con urgenza il cristianesimo deve prendere atto della novità radicale dei tempi

teologia senza paraocchi

di Elodie Maurot
in “La Croix” del 21 settembre 2017

Nel suo libro “Urgences pastorales”(Bayard), Christoph Theobald propone una riflessione serena e costruttiva sul cristianesimo nel XXI secolo, che prende atto della novità radicale dei tempi.

Imprescindibile. Tale dovrebbe diventare nelle prossime settimane, mesi e perfino anni, la riflessione teologica fatta dal gesuita francese Christoph Theobald in Urgences Pastorales. Imprescindibile per tutti coloro che cercano di vivere e proporre il Vangelo oggi, in Europa, indipendentemente da quelli che possono essere i loro atteggiamenti, le loro etichette o perfino i loro sentimenti: identitari o progressisti, volontaristici, pessimisti e magari anche depressi… Ormai si potrà contare su questa impressionante “scommessa” teologica, che rilancia e nuovamente vivifica la riflessione sul futuro del cristianesimo. Con grande libertà spirituale, l’autore cerca di discernere quale potrebbe essere il suo nuovo volto.

L’opera si presenta come un’ampia sintesi, organizzata in tre parti: una diagnosi sociologica e culturale che affronta con determinazione la “crisi di credibilità” che il cristianesimo sta attraversando nelle nostre società; una riflessione teologica che torna alla sorgente cristiana e rivisita i temi centrali della fede e della missione alla sequela di Cristo e dei suoi apostoli; la proposta infine di una “pedagogia della riforma” che comporta la “conversione necessaria” della Chiesa.

Sulla crisi delle Chiese in Europa, molto è stato detto in questi ultimi anni. Al loro interno, restano vive le differenze sul modo di porsi in una società secolarizzata. “Se, alla superficie della carta climatica del cattolicesimo francese ed europeo sembrano dominare la preoccupazione depressiva degli uni e la combattività identitaria degli altri, ci si può chiedere in che modo potrebbero muoversi le linee”, riconosce Christoph Theobald. La situazione esige tuttavia di rimescolare le carte, perché i tempi sono gravidi di sfide. Da un lato, una Chiesa che fatica a rendere credibile la sua visione globale dell’esistenza in una società divenuta plurale e frammentata. Una Chiesa di inquadramento e di territorio, erede della civiltà parrocchiale, che si sfianca nel tentare di mantenere l’offerta pastorale attuale malgrado la riduzione delle proprie forze. Una Chiesa infine composta di cristiani che in fondo non sanno più molto bene come atteggiarsi nei confronti di coloro che non credono più o che credono in modo diverso. Dall’altro lato, sottolinea Christoph Theobald, la nostra società post-moderna è caratterizzata da una crisi di fiducia e da una crisi del vivere-insieme, dal fascino per le tecnoscienze e le bioscienze, dai timori per i cambiamenti climatici e dal dominio di un sistema economico fondato sulla speculazione. In fondo, “è il rapporto con la morte che rappresenta oggi il problema maggiore delle nostre società”, fa notare. La paura della morte alimenta un fascino per il suo superamento attraverso le tecniche, cosa che potrebbe segnare la fine dell’umanesimo europeo… Poiché la Chiesa e la società sembrano allontanarsi sempre di più per effetto di una invisibile tettonica delle placche, Christoph Theobald ha scavato in profondità per trovare il punto in cui cristiani e non cristiani possono incontrarsi. Lo identifica in una “fede elementare, connessa con la bontà di fondo della vita”, il cui sviluppo è necessario alla prosecuzione dell’esistenza di ciascuno, ma la cui nascita non è mai garantita di fronte alle prove. Attorno a questo punto focale, il teologo ricostruisce la missione della Chiesa, tema che aveva proprio bisogno di essere rispolverato e che da tempo non era affrontato con altrettanta forza. Per i cristiani, la missione consiste nel porsi, “con gratuità” e “senza spirito di conquista”, a servizio della vita degli altri, mettendo a disposizione di “chiunque” le risorse di fiducia e di speranza del Vangelo. Invita ad esempio i cristiani a considerare l’ospitalità e il servizio della fraternità una “mistica non sacrale”. Christoph Theobald ne è convinto, la situazione attuale è un tempo fecondo, in cui “la messe è abbondante”. Ma per percepirlo e per rispondervi, la Chiesa deve compiere una mutazione, tornare al cuore di un’esperienza cristiana segnata dal “tutto è grazia”, poi rivedere sia le sue priorità sia il suo funzionamento. In questo libro denso, che procede in maniera serrata, l’autore unisce qualità che raramente si trovano insieme: erudizione e pedagogia, fedeltà e senso critico, prudenza e audacia. Entra in problemi molto conflittuali (la differenza cristiana, la missione, la Chiesa, i sacramenti, i ministeri, il posto della dottrina…), ma con un tatto spirituale e una preoccupazione evangelica che potrebbero coinvolgere lettori di sensibilità opposte.
Una fede non incombente «Qual è quel fuoco interiore che sembra tanto mancare a noi europei? Si tratta di un tipo di “zelo”? (…) Senza dubbio, ma come evitare allora la confusione tra la fede e lo “zelotismo” religioso? Non sarebbe meglio far riferimento all’amicizia con Gesù Cristo che ci fa condividere la “conoscenza” di ciò che ha sentito lui dal Padre suo (cfr. Gv 15,15)? Ma come non trasformare questa conoscenza in un sapere incombente? Alcuni difenderebbero volentieri il nostro diritto ad essere “fieri”. (…) Sì, possiamo esserlo, ma come far emergere questa “fierezza” dentro le nostre realtà umane (…)? In breve, come evitare che lo status diasporico della Chiesa degeneri in elitismo ed essere certi che resti radicalmente aperto alla moltitudine delle situazioni umane più fragili (…)?». (p. 184)
L’intimità divina «Il bellissimo termine “intimità” (intima) rende molto concreto ciò che, in una prospettiva teologica, è svuotato dal lessico più astratto dell’ “auto-rivelazione” o dell’ “auto-comunicazione” di Dio: Gesù non ci mette soltanto di fronte a Dio come hanno fatto i profeti, quelli della Bibbia e del Corano, ecc., ci fa accedere alla Sua intimità, alla Sua interiorità abissale, poiché vi è già lui. Ecco la “differenza” cristiana! (…) È di una profondità abissale, questa intimità divina; infatti, accedendovi, noi intravediamo progressivamente il posto unico che ogni essere umano ha in essa e quale rispetto infinito lì ci è comunicato dallo Spirito di Dio per ognuno di noi». (p. 156-157)

(Ri)suscitare la fiducia «Che cosa permette di (ri)suscitare questa fiducia o questa speranza, se è proprio questa a costituire l’estremo “baluardo” dell’umano? E chi ha questa “capacità”? (…) È anche questo il “luogo” in cui una pastorale missionaria può intervenire. Non è sufficiente voler convincere dall’esterno altri, i nostri gruppi, “fidarsi”. Solo l’interesse gratuito della Chiesa per gli esseri umani nella loro singolarità inalienabile (…) può riuscire – forse – a risuscitarla». (p. 289)

il quotidiano Libero merita una risposta ferma e forte da parte in particolare delle donne

Grasso chiede scusa per gli stupri e Libero (quello della doppia penetrazione) si inalbera

il presidente del Senato parla delle responsabilità maschili e il quotidiano di Feltri considera le sue parole brutali generalizzazioni

Violenza su una donna

violenza su una donna

Ieri il Presidente del Senato ha detto che la violenza sulle donne: “È un problema che parte da noi uomini e solo noi uomini possiamo porvi rimedio. Scusateci tutti”. Ma secondo questa parte della società che sui social sfoga la propria rabbia contro i violentatori a corrente alternata si tratta di: una generalizzazione brutale, “alla Boldrini”.

Sì, nel titolo del quotidiano appare il nome della Presidente della Camera come fosse un aggettivo negativo. La stessa donna vittima di commenti sessisti e minacce di stupro appare con un’accezione negativa. Un’altra vittima che diventa responsabile.

