papa Francesco è il papa che Lutero avrebbe voluto 500 anni fa

 

Lettera a papa Francesco. Il papa che Lutero avrebbe voluto

lettera a papa Francesco

il papa che Lutero avrebbe voluto

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 35 del 14/10/2017

Caro papa Francesco

lo sai, il 2017 è un anno importante per i luterani. In molti siamo elettrizzati nel commemorare l’audacia di un monaco agostiniano del XVI secolo, che il 31 ottobre 1517 affisse le sue 95 tesi al portone della cattedrale di Wittemberg. Le dita volano sulla tastiera per celebrare o discutere in modo febbrile contributi e punti deboli di Martin Lutero. Io, però – “marinata” nel luteranesimo americano per quasi tutta la vita – mi trovo a scrivere a te, il capo della Chiesa cattolica.

Forse è un momento particolare per le lettere degli ammiratori luterani. Eppure,

da quando sei diventato vescovo di Roma nel 2013, sono sempre più convinta che sei il papa che Lutero avrebbe voluto 500 anni fa.

Ecco quattro motivi.

1. Ci aiuti a vedere Cristo nel prossimo. 

Lutero ha sempre insistito sull’“amore per il prossimo” come nodo decisivo per amare Cristo e rispondere a un mondo che fa del male. Identificava il prossimo nel sofferente, chiunque esso fosse. Inveiva contro il disprezzo del povero e dell’affamato. Invocava la creazione di una cassa comunale per l’assistenza sociale. Aborriva le pratiche dell’usura e la vendita delle indulgenze.

Una volta hai detto: «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!», e hai dato al mondo innumerevoli esempi di una Chiesa del genere. Il tuo primo viaggio pastorale fuori Roma è stato per incontrare i migranti che fuggivano dalla povertà e dalla violenza. Hai lavato i piedi a musulmani, a donne, a detenuti. Hai fatto installare bagni e docce in Vaticano per coloro che vivono per le strade di Roma. Dopo il tuo discorso storico del 2015 a una seduta congiunta del Congresso Usa, hai pranzato non con l’élite di Washington, ma con gli ospiti di un centro per senzatetto.

2. Ci aiuti a vedere Dio nella creazione.

Lutero amava la vita nelle sue forme variegate e affascinanti: le sue acque vivificanti, le sue creature, i paesaggi. Nei suoi scritti faceva continuamente riferimento alla creazione e alla vita quotidiana. Assaporava il piacere di condividere il cibo, il vino e la conversazione, connettendo questa sorta di comunione con il sacramento. In breve, Lutero individuava il divino “in, con e sotto” tutto il creato.

Tu hai scelto il nome di Francesco d’Assisi, che amava la Terra e tutte le sue creature. La tua prima enciclica, Laudato Si’, mette a nudo il fatto che il cambiamento climatico aggrava ogni altro male sociale e la crudele ironia per cui coloro che meno contribuiscono al degrado della nostra casa comune ne stanno pagando il prezzo più alto. Ci chiedi di affrontare non solo queste dure realtà del pianeta, ma anche le parti di noi che non vorremmo vedere: egoismo, indifferenza e intenzionale ignoranza.

Ma la Laudato si’ esprime anche una profonda speranza. Hai scritto: «Essendo [l’essere umano] stato creato per amare, in mezzo ai suoi limiti germogliano inevitabilmente gesti di generosità, solidarietà e cura» (n. 58). Il cuore della storia cristiana è in un richiamo profetico a una nuova vita, una resurrezione che non riguarda semplicemente la salvezza delle anime, ma atti concreti che restaurino e rinnovino la vita qui ed ora. Significa scongelare i nostri cuori e aprirli all’esterno in un autentico amore di sé, del prossimo, del pianeta e di Dio.

3. Coniughi umiltà e audacia.

Lutero accusava la Chiesa di papa Leone X di essere “gonfia” di superbia opulenta e di avidità. Lo faceva infuriare vedere chierici ordinati abusare della fiducia, delle risorse finanziarie, della fede e del timore del loro gregge. Voleva profondamente che i cristiani, ordinati e laici, comprendessero che siamo paradossalmente liberi in Cristo e allo stesso tempo chiamati a essere “servi di tutti”.

La tua testimonianza nel mondo è di grande umiltà, a partire dalla decisione di vivere in un semplice appartamento invece che nel palazzo apostolico. Non hai paura di chiedere scusa. Comprendi la visione di Lutero per cui l’essere umano è allo stesso tempo santo e peccatore, che ogni persona è sempre sia amata sia incompleta, capace di esprimere grazia e riconciliazione ma sempre bisognosa di riconciliazione e perdono.

Allo stesso tempo sei una rockstar. Sei apparso sulla copertina di Rolling Stone e sei stato nominato da Time “persona dell’anno”. Come Lutero, hai raggiunto la fama internazionale in una cultura dell’immagine e utilizzi strategicamente le sue tecnologie. Lutero usava Facebook e Snapchat dei suoi tempi: incisioni su legno, stampa, affissione pubblica di documenti. Attraverso interviste a braccio e conferenze stampa, Twitter e programmi di divulgazione, tu fai uso della tua posizione privilegiata per focalizzare la nostra attenzione su temi che spesso vogliamo evitare: disuguaglianza inaccettabile, fame cronica, abusi dei diritti umani, devastazioni della guerra.

4. Ispiri una speranza e un’azione creativa.

Lutero non aveva intenzione di rompere con la Chiesa cattolica, ma la sua fiera oratoria e il suo esempio audace innescarono un movimento e un rinnovamento della fede che non riuscì a anticipare pienamente né a contenere. La sua traduzione della Bibbia in tedesco la rese disponibile al pubblico per la prima volta e i suoi inni contribuirono ad accrescerne la partecipazione più piena alla liturgia. Il suo humour e la sua passione attirarono la gente in un’azione coraggiosa e in una comunità creativa.

Anche tu sei fonte di ispirazione per molti nel pianeta. Nella parola e nell’azione rendi quanto mai chiaro che ciascuno ha un contributo da offrire. Insieme, abbiamo molto da fare: scienziati, capi religiosi, manager, artisti, ingegneri, insegnanti, imprenditori, avvocati, teologi, politici. Ora è il momento per noi di essere, come direbbe Lutero, “il sacerdozio di tutti i credenti” (e, aggiungo io, dei non credenti).

Tu sei fonte di ispirazione per me, papa Francesco. Mi aiuti a trovare il coraggio di vivere con uno scopo. Quindi, con coraggio, chiudo questa lettera con una fervente richiesta: che tu preghi per gli Stati Uniti e il mondo in questi tempi tumultuosi e confusi, che troviamo la nostra strada con il minimo danno a noi stessi e agli altri. Ti chiedo di pregare senza sosta perché l’umanità si svegli ascoltando la miriade di grida della creazione per fare in tempo qualcosa di significativo.

Dio ti benedica, Santo Padre. Sappi che prego con e per te.

* Aana Marie Vigen è membro della Chiesa evangelica luterana in america, è docente associata di Etica sociale cristiana presso la Loyola University Chicago. Articolo apparso su “America magazine” (19/9). Testo originale: https://www.americamagazine.org/faith/2017/09/19/lutherans-love-letter-pope-francis

 

piena sintonia tra il giornale ‘il manifesto’ e papa Francesco

terra, casa, lavoro

perché sentiamo nostro il messaggio del papa

di Luciana Castellina
in “il manifesto” del 4 ottobre 2017

Le parole del Papa veicolate da il manifesto: uno scandalo? Saranno in molti a gridarlo. Già parecchi hanno cominciato minacciosamente a chiamare Bergoglio «comunista in tonaca bianca», figurarsi quando scopriranno che i suoi discorsi agli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari (EMMP) – Roma 2014; Santa Cruz in Bolivia 2015; di nuovo Roma 2016 – vengono addirittura distribuiti in abbinamento al quotidiano dei comunisti senza tonache quali siamo noi.

