietro 

la ricetta per salvare la Chiesa 

Con oltre un miliardo di fedeli, la Chiesa cattolica è la più grande organizzazione al mondo e molti dei suoi fedeli sono divorziati oppure sono genitori non sposati. Si tratta di un numero in netto calo, soprattutto al di fuori dell’Italia. Negli Stati uniti, ad esempio, la percentuale dei fedeli che vanno regolarmente a messa la domenica è passato dal 55% del 1965 al 22% del 2000. Mentre il numero di bambini battezzati è sceso da 1,3 milioni nel ’65 a 670mila nel 2016. E se per alcuni il motivo dell’allontanamento risiede nell’abbandono delle pratiche più tradizionali, per altri la colpa della Chiesa è quella di non essere riuscita a cambiare abbastanza per essere vicina alle persone. Da parte sua, “Papa Francesco è sicuro che se non riuscirà a far coincidere teoria e pratica le chiese si svuoteranno. Anche i suoi avversari sono consapevoli del fatto che l’istituzione sia nel pieno di una crisi, ma la loro ricetta per salvarla è l’opposto: per loro il fossato tra teoria e pratica è esattamente ciò che dà spessore e senso alla Chiesa”. Ma l’attrito riguarda soprattutto la visione del ruolo dell’istituzione tra chi crede che la Chiesa debba organizzare la sua agenda a seconda delle esigenze del mondo e chi crede l’esatto contrario. 




un libro provvidenziale sull’inconciliabilità di cristianesimo e antisemitismo

da ,

quanto mai opportuna l’uscita, visto il risorgente antisemitismo
sarà presto disponibile in libreria un volumetto di Valerio De Cesaris dal titolo:
“Spiritualmente semiti. La risposta cattolica all’antisemitismo” (edizione Guerini e Associati). 
E’ una riflessione storica su Chiesa cattolica e antisemitismo che si incentra su un momento di svolta, il giorno del settembre 1938 in cui Pio XI, in contrapposizione esplicita con il razzismo nazista e ormai anche fascista (del luglio è il Manifesto degli scienziati razzisti e a inizio settembre sono emanate le prime Leggi razziali riguardanti soprattutto la scuola), rivendica la “semiticità” dello stesso cristianesimo, in quanto erede diretto del popolo della Promessa.
Il 14 settembre 1938, su “La libre Belgique”, esce il resoconto dell’udienza concessa cinque giorni prima da papa Ratti ai pellegrini della Radio Cattolica Belga:
“‘L’antisemitismo non è compatibile con il pensiero e la realtà sublimi che sono espresse in questo testo [un Messale donato dai pellegrini, in cui si leggeva ‘Sacrificium patriarchæ nostri Abrahæ’]. È un movimento antipatico, un movimento con cui noi cristiani non possiamo avere alcuna parte’. Qui il papa non riesce più a trattenere la propria emozione. Non voleva lasciarsene vincere. Ma non è riuscito a farlo. È piangendo che ha citato i passi di San Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo. ‘La promessa è stata fatta ad Abramo e alla sua discendenza. Il testo (Gal 3, 16) non dice, fa notare San Paolo, <in seminibus tamquam in pluribus, sed in semine, tamquam in uno, quod est Christus>. La promessa si realizza nel Cristo e, attraverso il Cristo, in noi che siamo le membra del suo corpo mistico. Attraverso il Cristo e nel Cristo noi siamo della discendenza spirituale di Abramo. No, non è possibile ai cristiani aver parte con l’antisemitismo. […] L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti’”.

Francesco De Palma



contro la violenta usanza delle mutilazioni genitali

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

di Rania Ibrahim

“Poi toccò a me. Ormai ero terrorizzata.
– Quando avremo tolto questo “kintir” (clitoride) tu e tua sorella sarete pure.- Dalle parole della nonna e degli strani gesti che faceva con la mano, sembrava che quell’orribile kintir, il mio clitoride, dovesse un giorno crescere fino a penzolarmi tra le gambe. Mi afferrò e mi bloccò la parte superiore del corpo… Altre due donne mi tennero le gambe divaricate. L’uomo che era un cinconcisore tradizionale appartenente al clan dei fabbri, prese un paio di forbici. Con l’altra mano afferrò quel punto misterioso e cominciò a tirare… Vidi le forbici scendere tra le mie gambe e l’uomo tagliò piccole labbra e clitoride. Sentii il rumore, come un macellaio che rifila il grasso da un pezzo di carne. Un dolore lancinante, indescrivibile e urlai in maniera quasi disumana. Poi vennero i punti: il lungo ago spuntato spinto goffamente nelle mie grandi labbra sanguinanti, le mie grida piene di orrore… Terminata la sutura l’uomo spezzò il filo con i denti… Ricordo le urla strazianti di Haweya, anche se era più piccola, aveva quattro anni, scalciò più di me per cercare di liberarsi dalla presa della nonna, ma servì solo a procurarlo brutti tagli sulle gambe di cui portò le cicatrici tutta la vita.