Il presidente Pietro Grasso nel suo discorso si riferiva all’ultima assurda morte, quella di Nicolina, la 15enne uccisa in provincia di Foggia. “A 15 anni si ha diritto di andare a scuola con la testa piena di sogni. Avevi tutta una vita davanti ma un uomo ha scelto di spezzarla con una violenza inaudita. Un enorme dolore per la tua famiglia, per i tuoi amici, per tutti noi. Purtroppo non sei la sola ad aver avuto questo terribile destino. Tante, troppo donne sono morte o sono rimaste profondamente segnate da violenze, discriminazioni, molestie, stupri”. “Tutto ciò  limita una donna nella sua identità e libertà. È una violenza di genere alla quale non esistono attenuanti, giustificazioni e soprattutto non esistono eccezioni. Finché tutto questo verrà considerato un problema delle donne, non c’è speranza. Non abbiamo ancora imparato che siamo noi uomini a dover evitare queste tragedie. A dover sradicare quel diffuso sentire che vi costringe a stare attente a come vi vestite o a non poter tornare a casa da sole di sera”.

Chi trova assurdo il pensiero di Grasso crede dunque che le violenze si dividano in due categorie: quelle brutali, da doppie penetrazioni compiuti dagli immigrati (sporchi neri che andrebbero castrati chimicamente come chiedono Salvini e Meloni) e quelli dove le responsabili sono le vittime “che se la sono cercata”, perché  magari a violentarle sono stati italiani, magari benestanti, acculturati oppure militari, perché la ragazza magari indossava la minigonna e non si faceva accompagnare ma camminava sola per strada dopo il tramonto.

Caro Libero, mi rivolgo a te per rivolgermi a tutti coloro che la pensano come te: il problema di tutte le violenze non è un problema di noi donne. E’ un problema degli uomini. E’ un problema delle madri e dei padri che hanno figli maschi. E’ un problema degli insegnanti che devono educare i loro ragazzi al rispetto delle donne. Grasso non ha detto nulla di sbagliato. Se continuate a fare distinguo continueranno le violenze, perché ci sarà una parte della società maschile che a seconda della vittima si sentirà autorizzato ad abusare di una donna.

Mi rivolgo alle colleghe del quotidiano, combattiamo insieme questa battaglia, smettiamola di giudicare gli stupri o le botte o i femminicidi a seconda di chi sia la vittima o l’aggressore. Non esistono attenuanti e distinzioni quando compi un gesto così atroce. Non esistono traumi meno dolorosi a seconda della storia, il lavoro, la provenienza, la religione del carnefice. Forse prima di scrivere per esempio di violenze sessuali i giornalsiti dovrebbero incontrare delle vittime, parlare con loro e vedere come la loro vita è cambiata dopo quel crimine. Capirebbero che lo stupro è l’unico crimine che non può essere contestualizzato, giustificato, compreso, è il male assoluto chiunque lo compia su qualunque corpo.

Non esistono se o ma, ci sono omicidi che puoi spiegarti con la legittima difesa, ma violentare una persona no. Nulla può giustificare un gesto simile, non violenti per difenderti, violenti per umiliare e sottomettere e macchiare per tutta la vita una persona. Se non capiamo tutti e tutte questo, passeranno ancora decenni e noi donne continueremo ad avere paura e vergogna e sensi di colpa anche solo se qualcuno ci palpeggia.

Non c’è prigione peggiore del proprio corpo e pensieri dominanti come questo che differenzia le violenze possono trasformarsi in una gabbia infernale per metà della popolazione.

dal chiedere l’elemosina sulla strada alla scalata per diventare la prima senatrice rom

aspirante avvocato, 27 anni

Anina vuole essere la prima senatrice rom

arrivata in Francia dalla Romania, dopo la caduta del comunismo, ha costruito la sua vita sullo studio, dopo avere anche mendicato per strada. Poche possibilità d’essere eletta, ma si è candidata per aprire la strada a molti altri

Anina Ciuciu

Anina Ciuciu

Il suo è un sogno ambizioso, ma se dovesse diventare realtà, la renderebbe orgogliosa. Per se stessa e per la sua gente. Perché Anina Ciuciu, 27 anni, aspirante avvocato, sogna di diventare la prima senatrice di Francia di origini rom. Passare dalle baraccopoli agli ori del Senato di Parigi per “aprire la strada” e “ripristinare l’orgoglio per coloro che sono costretti a abbassare la testa”.
E’ candidata per la lista ”Il nostro futuro” e sa benissimo che le possibilità d’essere eletta per sostituire la dimissionaria Aline Archimbaud, ambientalista che pure la sostiene nel collegio di Seine-Saint-Denis, sono minime perchè si scontra con candidati che hanno alle spalle partiti ricchi ed organizzati.  Ma la lotta non la spaventa. Come potrebbe, d’altra parte, per una che è stata anche per strada a mendicare e che ha conosciuto, con  le due sorelline, la fame, quella vera?
In Romania, Paese natale della famiglia Ciuciu, il padre era contabile, la madre infermiera. La caduta del comunismo è anche il crollo di alcune certezze. La famiglia allora parte verso l’Occidente,quando Anina ha appena sette anni. Attraversano i campi minati dell’ex Jugoslavia e raggiungono Roma, “a rischio della loro vita, come i migranti di oggi”. Dopo sei mesi di “vita inumana” in un campo nomadi gigantesco (il Casilino 900), la famiglia parte per la Francia, ”il Paese dei diritti umani”.
Ma la Francia dei ”diritti umani” non ha molto cuore e per la famiglia rom cominciano i problemi. Sino a quando, casualmente, incontrano una persona che cambia la loro storia, Jacqueline de la Fontaine, una insegnante. Jacqueline vedendo Anina in braccio alla madre, tra i banchi di un mercato, prende a cuore le sorti di quella famiglia, convincendoli però dell’importanza dell’istruzione. Anina comincia allora il suo cammino che la porta a percorrere, dopo avere imparato il francese, tutta la trafila scolastica sino agli studi giuridici alla Sorbone e la prospettiva di diventare avvocato.
Nel 2013 ha ottenuto la cittadinanza francese (è l’unica della sua famiglia) dopo la pubblicazione di un libro ( ”Sono una rom e ne sono fiera. Dalle baracche rmane alla Sorbone”, nell’edizione italiana)
Se eletta l’attivista della comunità (collabora con il periodico La voce dei rom) non vorrà essere considerata una ‘zingara di riferimento’. Ma un simbolo: “Sarebbe un fatto storico per una donna francese di origine rom essere eletta. Soprattutto in un Senato prevalentemente di sesso maschile e dove l’età media è di 64 anni”
Anina Ciuciu nella sua agenda ha molte battaglie da fare su giustizia ed ecologia, ma soprattutto per l’accesso all’istruzione, ricordando come nel collegio d Seine-Saint-Denis l’80 per cento dei bambini roma non vanno a scuola.
Ma vuole ”aprire una strada. perchè dopo di me ce ne saranno molte altre”, scommette.

la vergogna del nostro parlamento con le mani sporche di sangue

un parlamento con le mani insanguinate

 

 Tonio Dell’Olio

in Mosaico dei giorni

 

 

301 voti contrari e 120 a favore. La Camera dei Deputati ha respinto le richieste rivolte al Governo per bloccare la vendita di armi a Paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani come peraltro disposto dalla legge 185/1990 e dal Trattato internazionale sul commercio delle armi.

Ciò che premeva particolarmente era la richiesta di sospensione di invio delle bombe fabbricate a Domusnovas verso l’Arabia Saudita che le sta “utilizzando” per bombardare lo Yemen. Il bilancio di quelle operazioni secondo vari organismi internazionali è di oltre 10 mila morti, 40 mila feriti, 2 milioni di bambini in stato di malnutrizione e di una dilagante epidemia di colera. La carrellata degli interventi contrari (e vincenti) ha del tragicomico. A cominciare dai deputati del PD, i cui colleghi del Parlamento europeo solo qualche giorno prima (13 settembre) avevano votato a favore di un embargo di armi ai danni dell’Arabia Saudita da parte dei governi dell’Unione. Ci sono poi stati quelli che hanno vantato il progetto di cooperazione internazionale di 10 milioni di euro da parte dell’Italia per aiutare la popolazione yemenita.  Come dire che con una mano vi distruggiamo e con l’altra facciamo finta di aiutarvi. E, infine, coloro che hanno provato a giustificare la strategia militare dei sauditi con l’intento di arginare l’influenza iraniana dilagante nella regione. A tutti andrebbe ricordato che, come hanno dichiarato autorevoli rappresentanti tedeschi, quelle bombe vengono costruite dall’azienda tedesca RWM in Italia perché secondo la loro legislazione non sarebbe possibile esportarli verso un Paese in guerra. Per la verità anche da noi. Solo che noi, in nome del diodenaro, diventiamo più disponibili. E intanto in Yemen si muore.

