come calpestare spudoratamente la sofferenza di due suore generose per demonizzare il popolo rom

 ogni giornalista lo sa: un messaggio si fa passare mettendo un titolo ad effetto anche se non rispondente al vero e una conclusione che ribadisca il messaggio desiderato (come il calcio dell’asino!): è perfetto a questo scopo l’articolo di ‘secoloditalia’ sulle due suore che a Torino dopo una vita dedicata ai rom, ricevendone reciprocamente stima e affetto, lasciano ora il campo per una situazione di grave abbandono da parte delle istituzioni amministrative e dell’ordine pubblico: articolo che strumentalizza spudoratamente  questa situazione per far passare il messaggio che le due suore tirino i remi in barca deluse e frustrate dal popolo rom che pensavano redimibile e invece si rendono conto – finalmente . che tutto era e resta “inutile”! La conclusione  dell’articolo non è che la ciliegina che dà il tocco di completezza al messaggio!
di seguito l’articolo uscito su ‘secoloditalia’:

anche le suore si arrendono:

“non aiuteremo più i rom, è inutile…”

Anche le suore si arrendono: “Non aiuteremo più i rom, è inutile…”

La loro storia mette tristezza e allo stesso tempo fa riflettere. Dopo 38 anni di volontariato nei campi rom di Torino, due suore, ormai anziane ma ancora attivissime, hanno deciso di ritirarsi, di non aiutare più i nomadi in quell’ambiente diventato pericoloso e ingestibile. Troppa prepotenza, arroganza, bugie su bambini mandati a scuola e invece tenuti al pascolo, risate contro i volontari, considerati intrusi. La vicenda, raccontata dalla Stampa, riguarda le suore Luigine, religiose, sorelle, 78 e 77 anni, dedite per una vita ad aiutare i sinti e i rom, negli ultimi quindici anni in via Germagnano, nel campo più importante di Torino.

“Troppe prepotenze e nessun ruolo dei genitori”

«Lì vivono 30 famiglie con la residenza, da cinque-sei anni quel campo vive un momento brutto. Le pietre lanciate di notte contro la roulotte di un poveretto da ragazzi, sono il segno che mancano i genitori, che non c’è più autorevolezza. La scuola è trascurata, i ragazzi non ci vanno, i genitori non insistono. Il pulmino che li portava non c’è più e per le famiglie è difficile accompagnarli: se li mettono sul furgone capita che appena usciti dal campo prendano la multa. Poi, l’impressione è che il diploma di terza media venga dato con una facilità che non è educativa”, è la sintesi del pensiero delle due suore raccolto dalla Stampa. Ma cos’è accaduto di così grave da far allontanare le due religiose? “Cinque-sei anni fa è arrivata gente che minacciava, bruciava le case, poi le occupava. Ora piazzano i camper dentro l’area, se ci sono controlli se ne vanno. Alcune famiglie in regola se ne sono andate. Noi – tengono a ribadire – non siamo andate via per i rom, ma per l’abbandono: nonostante questa situazione che colpisce i deboli, là non vanno più né vigili, né cooperative. I volontari vengono derisi. Ci avevano detto, in caso di necessità di chiamare la polizia, finito l’orario dei vigili, ma in sei mesi non è mai arrivata”.

Se si sono arrese loro, figuriamoci chi non ha l’aiuto della fede…

fonte: secoloditalia

i suoi denigratori lo definiscono poco teologo, in realtà …

papa Francesco segreto

nelle omelie a Santa Marta il suo vero pensiero

di Marco Politi
in “www.ilfattoquotidiano.it” del 27 luglio 2017

C’è un aspetto nascosto dell’impegno di papa Francesco, perché si svolge lontano dalle telecamere e dai giornalisti. Dunque non è “visibile” all’opinione pubblica. E’ uno spazio che Jorge Mario Bergoglio si è riservato per evitare che la sua attività di leader della Chiesa cattolica e di capo di Stato soffochi la sua dimensione di parroco. Si tratta delle messe mattutine, che celebra nella residenza Santa Marta dinanzi ad una trentina di persone, fedeli di parrocchie romane o pellegrini venuti dall’estero. “Nascosto” non vuol dire segreto, perché le messe sono documentate. Ma rispetto alla cronaca quotidiana, basata sulle immagini, questo aspetto di Francesco rimane quasi nell’ombra. E invece le sue omelie da parroco, meno altisonanti di quelle pronunciate davanti alle folle, sono estremamente interessanti per capire il nucleo del pensiero di Francesco e la visione che lo accompagna nel suo sforzo di riforma della Chiesa. I critici del pontefice tendono a dipingerlo come “poco teologo”, mentre in realtà le sue parole volutamente semplici e comprensibili ad un uditorio vasto sono sorrette da un pensiero complesso.

Un pensiero orientato a cogliere le sfide, che il grande mutamento dovuto alla secolarizzazione pone alla vecchia “Chiesa del catechismo” e della tradizione fossilizzata. Questa Chiesa è diventata in larga parte estranea alle giovani generazioni, che silenziosamente – senza contestazioni – si pongono fuori campo, e il Papa, per usare un’immagine, è come un seminatore che lancia semi di riflessione.