Mi addormentai, credo, perché solo molto più tardi mi resi conto che le mie gambe erano state legate insieme, per impedire i movimenti e facilitare la cicatrizzazione (dato che c’è stata una perdita di sostanza, clitoride e piccole labbra, le gambe legate insieme permettono la cicatrizzazione, ma la cicatrizzazione avviene in retrazione. Non c’è più tutto il tessuto necessario perché le gambe possano essere divaricate completamente. Nessuna farà più la spaccata. Anche dare un calcio a un pallone può essere impossibile, come andare a cavallo o, nei casi più gravi, nuotare a rana. Nei casi più gravi, dove infezioni riducono ulteriormente il tessuto, le donne non possono più divaricare le gambe per accovacciarsi e urinare e, dove non esistono water, devono urinare dalla posizione in piedi con l’orina che scola tra le gambe, scola un filino alla volta, una goccia alla volta).

Era buio e mi scoppiava la vescica, ma sentivo troppo male per fare pipì. Il dolore acuto era ancora lì e le mie gambe erano coperte di sangue. Sudavo ed ero scossa dai brividi. Soltanto il giorno dopo la nonna mi convinse a orinare almeno un pochino. Oramai mi faceva male tutto. Finché ero rimasta sdraiata immobile il dolore aveva continuato a martellare penosamente, ma quando urinai la fitta fu acuta come nel momento in cui mi avevano tagliata. Impiegammo circa due settimane a riprenderci. La nonna accorreva al primo gemito angosciato. Dopo la tortura di ogni minzione ci lavava con cura la ferita con acqua tiepida e la tamponava con un liquido violaceo, poi ci legava di nuovo le gambe e ci raccomandava di restare assolutamente ferme o ci saremmo lacerate e allora avrebbe dovuto chiamare quell’uomo a cucirci di nuovo.

Lui venne dopo una settimana per esaminarci. Haweya doveva essere ricucita. Si era lacerata urinando e lottando con la nonna… L’uomo ritornò a togliere il filo dalla mia ferita. Ancora una volta furono atroci dolori per estrarre i punti usò una pinzetta. Li strappò bruscamente mentre di nuovo la nonna e altre due donne mi tenevano ferma. Ma dopo questo anche se avevo una ruvida spessa cicatrice tra le gambe che faceva male se mi muovevo troppo, almeno non fui più costretta a restare sdraiata tutto il giorno con le gambe legate. Haweya dovette attendere un’altra settimana e ci vollero quattro donne per tenerla ferma… Non dimenticherò mai il panico sul suo viso e nella sua voce… Da allora non fu più la stessa… aveva incubi orribili. La mia sorellina un tempo allegra e giocosa cambiò. A volte si limitava a fissare il vuoto per ore. (svilupperà una psicosi)… cominciammo a bagnare il letto dopo la circoncisione.”

 




due annunciatori e costruttori di pace ci lascano – in memoria di Alberto L’Abate e di Graziano Zoni

“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie…”

(Is. 52,7)


Due personalità molto diverse, ma ugualmente impegnate, disponibili e coraggiose, che hanno sempre messo in gioco spiritualmente e fisicamente
le loro persone.

Siamo partecipi oggi di una storia ricca di testimoni straordinari di pace, che hanno segnato le nostre stesse scelte e che rimangono
a fondamento anche della nostra speranza e fiducia.
Alberto e Graziano sono tra questi: GRAZIE!
Ci auguriamo, con loro e tutti gli altri, non a parole, buon cammino!