Di comunisti (o simili) in effetti agli incontri ce ne sono stati e anche importanti: all’ultimo Pepe Mujica, guerrigliero coi Tupamaros e quindi presidente dell’Uruguay, calorosamente salutato da Papa Francesco; con Evo Morales, presidente indio della Bolivia, c’era stata quasi una cogestione della conferenza. E poi, con i movimenti, provenienti da 68 paesi diversi, ce ne sono stati molti altri, ancorché non presidenti, ma a capo di assai importanti organizzazioni di sinistra: João Pedro Stedìle, leader dei Sem terra brasiliani e il coordinatore della rete internazionale Via campesina tanto per fare un esempio, ambedue – fra l’altro – membri del comitato internazionale del Forum Sociale Mondiale, con cui la EMMP ha molti tratti comuni nonostante qualche dissenso. Era stato peraltro invitato anche Bernie Sanders che poi non è potuto venire e a seguire i lavori ci sono stati Indignados, Confederazioni sindacali, persino il Leoncavallo. Rivoluzione in Vaticano, dunque (e al manifesto)? No, ma per la Chiesa certamente una discontinuità forte, pratica e teorica. Il comunismo non c’entra ma il focus significante delle parole del papa ha certo a che fare con i movimenti rivoluzionari: per via dell’insistente richiamo alla soggettività, al protagonismo delle vittime, che debbono prendere la parola e non solo subìre. Perciò occorre dar valore alla politica con la P maiuscola, di cui «non bisogna avere paura, perché è anzi la forma più alta della carità cristiana». Non politica «per» i poveri, però – che «è carro mascherato per contenere gli scarti del sistema» (Francesco parlava dei «bonus»?), ma politica «dei» poveri, e cioè praticata direttamente da loro. Questo significa «rifondare la democrazia», che è oggi recinto dai «confini ristretti», è solo quella èlitaria, ufficiale, inservibile. Alla denuncia dell’ingiustizia da parte della Chiesa – espressa sia pure con maggiore prudenza di quanto accade oggi che si condanna senza mezzi termini la globalizzazione neoliberista, la corruzione della finanza, il terrorismo del danaro – qualche papa ci aveva già abituati. In questo senso il Concilio Vaticano II è stato una straordinaria porta spalancata su un pensiero cristiano fino ad allora per i più inimmaginabile. Colpì anche noi comunisti che del Vaticano, e non senza ragioni, eravamo abituati a sospettare. Nelle tesi per il IX congresso del PCI fu inserita una affermazione significativa: la religione sentitamente vissuta può essere un contributo importante alla critica anticapitalista. Un concetto su cui Togliatti tornò in modo più netto nel discorso, diventato famoso, tenuto al primo convegno su cattolici e comunisti promosso da una organizzazione comunista: dalla federazione della «bianchissima» Bergamo (di cui mi piace ricordare che era segretario uno dei fondatori de Il Manifesto, Eliseo Milani).


E poi c’erano stati in America Latina, negli anni ’70, Puebla e la Liturgia (ndr.:?) della Liberazione. Ma la grande innovazione di cui Papa Bergoglio si fa ora paladino (non) sta nel dire che i poveri bisogna amarli e aiutarli e che poi andranno in paradiso, ma che devono alzare la testa e combattere qui e oggi, su questa terra e in questo tempo. E nel chiedere ai movimenti, e cioè alla politica, di farsi carico di generare i processi necessari. Se il manifesto veicola i discorsi di papa Francesco, non è per ospitalità, o per strumentale ammiccamento. È perché questo suo messaggio lo sentiamo nostro. Utile anche ai nostri lettori. Molti generosamente impegnati nella solidarietà, e però spesso, per disillusione, ormai scettici verso la politica.
Da domani, 5 ottobre, in edicola con il manifesto «Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco. Un libro edito da Ponte alle Grazie curato da una delle nostre firme Alessandro Santagata. Introduzione di Gianni La Bella.

 

terra, casa, lavoro

un progetto politico con al centro gli esclusi

di Luca Kocci
in “il manifesto” del 5 ottobre 2017

I futuri storici della Chiesa e del papato, ma forse anche quelli della società, non potranno ignorare le date del 27-29 ottobre 2014, 7-9 luglio 2015 e 2-5 novembre 2016, quando, convocati da papa Francesco, si sono svolti i tre Incontri mondiali dei movimenti popolari (Emmp, Encuentro mundial de movimientos populares). Rappresentanti di centinaia di organizzazioni, sindacati e movimenti di base di tutto il mondo, la maggior parte dei quali dell’area della sinistra – dai Sem terra del Brasile agli operai delle “fabbriche recuperate”, da Via Campesina ai metallurgici della United Steelworkers, fino al Centro sociale Leoncavallo – hanno varcato le mura leonine e si sono ritrovati in Vaticano (primo e terzo incontro) e a Santa Cruz de la Sierra (durante il viaggio del papa in Bolivia nel luglio 2015) per discutere, confrontarsi ed elaborare linee comuni di azione a partire da tre parole chiave lanciate e declinate da Francesco, le 3T di Tierra, Techo, Trabajo (Terra, Casa, Lavoro). «Folclore», appuntamenti eversivi promossi dal «papa comunista», i commenti della stampa di destra. Generale silenzio da parte dei media filo-Francescani, attenti a non spingersi al di là del recinto dell’ordine sociale costituito. La verità sta nel mezzo: gli incontri sono stati capitoli importanti del pontificato di Bergoglio che con essi – e con l’esortazione apostolica “programmatica” Evangelii gaudium e l’enciclica socio-ambientale Laudato si’ – ha aggiornato la Dottrina sociale della Chiesa, valorizzando il protagonismo dei movimenti popolari; ma non è nata una sorta di “internazionale vatican-socialista”, come i detrattori, da destra, vorrebbero avvalorare, anche perché il papa resta il pontefice romano non un «bolscevico in tonaca bianca» e nemmeno un teologo della liberazione, che anzi ha collaborato a ricondurre all’ovile della più rassicurante e interclassista Teologia del popolo; né possono essere sbrigativamente ridotti a «colore». Vanno invece analizzati, anche per capire in che direzione sta andando la Chiesa cattolica. È allora di grande utilità il volume, “firmato” papa Francesco, Terra, Casa, Lavoro. Discorsi ai movimenti popolari (prefazione di Gianni La Bella, a cura di Alessandro Santagata, collaboratore del nostro giornale), edito da Ponte alle Grazie (pp. 176, euro 12), da oggi, e per due settimane, in abbinamento con il manifesto (10 euro + il prezzo del quotidiano). Il libro raccoglie i tre discorsi di papa Francesco ai movimenti (contestualizzati da un’ampia postfazione di Santagata) che seguono il filo rosso delle 3T: la diseguaglianza e l’esclusione sociale, la pace e i cambiamenti climatici il primo; la sovranità alimentare, la democratizzazione della terra, il lavoro e la casa come diritti umani fondamentali il secondo; i muri, le migrazioni e la politica, con un forte appello a fare politica «senza lasciarsi imbrigliare» e «senza lasciarsi corrompere». È stato possibile «portare nel cuore del Vaticano, da protagoniste, le organizzazioni dei poveri che non si rassegnano alla vita miserabile imposta loro da questo sistema», spiega in un’intervista inedita contenuta nel libro Juan Grabois, componente della direzione nazionale della argentina Confederación de trabajadores de la economía popular nonché uno dei registi dell’Emmp, insieme a Joao Pedro Stédile, leader del Movimento Sem terra del Brasile, e, per parte vaticana, al card. Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, poi diventato Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. «Obiettivo dell’Emmp – prosegue Grabois – è stato offrire uno spazio di fratellanza alle organizzazioni di base dei cinque continenti, un luogo in cui i movimenti avrebbero potuto costruire una piattaforma per fare in modo che gli esclusi siano protagonisti dei processi di cambiamento» e poi, nei successivi incontri, «promuovere l’organizzazione comunitaria degli esclusi per costruire dal basso l’alternativa umana a una globalizzazione emarginatrice che aggredisce persino il diritto inviolabile alla terra, alla casa e la lavoro».
Dopo tre incontri, che fare? La domanda resta aperta. Il rischio, inevitabile, è che anche l’Emmp, se continuerà (a marzo è in programma un nuovo incontro, a Caracas, senza il papa) si trasformi in una sorta di “liturgia” ripetitiva, generica e sterile. Da parte di Francesco è il tentativo, nota Santagata, di «spostare il centro della missione evangelizzatrice sulla questione sociale» e «di impegnare la più grande e strutturata organizzazione religiosa del mondo in un progetto politico che si propone di incidere in alcune vertenze specifiche», come l’acqua pubblica, il reddito, il diritto alla casa. Resterà da vedere se la Chiesa cattolica si incamminerà su questa strada.