 

Gianpiero Gamaleri, sociologo e docente di Scienze della comunicazione in università laiche ed ecclesiastiche (tra l’altro è membro del Cda del Centro Televisivo Vaticano), segue da tempo il Bergoglio delle celebrazioni mattutine e ad esse ha dedicato un attento monitoraggio, ricco di commenti, raccolto in un volume intitolato “Santa Marta – Omelie” (ed. Libreria Editrice Vaticana). “Papa Francesco – sottolinea – è sensibilissimo agli eventi”. E in questa capacità di tenere insieme l’attenzione ai fatti del mondo contemporanea, gli episodi del Vangelo e l’afflato religioso sta certamente il segreto della comunicatività dell’attuale papa. Si prenda solo la predica di una mattinata di marzo del 2016. “Tre giorni fa è morto uno, qui, sulla strada, un senzatetto: è morto di freddo. In piena Roma, una città con tutte le possibilità per aiutare. Perché, Signore? Neppure una carezza… Ma io mi affido, perché Tu non deludi. Signore non ti capisco. Questa è una bella preghiera. Ma senza capire mi affido nelle tue mani”. C’è tutto. L’esortazione a non chiudere gli occhi dinanzi alle tragedie quotidiane, la “teologia della non comprensione del silenzio di Dio”, l’affidamento in Cristo che viene dalla fede. La Chiesa a cui pensa Francesco, anzi come dice lui il “Regno di Dio”, non si affida alla “religione dello spettacolo… sempre (alla ricerca di ) cose nuove, rivelazioni, messaggi… Fuochi d’artificio che illuminano per un momento”. (Per chi vuole capire è un’archiviazione delle multirivelazioni di Medjugorie).

Il Regno di Dio non è una “struttura ben fatta, tutto in ordine, organigrammi ben fatti… ”. E’ qualcosa che si costruisce nella quotidianità, il prodotto di un cammino, una crescita. La rigidità non serve e nemmeno il “fissismo” (Bergoglio inventa spesso parole). Credere nello Spirito Santo significa “andare avanti”, mentre i Dottori della Legge “incantano” con le ideologie. E’ evidente che un simile approccio risulti destabilizzante per i fautori di una dottrina concepita come legge e ordine e di una Chiesa militarmente organizzata. Emergono in queste omelie – in parte preparate, in parte sviluppate a braccio – molte esperienze dirette di Bergoglio. Come lo squarcio sulla “fila di mamme nelle carceri di Buenos Aires… donne (che) soffrivano non solo la vergogna di essere lì, ma anche le più brutte umiliazioni nelle perquisizioni che venivano fatte loro prima di entrare…”.
Molti altri impulsi si colgono in queste prediche. La ripulsa per la corruzione, la valorizzazione del dubbio (anche Giovanni il Battista, ricorda Francesco, ha dubitato), l’esigenza che il perdono sia totale e dunque comporti che gli altri dimentichino il peccato commesso, l’importanza che la fede cristiana sia caratterizzata da “gioia” e “stupore”, mai da routine. La denuncia definitiva che il terrorismo, che si ammanta di religione, è “satanico”. Il giorno della morte di padre Jacques Hamel, sgozzato in Francia da adepti dell’Isis, Francesco esclama da leader religioso (e geopolitico): “Quanto piacerebbe che tutte le confessioni religiose dicessero ‘Uccidere in nome di Dio è satanico!’. Gli input, che vengono dalle omelie di Santa Marta, vanno in tutte le direzioni. Gamaleri rileva che il messaggio di Francesco ha un richiamo universale. Di certo i sondaggi confermano che il papa argentino parla al di là di frontiere confessionali e filosofiche.

le ‘suore luigine’ lasciano a Torino il campo rom ma non i rom

le suore lasciano i campi rom

“troppi prepotenti, costrette a mollare dopo trentotto anni”

le religiose:
“in via Germagnano serve la presenza delle forze dell’ordine e degli educatori”

suor Rita e suor Carla sono suore Luigine, una congregazione nata nel 1915 ad Alba

dal 1979 sono vissute prima tra i sinti e poi tra i rom della ex Jugoslavia

maria teresa martinengo

«vi chiudiamo dentro, così non andate via. Se ve ne andate questo campo non sarà più come prima»,

ha detto un capofamiglia rom a Rita e a Carla. Ma loro, le suore Luigine che hanno vissuto 38 anni nei campi nomadi di Torino, con le lacrime agli occhi un mese fa hanno lasciato la loro casetta di via Germagnano. «Avremmo voluto restare, ma la nostra età e le condizioni del campo non lo permettevano più», raccontano le religiose, sorelle, 78 e 77 anni. Una frase a testa, con serenità e malinconia insieme, le suore Luigine che ai sinti e ai rom hanno dedicato la vita, dando una mano con i bambini, con le medicazioni, con la burocrazia, raccontano.  

PRESENZA AMICA  

«La nostra è stata e continua ad essere, perché siamo già tornate più volte, una presenza di amicizia, condivisione di vita». Dal 1979 in via Lega, tra i sinti, poi all’Arrivore, gli ultimi quindici anni in via Germagnano. «Ma il campo comunale di via Germagnano, dove vivono 30 famiglie con la residenza, da cinque-sei anni vive un momento brutto. L’abbiamo detto in Comune: l’abbandono in cui versa è un segnale negativo per i rom prima di tutto». Le suore, che raramente si sono espresse in tutti questi anni, ammettono che «le pietre lanciate di notte contro la roulotte di un poveretto da ragazzi, sono il segno che mancano i genitori, che non c’è più autorevolezza». La scuola è trascurata. «I ragazzi non ci vanno, i genitori non insistono. Il pulmino che li portava non c’è più e per le famiglie è difficile accompagnarli: se li mettono sul furgone capita che appena usciti dal campo prendano la multa. Poi, l’impressione è che il diploma di terza media venga dato con una facilità che non è educativa».   

TROPPI PREPOTENTI  

Rita e Carla hanno pianto. «Saremmo rimaste, ma non aveva più senso stare in un posto di cui non si cura più nessuno. Per un po’ ci siamo fermate a pensare alla proposta che i sinti di via Lega, di fronte a via Germagnano, ci hanno fatto. Ci volevano di nuovo con loro, si sarebbero accollati la spesa per comperarci una casa mobile. Ma alla nostra età non avrebbe avuto senso. Così abbiamo accettato la casa che don Ciotti ci ha offerto», spiega Rita. «Certo – aggiunge la sorella, guardandosi intorno nell’appartamento dove si trovano provvisoriamente – per noi come per i rom è difficile abituarci a una casa. Il campo è un’altra vita. Al mattino presto là c’era sempre qualcuno che gridava se volevamo un caffè…».  