Beati i costruttori di pace

-- 
Beati i costruttori di pace - Onlus
Via a. da Tempo 2 - Padova
Tel 049 8070522
www.beati.eu


www.beati.org




fede e opzione per i poveri

papa Francesco

la fede è tangibile se si concretizza in servizio ai poveri

lo afferma in udienza alla delegazione del Consiglio Metodista mondiale
«Siamo fratelli che, dopo un lungo distacco, sono felici di ritrovarsi e di riscoprirsi a vicenda»
«La fede diventa tangibile soprattutto quando si concretizza nell’amore, in particolare nel servizio ai poveri e agli emarginati»
Lo ha detto il Papa ricevendo in udienza il Consiglio Metodista mondiale. «Quando, Cattolici e Metodisti, accompagniamo e solleviamo insieme i deboli e gli emarginati, coloro che, pur abitando le nostre società, si sentono lontani, stranieri, estranei, rispondiamo all’invito del Signore», ha sottolineato il Papa.  

Parlando del cammino tra metodisti e cattolici, il Papa ha messo in evidenza: «Il dialogo vero incoraggia continuamente a incontrarci con umiltà e sincerità, desiderosi di imparare gli uni dagli altri, senza irenismi e senza infingimenti. Siamo fratelli che, dopo un lungo distacco, sono felici di ritrovarsi e di riscoprirsi a vicenda, di camminare insieme, aprendo con generosità il cuore all’altro. Così proseguiamo, sapendo che questo cammino è benedetto dal Signore: per Lui è iniziato e a Lui è diretto».




la mentalità ottusa di tanti parroci – parola di papa Francesco

papa Francesco

Dio non è “un mucchio di prescrizioni”, ma amore gratuito

Francesco a Santa Marta: i parroci che non battezzano figli di ragazze madri hanno il cuore chiuso; no alla «mentalità ottusa» dell’«autosufficienza della salvezza» con la legge
domenico agasso jr

I parroci che non battezzano figli di ragazze madri hanno il cuore chiuso, senza la «chiave della conoscenza». Il Signore è amore gratuito, non un «mucchio di prescrizioni». Papa Francesco nella Messa di questa mattina, 19 ottobre 2017, a Casa Santa Marta, riflette sulla «gratuità» della salvezza, della vicinanza del Signore e della concretezza delle opere di misericordia che Cristo desidera da ogni uomo. Azioni di bene – materiali o spirituali – con cui si apre «la porta» a se stessi e agli altri. Inoltre mette in guardia dalla «mentalità ottusa» di chi crede «nell’autosufficienza della salvezza» attraverso la legge.    

Il Pontefice – informa Radio Vaticana – si basa sull’odierno brano evangelico da Luca, in cui si legge di scribi e farisei che si ritengono giusti, e il Figlio di Dio fa appurare che solo il Signore è giusto. Il Vescovo di Roma nota che i dottori della legge hanno «portato via la conoscenza: conseguenza»: il mancato ingresso «nel Regno», oltre a «neppure lasciare entrare gli altri».  

Spiega Francesco: «Questo portare via la capacità di capire la rivelazione di Dio, di capire il cuore di Dio, di capire la salvezza di Dio – la chiave della conoscenza -, possiamo dire che è una grave dimenticanza. Si dimentica la gratuità della salvezza; si dimentica la vicinanza di Dio e si dimentica la misericordia di Dio». E coloro che «dimenticano la gratuità della salvezza, la vicinanza di Dio e la misericordia di Dio, hanno portato via la chiave della conoscenza».   

Si trascura quindi la gratuità, che è «l’iniziativa di Dio a salvarci», mentre scribi e farisei «invece si schierano dalla parte della legge»: così la salvezza «è lì, per loro», giungendo in tal modo «ad un mucchio di prescrizioni» che di fatto vengono considerate la salvezza. Ma così «non ricevono la forza della giustizia di Dio», sottolinea il Papa.   

La legge è sempre «una risposta all’amore gratuito di Dio», che assume «l’iniziativa» di salvare ogni uomo e donna.  

Quando «si dimentica la gratuità della salvezza si cade, si perde la chiave dell’intelligenza della storia della salvezza», avverte il Pontefice, smarrendo «il senso della vicinanza di Dio».  