 

sul lavoro le parole di un profeta che non usa la fede come ammortizzatore sociale

di Nichi Vendola
in “il manifesto” del 5 ottobre 2017

La radicalità evangelica del magistero di Papa Francesco è, in tutta evidenza, il contrario di una deriva integralistica o mistica. E, nel contempo, a differenza da ciò che lamenta l’ala tradizionalista del cattolicesimo, non ha alcuna soggezione verso le seduzioni della secolarizzazione. Le sue parole vanno diritte al cuore delle cose ed esibiscono fastidio per gli eufemismi che spesso le cose le manipolano o le anestetizzano. Quella radicalità coglie la radice dei mali del secolo e non usa la fede come «ammortizzatore sociale». Anzi. Nelle sontuose sale vaticane o nelle polverose periferie del pianeta, la «buona novella» che il pontefice annuncia non è una sublimazione mistica delle cattive notizie che dicono della miseria di un’epoca di guerra globale, una guerra che si presenta persino in forme pulviscolari: la guerra come terrore industriale o come artigianato dei «lupi solitari», la guerra alla bio-sfera nel nome della mercificazione di tutto il vivente, la guerra sociale contro il lavoro e i suoi diritti, la guerra degli uomini contro le donne, la guerra dei più ricchi contro i più poveri, la guerra e i suoi derivati culturali che elevano muri e partoriscono paure individuali e fobie collettive. La radicalità di Bergoglio a me appare tutta giocata sul terreno del discernimento e dell’analisi antiretorica della malattia sociale e antropologica che affligge la nostra post-modernità, a partire dall’Occidente: la disumanizzazione della vita, alienata e desacralizzata in nome della religione del profitto economico, ridotta a oggetto di veloce consumo, spesso considerata scarto o eccedenza da chi non vede il volto delle persone al di là delle asettiche statistiche con cui ci raccontiamo o con cui ci nascondiamo. Colpisce la vividezza dell’affresco con cui, nei discorsi ai movimenti popolari, il Papa «venuto dalla fine del mondo» racconta il vivere concreto, amaro, spoglio, degli poveri: a cui non offre consolazione, bensì esortazione alla lotta, direi alla resilienza; colpisce la precisione puntigliosa con cui evoca ciascun tassello del mosaico, ciascun soggetto sociale, non riducendolo mai a mera sociologia, a oggetto di studio o di terapie riparative. Il suo incontro con gli «ultimi» diviene scontro con i «primi», ovvero conflitto aperto con quelle gerarchie socio-economiche che presentano la diseguaglianza come natura e che, nel migliore dei casi, prevedono «politiche sociali» di contenimento neo-caritatevole della povertà. Ed è non generica la povertà di cui parla e per la quale non chiede l’elemosina. È quel non avere né tetto né legge dei migranti, oggi rappresentati e repressi come disturbatori della quiete pubblica o propagatori di malattie o competitori nel mercato del lavoro servile. È il non aver casa, ancora oggi mentre cerchiamo alloggi su Marte, proprio come accadde a quella coppia che trovò riparo in una grotta per dare alla luce un bambino, prima di migrare da rifugiati in un Paese lontano. È il non avere terra da coltivare, non poter essere biblici «custodi del creato», perché la terra è bruciata dai pesticidi e dalla mutazione climatica e dalla violenza predatoria delle grandi multinazionali. È il non avere lavoro, o avere un lavoro precario o saltuario, senza reddito decente, senza tutela sindacale, senza rispetto della dignità e del singolare talento di ciascun essere umano. Quanto distante questo «magistero del lavoro» dalle chiacchiere moderniste sulla flessibilità che alimenterebbe lo sviluppo economico e che invece semplicemente flette e spezza la carne e l’anima delle persone, che differenza con gli anglicismi con cui il lavoro viene parcellizzato, umiliato, svuotato di senso e ridotto a merce o a osso di seppia, che alterità rispetto all’emergenzialismo dei piani di assistenza che distribuiscono briciole di lavoro che è sempre una grande fatica ma non è mai un vero lavoro, quello che offre «la vera inclusione»: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, solidale e partecipe», come scandisce il Papa in uno dei suoi discorsi più belli. In questa prospettiva la «conversione ecologica» che annuncia Bergoglio – che volle non a caso chiamarsi col nome del poverello di Assisi – è propedeutica a un modo di produzione che ha l’ambizione di capovolgere la piramide sociale che ci schiaccia: affinché non si estragga ricchezza dalla povertà, ovvero dall’impoverimento della natura, della cultura, della bellezza, dei diritti, della vita e delle sue prerogative. Questa a me appare la grande profezia di Bergoglio: non la fuga dalla storia, ma la ricerca nella storia umana di quel filo rosso che lega il dolore alla salvezza, la demistificazione del male e della sua banalità, ma anche la costante indicazione del varco che lascia intravvedere la luce del bene. Questo fanno i profeti: dicono la verità, la gridano anche quando è scomoda e rischiosa, la rappresentano dinanzi al popolo, non sono Cassandre che spingono alla rassegnazione o alla depressione, ma sono testimoni di una verità che esorta all’azione, all’assunzione di responsabilità, a diventare «seminatori di cambiamento». E qui i poveri non sono solo vittime, ma sono anche protagonisti del possibile riscatto di tutti: perché possono insegnarci l’economia del riuso e del riciclo contro quella del consumismo onnivoro e degli scarti, perché i lavoratori poveri, che sono contadini o artigiani o manovali o pescatori o trasportatori o venditori ambulanti o cartoneros, sono portatori di un bisogno universale di salvezza del mondo, per andare oltre quella dittatura del presente che colonizza i popoli, atomizza gli individui, rompe i legami sociali, disobbedisce al Dio che danza la vita, al Dio che non ci chiede di essere reclute del clericalismo ma sentinelle che scrutano la notte in attesa di una nuova alba.

papa Francesco contro i ‘preti zitelloni’

“se una congregazione perde i suoi averi, io dico: grazie Dio”

«La vita consacrata inizia a corrompersi dalla mancanza di povertà»
no ai preti «zitelloni» e carrieristi
«una peste»

papa Francesco incontra il clero di Bologna nella cattedrale di San Pietro

domenico agasso jr
inviato a bologna

«La vita consacrata inizia a corrompersi dalla mancanza di povertà». Papa Francesco lo afferma nella cattedrale bolognese di San Pietro, incontrando, in questa giornata di visita nel capoluogo dell’Emilia Romagna, sacerdoti, religiosi, seminaristi e diaconi locali. «Se una congregazione perde i suoi averi, io dico “Grazie Signore”».  