I problemi sono arrivati dai prepotenti. «Cinque-sei anni fa è arrivata gente che minacciava, bruciava le case, poi le occupava. Ora piazzano i camper dentro l’area, se ci sono controlli se ne vanno. Alcune famiglie in regola se ne sono andate. Noi – tengono a ribadire – non siamo andate via per i rom, ma per l’abbandono: nonostante questa situazione che colpisce i deboli, là non vanno più né vigili, né cooperative. I volontari vengono derisi. Ci avevano detto, in caso di necessità di chiamare la polizia, finito l’orario dei vigili, ma in sei mesi non è mai arrivata».  

LAVORO PER LE DONNE  

Per Rita e Carla un’altra estate là non sarebbe più stata possibile. Se avessero lasciato la casetta per qualche settimana di riposo, al ritorno probabilmente avrebbero trovato brutte sorprese. Per far sì che il Comune potesse assegnarla a una famiglia in regola e bisognosa, e non venisse, al contrario, occupata da prepotenti, le suore sono rimaste fino all’ultimo: «Mentre uscivamo – ricordano – è entrata una giovane coppia in attesa di un bimbo». Così anche le famiglie vicine in regola sono state protette. «C’era chi ci diceva: se la vostra casa se la prendono “quelli là” noi dovremo andare via». Rita e Carla le loro idee per restituire a via Germagnano un po’ di dignità le hanno spiegate in Comune: «Presenza delle forze dell’ordine, subito, lavoro educativo nel campo. E lavoro per le donne». 

le religioni si aprono ad una nuova conprensione della sessualità

gay e credente, ora si può

i monoteismi cambiano (il) sesso

nel mondo sembra cambiare l’approccio delle religioni nei confronti dell’omosessualità, con conseguenze rivoluzionarie: i monoteismi, ormai, non sono più intenti a dare regole sessuali e a definire i ruoli maschili e femminili, ma sono impegnati a definire, di volta in volta, il rapporto tra il fedele e le innovazioni tecnologiche, sociali, culturali e ambientali.

di Sara Hejazi

Negli Stati Uniti, secondo i dati statistici raccolti dal Pew Research Center nel giugno del 2017, gli ultimi quindici anni hanno visto un forte aumento del favore con cui l’opinione pubblica accoglie, immagina e pensa alle unioni tra persone dello stesso sesso. Questa apertura è stata indagata anche in base all’appartenenza religiosa degli intervistati. L’84% dei buddhisti era a favore delle unioni omosessuali, seguiti dal 77% degli ebrei, dal 68% degli hinduisti, dal 57% dei cristiani cattolici e dal 42% dei musulmani.

A New York, la MCCNY (Metropolitan Community Church of New York) è solo una delle tante comunità religiose LGBTQ, la cui chiesa, durante i sermoni delle domenica tenuti dal reverendo Edgar che si autodefinisce “queer”, è gremita di fedeli.

Questo significa che negli ultimi due decenni l’omofobia è – in genere e in certe aree del Nord America e dell’Europa – diminuita a favore di una maggiore accettazione delle differenze negli orientamenti sessuali. La tendenza si riflette anche nella sfera del religioso, dove le comunità confessionali di fedeli LGBTQ sono strutturate in modo da adempiere tutte le funzioni sociali tradizionalmente svolte dalla parrocchia di quartiere: si prega, si interpretano le scritture, si dona cibo, si accolgono i rifugiati, si dà una mano a chi perde il lavoro e infine si celebrano matrimoni omosessuali secondo il rito religioso della tradizione.

Ma cos’è una comunità religiosa LGBTQ?

E’ un gruppo di persone che frequenta una chiesa, un tempio o una sinagoga e – in minor misura una sala di preghiera islamica – non solo in base al proprio credo, ma anche al proprio orientamento sessuale. Sono due, insomma, le identità a cui si fa riferimento: quella sessuale e quella spirituale.

Il binomio “religione e omosessualità” un tempo costituito da due termini in opposizione, si sta insomma, trasformando in qualcosa di nuovo: si può essere LGBTQ e praticanti, anche rimanendo dentro ai monoteismi tradizionalmente omofobi, come il Cristianesimo, l’Ebraismo e persino – seppur in forma minore- l’Islam, perché le religioni, che non sono sistemi fissi, cambiano come cambiano le culture.

1. Confini che si spostano. Religioso e secolare, pubblico e privato, monoteista e LGBTQ.

Cosa determina questo cambiamento? Il fatto che né la monogamia, né l’eterosessualità sono oggi comportamenti rilevanti economicamente e culturalmente per i nostri sistemi sociali complessi, nonostante lo siano stati per circa tredicimila anni, dalla rivoluzione del Neolitico in poi.

Antropologicamente parlando, la nostra è una specie promiscua per natura e nella preistoria la promiscuità è servita a tenere insieme le orde di ominidi prima ancora che fosse sviluppato un vero e proprio pensiero religioso.

Dal Neolitico in poi, la cui grande innovazione fu la nascita della proprietà privata insieme all’agricoltura, divenne strategico anche organizzarsi per mantenere, trasmettere e regolare questa proprietà: così nacquero le norme sessuali e sociali che regolavano il sesso; si assegnarono le persone ai generi, si assegnò ai generi un ruolo e una gerarchia precisa (gli uomini furono posizionati generalmente più in alto rispetto alle donne), i gruppi furono stratificati in classi sociali (guerrieri, sacerdoti e re furono posizionati più in alto rispetto a contadini e schiavi), progressivamente prese forma l’idea di una gerarchia divina e infine di un unico Dio sopra tutti, cioè il monoteismo.

Questa idea rispondeva a una serie di necessità materiali e immateriali delle società umane in quella precisa fase evolutiva:

– Quella di trovare un senso trascendentale a un’esistenza limitata economicamente, temporalmente, geograficamente.

– Quella di giustificare con la promessa di giustizia nell’Aldilà e nel divino le ingiustizie subite in vita, e in particolare le differenze di classe sociale e di genere, imprescindibili per mantenere l’agricoltura e la proprietà privata.