 

 

http://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3053.html

 

il vero problema dell’Africa non sono gli africani ma le multinazionali

il problema non è aiutarli a casa loro

è liberare casa loro

e restituire il maltolto

ecco come le multinazionali

sottraggono all’Africa miliardi di dollari

aiutarli a casa loro

 

.Le multinazionali sottraggono all’Africa miliardi di dollari

 Secondo il nuovo rapporto Oxfam rilasciato in data odierna [2 giugno, ndt], intitolato: “Africa: l’ascesa per pochi”(1), 11 miliardi di dollari sono stati sottratti all’Africa nell’arco dell’anno 2010, grazie all’utilizzo di uno tra i tanti trucchi usati dalle multinazionali per ridurre le imposte. Tale cifra, è sei volte l’equivalente dell’importo che sarebbe necessario a colmare il vuoto di fondi nel sistema sanitario di Sierra Leone, Liberia, Guinea, Guinea Bissau, tutti Stati in cui è presente l’ebola. Le scoperte dell’Oxfam arrivano in corrispondenza dell’imminente partecipazione dei leader politici ed economici al 25° World Economic Forum Africa, che si terrà in Sudafrica.

Il tema principale dell’incontro sarà come assicurare l’ascesa economica dell’Africa e conseguire uno sviluppo sostenibile. E’ necessaria una riforma del sistema di tassazione globale, affinché l’Africa possa pretendere i fondi che le spettano – tra l’altro, è necessaria per affrontare l’estrema povertà e disuguaglianza – e diviene realmente determinante se il continente deve continuare la sua crescita economica.

L’Oxfam ha richiesto a tutti i governi, la presenza dei capi di Stato e dei ministri delle finanze in vista della Financing for Development Conference che si terrà a luglio in Etiopia. La conferenza di Addis Abeba stabilirà le modalità con cui il mondo finanzierà lo sviluppo per i prossimi vent’anni; questa è un’opportunità per i governi, affinché inizino a elaborare un sistema globale di tassazione più democratico ed equo.

Winnie Byanyima, direttore esecutivo internazionale dell’Oxfam, ha dichiarato: “L’Africa sta subendo un’emorragia di miliardi di dollari, a causa dei trucchi usati dalle multinazionali per imbrogliare i governi africani, lasciandoli senza le entrate dovute, dal momento che non pagano la loro giusta quota di tasse. Se le entrate delle tasse fossero investite in educazione ed assistenza sanitaria, le società e le economie prospererebbero ulteriormente in tutto il continente”.

Nel 2010, l’ultimo anno di cui sono disponibili i dati, le compagnie multinazionali hanno evitato di pagare tasse per un ammontare di 40 miliardi di dollari statunitensi, grazie ad una pratica chiamata trade mispricing – nella quale una compagnia stabilisce prezzi artificiali per i beni e servizi venduti tra le proprie sussidiarie, al fine di evitare la tassazione. Con le corporate tax rates che hanno una media pari al 28% in Africa, ciò equivale a 11 miliardi di dollari statunitensi come entrate sotto forma di tasse.

Il trade mispricing è solo uno dei trucchi che le multinazionali usano per non pagare la loro quota giusta di tassazioni. Secondo l’UNCTAD, i paesi in via di sviluppo nella loro totalità, perdono, secondo una stima, 100 miliardi di dollari l’anno attraverso un altro set di schemi che permettono di evitare i pagamenti, coinvolgendo i paradisi fiscali.

Le compagnie fanno una dura attività di lobbying per avere agevolazioni fiscali come ricompensa per basare e mantenere le loro attività nelle nazioni africane. Le agevolazioni fiscali fornite alle sei più grandi compagnie di estrazione mineraria in Sierra Leone, raggiungono il 59% del budget totale della nazione o equivalgono a 8 volte il budget sanitario statale.

Byanyima ha aggiunto: “I leader africani non devono assistere inerti all’approvazione del nuovo sistema di tassazione globale, cosa che dà alle multinazionali la libertà di scansare i loro obblighi di pagamento delle tasse in Africa. I leader politici e d’affari devono mettere da parte la loro importanza, innanzi alle richieste, sempre più insistenti, di una riforma del sistema di tassazione internazionale. Le nazioni africane, devono introdurre un approccio più progressivo e democratico alla tassazione – incluso un appello alla parola ‘fine’ per le esenzioni dalle tasse per le compagnie straniere”.

Gli attuali meccanismi internazionali volti a superare l’evasione fiscale, come il processo BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), controllato dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)(2) per il G20, lasciano aperte enormi “vie di fuga” per le tasse, che le multinazionali possono continuare a sfruttare in tutto il mondo in via di sviluppo. Molte nazioni africane sono state escluse dalle discussioni sulla riforma del BEPS e, come risultato, non ne trarranno alcun beneficio.

 

Originale: http://fahamu.org/node/1911

https://www.oxfam.org/sites/www.oxfam.org/files/world_economic_forum_wef.africa_rising_for_the_few.pdf
2 Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) [così nominata a livello internazionale, ndt]

‘messa’ o cena del Signore?

Storia di una involuzione: dalla cena del “corpo di Cristo” alla messa

storia di una involuzione

dalla cena del “corpo di Cristo” alla ‘messa’

 
Tratto da: Adista Documenti n° 32 del 23/09/2017

Tra il 24 e il 29 luglio scorsi, presso la Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli (Assisi), si è tenuta la 54.ma Sessione di Formazione Ecumenica del Sae (Segretariato Attività Ecumeniche) sul tema: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi (At 15,28). Riforma, profezia, tradizione, nelle Chiese”. Tra i partecipanti al seminario, una ricca presenza di cristiani, ebrei e musulmani. La giornata del 27 luglio, sul tema “La preghiera e la mensa”, è stata inaugurata da una meditazione biblica di Ermanno Genre, teologo valdese. La lettera di Paolo ai Corinzi – dal titolo “Quando vi radunate in assemblea vi sono divisioni tra voi” (1Cor 11,17.32) – tocca un tema cruciale per la cristianità di ieri e di oggi, quello della Cena del Signore, e offre un particolare punto di vista per affrontare le divisioni della Chiesa di Corinto e, per estensione, anche delle Chiese attuali, spesso divise, clericalizzate, pervase da logiche di potere, incapaci di accoglienza e di uguaglianza. Nel corso della storia, denuncia Manifesto 4 Ottobre, la Cena del Signore è diventata la messa attuale, subendo una lenta e inequivocabile «involuzione», come osserva Genre nella sua riflessione, ponendo due questioni: «Abbiamo ridotto la cena del Signore ad un rito interclassista che non considera più la disparità sociale ed economica una questione teologica. La cena del Signore è diventata sempre più l’atto di una pietà personale privata che non si interroga sul “discernimento del corpo” che costituisce la Chiesa. Ridare vita alla correzione di Paolo significa dare corpo, nel vivere quotidiano e nella liturgia della cena del Signore, a quella parola biblica così cara ai profeti e a Gesù che si chiama “giustizia”(sedaqah) affinché il rito eucaristico non venga “destoricizzato” ma situato nella vita reale, come era quella di Gesù e dei discepoli»; «La domanda che da Corinto giunge a noi oggi interroga le nostre diverse cene ed eucarestie perché al primato della prassi si è sostituito il primato della confessionalità che crea delle appartenenze ecclesiali chiuse che mettono in ombra l’invito di Gesù che non è esclusivo ma inclusivo. Sapremo correggere i nostri abusi?».

di seguito l’intervento di Ermanno Genre così come pubblicato sul Manifesto 4 Ottobre, portale promosso da alcuni cattolici brindisini che riflettono su Vangelo, Costituzione e vita della Chiesa locale.