È presente anche monsignor Bettazzi, testimone storico del Concilio Vaticano II , vescovo emerito di Ivrea, bolognese di origini materne; a Bologna è stato ordinato prete ed è tornato a viverci in questi anni. Francesco e Bettazzi scherzano insieme per qualche istante prima del discorso papale. E l’arcivescovo di Bologna monsignor Matteo Maria Zuppi lo citerà nel suo saluto introduttivo a Francesco. Esordisce il Papa: «È una consolazione stare con quelli che portano avanti l’apostolato della Chiesa; i religiosi cercano di dare testimonianza di anti-mondanità».

Al Pontefice vengono poste due domande: una sulla fraternità tra sacerdoti, l’altra sulla «psicologia della sopravvivenza»; a entrambe risponde senza testi scritti, tranne qualche appunto che prende anche mentre parla lui stesso. Afferma il Papa: «A volte, scherzando tra religiosi diocesani e non, i religiosi dicono: “Io sono dell’ordine fondato dal santo tale…”; ma qual è il centro della spiritualità del presbitero? – si domanda il Papa – La diocesaneità». Essere presbiteri è «una esperienza di appartenenza, si appartiene a un corpo che è la diocesaneità». Questo «significa che tu», prete, religioso, «non sei un libero», non ci sono figure di «libero», come nel calcio. Invece «sei un uomo che appartiene a un corpo, che è la diocesaneità, il corpo presbiterale». Tutto ciò «lo dimentichiamo tante volte, diventando singoli, troppo soli, col pericolo di divenire infecondi o con qualche nervosismo, per non dire che si diventa nevrotici, un po’ zitelloni».

Un prete «solo che non ha rapporto con il corpo presbiterale, mah», dice con amarezza. Dunque è importante «far crescere il senso della diocesaneità, che ha anche una dimensione di sinodalità col vescovo». Il corpo diocesano «ha una forza speciale, deve andare avanti sempre con la trasparenza, la virtù della trasparenza, il coraggio di parlare, di dire tutto». E anche con «il coraggio della pazienza, di sopportare gli altri. È necessario».

Sul coraggio di parlare chiaro e sull’opposta comodità di non esporsi, racconta: «Mi ricordo quando ero studente di Filosofia, e un vecchio gesuita furbacchione mi diceva: “Se vuoi sopravvivere nella vita religiosa, pensa chiaro, ma parla oscuro”». Aneddoto che suscita un forte sorriso tra i presenti in Cattedrale. Francesco osserva come sia «triste quando un pastore non ha orizzonte del popolo di Dio, non sa che cosa fare»; ed è «molto triste quando le chiese rimangono chiuse, quando si vede una scheda nella porta: “Aperta da tale ora a tale ora”, per il resto del tempo non c’è nessuno, le confessioni solo per poche ore. Ma questo non è un ufficio, è il posto dove si viene a onorare il Signore, e se il fedele trova la porta la chiusa come può fare?». A volte «pensa alle chiese sulle strade popolose, che restano chiuse: qualche parroco ha fatto esperienza di aprirle, sempre con un confessore disponibile: e il confessore non finisce di confessare», talmente arriva gente, perché «sempre la porta è aperta», e la luce del confessionale resta sempre accesa.

Poi il Vescovo di Roma parla di «due vizi che ci sono dappertutto». Uno è «pensare il servizio presbiterale come carriera ecclesiastica». Francesco si riferisce agli «arrampicatori»: essi sono una «peste, non presbiterio. Gli “arrampicatori”, che sempre hanno le unghie sporche, perché sempre vogliono andare su. Un arrampicatore è capace di creare tante discordie in seno al corpo presbiterale: pensa alla carriera, “adesso mi danno questa parrocchia, poi me ne daranno una più grande”, e se il vescovo non gliene dà una abbastanza importante, si arrabbia: “A me tocca…” a te non tocca niente!», esclama. Poi aggiunge: «Gli arrampicatori fanno tanto male, perché sono in comunità ma pensano solo ad andare avanti loro».

L’altro vizio: «Il chiacchiericcio: “Si dice, hai visto”, e così la fama del fratello prete finisce sporcata, si rovina. “Grazie a Dio che non sono come quello”, questa è musica del chiacchiericcio». Il carrierismo e il chiacchiericcio sono due vizi del «clericalismo», afferma Francesco. Invece, un pastore è chiamato al «buon rapporto col popolo di Dio, a cui deve stare davanti per indicare il cammino»; deve stargli «in mezzo per aiutare» soprattutto «nelle opere di carità; dietro per guardare come va».

Credere nella «“psicologia della sopravvivenza” – prosegue – significa aspettare la carrozza funebre, che porta il nostro istituto» alla chiusura. Credere alla psicologia della sopravvivenza conduce «al cimitero». Si tratta di «pessimismo, e non è da uomini e donne di fede, non è atteggiamento evangelico, ma di sconfitta». E mentre magari «aspettiamo la carrozza, ci arrangiamo come possiamo, e prendiamo dei soldi per essere al sicuro. Questo porta a mancanza di povertà». La psicologia della sopravvivenza è «cercare la sicurezza nei soldi; si ragiona, si sente a volte: “Nel nostro istituto siamo vecchie e non ci sono vocazioni ma abbiamo dei beni per assicurarci la fine”, e questa è la strada più adatta per portarci alla morte». La sicurezza «nella vita consacrata non la dà l’abbondanza dei soldi, ma viene da un’altra parte», da Dio. Alcune congregazioni «che diminuiscono mentre i suoi beni crescono, con religiosi attaccati ai soldi come sicurezza: ecco la psicologia della sopravvivenz a».

Il problema «non è tanto la castità o l’obbedienza, ma nella povertà. La vita consacrata inizia a corrompersi dalla mancanza di povertà». Sant’Ignazio di Loyola «chiamava la povertà madre e muro nella vita religiosa: madre che genera e muro che difende dalla mondanità». Senza questo atteggiamento volto alla povertà e al disinteresse, non si «scommette nella speranza divina». I soldi «sono la rovina della vita consacrata». Ma Dio è buono, «perché quando una congregazione inizia a incassare, manda un economo che distrugge tutto». Rivela il Papa, sorridendo: «Quando sento che una congregazione perde i suoi averi, io dico “Grazie Signore».

Il Papa esorta ad «un esame di coscienza sulla povertà, sia personale che dell’istituto». Sulla mancanza di vocazioni, bisogna «chiedere al Signore: “Che cosa succede nel mio istituto? Perché manca quella fecondità? Perché i giovani non sentono entusiasmo per il carisma del mio istituto? Perché ha perso la capacità di chiamare?». Per Francesco, il «cuore» del problema è «la povertà». Di qui un incoraggiamento: «La vita consacrata è uno schiaffo alla mondanità spirituale. Andate avanti».

per papa Francesco i migranti sono ‘lottatori di speranza’

l’abbraccio del papa ai migranti

“siete lottatori di speranza. Bologna non abbia paura”

L'abbraccio del Papa ai migranti: "Siete lottatori di speranza. Bologna non abbia paura"

“Siete lottatori di speranza. Qualcuno non è arrivato perché è stato inghiottito dal deserto o dal mare. Gli uomini non li ricordano, ma Dio conosce i loro nomi e li accoglie accanto a sé”

Comincia con queste parole, pronunciate al centro di accoglienza per i migranti di via Mattei, la visita del Papa a Bologna, tra gli ospiti dell’hub in festa che gli danno il benvenuto urlando e chiamandolo per nome, le magliette con la scritta “Welcome” e i cartelli.