– Quella di addomesticare una natura altrimenti caotica attraverso norme, regole, discipline che derivavano dal sapere religioso ma che servivano per rendere omogenee e unite le società, scongiurando i conflitti interni.
Questo spiega perché, pur nascendo in contesti dove i rapporti omosessuali erano ampiamente praticati, i tre monoteismi hanno posto l’accento sul divieto di unirsi carnalmente a persone dello stesso sesso: l’omo-erotismo avrebbe rappresentato un problema di “sconfinamento” in società religiose che dei confini hanno fatto le proprie fondamenta: confini di genere, ma anche degli spazi. Confini tra sacro e profano, ma anche tra ciò che è giusto e sbagliato, tra ciò che è “halal”, “kosher”, “santo”, e ciò che invece è proibito, abominevole, diabolico.

Così, in ambito ebraico il Levitico ammoniva esplicitamente di “Non giacere con un uomo come faresti con una donna. E’ una cosa abominevole” (18:22); e ancora “Se un uomo giace con un altro uomo come farebbe con una donna, i due compirebbero un abominio. Dovrebbero sicuramente essere messi a morte e che il sangue si riversasse su di loro” (20:13).

Il Vangelo di Matteo è chiaro rispetto ai rapporti di coppia, che devono essere rigorosamente eterosessuali e per di più indissolubili:

Alcuni Farisei vennero da lui per metterlo alla prova. Chiesero “E’ corretto per un uomo divorziare dalla propria moglie per una ragione qualsiasi?”

“Non sapete,” rispose, “che all’inizio il creatore creò l’Uomo e la Donna e disse: per questa ragione un uomo lascerà suo padre e sua madre e sarà unito a sua moglie e i due diventeranno un’unica carne?’ Così essi non sono più due, ma uno. Non osi separare l’uomo ciò che Dio ha unito”(19:3-6)

Nel Corano ci sono diverse allusioni all’omosessualità: la più esplicita è quella in cui si parla della città di Lot sulla quale Dio fece piovere fuoco, proprio perché trattavasi di un popolo dedito all’omosessualità.

“Così abbiamo portato lui e i suoi seguaci, tranne sua moglie, che era tra quelli che rimasero indietro. E gli abbiamo piovuto addosso il fuoco; considera dunque che fine fece il colpevole” (7:84)

Le religioni, come le culture, sono in costante fermento. Se negli Stati Uniti i monoteismi sembrano essere ormai in grado di esprimersi anche attraverso un linguaggio apertamente LGBTQ, questo non significa che non vi sia chi contrasta fortemente l’innovazione culturale nella religione. In questa sede, però, non interessa tanto la diatriba sulla legittimità dell’omosessualità nei monoteismi, che lasciamo agli addetti ai lavori: Rabbini, Vescovi e Imam in primis. Piuttosto, è interessante notare una rivoluzione di termini e di posizionamento del discorso sessuale nello spazio pubblico e in quello religioso.

2. Rivoluzioni sessuali.

La percezione che l’opinione pubblica ha delle sessualità si è completamente stravolta negli ultimi 20-30 anni. Che cosa è successo? Per prima cosa, la morale sessuale – che un tempo fu pubblica- si è privatizzata. Chi non si ricorda, per esempio, l’importanza pubblica delle verginità femminile? La verginità (o la sua assenza) avrebbe avuto un tempo il potere di destabilizzare intere comunità.

Allo stesso modo, però, se la condotta sessuale delle persone non è più affare della comunità, gli orientamenti sessuali entrano invece, con forza, nel discorso pubblico. Diventano, cioè, politici.

Questo succede anche alle religioni: da un lato esse si privatizzano, trasformandosi in questioni non più collettive ma strettamente intime e personali; si può scegliere una religione come in quello che Rodney Stark ha chiamato “supermarket delle fedi”; si può appartenere a una comunità religiosa senza credere, e viceversa credere senza appartenere, come ha fatto notare brillantemente Grace Davie; si possono praticare varie forme sincretiche di religione, oppure si può scegliere beatamente di essere atei.

Dall’altro lato, però, alcune forme identitarie legate alla religione diventano tratti da portare nella sfera pubblica, con una certa dose di violenza. Religione e sessualità stanno dunque facendo un percorso simile. Si privatizzano come scelte personali, tra le tante possibili; ma diventano politiche, non appena entrano nella sfera pubblica. Hanno insomma perso il loro ruolo tradizionale di tenere insieme le persone e lo hanno sostituito con un ruolo più marcatamente ideologico e politico di rappresentazione.

E qui, in questo percorso parallelo, si inserisce un’altra novità: fino a qualche decennio fa esisteva una critica omosessuale ai monoteismi intesi come sistemi patriarcali; questo faceva sì che i movimenti LBGTQ si schierassero contro le istituzioni religiose e si posizionassero sul versante del secolare, portando avanti un pensiero critico e introspettivo sul proprio rapporto con la fede, come fecero, per intenderci, intellettuali del calibro di Pier Paolo Pasolini o di Michel Foucault.

Oggi questo avviene sempre meno. I movimenti LGBTQ auspicano al contrario la riconciliazione con il monoteismo, che non è messo in discussione, ma ri-aggiustato e modellato proprio nei suoi confini: non è più l’omosessualità a escludere la religione patriarcale dal proprio orizzonte identitario, ma è la religione patriarcale a includere l’omosessualità tra i suoi possibili tratti identitari.

3.Scontri di civiltà o scontri di sessualità?

Per questa constante oscillazione tra pubblico e privato, sessualità e religione giocano una partita fondamentale ai giorni nostri: sono, in fondo, indicatori di quanto un Paese è democratico o meno. Più le identità possono fare riferimento a orientamenti sessuali LBGTQ che vengono inclusi nelle religioni monoteiste, più una società si considera ed è considerata democratica.