 

Una lettera persa

una lettera persa

Tratto da: Adista Documenti n° 32 del 23/09/2017

 

«Caro Paolo, vorremmo tanto poterti rivedere presto, per rinnovare il profondo legame spirituale che ci lega a te. Avremmo bisogno della tua presenza qui a Corinto perché ci troviamo continuamente in mezzo a conflitti. Non sappiamo se riceverai questa nostra lettera ma speriamo che tu possa essere informato da altri della nostra difficile situazione. Non è soltanto il problema del mangiare le carni sacrificate agli idoli che crea divisioni ma il nostro stesso radunarci per celebrare la cena del Signore. Anziché essere momento gioioso della nostra unità in Cristo si sta trasformando in motivo di disprezzo e di divisione verso i più poveri della comunità. Infatti, quando ci raduniamo, vi è chi arriva prima e comincia a mangiare le proprie pietanze mentre altri fratelli che lavorano al porto, addetti al carico e scarico delle merci, ci raggiungono soltanto più tardi, e quando arrivano non trovano più cibo perché il padrone di casa e i primi arrivati si sono rimpinzati oltremisura. Tu ci hai insegnato che  c’è un unico pane, e noi, diversi gli uni dagli altri, siamo un unico corpo, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane che è Gesù Cristo. Ora però la nostra comunione in Cristo è compromessa dall’atteggiamento di alcuni membri della comunità che pensano soltanto a se stessi… Che cosa dobbiamo fare? Aspettiamo con ansia di ricevere il tuo insegnamento e ti salutiamo in Cristo, i fratelli e le sorelle di casa Cloe».

Sappiamo che tra l’apostolo Paolo e i cristiani di Corinto vi è stata una intensa corrispondenza di cui ci è pervenuta soltanto una parte. I conflitti sorti nella Chiesa di Corinto ci sono noti dalle lettere dell’apostolo Paolo e, per quanto possa essere paradossale, è grazie a questi conflitti che siamo venuti a conoscenza delle indicazioni dell’apostolo concernenti la cena del Signore. Infatti gli unici passi del suo epistolario concernenti la celebrazione dell’eucarestia sono entrambi situati nel vivo dei dissensi sorti nella chiesa di Corinto a cui Paolo ha cercato di porre rimedio. Problemi di altri tempi? Si e no. Soltanto una lettura superficiale del testo può farci pensare che il conflitto sorto a Corinto non abbia nulla a che vedere con la nostra realtà di cristiani del 21º secolo. Proviamo a mettere in evidenza il contesto in cui si situano le divisioni dei corinzi che fanno dire a Paolo che la loro cena non è più la cena del Signore. Di qui potremo rileggere autocriticamente le nostre divisioni e domandarci se le nostre celebrazioni non rischino di cadere sotto lo stesso giudizio dell’apostolo. La complessità di questo testo e dei problemi che pone richiederebbe un’ampia trattazione mentre il tempo a nostra disposizione è esiguo; conseguentemente, mi limiterò a concentrare l’attenzione su alcuni aspetti della più complessa questione.

In mezzo ai banchetti

È chiaro a tutti che a Corinto la celebrazione della cena del Signore avviene durante il pasto. A Corinto, come in tutte le Chiese cristiane primitive, l’agape comunitaria è il contesto all’interno del quale si celebra la cena del Signore; non esiste un rito eucaristico isolato, senza il pasto. Ci si incontra attorno a un tavolo, non davanti a un altare. È di qui dunque che occorre partire per cercare di comprendere i dissensi sorti a Corinto. Dissensi che, come appare chiaramente dai duri rimproveri dell’apostolo, non sono innanzitutto di ordine dottrinale, sono dissensi intrecciati con la convivialità, coinvolgono in prima istanza la dimensione delle relazioni sociali e umane interne alla Chiesa. Paolo ha spiegato ai corinzi che quando si radunano nel nome del Signore questa adunanza costituisce il “soma Christou”, cioé “il corpo di Cristo”. Conseguentemente, quando queste relazioni sono compromesse, ne è compromessa anche la celebrazione della cena del Signore che unisce e manifesta questo corpo ecclesiale. Per questo motivo, riassumendo le informazioni ricevute da alcuni cristiani di Corinto, Paolo non ha dubbi: «Quando vi riunite insieme, quello che fate, non è mangiare la cena del Signore» (1Cor 11,20). Per noi moderni la situazione può apparire assurda, dal momento che abbiamo abbandonato il pasto che a Corinto era strutturalmente legato alla celebrazione della cena del Signore. Questa prassi propria dei cristiani di Corinto si iscriveva nel più ampio contesto dei banchetti greco-romani a cui partecipavano anche i cristiani. Una partecipazione che era diventata anch’essa motivo di divisione all’interno della comunità. L’apostolo aveva cercato di porvi rimedio e di ciò ne abbiamo testimonianza nei capitoli 8, 9 e 10 della stessa epistola (si veda, più  dettagliatamente, E. Genre, Gesù ti invita a cena. L’eucaristia è ecumenica, Claudiana, Torino, 2007, 23ss.).

Greci e romani (Plutarco, Senofonte, Giovenale, Marziale, ecc.) ci hanno lasciato numerose tracce della tradizione dei banchetti o simposi a cui avevano normalmente accesso soltanto determinate classi sociali e in cui l’assegnazione dei posti a tavola assumeva una grande importanza; conseguentemente la diversa stratificazione sociale dei commensali costituiva un permanente elemento di tensione. Non mancano, tuttavia, degli esempi in cui si cercava di spezzare queste barriere sociali di esclusione per realizzare delle relazioni di “convivialità filantropica”. Ce ne offre un esempio Luciano di Samosata quando afferma che: «La cosa più bella in un banchetto è l’uguaglianza, e il dio che presiede ai conviti si chiama Spartipari, perché tutti devono avere pari la loro parte» (Lettere Saturnali, 3,32). Vi è una tensione permanente tra appartenenza di classe ed egualitarismo e di questa tensione abbiamo più di una traccia nei testi del Nuovo Testamento. È precisamente in questo contesto sociologico e culturale che Gesù si muove e a cui si ricollegano i Vangeli quando ci presentano l’attività di Gesù e dei discepoli. E questo è anche il contesto in cui la comunità cristiana di Corinto fa i suoi primi passi per definire la propria identità. Il banchetto agapico dei cristiani di Corinto si inserisce dunque come nuovo modello aggregativo nel mondo greco e romano dell’epoca con la sua propria originalità. Occorre pertanto distinguere la prassi degli inviti ai banchetti del mondo greco e romano, che avvenivano per iniziativa privata di persone benestanti con biglietti di invito personali, dall’autoconsapevolezza dei primi cristiani che si riunivano perché si sentivano convocati da Dio stesso a formare una comunità di uguali in cui nessuno è escluso. È questa autoconsapevolezza di essere convocati direttamente da Dio che fa la Chiesa e che pone tutti i partecipanti su un piano di pari dignità. Ma è proprio questo che i corinzi sembrano avere dimenticato.

Come i profeti

«Quando vi radunate insieme, quello che fate, non è mangiare la cena del Signore» (v. 20). Sono parole che hanno l’impronta dei profeti quando annunciano il giudizio su Israele. Qui il giudizio cade sulla comunità riunita per il pasto serale all’interno del quale veniva celebrata la cena del Signore. Questi disordini nelle agapi sono stati un problema che ha creato divisioni in molte comunità nei primi secoli di cristianesimo e i corinzi non sono un’eccezione. Non ci si stupirà che se ne accenni ancora in un testo tardivo che ha trovato spazio nel canone del Nuovo Testamento, la lettera di Giuda, in cui si lancia un’accusa a coloro che «sono delle macchie nelle vostre àgapi» (v. 12). Questi problemi, parallelamente alle mutazioni sociologiche del cristianesimo delle origini e alla clericalizzazione dei ministeri, porteranno ad attribuire al pasto comunitario una semplice funzione “caritativa”, separata dalla celebrazione della cena del Signore. L’agape non sarà più l’incontro (koinonia) della comunità attorno al pasto all’interno del quale si celebra la cena del Signore ma rappresenterà l’azione caritativa verso i poveri e i bisognosi. Il sinodo di Laodicea (tra il 342-381) stabilirà, con il canone 28, il divieto di tenere le agapi nelle chiese (PG 137,765.). Da questo momento le agapi dei cristiani non fanno più parte del contesto liturgico in cui si celebra la cena del Signore ma vengono confinate nello spazio caritativo/diaconale della Chiesa. Noi tutti siamo eredi di questa decisione assunta a Laodicea così come lo siamo della svolta costantiniana. Resta però la domanda: perché l’apostolo Paolo insiste su questo aspetto agapico all’interno del quale si celebra la cena del Signore? Non avrebbe potuto anticipare la decisione di Laodicea e risolvere questi dissensi che si sono protratti per secoli? Io credo che nella difesa che l’apostolo Paolo fa della dimensione agapica della cena del Signore vi sia un motivo teologico che tocca in profondità la natura stessa della Chiesa. Già lo abbiamo in parte anticipato, ma è necessario riprenderlo e approfondirlo.