Tra le tante tappe di Francesco, l’Angelus in piazza Maggiore, dove ha incontrato il mondo del lavoro (“I disoccupati non sono numeri”) e i familiari delle vittime delle stragi, tra cui Marina Orlandi, vedova di Marco Biagi. Poi il pranzo con i poveri in San Petronio. Code per la messa allo stadio, dove sono andate 40mila persone. Dal punto di vista della sicurezza, la situazione è stata costantemente monitorata in prefettura da un’unità di crisi. In mattinata Bergoglio ha parlato in piazza a Cesena, dove ha lanciato un monito alla politica contro la corruzione.

 “BOLOGNA NON ABBIA PAURA”

Francesco ha lodato Bologna, “città da sempre nota per l’accoglienza, dove qualcuno ha trovato un fratello da aiutare o un figlio da far crescere. Come vorrei che queste esperienze si moltiplicassero, la città non abbia paura di donare i cinque pani e i due pesci. Tutti saranno saziati. Bologna è stata la prima città in Europa, 760 or sono, a liberare i servi della schiavitù. Erano 5.855, tantissimi, eppure non ebbe paura, vennero riscattati dal Comune, dalla città. Forse lo fecero anche per ragioni economiche, perché la libertà aiuta tutti e a tutti conviene. Non ebbero timore di accogliere quelli che allora erano considerate non persone e riconoscerli come essere umani. Scrissero in un libro i loro nomi, come vorrei succedesse anche con i vostri nomi”, ha detto ai migranti che lo ascoltavano.

 

la lettera della comunità musulmana a papa Francesco

Bologna

la comunità islamica scrive al papa

“condividiamo le sue posizioni e condanniamo ogni violenza”

lettera al Pontefice in occasione della visita nel capoluogo emiliano:
«Ci riconosciamo tutti figli di un padre, siamo in prima linea per contrastare il male di questi tempi bui»
salvatore cernuzio
bologna

prima la condanna di «ogni forma di violenza», poi la garanzia di un forte impegno per «contrastarla con tutti i mezzi a nostra disposizione», insieme al rifiuto di «ogni forma di strumentalizzazione religiosa» che «fomenti odio, razzismo» e anche «islamofobia».

La storica Comunità islamica di Bologna, radicata da decenni nel territorio, scrive a Papa Francesco in occasione della visita nel capoluogo emiliano per ribadire la vicinanza di vedute riguardo a tematiche come pace, giovani, creato, lotta al terrorismo e la volontà di proseguire insieme per far sì che possa tornare la luce in questi «tempi bui» agitati da intolleranza, diffidenza, razzismo.   

«Santità, ci riconosciamo tutti figli di un padre, Abramo, che ci ha insegnato il valore della fiducia, della pazienza e dell’amore»,

afferma la Comunità musulmana bolognese nella missiva consegnata al Pontefice dal portavoce Yassine Lafram al termine dell’Angelus in Piazza Maggiore e riportata dai media locali.

«Seguiamo con interesse e attenzione il suo operato – si legge – e non possiamo che condividere posizioni come quelle da Lei espresse sul tema della povertà e dell’accoglienza, e sulla necessità di una riforma sociale, oltre che di una difesa dell’ambiente che implichi una riforma radicale nell’approccio al rapporto tra uomo e Creato».  

I musulmani di Bologna dicono di sentire come proprio «il dovere di sostenere i giovani dando loro spazio e opportunità», come pure «il dovere di contribuire a una riforma sulla legge della cittadinanza e il diritto di vivere ciascuno la propria fede nella pratica quotidiana». 

In tal senso si ribadisce nella lettera l’apprezzamento per «il percorso intrapreso sulla via del dialogo interreligioso» che ha permesso di «instaurare ottimi rapporti con le comunità religiose della città, in primis con la Chiesa locale», nella persona dell’arcivescovo Matteo Zuppi. «Lo facciamo convinti della necessità di costruire ponti per permettere a tutti di ascoltare ed essere ascoltati». 

«Mai come oggi – afferma la Comunità islamica – è necessaria una forte operazione culturale che spinga le persone a cercare nell’altro se stessi, perché l’incontro con l’Altro, tanto temuto da molti, è uno sforzo per cercare risposte alle domande spesso celate nel profondo di ognuno. Domande che, se non trovano risposte, diventano terreno fertile per sentimenti come la paura, la diffidenza e – in casi estremi – anche la violenza».  

Da qui l’invito ad una più approfondita conoscenza reciproca «come miglior via di pace» per questi «tempi bui come quelli che stiamo vivendo» in cui «l’intolleranza cresce». «Vogliamo metterci in prima linea per contrastare questi mali nati dal deprezzamento del valore della vita e da una concezione del mondo che mette al centro delle priorità il denaro, tralasciando ogni etica e morale», recita la lettera.

E si conclude con una promessa: «Come musulmani, vogliamo lavorare per contrastare ogni forma di mistificazione del vero significato dell’Islam, la religione del saluto che augura la pace. Il tradimento del messaggio divino e profetico è inaccettabile».

contro papa Francesco – chi si propone l’obiettivo di danneggiare l’immagine del papa e la sua credibilità nella società dell’immagine

leggere questo contributo è importante, non perché si debba essere dei “pretoriani” di Papa Francesco o dei mitizzatori della sua figura o persona (per es. certe nomine episcopali sue degli ultimi due anni in Italia sono davvero deludenti), ma perché si tenga alto il livello di attenzione contro tutte le opposizioni anti-evangeliche che egli sta incontrando, anzitutto all’interno delle gerarchie curiali vaticane ed ecclesiastiche in genere, tutte nemiche di libertà di coscienza e di ricerca della verità senza ritenersi i detentori di essa…D’altra parte i trentacinque anni polacco-tedeschi non sono stati certo un periodo in cui questi due valori siano stati perseguiti e proposti nella formazione di preti,religiose/i, laiche/i come obiettivi centrali…

esiste una strategia per colpire Papa Francesco e il suo rinnovamento

negli ultimi giorni ci sono stati nella Chiesa cattolica episodi in Vaticano che hanno sorpreso l’opinione pubblica, fatti apparire ad arte come voluti dal Papa. Un modo per creare confusione e minare la sua popolarità

Papa Francesco

Nella storia di proclamare Papa Giovanni patrono presso Dio dell’esercito italiano cogliendo di sgradita sorpresa fedeli e opinione pubblica, i promotori dell’operazione hanno lasciato intendere che anche papa Francesco sapeva, come sapeva il defunto cardinale Capovilla, segretario e familiare di Roncalli. In realtà Francesco ha appreso con meraviglia la notizia  di questa storia conclusa a sua insaputa. Come del resto non ha svolto alcun ruolo la Conferenza dei vescovi italiani pur avendone canonicamente il diritto.  

Sembrava un episodio, ma il sottile tentativo di far credere che ci sia il papa dietro alcune decisioni di sapore politico e di pastorale conservatrice si è visto anche in altri episodi in materia importante come gli immigrati e la pedofilia del clero. Forse non si deve pensare a un disegno preordinato e finalizzato a resistere al vento di cambiamento portato da papa Bergoglio che ha investito la Chiesa con forza analoga a quella di papa Giovanni. Ma c’è da chiedersi se gli autori di certe iniziative abbiano completa cognizione del danno di immagine che certe iniziative possono produrre in primo luogo al papa. Sarebbe anche interessante trovare conferme che sia proprio questo l’obiettivo: danneggiare l’immagine del papa e la sua credibilità nella società dell’immagine. Il conseguente calo di consenso verrebbe da sé.