In altre parole, la linea che divide i contemporanei “scontri di civiltà”, come avrebbe voluto Samuel Huntington, per esempio tra gli immaginari spazi di “Oriente” / “Occidente”, non è formata dagli atteggiamenti che le culture religiose hanno nei confronti della democrazia, ma quello che esse hanno nei confronti degli orientamenti sessuali e delle relazioni di genere.

Così la cittadinanza democratica contemporanea si crea ed è creata anche secondo una crescente “tolleranza della diversità sessuale”, che d’altronde segue la tradizione democratica inclusivista della diversità tout court, a seconda di chi e cosa è “diverso” o è “minoranza” in un dato spazio e tempo: per esempio, il movimento delle minoranze afro americane segnò gli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, poi ci fu quello femminista, quello indigeno, e via dicendo, fino a quello LGBTQ dei giorni nostri.

Per diventare politiche, queste identità hanno dovuto nel tempo costruirsi e definirsi in base a caratteristiche immediatamente riconoscibili pubblicamente.

Il Diciannovesimo secolo, come ha fatto notare proprio Foucault, ha creato la categoria sociale e culturale dell’”omosessuale” distinguendola dalle altre. Lo stesso processo hanno subito le categorie sociali “nuove” per la modernità quali appunto “le donne”, “i neri” ecc.

Oggi quella dell’orientamento sessuale è una categoria facilmente assimilabile all’“etnia”: per questa ragione si trovano chiese, sinagoghe, moschee connotate etnicamente, e altre invece connotate sessualmente.

L’identità nazionale sembra però aver perso terreno rispetto a quella sessuale. Le società complesse, come avrebbe detto il filosofo Edgar Morin, sono in fondo il risultato di forze identitarie centripete e centrifughe che lottano, dialogano, negoziano, si alleano o si scontrano tra loro. Sempre più nuove comunità vengono immaginate su base sessuale e locale, invece che etnico e nazionale, come accadeva nel secolo scorso.

E’ il caso della Congregation Beit Simchat Torah (CBST), la sinagoga queer, sempre a New York, che si autodefinisce “una voce progressista all’interno dell’ebraismo” per l’inclusione delle minoranze sessuali. Se tra i punti della sua “mission” si trova solo all’ultimo posto il richiamo allo stato di Israele, al primissimo posto c’è l’offerta di servizi sia “tradizionali” sia “liberali”. Cosa significa? Che si tratta di uno spazio sia prettamente religioso, sia puramente sociale, dove si può – per esempio- pregare, e al contempo ricevere assistenza psicologica.

I matrimoni omosessuali tra fedeli musulmani sono più frequenti di quello che si pensa, specie in gran Bretagna, dopo che le unioni civili sono diventate legali nel 2014. L’attivista britannica transgender Asifa Lahore spiega di aver assistito a centinaia di unioni omosessuali con rito religioso islamico, negli ultimi anni.

Per le comunità musulmane, tuttavia, vere e proprie sale di preghiera connotate come LGBTQ sono una questione più controversa anche negli Stati Uniti, rispetto agli altri due monoteismi.

Una delle ragioni di questo è, di nuovo, la narrazione di “scontro di civiltà” che fa da cornice nella costruzione della religione islamica nei Paesi Occidentali. In questo contesto è già difficile per i musulmani creare spazi di preghiera e culto nelle città. Ancora più complesso sarebbe creare luoghi ad hoc per i fedeli LGBTQ.

All’interno della religione islamica poi, l’omosessualità non è solo letta come “peccato” in termini di condotta del fedele musulmano; è anche, e forse soprattutto, un peccato di ordine culturale: l’omosessualità è spesso associata ad una deriva da contatto con l’Occidente per l’immigrato musulmano: una sorta di corruzione culturale post-colonialista.

4. I monoteismi del futuro saranno gay-friendly?I monoteismi del futuro saranno altamente frammentati, più che gay-friendly. Questo è un passaggio evolutivo cruciale per la nostra specie. Man mano che più persone avranno accesso ai saperi religiosi che – ricordiamo- un tempo erano materia per pochissimi eletti, le religioni diverranno sistemi adattabili e flessibili su misura di ogni singolo fedele. Saranno dunque gay- friendly o estremamente omofobi; saranno inclusivisti o estremamente chiusi; sposeranno le cause più disparate; inneggeranno alla pace così come alla violenza. Smetteranno però – nei prossimi decenni- di essere ancorate ai generi sessuali come lo sono state per millenni.

Se, come dice Anna Rosin, l’era del maschio è finita, anche l’era della femmina non sta andando granché bene. Inizierà dunque un’Era religiosa a-sessuata, dove i monoteismi non saranno più intenti a dare regole sessuali e a definire i ruoli maschili e femminili, ma saranno piuttosto impegnati a definire, di volta in volta, il rapporto tra il fedele e le innovazioni tecnologiche, sociali, culturali, ambientali che sempre più si presenteranno come un’emergenza per la nostra specie.

(26 luglio 2017 MICROMEGA)

il capitalismo si avvantaggia se restiamo infantili ma … consumatori

perché il capitalismo ci preferisce infantili, capricciosi e precari

Diego Fusaro

il tentativo è rendere la società per sempre giovane, cioè dedita al consumo senza autorità e al ribellismo verso le forme mature dell’eticità borghese

consumismo-ansa

La forma repressiva del capitalismo dialettico si è da tempo capovolta in quella permissiva del capitalismo assoluto: il suddito diventa consumatore la cui libertà si estende senza limiti fin dove si estende la sua capacità di acquisto. Alla morte di Dio segue, dunque, l’avvento non già dell’Oltreuomo profetizzato da Nietzsche, bensì del consumatore senza identità e senza spessore. Questi, a differenza dell’uomo maturo in grado di dire di no, deve essere permanentemente nella condizione del ragazzo immaturo, in balìa di desideri ai quali può soltanto cedere e ai quali, come Pinocchio nel Paese dei Balocchi, non è in grado di porre fine.