Nella risposta dell’apostolo ai corinzi notiamo una forte contrapposizione tra la propria cena (to idion deipnon) e la cena del Signore (kuriakon deipnon). E in questa contrapposizione sta il motivo di fondo della critica dell’apostolo. La ricostruzione dell’accaduto non può che essere congetturale. Rinaldo Fabris propone questa ricostruzione: «Nella sala del padrone di casa-triclinio prendono posto gli amici e i clienti del padrone di casa – circa una decina di persone – mentre nell’atrio o peristilio si sistemano tutti gli altri. Dopo la benedizione del pane eucaristico segue il pasto comune con le varie vivande portate dagli ospiti. Alla fine – «dopo aver cenato» – c’è la benedizione del calice eucaristico. È al momento del pasto comune che avvengono le divisioni. I pochi cristiani benestanti e di alto rango consumano fra loro le ricche vivande che hanno portato, mentre «quelli che non hanno niente soffrono la fame e si trovano a disagio” (R. Fabris, Prima lettera ai Corinzi, Paoline, Milano, 144). Questa cornice più che verosimile ci aiuta a capire la reazione dell’apostolo che biasima duramente il comportamento anti-comunitario, anti-ecclesiale dei corinzi, che così facendo, spezzano la dimensione di comunione fraterna e, con essa, la comunione con il Signore della mensa. L’espressione greca ton idion deipnon, la “propria” cena, sta qui ad indicare la privatizzazione di un evento a carattere simbolico che è operativo unicamente nella dimensione del kuriakon deipnon, della cena del Signore, cioè di una comunione che ruota attorno a Gesù Cristo e non alle pietanze. Paolo lo aveva chiarito già nel capitolo 10 della stessa epistola quando aveva invitato i corinzi a prendere le distanze dall’idolatria, dai banchetti pagani, ricordando che «vi è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane» (1Cor 10, 17). È precisamente ciò che i corinzi non sono più in grado di riconoscere con il loro atteggiamento egoistico: «Resta esclusa la convivialità con Cristo, perché si escludono i poveri dalla propria convivialità – commenta Barbaglio –. La celebrazione eucaristica diventa illusoria… È annullato il rapporto di comunione partecipazione con il Signore sotto il segno della cena, perché si annulla il rapporto di comunione e solidarietà con i fratelli bisognosi sotto il segno della cena comune… Dove non c’è Chiesa, intesa quale comunità solidale, non può esserci la cena del Signore» (G: Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, EDB, 1995, p. 573). In altre parole, con il loro comportamento conviviale, i corinzi, senza esserne consapevoli, si sono autoesclusi dalla cena del Signore. Perché vi sia inclusione occorre che chi mangia la “propria” cena riconosca che la condivisione del pane e del vino della cena del Signore, dono di Dio per tutta la Chiesa riunita, richiede il superamento del proprio ego e il rispetto dell’uguaglianza e della fraternità di tutti i membri della comunità.

La “tradizione” e i commenti dell’apostolo

È a questo punto che l’apostolo Paolo cita la “paradosis”, la tradizione della cena del Signore che leggo nella versione interconfessionale (TILC):

«Io ho ricevuto dal Signore quel che a mia volta vi ho trasmesso: nella notte in cui fu tradito, il Signore Gesù prese il pane, fece la preghiera di ringraziamento, spezzò il pane e disse: “Questo è il mio corpo che è dato per voi. Fate questo in memoria di me”. Poi, dopo aver cenato, fece lo stesso col calice. Lo prese e disse: “questo calice è la nuova alleanza che Dio stabilisce per mezzo del mio sangue. Tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me”. Infatti, ogni volta che mangiate da questo pane e bevete da questo calice, voi annunziate la morte del Signore, fino a quando egli ritornerà» (1Cor 11, 23-26).

Questo è quanto Paolo ha ricevuto e che ora ricorda ai corinzi. L’azione della cena del Signore consiste dunque nel “fare”, cioè nel ripetere i gesti compiuti da Gesù in sua memoria. Due volte ricorre l’azione verbale “fare” e due volte “in memoria di me”. Le espressioni temporali “tutte le volte”, “ogni volta”, indicano la ripetitività del rito che i corinzi praticano con regolarità ma che agli occhi dell’apostolo si è trasformato in un anti-rito: «quello che fate, non è mangiare la cena del Signore». Non entro qui nel merito della “memoria”, anamnesis, concetto così importante nella Bibbia ebraica e non a caso presente proprio in queste parole riferite a Gesù e che richiederebbe un’ampia trattazione. Riprenderò invece due considerazioni dell’apostolo come suo commento dopo aver citato la “tradizione”: a) il mangiare il pane e il bere indegnamente dal calice; b) il discernere il corpo (del Signore) che si riallaccia alla situazione che ha provocato scissioni e divisione nella comunità.

a) Mangiare e bere “indegnamente”. Dopo aver citato la tradizione Paolo cerca ora di trarne insegnamento per i corinzi che si sono distanziati da essa creando confusione e divisioni. L’avverbio anaxios che le nostre bibbie rendono con “in modo indegno”, “indegnamente”, non indica le persone bensì il modo di partecipazione; l’indegnità consiste nel fatto che alcuni mangiano “la propria cena” senza più scorgere il legame di solidarietà che li lega alla comunità. Chi si comporta in quel modo si rende «colpevole (enoxos) verso il corpo e il sangue del Signore» (v. 27) perché non riconosce il vincolo della comunione ecclesiale che fa sì che quel mangiare e quel bere siano realmente la cena del Signore. Cristo è realmente presente fra i commensali come corpo spirituale nella comunione (koinonia) dei suoi membri in cui ognuno è parte di un unico corpo. Mangiare “la propria cena” è il modo indegno di partecipare alla cena del Signore perché così facendo si ferisce e si spezza la comunione (koinonia), la comune appartenenza all’unico pane che è Gesù (1Cor 10,17). Di fatto, i corinzi, senza rendersene conto, hanno creato un nuovo rituale che «disprezza la chiesa e umilia coloro che non hanno nulla» (v. 22b), un rituale che ha smarrito la dimensione dell’agape comunitaria e lo ha trasformato in un pasto che non è più “mangiare la cena del Signore” ma un consumare egoisticamente dei cibi che non si situano più sotto la benedizione del Signore perché sono stati portati per sé e non per essere condivisi con i fratelli e le sorelle. Il commento critico dell’apostolo non è di natura sociologica ma teologica e più precisamente cristologica; per superare i dissensi Paolo non propone ai corinzi di istituire un servizio d’ordine, un simposiarca che garantisca l’ordine e il rispetto del rito, come avveniva nei simposi greco-romani. E non pensa neppure di poter risolvere la questione facendo ricorso alla sua autorità di apostolo. No, Paolo fa unicamente riferimento a Cristo, e questo è il motivo per cui ricorda ai corinzi la “paradosis”, la tradizione, di cui egli non è che un anello di trasmissione.

b) Discernere il corpo. Dal ragionamento di Paolo si capisce che il suo interesse non è di tipo sacramentale nel senso con cui lo interpretiamo oggi, legato al pane e al vino, bensì alla nozione di “corpo”. Prima di accostarsi alla cena del Signore i corinzi sono invitati a fare un vero e proprio autoesame (dokimazeto antropos eauton) perché chi prende parte alla cena «senza distinguere il corpo mangia e beve la propria condanna» (v. 29). Questa autoverifica, come emerge chiaramente dal contesto, non riguarda «la sfera dei sentimenti né l’ambito di idee teologiche sul sacramento, bensì – ricorda Barbaglio – la “prassi” conviviale» (Barbaglio, cit., 599 ). Che cosa si deve intendere allora con “corpo”? Le nostre versioni moderne aggiungono spesso “del Signore”, seguendo la variante dei codici che è però un’interpretazione. Fabris sostiene che: «Nel contesto del discorso di Paolo chi non riconosce il corpo equivale a chi “mangia il pane o beve il calice del Signore in modo indegno”, così come chi “mangia e beve la propria condanna” coincide con chi “dovrà rispondere del corpo e del sangue del Signore”. Allora il corpo che non viene riconosciuto è l’unico corpo formato dai partecipanti all’unico pane (1Cor 10, 17). È la “Chiesa di Dio” che viene disprezzata perché i poveri sono umiliati» (Fabris, cit., 153). Dovrebbe essere chiaro dunque che il “corpo” da discernere, da riconoscere, è vivente nella relazione intersoggettiva dei diversi membri della comunità, che devono essere rispettati e non disprezzati e offesi.