L’episodio più recente è stato l’allontanamento dei senza fissa dimora da piazza san Pietro e dai dintorni immediati del Vaticano per tutto l’arco del giorno con il motivo della sicurezza. Ai giornali è stato detto che il papa è stato informato dell’iniziativa di ordine pubblico portata avanti dalla gendarmeria pontificia e dal commissariato di polizia di zona, con il parere favorevole dell’elemosiniere del papa divenuto famoso proprio per la sua sensibilità verso i clochard. Queste persone povere per la notte possono invece tornare a dormire sotto il colonnato e zone adiacenti. Con i loro pacchi, pacchetti, buste, cartoni, possono – a parere dei preposti alla sicurezza – creare problemi e facilitare infiltrazioni di male intenzionati terroristi. Ma c’è da chiedersi se lo stesso problema non sussista per la notte anche se manca l’ininterrotto flusso di persone, fedeli e turisti in visita a san Pietro.

Le dinamiche della decisione non sono state rese pubbliche ufficialmente ma si pensa che l’iniziativa sia partita dai responsabili della sicurezza e sia stata mediata dalle autorità vaticane. Molta gente si è chiesta e si chiede come possa essere possibile che lo stesso papa che tanto ha fatto per dare dignità di persone ai senza fissa dimora decidendo per loro bagni, docce, barbiere, sacchi a pelo, invito ai concerti, poi decida di allontanarli per motivi di decoro.

Ma a pensarci bene, un’operazione del genere l’immagine di chi danneggia? La polizia fa il suo mestiere e anche la gendarmeria. La decisione ultima ha l’assenso delle autorità vaticane. Ma di quale autorità si parla esattamente? Se il papa sapeva e avesse voluto – ragionano i più – poteva fermare l’iniziativa. Non lo ha fatto, dunque è il massimo responsabile. Nella poca chiarezza con la pubblica opinione si possono avere danni gravi senza averne la colpa.

Il terzo episodio si è avuto sulla questione immigrati nella quale si è fatto credere a un certo punto che la posizione del governo italiano collimasse con quella del papa. In realtà il papa ha incoraggiato ogni passo positivo e quanto di buono si opera in favore degli immigrati, ma la sua è una visione ampia, nuova, aperta sull’immigrazione e nessun Paese finora può riconoscersi totalmente in questa visione. Al massimo si può condividere come utopia ma non come progetto di politiche governative, neppure nei Paesi a maggioranza cattolica. Le prospettive umanitarie di Francesco sugli immigrati mettono la politica a dura prova perché esigono un cambio della politica stessa e del modo di farla: non una politica per sé stessi e per gli interessi di minoranze potenti e benestanti, ma per il bene comune, in primo luogo in favore dei più poveri ed esclusi dalla dignità di esseri umani.

Non sempre le sacche di resistenza curiale sono alla persona di Bergoglio che si trova pure simpatica, ma ad atti di governo che in particolare dai dipendenti vengono percepiti come peggiorativi della loro condizione lavorativa e delle retribuzioni. Non faticano alcuni dipendenti laici a dire che Francesco piace fuori ma non dentro le mura leonine perché con lui non si è avuto alcun beneficio economico aggiuntivo. La resistenza dottrinale e pastorale degli ecclesiastici è meno evidente, ma più felpata.

Coloro che rimpiangono o si riconoscono in una tradizione fissa della fede cristiana vedono nella pastorale di Francesco un vero pericolo. Ma il papa non demorde. Anche sulla questione della pedofilia è stato capace di autocritica e pensa si debba andare speditamente lasciando al passato tutta una serie di misure prudenziali ma inefficaci per testimoniare il vangelo. E cosa chiede anzitutto su ogni questione importante? Un cambio di mentalità per rendere efficace la testimonianza che la Chiesa è chiamata a portare nelle società e agli uomini di oggi. Cambiare mentalità non è facile e che ci siano resistenze è del tutto prevedibile.

l’omsessualità come dono – parola di vescovo

monsignor Antonio Carlos Cruz Santos:

«l’omosessualità è un dono di Dio»

 

«Considerato il fatto che l’omosessualità non è una scelta, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità non lo considera più come una malattia, nella prospettiva della fede noi abbiamo solo una risposta: se non è una scelta, se non è una malattia, nella prospettiva della fede solo può essere un dono, e un dono è dato da Dio. Non c’è verso, se non è scelta, non è malattia, è dono, è dono dato da Dio; ma forse i nostri preconcetti non permettono di comprenderlo come dono di Dio. Così come i preconcetti nei confronti dei neri, e si diceva che i neri non avevano l’anima, il nostro preconcetto non permette di percepire questo dono».

È quanto affermato da monsignor Antonio Carlos Cruz Santos, vescovo di Caicó (Brasile).

Pare dunque in costante crescita il numero di vescovi che contestano l’integralismo di chi difende il mero pregiudizio, spesso con modalità che li dovrebbe portare a sostenere che se un tempo la Chiesa si diceva certa che la Terra fosse piatta, il buon cristiano dovrebbe continuare rifiutarsi di accettare che sia sferica.

promuovere migrazioni sicure, ordinate e regolari per assestare un colpo coordinato ai trafficanti

riumanizzare le migrazioni

di Yuri Fedotov*
in “Avvenire” 

«Quando mi sono rifiutata di vendere il mio corpo mi hanno venduta a un altro bordello».

È la sconvolgente testimonianza di Skye, una tredicenne nepalese mercanteggiata dalla famiglia in India. La sua è una delle poche storie a lieto fine. Insieme alla sorella, Skye è fuggita dal bordello, è tornata a scuola, e lavora ora per Shakti Samuha, l’organizzazione nepalese che l’ha salvata. Tuttavia, per ogni singolo scampato come Skye, migliaia di altri soffrono, ridotti al silenzio dalla minaccia della violenza e del ricatto. Sono quelli che lavorano in fabbriche e fattorie, schiavi del commercio sessuale, o imbarcati su navi da pesca. La gamma di attività forzate è vasta quanto il numero di luoghi dove si trovano le vittime. Occorre fare attenzione, oggi, ai segnali del moderno commercio di schiavi: donne e ragazze sfruttate sessualmente e brutalizzate; bambini impauriti che elemosinano in strada; masse di lavoratori sottopagati che sopravvivono in maniera squallida nei loro luoghi di lavoro. Sono questi gli amari segni di un crimine che incombe su tutte le nostre società. Come siamo arrivati a questo, all’inizio del XXI secolo? Molte vittime sono intrappolate in un circolo vizioso, quello di migranti oggetto di traffici. Un crimine alimentato da instabilità e mancanza di sicurezza. I conflitti in Iraq e Siria, così come le crisi economiche altrove, hanno prodotto una disperata marea umana che ha investito il Medio Oriente, il Nord Africa e il Mediterraneo. Si tratta di individui che cadono nelle mani dei trafficanti mentre sono alla ricerca di un rifugio, di protezione. Migliaia di loro muoiono. Lo scorso anno, la Dichiarazione di New York ha efficacemente sancito che rifugiati e migranti hanno bisogno di tutela e assistenza. I Paesi membri hanno convenuto di tornare a New York nel 2018 per adottare un Global Compact sulla migrazione, il primo accordo negoziato dai governi per coprire ogni aspetto delle migrazioni internazionali. Le migrazioni sono un fenomeno dei nostri tempi, e occorre andare alle loro cause, quali i conflitti.