Il sistema della finanza planetaria e flessibile è, per sua natura, giovanilistico non solo perché nega la possibilità delle forme mature dell’eticità e vive di quella precarietà che caratterizza fisiologicamente la fase giovanile. Accanto a questi motivi, vi è anche il collegamento tra consumismo e giovinezza, ossia la propensione degli individui di età giovane all’acquisto incontrollato di merci, alla flessibilità degli stili di vita, al godimento disinibito, al ribellismo verso le norme stabili.

A differenza dell’uomo maturo borghese, progettuale e stabilizzato nelle forme di esistenza alle quali ha scelto di consegnarsi, l’eterno giovane post-borghese e ultra-capitalistico vive l’eterno presente instabile e non stabilizzabile dell’adolescenza perpetua estesa a ogni età dell’esistenza, centrata sul godimento aprospettico, aprogettuale e senza differimenti del life is now. La vita cessa di essere concepita e vissuta come un progetto fondato sulla stabilizzazione delle sue forme: prende a essere intesa come successione rettilinea e puntiforme di istanti sconnessi ed episodici, autonomi e tutti volti in senso esclusivo alla massimizzazione aprospettica del momento.

Il giovane si riconferma, così, il soggetto ideale per l’adesione al modello consumistico americano-centrico, per il nichilismo anarco-consumistico delle moltitudini eternamente giovani, instabili, anglofone e immature. Ed è per questa ragione che la tendenza del capitalismo flessibile coincide con l’infantilizzazione del mondo della vita, ossia con il tentativo di rendere la società permanente giovane, cioè dedita al consumo senza autorità e al ribellismo verso le forme mature dell’eticità borghese (negate realmente dalla logica del capitale e avversate ideologicamente dai giovani).

Il capitalismo flessibile e precario è, per sua stessa natura, giovanilistico. Esalta il giovane, perché esso – senza diritti e senza maturità, senza stabilità e biologicamente precario e in fieri – è il suo soggetto antropologico privilegiato; e questo non solo per via della scarsa compatibilità delle fasce non giovani con la nuova logica flessibile (da cui il sempre ribadito invito che la tirannia della pubblicità rivolge anche ai non giovani a vivere come se lo fossero), ma anche in ragione del fatto che il nuovo assetto della produzione e del consumo coarta l’intero “parco umano” a vivere alla stregua dei giovani, ossia in forme provvisorie, precarie e mai mature, perennemente in attesa di un assestamento sempre differito. Il capitalismo flessibile ci vuole tutti eternamente giovani, perché, a prescindere dall’età, permanentemente immaturi e non stabilizzati, disposti ad accettare di buon grado le forme coattive della precarietà e del mondo della vita deeticizzato.

D’altro canto, se oggi si è considerati “diversamente giovani” fino a cinquant’anni, è perché si è idealmente precari fino al termine della propria attività lavorativa, sia nella vita sociale sia in quella affettiva, incapaci cioè di stabilizzare la propria esistenza nelle tradizionali forme dell’etica borghese e proletaria, ormai superata dal nuovo modo della produzione flessibile, post-borghese e post-proletario.

L’imperativo del tutto e subito

La maturità borghese dell’età adulta con possibile coscienza infelice è stata sostituita dall’immaturità post-borghese con incoscienza felice dell’età giovanile. La capacità di progettare futuri stabilizzando l’esistenza mediante le forme della vita etica e mediante l’intreccio ragionato di legge e desiderio quale si esprime nell’austero imperativo categorico kantiano, ha ceduto il passo al presentismo assoluto e aprospettico della fase odierna del finanz-capitalismo. In essa, l’instabilità come cifra dell’esistenza, con la sua strutturale impossibilità di sedimentarsi in forme fisse, non permette la progettazione dell’avvenire. Impone, come unico imperativo, quello sadiano del godimento immediato e senza misura, autistico e tutto proiettato nell’hic et nunc di un presente pensato, pur nella sua instabilità, come sola dimensione temporale disponibile.

In questo scenario di deeticizzazione in atto e di precarizzazione forzata del lavoro e delle esistenze, i giovani costituiscono indubbiamente il nucleo di un progetto – silenzioso quanto violento – di mutazione antropologica orientato a trasformarli nel nuovo soggetto assoggettato al paradigma della società capitalistica planetaria.

 

contro la ‘mediocrazia’

mediocri di tutto il mondo vi siete uniti

e avete vinto

parla il filosofo canadese Alain Deneault, autore del longseller internazionale “a mediocrazia”

“l’unico antidoto è il pensiero critico”

Alain Deneault è nato a Outaouais, Quebec, nel 1970. I suoi studi si sono concentrati sulla filosofia tedesca
e francese del XIX e XX secolo, in particolare sull’opera di Georg Simmel. A Torino, al Circolo dei lettori, presenterà con Marco Revelli il suo libro ‘la mediocrazia’, edito da Neri Pozza

Il mondo è dei mediocri. Sarà che è un assunto non difficile da sperimentare – e anche consolatorio per spiegarsi certi successi o insuccessi ugualmente distanti dalle vette del genio e dagli abissi dell’indegnità – ma il saggio La mediocrazia (Neri Pozza, pp. 239, € 18) del filosofo canadese Alain Deneault a un anno dall’uscita è ormai un longseller internazionale. E dire che in centinaia di pagine, dense di pensiero e di citazioni, ne ha davvero per tutti. In politica, da Trump a Tsipras, vede solo un «estremo centro», nell’impresa la «religione del brand», il «consumatore-credente», la «dittatura del buonumore». Nel lavoro «devitalizzato» individua la skill fondamentale nel «fare propria con naturalezza l’espressione: alti standard di qualità nella governance nel rispetto dei valori di eccellenza». E, in ogni ambito, rileva certi tic verbali come «stare al gioco», «sapersi vendere», «essere imprenditori di se stessi». Insomma, dice, «non c’è stata nessuna presa della Bastiglia ma l’assalto è avvenuto: i mediocri hanno preso il potere».