L’invito finale dell’apostolo ad aspettarsi si situa in questo stesso orizzonte e si riallaccia a quanto scritto all’inizio del brano:«È necessario che ci siano tra voi anche delle divisioni, perché quelli che sono approvati (dòkimoi) siano riconosciuti tali in mezzo a voi» (v. 19). Chi sono questi “dòkimoi”, cioè “quelli che sanno superare le prove”, come traduce la TILC, se non coloro che sono in grado di distinguere la cena del Signore che raffigura simbolicamente il corpo di Cristo che è la Chiesa da ”toidion deipnon”, da chi pensa solo a se stesso? Le divisioni dunque possono avere anche un valore positivo, terapeutico potremmo dire, nel senso che possono innescare un autentico processo di maturazione. Il verbo greco “dokimazein” nell’antichità veniva anche usato per indicare la purezza di un metallo, purezza che si affermava attraverso la prova del fuoco. Il biasimo dell’apostolo non è un ammonimento moralistico, paternalistico, bensì un richiamo che egli rivolge a dei fratelli e sorelle in fede («fratelli miei», v. 33).

Concludendo pongo ancora alla nostra attenzione due questioni.

La prima. Eredi della decisione di Laodicea, abbiamo ridotto la cena del Signore ad un rito interclassista che non considera più la disparità sociale ed economica una questione teologica. La cena del Signore è diventata sempre più l’atto di una pietà personale privata che non si interroga sul “discernimento del corpo” che costituisce la chiesa. Ridare vita alla correzione di Paolo significa dare corpo, nel vivere quotidiano e nella liturgia della cena del Signore, a quella parola biblica così cara ai profeti e a Gesù che si chiama “giustizia”(sedaqah) affinché il rito eucaristico non venga “destoricizzato” ma situato nella vita reale, come era quella di Gesù e dei discepoli. La giustizia di Dio che perdona e crea vita nuova, nell’effusione del suo Spirito, trasforma la vita dei commensali e li rende capaci di operare secondo giustizia nella chiesa e nel mondo.

La seconda. L’apostolo Paolo ha cercato di correggere la ritualità deviata dei corinzi con un forte invito a riconsiderare la prassi conviviale delle assemblee. Nel cercare di correggere gli abusi dei corinzi, l’apostolo non si è proposto di elaborare una propria “dottrina” della cena del Signore ma ha ricordato le azioni e i gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena in cui era presente anche Giuda. In altre parole la cena del Signore non è la prassi di una “teoria teologica” ma, come ci ricorda Moltmann: «La comunione conviviale con Cristo deriva da un invito fattoci da Cristo stesso, non da un dogma cristologico» (J.Moltmann, La chiesa nella forza dello Spirito, Brescia, Queriniana, 1976, p. 321). La domanda che da Corinto giunge a noi oggi interroga le nostre diverse cene ed eucarestie perché al primato della prassi si è sostituito il primato della confessionalità che crea delle appartenenze ecclesiali chiuse che mettono in ombra l’invito di Gesù che non è esclusivo ma inclusivo. Sapremo correggere i nostri abusi?

come aiutare efficacemente i migranti senza perdere umanità e pietà

noi e i migranti, due alibi da sfatare

aiutiamoli, a iniziare da casa nostra


Francesco Gesualdi

Ci sono due modi di affrontare la questione immigrati: o ponendoci l’obiettivo di toglierceli dai piedi o volendoli aiutare a vivere meglio. In un caso pensiamo solo per noi. Nell’altro ci preoccupiamo di loro. Ad oggi sembra prevalere l’egocentrismo. Ma, sotto sotto, non ci sentiamo a posto e ci siamo fabbricati degli alibi per mettere a tacere la nostra coscienza. La prima giustificazione che ci siamo creati è che l’obbligo di accoglienza vale solo per i rifugiati politici, mentre abbiamo il diritto di respingere i migranti economici, coloro, cioè, che sono in cerca di migliori condizioni di vita.

L’assurdo è che noi stessi siamo terra di emigranti e se questa regola venisse applicata nei nostri confronti dovremmo aspettarci l’espulsione di ben quattro milioni di connazionali sparsi per il mondo. Da sempre abbiamo considerato la libertà di movimento un diritto inalienabile e se volessimo negarlo proprio oggi che abbiamo messo merci e capitali in totale libertà, dimostreremmo di tenere in maggior considerazione le cose delle persone. Ma forse il punto è proprio il sovvertimento dei valori: la ricchezza ci ha accecato a tal punto da avere inaridito la nostra umanità. L’attenzione tutta rivolta alla roba, abbiamo perso il senso del rispetto e della giustizia, la capacità di compassione, perfino di pietà.

E non ci rendiamo conto che più sbarriamo le porte, più inneschiamo situazioni perverse che ci sfuggono di mano. Diciamocelo: i migranti che scelgono la via del deserto non sono né masochisti, né amanti dell’illegalità. Sono dei forzati alla clandestinità perché le vie di ingresso ufficiali sono precluse. Se potessero arrivare in aereo con regolare passaporto, sarebbero ben felici di farlo. E se in Italia non trovassero lavoro, non ci rimarrebbero. Se ne andrebbero dove il lavoro c’è, perché la loro vocazione non è né quella dell’accattonaggio, né del brigantaggio. Sono persone in cerca di un lavoro per mantenere le famiglie rimaste a casa. Che le cose stiano così lo sappiamo molto bene anche noi, tant’è che il secondo alibi che ci siamo creati è che dobbiamo aiutarli a casa loro. E se lo diciamo è perché abbiamo ben chiaro che nessuno di loro affronta un viaggio così pericoloso per fare una passeggiata, ma per sfuggire a un destino crudele ora dovuto alle guerre, ora alla repressione politica, ora alla mancanza di prospettiva di vita.

Ciò che non diciamo è che questa situazione l’abbiamo creata noi attraverso 500 anni di invasioni, massacri, ruberie. La storia, alla fine presenta sempre il suo conto. L’emigrazione africana non è figlia di una sciagura transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo stati e siamo ancora parte attiva, addirittura i suoi artefici. Per risolverla, dunque, è da qui che dobbiamo partire: dal nostro assetto produttivo e di consumo, dai nostri obiettivi economici, dai nostri rapporti commerciali, dal nostro assetto finanziario, dal nostro sostegno ai sistemi corruttivi e di rapina. Lo slogan giusto è «cambiamo le cose qui affinché cambino là». Per partire dovremmo porre uno stop serio alla vendita di armi e subito dopo dovremmo avviare nuovi rapporti economici.

Dovremmo stipulare accordi commerciali che garantiscono prezzi equi e stabili ai produttori, dovremmo imporre stabili divieti alla finanza speculativa sulle materie prime, dovremmo smetterla con accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e a prendersi le loro terre, dovremmo punire le nostre imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere globali, dovremmo smetterla di imporre accordi commerciali che favoriscono i nostri prodotti e distruggono le loro economie, dovremmo vigilare da vicino gli investimenti esteri delle nostre imprese per impedire comportamenti corruttivi a vantaggio di pochi capi locali che accumulano fortune nei paradisi fiscali. Delle 181mila persone disperate sbarcate sulle nostre coste nel 2016, il 21% erano nigeriani.