Per chi ragiona così «Dio è quello che ha fatto la legge. E questo non è il Dio della rivelazione. Il Dio della rivelazione è Dio che ha incominciato a camminare con noi da Abramo fino a Gesù Cristo, Dio che cammina con il suo popolo. E quando si perde questo rapporto vicino con il Signore, si cade in questa mentalità ottusa che crede nell’autosufficienza della salvezza con il compimento della legge. La vicinanza di Dio». 

 

Quando non si prega, «non si può insegnare la dottrina» e neanche «fare teologia», in particolare «teologia morale»: infatti – ribadisce Francesco – la teologia «si fa in ginocchio, sempre vicino a Dio».

La vicinanza di Dio c’è «al punto più alto di Gesù Cristo crocifisso». Perciò le opere di misericordia «sono la pietra di paragone del compimento della legge», dato che si va a toccare la carne sofferente di Cristo, «Cristo che soffre in una persona, sia corporalmente sia spiritualmente». 

E quando si perde la chiave della conoscenza, si rischia pure di cadere nella «corruzione». 

Francesco poi si concentra sulle «responsabilità» dei pastori nella Chiesa: quando perdono o mettono via «la chiave dell’intelligenza», sbarrando «la porta a noi e agli altri». Racconta Papa Bergoglio: «Nel mio Paese ho sentito parecchie volte di parroci che non battezzavano i figli delle ragazze madri, perché non erano nati nel matrimonio canonico. Chiudevano la porta, scandalizzavano il popolo di Dio, perché? Perché il cuore di questi parroci aveva perso la chiave della conoscenza».  

E senza «andare tanto lontano nel tempo e nello spazio, tre mesi fa, in un paese, in una città, una mamma voleva battezzare il figlio appena nato, ma lei era sposata civilmente con un divorziato. Il parroco ha detto: “Sì, sì. Battezzo il bambino. Ma tuo marito è divorziato. Rimanga fuori, non può essere presente alla cerimonia”. Questo succede oggi. I farisei, i dottori della legge non sono cose di quei tempi, anche oggi ce ne sono tante». 

Perciò «è necessario pregare per noi pastori. Pregare, perché non perdiamo la chiave della conoscenza e non chiudiamo la porta a noi e alla gente che vuole entrare».




le trentamila donne israeliane e palestinesi che gridano la nacessità della pace

Migliaia di donne israeliane e palestinesi insieme in marcia per dire basta ad una guerra che dura da 60 anni. L’intervista ad una protagoniste della manifestazione

Il grido delle donne: «Pace,ora!»

Women Wage Peace è un movimento creato all’indomani della guerra “Margine di Protezione” fra Hamas e l’esercito israeliano nell’estate del 2014. Da qui l’idea che ha avuto un gruppo di donne, israeliane e palestinesi, di unirsi per manifestare la volontà di giungere a un accordo per porre fine a un conflitto drammatico.

Un anno fa la prima marcia: oltre 4 mila persone, donne e bambini soprattutto, hanno camminato per 200 km dal nord di Israele fino a Gerusalemme. Quest’anno dal 24 settembre al 10 ottobre sono state molte di più le presenze, almeno 30 mila persone che mettendosi in moto dai quattro lati del paese si sono date appuntamento prima nel deserto per una grande festa di musica, balli e commozione, e poi per una due giorni conclusivi di tavole rotonde, preghiere, incontri.

La richiesta è di vedere seduti ad uno stesso tavolo i leader delle due parti in causa al fine di superare finalmente una situazione di impasse e tensione che condiziona l’intera regione. Un’iniziativa dal basso per dire basta alle violenze e per stimolare i partiti politici, che sul tema paiono non volersi esporre, Un segnale fortissimo da queste ragazze e donne vestite di bianco.

Abbiamo raggiunto telefonicamente una di queste attiviste, Shazarahel, artista e scrittrice israeliana, portavoce del movimento in Italia, per farci raccontare l’atmosfera fra le partecipanti: «E’ stato un prodigio, un miracolo. Migliaia di donne insieme, fianco a fianco, israeliane e palestinesi, ebree e musulmane. Senza propaganda, senza strumentalizzazioni, solo con la voglia di gridare dal fondo del cuore basta a una guerra che da sessant’anni ha versato inutilmente così tanto sangue».

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Siete madri, figlie, sorelle, amiche a dire che “Il re è nudo”, e che la guerra non ha portato ad alcun risultato in una terra dove pare non vi sia alternativa al conflitto permanente.