 

 ha parlato al Wired Fest, il festival dell’innovazione, altra parola che non manca nel vocabolario mediocratico

 

Professor Deneault, l’ha colpita questo successo? Anche perché a molti che la leggono lei dice in faccia che sono dei mediocri…

«Mi aspettavo un’eco molto più ristretta, ma questo libro parla di un malessere sociale condiviso da molti. Detto ciò, ho cercato di evitare moralismi e di puntare il dito. Lo scopo era indicare la pressione sociale molto forte che incoraggia a restare persone “qualunque”».

Lei è stato particolarmente duro con il mondo accademico a cui appartiene. Qualcuno si è offeso?

«Sì, visto che sono stato bandito. Tengo corsi stagionali, la mia presenza è episodica. Gli ambienti universitari formano sempre meno una élite capace di gettare luce sulla strada giusta da seguire per l’uomo comune. Sono più simili a una corte d’altri tempi, vendono risultati di ricerca a dei finanziatori. Molta autocensura, molti format replicati per far piacere al potere».

Ha avuto critiche «non mediocri»?

«Nell’era della mediocrazia non si discute più… i pensieri seguono dei corridoi, si preferisce ricevere notizie che confortino».

Perché bisogna temere la mediocrazia?

«Perché fa soffrire. Chiede a persone impegnate nel servizio pubblico di gestire come si trattasse di una organizzazione privata, così si trovano in conflitto perché avevano un’etica diversa; chiede a ingegneri di progettare oggetti che si rompano in maniera deliberata perché vengano sostituiti, chiede ai medici di diagnosticare malattie che potrebbero diventare davvero pericolose a 130 anni… Senza parlare della manipolazione dei consumatori da parte del marketing».

La mediocrazia è anticamera di dittature, anche edulcorate?

«La dittatura è psicotica, la mediocrazia è perversa. Psicotica perché la dittatura non ha alcun dubbio su chi deve decidere. Hitler, Mussolini, Tito sono stati tutti personaggi ipervisibili, affascinanti, che schiacciano con le loro parole; la mediocrazia è perversa perché cerca di dissolvere l’autorità nelle persone facendo in modo che la interiorizzino e si comportino come fosse una volontà loro».

L’inglese standard è la lingua ufficiale della mediocrazia?

«L’inglese manageriale sì, e uccide l’inglese. È un suicidio linguistico parlare questa lingua quando si è anglofoni, non si può pensare il mondo nella sua complessità o qualsiasi fenomeno sociale utilizzando un vocabolario che non è utile se non alla organizzazione privata».

Tecnologia, social, colossi del web. Anche lì domina la mediocrazia?

«Dobbiamo immunizzarci da un certo lessico che parla di progresso, innovazione, eccellenza. Mi interessa che si utilizzino questi strumenti ma si deve analizzare l’impatto che hanno su pensiero, morale, politica. Un utilizzo mirato dei social media, per esempio durante le elezioni, può rendere le persone estremamente manipolabili».

Il contrario del mediocre è il superuomo, l’eroe?

«No. L’antidoto è il pensiero critico, perché smaschera l’ideologia, che è un discorso di interessi sotto la parvenza di scienza. E fa subire un trattamento critico analitico a una nozione che qualcuno ci vuole ficcare nel cervello, per esempio l’inevitabilità della vendita di armi o di una nuova autostrada».

È più ottimista sul futuro?

«Qualsiasi impegno politico è a metà tra lo scoraggiamento e la speranza. Ed è proprio quando la situazione è scoraggiante che ci vuole il coraggio».

come si spiega l’odio per i poveri?

“aporofobia”

perché odiamo così tanto i poveri

“il povero viene a rompere la comodità”

la diagnosi della filosofa Adela Cortina sul nuovo male della nostra epoca: l’odio verso i poveri

Aporofobia, l'odio verso i poveri

aporofobia

l’odio verso i poveri

“ricchi non incontrano i poveri, i ricchi non vedono e non vogliono vedere o ascoltare le storie di vita disperate, il povero è da evitare, è disdicevole, in qualche modo perfino colpevole della propria condizione”

Il tema della povertà rappresenta un problema difficile da affrontare, spesso è pure complessa la definizione di povertà. La povertà intesa non solo come povertà materiale ma anche come assenza di un progetto di vita autonomo scaturente dall’impossibilità o incapacità di utilizzare un reddito o un bene che si possiede per migliorare e assicurarsi una qualità di vita.

Il discorso sul concetto di povertà si sposta verso il significato umano dell’essere poveri riflettendo sulle trasformazioni delle forme di povertà e sulle differenze di percezione dello “stato di povertà” nel passato e nel presente. Un’analisi che conduce al riconoscimento delle vecchie e delle nuove povertà che non godono di ampia visibilità ma che dovrebbero essere continuamente menzionate con maggior attenzione, analisi e approfondimento. Le condizioni di povertà non si misurano a mio parere solo sul reddito perché come diceva il Nobel per la pace Amartya Sen: “è inutile avere un reddito se non hai la capacità, la possibilità di utilizzare un bene o denaro, per migliorare e assicurare una migliore qualità di vita”.

Essere poveri, se dobbiamo sintetizzare, significa trovarci di fronte a persone che non hanno un reddito da lavoro e una casa, dei beni materiali; ma non solo, sono povere anche quelle persone che non sono in grado, pur avendo un reddito e una casa, di servirsene o coloro che non hanno accesso ad un’istruzione sufficiente tale da permettere loro di agire con libertà e autonomia, per esempio nel mercato del lavoro. E, in più, non avere accesso a quelle condizioni di benessere psicofisico per esprimere al meglio tutte le proprie potenzialità in quanto persone.