Eppure, grazie al petrolio, la Nigeria è una delle più grandi economie africane. Ma anche una delle più corrotte. Secondo Lamido Sanusi, già governatore della Banca centrale nigeriana, nei soli anni 2012-13 sono stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio alle compagnie internazionali, Eni compresa. Quei soldi sottratti ai nigeriani sono finiti sui conti cifrati aperti da personalità di governo in Svizzera, a Londra e in vari paradisi fiscali. Con la complicità di grandi banche internazionali. E non solo. Anche di Stati e Governi poco vigilanti, e l’Italia non è affatto esclusa. È proprio il caso di dire «aiutiamoli cominciando a cambiare a casa nostra».

l’Europa si deve vergognare di fronte ai migranti

migranti

il disonore dell’Europa

Dan Kitwood via Getty Images

Porti chiusi, muri alzati, frontiere blindate, quote disattese, risorse finanziarie lesinate. Europa e onore sul fronte migranti è un ossimoro. Tragico perché riguarda la vita e la morte di centinaia di migliaia di profughi. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker rende omaggio per l’impegno praticato nel salvataggio e nell’accoglienza dei migranti. Un atto dovuto, meritato. Ma l’Italia non ha potuto salvare l’onore dell’Europa, perché esso non esiste.  

L’Europa degli Orban, del “fronte dell’Est” che in ogni vertice ha sempre remato contro ogni proposta che avesse anche una lontana parvenza con principi quali solidarietà, condivisione, inclusione. Il vento dell’Est, e del Nord, ha spazzato via ogni politica europea che ponesse al proprio centro il superamento degli aspetti più anacronistici del Trattato di Dublino e ponesse all’ordine del giorno, come più volte richiesto dall’Italia, il tema del diritto d’asilo europeo.  

L’Europa non ha onore da salvare ma solo vergogna da manifestare se i suoi leader fossero capacità di una sana autocritica. Così non è. E ciò non riguarda solo gli ultranazionalisti alla Orban. Perché la mancanza di onore, e di solidarietà, si sono manifestati anche da chi sembrava voler incarnare un rinnovato europeismo.  

Un esempio: Emmanuel Macron. Al di là degli inni alla gioia e alle dichiarazioni di principio, nei fatti, che poi sono quelli che contano, il giovane inquilino dell’Eliseo, in caduta libera nei sondaggi, ha mantenuto un atteggiamento quanto meno ambiguo nei confronti dell’emergenza che ha investito l’Italia. Appena insediato all’Eliseo, il neopresidente aveva promesso che non avrebbe lasciato soli i vicini di casa. Nei fatti, non solo ha negato l’approdo nei suoi porti delle navi delle Ong ma come il suo predecessore Hollande esercita un rigido controllo sulla frontiera di Ventimiglia, rispedendo quotidianamente in Italia decine di stranieri che tentano di entrare in Francia di soppiatto.  

Parigi si attiene infatti a due accordi. Il primo è quello di Dublino sottoscritto nel 2003 anche dall’Italia, in base al quale le domande di asilo devono essere esaminate dal Paese su cui il migrante mette piede. Dunque dall’Italia; l’altra è il già citato accordo sui ricollocamenti, che riguarda appunto chi ha diritto alla protezione internazionale e non tutti i migranti indistintamente. Al tirar delle somme il criterio è: sì a più fondi all’Italia ma no all’accoglienza di migranti sul suolo francese.

Lo spettro che Parigi vuole tenere alla larga è quello di una nuova Calais, la sterminata baraccopoli dove vivevano i migranti decisi a passare in Gran Bretagna. Un passo indietro nel tempo. Venticinque giugno 2015. È stato uno scontro “violento”, secondo chi vi ha assistito. Durante il dibattito al Consiglio europeo sulla nuova politica Ue dell’immigrazione, (l’allora) presidente del Consiglio Matteo Renzi avrebbe duramente attaccato i colleghi che si sono espressi contro l’obbligatorietà della ripartizione dei richiedenti asilo da Italia e Grecia.

“Se non siete d’accordo sui 40 mila non siete degni di chiamarvi Europa”, avrebbe detto il premier, secondo quanto si apprende da una fonte, per poi aggiungere “se questa è la vostra idea di Europa, tenetevela. O c’è solidarietà, o non fateci perdere tempo”.

“Non accettiamo nessuna concessione: o fate un gesto anche simbolico oppure non preoccupatevi: l’Italia può permettersi di fare da sola. È l’Europa che non può permetterselo”, è l’atto di accusa di Renzi ai leader europei.

Il premier ha poi continuato: “Mi emoziono davanti all’Europa. Sono figlio di questa storia. Mi emoziono pensando che domani sarà qui Delors. Ma non accetterò mai che questa discussione sia così meschina e egoista. Abbiamo fondato l’Europa perché avevano ideali. Ho pianto per il muro di Berlino, ho pianto per Srebrenica. Credo in un ideale. Non accetterò mai un compromesso al ribasso”, ha affermato il premier stando a quanto riferisce chi era presente all’incontro e che parla anche di un durissimo scontro con la presidente lituana Grybausakaite.

Di tempo se n’è perso d’allora, mentre a crescere è stato il bilancio delle vittime affogate nel Mediterraneo o morte nel deserto o sulla rotta balcanica. Due anni dopo, e tanti inutili vertici Ue, il ricorso contro le “quote” sui richiedenti asilo da ospitare è stato bocciato dalla Corte di Giustizia europea. Un sistema che consisteva nel trasferimento di circa 160mila richiedenti asilo da Italia e Grecia in Europa, in base a una quota rispetto alla popolazione e alla situazione economica di ogni paese. Tra coloro che avevano partecipato al ricorso c’erano Ungheria, Slovacchia e Polonia che hanno accolto pochissimi richiedenti e ora rischiano di essere multati. Non ha funzionato granché dunque il programma di relocation, dato che nell’arco di due anni sono stati trasferiti solo il 16,6% della quota prevista.

L’Italia avrà pure “salvato l’onore dell’Europa”, ma di certo l’Europa ha sbattuto i porti in faccia all’Italia. Tallinn, 6 luglio 2017, vertice dei ministri dell’Interno dei Paesi Ue. Proprio il Belgio dice no all’accoglienza dei migranti con una dichiarazione diTheo Francken, ministro per l’Asilo e politica migratoria belga: “Non credo che apriremo i nostri porti”. Lo stesso vale per l’Olanda che si defila dichiarando che aprire i porti non risolve il problema.

Siamo alla fiera delle ipocrisie. Per la verità storica, un atto unitario l’Europa l’ha compiuto. Ma di onorevole in esso non c’è proprio nulla. È l’accordo con la Turchia del presidente-autocrate Recep Tayyp Erdogan.

“L’accordo fra Ue e Turchia ha portato migliaia di rifugiati e migranti a vivere in condizioni squallide e pericolose, e non deve essere riprodotto con altri Paesi”. È il giudizio con cui Amnesty International condanna il patto fra Ankara e Bruxelles che il 16 marzo 2017 ha compiuto un anno.

Uno semplice scambio: per garantire i controlli sulle coste dell’Egeo da parte della Guardia Costiera turca, il governo di Erdogan avrebbe ricevuto 3 miliardi di euro per accogliere i migranti prima che potessero arrivare in Europa e altri 3 miliardi di euro se i primi non fossero stati sufficienti.

E così è stato:

“Nel 2015 circa 800.000 rifugiati sono arrivati sulle isole greche, mentre nei dieci mesi trascorsi dall’accordo il numero è sceso a 27.000”, dice l’autrice del rapporto di Amnesty Irem Arf . “Il problema è che mentre prima del patto i migranti venivano immediatamente trasferiti dalle isole greche alla terraferma, ora rimangono bloccati come in un limbo in attesa di un ritorno in Turchia. Le isole Lesbos, Samos e Kos sono particolarmente sovraffollate”.

Dalla Grecia sono state spostati in altri Paesi europei solo 9.610 profughi dei 160mila previsti dal programma di ricollocamento dell’Agenda europea sull’immigrazione del maggio del 2015. Da Amnesty a Medici Senza Frontiere.