«Con questa marcia sono caduti vari tabù, e quello dell’inevitabilità della guerra è uno. La narrazione comune spesso presenta madri islamiche felici di vedere i figli immolarsi in nome di Allah, e madri israeliane orgogliose dei propri che difendono la patria. Ma la maggior parte delle donne sia israeliane che palestinesi non sono così come vengono dipinte dalla propaganda politica: tutte noi siamo venute per dire con chiarezza che non siamo più disposte a dare i nostri figli per la causa della guerra e della lotta armata».

Ecco, i figli: dalle immagini si vedono bambine e bambini mano nella mano con le madri a marciare e ballare. Sono loro il futuro del pianeta, perché è importante fossero al vostro fianco?

«Perché devono sapere che un altro mondo è possibile. Vedere le mie due figlie abbracciate e coccolate da donne arabe sconosciute, vederle giocare con bambini palestinesi, senza timori da parte di nessuno, in un clima di festa e di gioia, è stato uno dei momenti più intensi. E poi noi madri abbiamo potuto incontrarci, parlarci e capire che al di là dei facili miti vogliamo tutte soltanto il bene dei nostri figli».

Uomini, classe politica e mezzi di comunicazione: quali sono stati gli atteggiamenti di questi tre attori?

«Alcuni uomini hanno marciato con noi, si è trattato per lo più di alcuni dei nostri mariti. Per il resto questa e nostre altre iniziative sono guardate con occhio critico, sospettoso: purtroppo bisogna avere il coraggio di dire che la parola Pace a queste latitutidini è un vero tabù, quasi una parolaccia: la Pace pare soltanto un’utopia, il sogno degli stolti. E’ incredibile ma siamo arrivati a tal punto. Per questo i media locali hanno snobbato l’evento, almeno fino a quando la sua eco non è rimbalzata su giornali e tv internazionali: allora non hanno più potuto far finta di nulla; i commenti non stati sempre positivi ma volti a presentarci come un gruppo di sognatrici. Stesso discorso vale per la politica».

Tutte insieme a marciare, a ballare, ad abbracciarsi. E la tanto reclamata sicurezza?

«Questo è un altro dei tabù che abbiamo contribuito a smontare. La cosa più incredibile è che ci siamo riunite a migliaia sotto le tende nel deserto senza passare alcun controllo di polizia, senza un metal detector, senza nemmeno pensarci. Che proprio in Israele, dove devi passare a controlli ovunque tu vada, 10.000 donne si siano radunate nello stesso luogo senza controlli di sicurezza è un evento senza precedenti: sarebbe bastato che un solo pazzo entrasse e poteva succedere l’ennesima strage, e la cosa più straordinaria è che non sia successo!».

Il mondo religioso israeliano come ha guardato alla vostra manifestazione?

«Alla marcia hanno partecipato credenti e laiche, con una netta preminenza delle seconde.Ma come ogni religione anche l’ebraismo non è monolitico, e vi sono aree più sensibili ad istanze moderate. E’ stato però molto bello che alla fine della manifestazione abbia preso la parola Adina bar-Shalom, attivista molto nota in Israele perché figlia del grande rabbi Ovadia, il capo spirituale degli ebrei sefarditi, figura mito per gli ultraortodossi. Il suo intervento, seppur si inscriva perfettamente in un percorso che Adina da anni ha intrapreso soprattutto per il superamento delle discriminazioni di genere, l’ha comunque molto esposta nel suo ambiente di provenienza e rappresenta per noi un incoraggiamento a proseguire nei nostri sforzi».

Come fare ora per non dissipare questa grande carica di energia, quali le prossime tappe?

«Intanto meglio sgombrare il campo da equivoci: noi non siamo un partito né ambiamo ad esserlo. Ci sono fra noi donne di ogni pensiero politico che non vogliono dare i propri figli alla causa guerrafondaia. Non entriamo per questo nell’analisi politica. Il nostro è un urlo. Presenteremo al parlamento un documento ufficiale che verrà redatto in questi giorni, per tenere alta l’attenzione sulle nostre azioni. Si sta costituendo intanto una sorta di gruppo informale interpartitico, una lobby di una ventina di parlamentari che si stanno impegnando per portare alla Knesset le nostre istanze. Noi crediamo che la pace sia possibile, e non ci fermeremo fino al raggiungimento di un accordo fra le due parti».

Immagini di Gal Mosenson