Possiamo comunque concordare che rifugiati e migranti non possono essere trattati come criminali. Ecco perché il Compact è in grado di rappresentare un punto di riferimento da seguire; gli Stati possono dare il loro contributo adottando e dando attuazione alla Convenzione Onu contro il crimine organizzato transnazionale e i protocolli annessi sul traffico di persone e migranti. Abbiamo gli strumenti per sradicare le reti criminali organizzate grazie alla condivisione di informazioni sensibili, a operazioni congiunte, a indagini finanziarie, e il coordinamento attraverso frontiere locali e regionali. Per questo occorrono risorse e un impegno incrollabile. I criminali sfruttano lacune nel nostro sistema internazionale, che espongono le persone indifese e vulnerabili a violenza e schiavitù. La nostra risposta deve fondarsi su stato di diritto, cooperazione, condivisione di responsabilità e consapevolezza che si può e si deve fare di più per porre fine alla sofferenza umana. L’Ufficio dell’Onu su droga e crimine (Unodc) promuove un Fondo fiduciario per le vittime dei traffici che ha aiutato migliaia di sopravvissuti in tutto il mondo. La nostra Blue Heart Campaign (la Campagna Cuore Blu) sostiene il Fondo, e rappresenta un efficace strumento per amplificare il messaggio che tutti noi dobbiamo agire, se vogliamo che i criminali siano definitivamente sconfitti.
Sono sforzi cruciali. In Messico, la campagna di Unodc #AQUIESTOY («Sono qui»), appoggiata dal governo, dà voce alle vittime e mostra che il traffico di esseri umani non avviene in qualche landa sperduta, ma proprio qui, tra noi. Qualora fosse adottato nel 2018, il Global Compact ha l’enorme potenziale di promuovere migrazioni sicure, ordinate e regolari, e di assestare un colpo coordinato ai trafficanti. Si tratta di un’opportunità unica per aiutare ogni essere umano a vivere con dignità. Cogliamola.

*Direttore esecutivo Ufficio Onu su droga e crimine (Unodc)

il mondo cattolico si ribella alla nomina di papa Giovanni a patrono delle forze armate

LETTERA APERTA

 

Al Card. Robert Sarah

Prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti
e
Al Card. Gualtiero Bassetti

Presidente della Conferenza Episcopale Italiana

Noi, donne e uomini che crediamo nella costruzione della pace con mezzi di pace, intendiamo manifestarvi il nostro profondo disappunto di fronte alla dichiarazione di San Giovanni XXIII, papa, quale “Patrono presso Dio dell’Esercito Italiano”.  Siamo infatti convinti che la vita e le opere del Santo papa non possano essere associate alle forze armate.

Come può proprio lui, il Papa della Pacem in Terris, il Papa del Concilio Vaticano II e delle genti, l’uomo del dialogo… proteggere un corpo armato che, per sua natura, imbraccia mezzi di morte e distruzione? È stato affermato che papa Roncalli è stato scelto quale patrono dell’esercito perché, giovane prete, era stato cappellano militare durante la Prima guerra mondiale e perché, da nunzio apostolico, visitò spesso gruppi di militari e perché, da pontefice, ricordò come “indimenticabile” il suo servizio pastorale nell’esercito. Ci sembra che una tale giustificazione sia alquanto debole e rischi di tirare il “papa buono” per la talare a scopi impropri, dimenticando l’evoluzione umana e spirituale che ha fatto di questo pastore da oltre mezzo secolo l’emblema della pace e del rifiuto della guerra per credenti e non credenti. Né si può dimenticare che egli contribuì in maniera del tutto singolare a scongiurare il pericolo di un conflitto mondiale, mediando tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica per superare la “crisi dei missili a Cuba”.


In un mondo segnato da una “terza guerra mondiale a pezzi”, da un aumento vertiginoso delle spese militari, da nuovi muri che si innalzano tra popoli e frontiere, la nostra Chiesa non ha bisogno di santi che proteggano gli eserciti quanto piuttosto di valorizzare il senso e l’amore per la pace, quella disarmata, fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore, come ci ricorda la Pacem in Terris, i cui insegnamenti risultano di una profetica attualità. Non si può negare come troppo spesso la parola pace sia usata per mascherare operazioni di guerra. Noi riteniamo che la pace vada costruita con strumenti di pace e non di guerra, di morte e di distruzione. Se, come scrisse proprio papa Roncalli nella Pacem in Terris, la guerra è ‘alienum a ratione’, come è possibile al tempo stesso che lo stesso Roncalli sia invocato quale protettore dell’esercito? A noi sembra fin troppo evidente la contraddizione! E se, come ci invita la Gaudium et spes, siamo obbligati “a considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova”, non possiamo che ripetere con papa Francesco che solo la nonviolenza è la strada maestra per la risoluzione dei conflitti.
Per queste ragioni, ci associamo ad una vasta parte del mondo cattolico nel chiedervi di rivedere la decisione di proclamare Papa Giovanni XXIII patrono dell’Esercito italiano.
Vorremmo, piuttosto, vedere la figura e l’esempio di papa Roncalli proposti a protezione di quanti, credenti e non, si adoperano per un’umanità libera da eserciti (Caschi Bianchi, Corpi Civili di Pace, operatori umanitari…) e sono impegnati con lo strumento della nonviolenza attiva nel disinnescare e risolvere i conflitti. La proclamazione di san Giovanni XXIII patrono della nonviolenza attiva sarebbe una scelta profetica per quanti si adoperano concretamente per la pace in un mondo minacciato da guerre e dalla corsa al riarmo

prime adesioni (in ordine cronologico di arrivo)

Mons. Giovanni Ricchiuti, Vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, Presidente di Pax Christi Italia

Mons. Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea, già Presidente Nazionale e Internazionale di Pax Christi

Mons. Kevin Dowling, Vescovo di Rustenburg, Sudafrica, co-Presidente di Pax Christi International Marie Dennis, Usa, co-Presidente di Pax Christi International
Mons. Antonio J. Ledesma, SJ, arcivescovo di Cagayan de Oro, Filippine, Presidente di Pax Christi Filippine

Mons. Tommaso Valentinetti, Arcivescovo di Pescara Penne, già Presidente Nazionale di Pax Christi

Mons. Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo (Tp)

Mons. Calogero Marino, Vescovo di Savona

Mons. Giorgio Biguzzi, Vescovo saveriano emerito di Makeni (Sierra Leone).

Mons. Francesco Alfano, Arcivescovo di Sorrento-Castellammare di Stabia

Mons. Antonio Napolioni, Vescovo di Cremona

Mons. Marco Arnolfo, Arcivescovo di Vercelli.

Mons. Francesco Ravinale, Vescovo di Asti

Mons. Domenico Cornacchia,Vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi

Mons. Roberto Filippini, Vescovo di Pescia Rosalba Poli e Andrea Goller, responsabili del ‘Movimento dei Focolari Italia’

Cristina Simonelli, teologa Coordinamento Teologhe Italiane

p. Mario Menin, direttore di ‘Missione Oggi’

p. Efrem Tresoldi, direttore di ‘Nigrizia’

p. Alex Zanotelli, missionario comboniano, direttore di ‘Mosaico di pace’

p. Filippo Rota Martir, direttore di ‘Missionari Saveriani’

Suor Paola Moggi, direttrice di ‘Combonifem’

p. Giovanni Munari, Superiore provinciale dei Missionari Comboniani in Italia

d. Tonio Dell’Olio, Presidente ‘Pro Civitate Christiana’ e ‘Libera International’

Comunità monastica di Bose

Biella Gianni Novello, fraternità di Romena

Prof. Alberto Melloni, storico

Prof. Nicola Colaianni, magistrato, Bari

Prof.ssa Giuliana Martirani, docente di geografia dello sviluppo

d. Giuseppe Ruggeri, Teologo, Catania

d. Salvatore Consoli, preside emerito dello Studio Teologico S. Paolo, Catania

d. Rocco D’Ambrosio, ordinario di Filosofia Politica, Facoltà Scienze Sociali, Pont. Univ. Gregoriana, Roma

d. Luigi Ciotti, fondatore del ‘Gruppo Abele’ e Presidente Nazionale di ‘Libera’

d. Virginio Colmegna, Casa della carità, Milano

d. Giovanni Nicolini. Bologna

d. Pierluigi di Piazza, responsabile ‘Centro di Accoglienza e Promozione Culturale ‘E. Balducci’, Zugliano (Ud)

d. Pino Demasi, parroco a Polistena (RC) e referente di Libera – Piana di Gioia Tauro

d. Giacomo Panizza, Presidente Comunità Progetto sud – Lamezia Terme

d. Bruno Bignami, Presidente della ‘Fondazione don Primo Mazzolari’, Bozzolo (Mn).