Il rapporto di MSF:

“A un anno dall’accordo UE-Turchia: sfidare i ‘fatti alternativi ‘dell’UE sfata, sulla base della realtà dal campo, tre grandi “fatti alternativi” (o false verità) che l’UE attribuisce all’accordo, ovvero che offre ai migranti un’alternativa per non rischiare la vita, che le condizioni delle isole greche sono abbastanza accettabili per sostenere l’attesa della procedura di asilo, che l’accordo rispetta i principi fondamentali dei diritti umani. In realtà le condizioni e le conseguenze dell’accordo, che ricompensa la Turchia perché “blocchi l’afflusso” di migranti e rifugiati e accetti le persone respinte dalle coste greche, sono ben diverse, come le nostre équipe testimoniano ogni giorno in Grecia e sulla rotta balcanica. Dopo un anno dalla sua entrata in vigore, uomini, donne e bambini sono bloccati in zone non sicure al di fuori dell’Europa da cui non possono scappare, costretti a rotte sempre più pericolose per raggiungere il continente o intrappolati in hotpsot sovraffollati sulle isole greche, dove vivono in condizioni inadeguate. “L’accordo sta avendo un impatto diretto sulla salute dei nostri pazienti, molti di loro sono sempre più vulnerabili”, afferma Jayne Grimes, psicologa di MSF a Samo. “Queste persone sono scappate da situazioni di violenza estrema, tortura e guerra e sono sopravvissute a viaggi molto pericolosi. Hanno subito violenze e sofferenze alle frontiere dell’Europa. E il loro stato psicologico è aggravato dalle precarie condizioni di vita e dalla mancanza di informazioni sul loro status giuridico. Stanno perdendo qualunque speranza di trovare un futuro più sicuro, migliore di quello da cui sono scappati”.

E il brutto è che l’Europa ha intenzione, dichiarata, di moltiplicare questo “modello”, in Libia ad esempio. Davvero di male in peggio. “Chiedere l’eliminazione della detenzione dei bambini” migranti in Libia, è un punto su cui l’Ue dovrebbe battere nei suoi negoziati con le autorità del Paese. “Un primo passo, a cui farne poi seguire altri”. La richiesta proviene dal direttore regionale per l’Europa dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) Eugenio Ambrosi al lancio del rapporto “Viaggi strazianti“, condotto in collaborazione con l’Unicef, che contiene le testimonianze di 22mila migranti, di cui 11mila minori.

L’Unicef critica le misure per contenere i flussi dei migranti verso l’Europa, fermandoli in Libia. Sono “inaccettabili” secondo Sandie Blanchet, direttrice dell’ufficio Unicef di Bruxelles, che, rispondendo alla conferenza stampa per il lancio del rapporto, aggiunge: “è chiaro che non si tratta di un luogo sicuro per i bambini e le loro famiglie”.

Juncker si è guardato bene, infine, da dare una risposta, anche un accenno, alla lettera aperta inviata il 6 settembre da MSF leader degli Stati membri e alle istituzioni dell’Unione Europea per denunciare leatroci sofferenze che le loro politiche sulla migrazione stanno alimentando in Libia.

“La detenzione di migranti e rifugiati in Libia è vergognosa. Dobbiamo avere il coraggio di chiamarla per quello che realmente è: un’attività fiorente che lucra su rapimenti, torture ed estorsioni” sottolinea un passaggio della lettera aperta di MSF, firmata dalla dott.ssa Joanne Liu, presidente internazionale di MSF, e da Loris De Filippi, presidente di MSF in Italia “Le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. La loro disperazione è sconvolgente”. E ancora: “La Libia è solo l’esempio più recente ed estremo di politiche migratorie europee che da diversi anni hanno come principale obiettivo quello di allontanare le persone dalla nostra vista. Tutto questo toglie qualunque alternativa alle persone che cercano modi sicuri e legali di raggiungere l’Europa e le spinge sempre più in quelle reti di trafficanti che i leader europei dichiarano insistentemente di voler smantellare. Vie legali e sicure perché le persone possano raggiungere Paesi sicuri sono l’unico modo per proteggere i diritti delle persone in fuga, assicurare un controllo legale delle frontiere europee e rimuovere quei perversi incentivi che consentono ai trafficanti di prosperare”.

Per MSF:

“Le persone intrappolate in queste ben note condizioni da incubo hanno disperato bisogno di una via di uscita. Devono poter accedere a protezione, asilo e quando possibile a migliori procedure di rimpatrio volontario. Hanno bisogno di un’uscita di emergenza verso la sicurezza, attraverso canali sicuri e legali”.

Canali umanitari, diritto d’asilo europeo, una vera politica di cooperazione con i Paesi africani di origine e di transito dei migranti. Una politica fondata sul rispetto dei diritti umani e della dignità della persona… Questo significherebbe per l’Europa “salvare l’onore”. Ma più che una speranza, è una illusione se l’onore è affidato a quanti questo “onore” hanno calpestato.

Rita e Carla – una vita intera condivisa e vissuta tra i sinti ei rom

Torino
La comunità delle Suore da quarant’anni vive tra i sinti e rom

una presenza ecclesiale profetica

una testimonianza di Pio Caon:

Sono passati quasi 40 anni da quando la Comunità delle Suore Luigine di Alba ha deciso di vivere direttamente tra i Sinti e Rom nelle periferie torinesi.
La loro prima dimora è stata una vecchia carovana.
Era la fine degli anni 80. Poi a seguire altre sistemazioni in roulottes e baracche. Infine, in questi ultimi anni, una modesta casetta in muratura, nell’accampamento di Via Germagnano.
Una presenza di Chiesa profetica : accoglienza e rispetto del diverso.
Ogni giorno le suore hanno sperimentato, nell’incontro con i Sinti e Rom, il desiderio di rappresentare il Gesù che accoglie, che non allontana, che ascolta, perdona e non condanna.
Una presenza che non separa i buoni dai cattivi, i giusti da chi sbaglia.
Quarant’anni vissuti all’insegna dell’ accoglienza e della concreta attenzione con chi vive la sofferenza dell’emarginazione, con chi si trova in carcere, con chi è legato alle dipendenze, con chi vive situazioni di dolore e fatica.
Condivisione della cultura, lingua e tradizione del popolo sinto e rom
Vivendo tra i Sinti e Rom, le suore hanno fatto propria e rispettato la cultura nomade assumendone in pieno sfaccettature, valori e contraddizioni.
” Comunità – ponte ” tra due culture e mentalità.
La loro presenza è stata quella che il ministero missionario richiede: partecipare pienamente alla vita di un popolo vivendone le medesime condizioni sociali e culturali per poi rendere sensibili le comunità civili e cristiane a partire dal loro incontro.
Le suore infatti, oltre a vivere la vita nomade, hanno partecipato attivamente alla vita ecclesiale torinese. Le loro dimore hanno accolto indistintamente cattolici, ortodossi, mussulmani, atei.
Le porte delle loro baracche sono state aperte a tutti coloro che si avvicinavano, dal nomade al sedentario, ricco o povero, dal Sindaco di una grande città al cittadino comune, dal Vescovo all’ ultimo cristiano. Chiunque entrava nella loro carovana ne usciva beneficiato. Ciascuna persona ha sperimentato l’accoglienza, il dialogo, il confronto e la fiducia.
Chi si è seduto alla loro tavola non è uscito senza un caffè, un thè, un pasto o semplicemente un assaggio del loro cibo o un bicchiere d’acqua. Ma soprattutto attingendo dalla loro esperienza e arricchendosi della loro testimonianza.
Quarant ‘ anni all’insegna della sobrietà
Fin dall’inizio suor Carla e suor Rita hanno avvertito l’esigenza di vivere tra Sinti e Rom con uno stile di vita essenziale, esigente e sobrio.
Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo, le cose e i beni.
Il loro stile di vita silenzioso condannava l’ostentazione della ricchezza, sia dei Rom sia dei gagè, quando questa si esprimeva in beni di lusso, privilegi o scelte di potere.
Le diversità possono vivere insieme
La presenza di queste suore nel campo, in questi quarant’anni, lascia a chi le ha conosciute e a tutta la comunità civile e religiosa un grande messaggio: l’incontro con il diverso è possibile.
La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza.
Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è assicurata.
Ma ogni volta le suore hanno saputo ricominciare, come l’erba che si piega al vento, anche se a volte il prezzo da pagare è stato alto.
Le vostre idee camminano
Dalle righe di questo giornale vorremmo dire grazie alla Comunità delle Suore perché le loro idee camminano e vanno oltre l’esperienza, che la loro presenza ha fatto riflettere i Sinti e Rom perchè si sono sentiti amati, che la loro scelta ha incoraggiato tanti sedentari a mettersi in gioco e molti cristiani a verificare la via del confronto e dell’impegno, senza lasciarsi prendere dallo scoraggiamento.
Suor Rita e Suor Carla ci hanno insegnato che realizzare un “sogno” è ancora possibile
Pio Caon
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