Sergio Paronetto, Presidente ‘Centro Studi economico-sociali per la pace’ di Pax Christi

Suor Chiara Ludovica Loconte, osc, Speriora Monastero Clarisse S. Luigi, Bisceglie (Bt)

Suor Alaide Deretti, Consigliera generale per la Missione Ad gentes/ inter gentes Istituto FMA

Suor Runita Borja, Consigliera generale per la Pastorale Giovanile Istituto FMA

Suor Bernarda Santamaría Merens, Direttrice della Casa Generalizia FMA

Madre Antonina Alfaro Minchola, Superiora General, Congr. Dominicas de la Inmaculada Concepción

Suor Marìa E. Coris, Superiora General, Congr. de Hermanas de la Caridad Dominicas de la Presentacion.

Suor Aurora Torres, Superiora general Congregación de María Reparadora.

d. Flavio Luciano, Direttore Ufficio Regionale Piemontese della Pastorale Sociale e del Lavoro, Cuneo.

Associazione “Comunità di Mambre” , Busca, (Cn)

Associazione ‘Cercasi un fine’, Cassano delle Murge (Ba)

d. Paolo Gasperini, parroco e vicario per la pastorale della Diocesi di Senigallia

Consiglio Pastorale Parrocchiale della parrocchia di S. Maria della Neve, Senigallia

d. Pasquale Aceto e comunità parrocchiale Ss. Pietro e Paolo in Papanice, Crotone.

fra Giorgio M. Vigna, ofm, Animatore GPIC per la Custodia di Terra Santa

Mons. Domenico Laddaga, delegato per la gestione dell’Ente Ecclesiastico Ospedale F. Miulli, Acquaviva delle Fonti (Ba )

_____________

Contatti:     Segreteria  Nazionale  di  Pax  Christi:  055/2020375  info@paxchristi.it   Coordinatore  Nazionale  di  Pax  Christi:  d.  Renato  Sacco  348/3035658  drenato@tin.it

la spietata intolleranza dei comuni di Pisa e Cascina nei confronti di alcune famiglie rom

il grido di disagio di alcune famiglie rom che chiedono di poter mandare i loro bambini a scuola dopo essere cacciati dai loro terreni:

Noi Rom costretti ad essere nomadi

Ora non possiamo stare in pace, neanche dentro i nostri camper.”

Anni fa, abitavamo dentro il campo Rom, ed eravamo censiti nel Progetto “Città Sottili” del comune, poi ci ha chiesto di uscire dal campo e ci siamo sistemati in aree di nostra proprietà. Anche da lì il comune ci ha allontanato, confiscandoci l’area. Ben 4 terreni ci sono stati tolti. Per vivere ci è toccato prendere dei camper. Ma cosa dobbiamo fare?

Siamo circa 12 famiglie, una cinquantina di persone, con trenta minori. Stiamo vivendo nei camper da circa un anno, ma da mesi è una vera “odissea”, costretti a continui spostamenti, da un parcheggio all’altro tra Pisa e Cascina, in seguito ad ordinanze che l’amministrazione di Cascina e Pisa hanno emanato e che vietano l’uso dei camper al di fuori delle aree attrezzate…politicamente con colori diversi (Lega e PD), ma uguali nell’accanirsi con noi. Ordinanze mirate soprattutto a perseguire la presenza di noi Rom che viviamo nei camper, non certo per una nostra scelta, ma in seguito la chiusura dei nostri terreni e senza l’offerta di reali alternative.

Il motivo della confisca dei nostri spazi è perché abbiamo messo la ghiaia su terreni destinati ad uso agricolo, ma se lo abbiamo fatto era solo per rendere la nostra vita più decorosa, soprattutto per i nostri figli, che in tutti questi anni hanno frequentato le scuole, ottenendo tra l’altro i diplomi della elementare e medie e qualcuno frequenta la superiore. Una di queste famiglie ha tre bambini portatori di handicap, tra l’altro frequentavano pure loro la scuola con il sostegno di psicologi. In questi anni abbiamo lottato perché i nostri figli frequentassero la scuola e vorremmo che continuassero a farlo, ma nelle condizioni attuali ci è praticamente impossibile. Non passa giorno che i vigili ci invitano ad allontanarci dal parcheggio in cui siamo e di andare nel parcheggio riservato per i camperisti, a volte anche due o tre volte al giorno. L’assurdo è che noi di giorno, non possiamo usare il camper, perché i vigili ci allontanano e di notte per dormire, andando nelle aree riservate ai camperisti e ci tocca pagare 30 € per 24 ore di permanenza, questo noi non ce lo possiamo permettere. E’ una ordinanza assurda che penalizza solo noi Rom, noi siamo stati costretti dalle Amministrazioni a dover vivere nei camper, non siamo dei turisti occasionali che vengono a visitare la città di Pisa per qualche giorno l’anno.

Noi Rom siamo costretti a vivere come nomadi, è forse questa la strada dell’integrazione che tutti i comuni ci gridano sulle nostre teste ogni giorno? Siamo ritornati a fare la vita di 40 anni fa, esattamente quella dei nostri padri, anzi per loro era molto più facile, perché allora non esistevano queste ordinanze assurde, la gente si spostava liberamente e trovava con facilità un posto dove sostare.

Tanti dei nostri figli sono nati qui a Pisa, cresciuti insieme ai loro compagni sui banchi di scuola, si frequentavano e giocavano insieme, ma dopo il 28 Agosto del 2017 (giorno dell’ultima ordinanza anti accampamento e bivacco del comune di Pisa, la precedente era del giugno 2016), per loro non è più possibile, questa legge ci punisce troppo e non possiamo soddisfare il loro desiderio di frequentare i loro compagni di scuola. Tutto questo che ci sta capitando non è per una nostra scelta! In questi anni sono state tante le promesse che i servizi Sociali ci hanno fatto, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti, cioè niente e tante parole al vento: come ora sono le nostre vite, siamo ritornati ad essere come nomadi al vento!

La nostra richiesta.

Noi non chiediamo e non vogliamo la casa, anche perché sappiamo che tanti italiani la stanno aspettando da anni e ne hanno più bisogno di noi, quello che chiediamo è che l’Amministrazione di Pisa ci dia la possibilità di stare nel nostro territorio, anche per far studiare i nostri bambini. Ci indichi un’area di sosta temporanea, per la durata dell’anno scolastico, dove stare anche con i camper senza dover pagare cifre troppo alte. Siamo sempre disposti a parlare con l’assessore del sociale, dott.ssa Capuzzi (finora non ha mai accettato un incontro con noi), perché con il dialogo e la mediazione è possibile risolvere tanti problemi, se c’è la volontà di capire e aiutarsi da entrambe le parti.

22 Settembre 2017

(da un parcheggio pubblico di Pisa)

Fam.Seferovic

Fam. Halilovic

Fam. Ahmetovic

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