Nel suo ultimo libro, “Aporofobia, il rifiuto del povero”, Adela Cortina (Valenzia, 1948), cita Ortega per dire quanto segue: ciò che sta capitando è che non sappiamo quello che ci capita. Cosa passa nella testa di un uomo davanti al corpo di un mendicante o di un barbone avvolto nel suo vomito nei pressi di un aeroporto? Che ci capita nella metro quando li rendiamo invisibili affinchè non ci disturbino? Cosa succede a questa donna, mettiamo il caso, cattedratica di Etica, filosofia, intellettuale, laureata e oltre, quando le si avvicina un familiare indigente che non ha un euro, e che le chiede aiuto economico?
Alcune risposte le troviamo dentro il saggio scritto da Adela Cortina sull’avversione viscerale verso coloro che vivono nell’indigenza. “Dopo la crisi – scrive l’autrice –  la gente teme che “gli altri” gli portino via le cose: l’impiego, la casa… “.
Quello che disturba è il povero. Incluso il povero della propria famiglia. Un parente povero è qualcosa da nascondere, perchè a tutti piace presumere che i parenti siano tutti ben sistemati.
Se c’è un rifiuto del povero, l’opposto è che tutti adoriamo il ricco, in qualche modo? E’ una delle frasi del libro. Curiosamente – scrive l’autrice – è di Adam Smith, che si suppone sia l’economista che ha creato il liberismo economico. Nel suo libro “La teoria dei sentimenti morali dice che la corruzione del carattere consiste nell’ammirare i ricchi e disprezzare i poveri, invece di ammirare i saggi e le buone persone e disprezzare gli stupidi. Questa è la corruzione di una società: quando una società disprezza quelli che hanno fallito nella vita, quelli che hanno avuto cattiva sorte, è patologico.

Il muro del Messico, le frontiere dell’Europa – sottolinea la filosofa – hanno a che vedere più con l’aporofobia rispetto ad altre cose. Totalmente, scrive la docente. Quali stranieri disturbano Trump? I messicani. Ma non solo a lui o a certi americani. Ma anche ad altri messicani che sono lì da tempo installati e hanno paura verso chi viene da fuori. Perchè gli altri sono poveri e vengono per complicare la vita. La salita di Le Pen è un altro esempio chiarissimo, quello che succede in Ungheria con Orban, la Brexit… Tutto quello che si fa – rimarca Cortina –  lo si fa per escludere i poveri. Il povero viene a rompere la comodità. Se sta bene e arriva un altro, bisogna muoversi. Perchè hanno bisogno di lavoro, sicurezza sociale. E gli altri arrivano con necessità ed esigenze.

I bambini e i giovani crescono vedendo come si comportano i personaggi politici, come agiscono. Cresciamo molto per imitazione, è la chiave degli essere umani: i famosi neuroni a specchio, che ci portano a imitare gli altri. Per questo è importante che la gente che sta nella vita pubblica cerchi di essere meno egoista e aporofoba possibile.
L’odio ha molto a che vedere con la paura. Credo – scrive la cattedratica – che si agisca più per paura che per altre cose. La paura è molto pericolosa, molto maneggiabile, molto corta, strumento dei totalitarismi.
La parola aporofobia proviene dai termini greci (dal greco: άπορος (á-poros), indigente, povero; e φόβος, (-fobos), paura).

Trent’anni fa, la frattura sociale tra chi non aveva i mezzi di sussistenza e chi li aveva non era così profonda; penso a chi non aveva la terra, penso alle famiglie contadine numerose, per le quali c’era almeno il riconoscimento del valore della forza lavoro, che consentiva anche a chi non aveva altri strumenti, se non le proprie braccia e testa e salute, di poter sopravvivere dignitosamente, mettendosi a servizio di chi invece aveva beni e ricchezza.
Penso anche ai nostri emigrati che nel passato riuscivano a trovare, seppur con grandi sacrifici, una collocazione, un inserimento.

I ricchi non incontrano i poveri, i ricchi non vedono e non vogliono vedere o ascoltare le storie di vita disperate, il povero è da evitare, è disdicevole, in qualche modo perfino colpevole della propria condizione. In mezzo c’è la televisione che mostra un mondo diverso da quello che è, che ti fa desiderare di ambire a consumi impossibili per i livelli di reddito medi reali, “false necessità” che determinano, per molte famiglie, una maggiore spesa a cui poi non si riesce a far fronte, cadendo improvvisamente nel tunnel del debito e della povertà. Andiamo verso una società e una larga fetta di popolazione addormentata, quasi addomesticata, dove tutto passa e vive nella speranza.

il nuovo fariseismo clericalista contro papa Francesco

troppi nemici per un papa

di Fabrizio D’Esposito e Carlo Tecce
in “Fq Millennium” del luglio 2017

«Il clericalismo nella Chiesa è un brutto male che ha radici antiche e ha sempre come vittime il “popolo povero e umile”: non a caso il Signore ripete agli “intellettuali della religione” che peccatori e prostitute li precederanno nel regno dei cieli».

È un papa dallo sguardo corrucciato, con un ghigno di cupo disappunto, quello che la mattina di sabato 4 febbraio 2017 guarda i romani. Alcuni quartieri della Capitale sono tappezzati di manifesti anonimi e abusivi. Sotto campeggia una lunga scritta: «A France’, hai commissariato Congregazioni, rimosso sacerdoti, decapitato l’Ordine di Malta e i Francescani dell’Immacolata, ignorato Cardinali… ma n’do sta la tua misericordia?». Chi è stato? I sospetti vanno subito in una direzione: la destra clericale, incline alla Tradizione e talvolta al fascismo. Sono i nuovi farisei, quelli per cui la fede è solo l’arida Dottrina, con la maiuscola. È stato lo stesso papa Francesco a definirli così, lo scorso 13 dicembre, durante la meditazione mattutina nella cappella di Santa Marta: «Il clericalismo nella Chiesa è un brutto male che ha radici antiche e ha sempre come vittime il “popolo povero e umile”: non a caso il Signore ripete agli “intellettuali della religione” che peccatori e prostitute li precederanno nel regno dei cieli». Clericali come i farisei Sinedrio che condannarono Gesù, «uomini di potere» che «tiranneggiano il popolo strumentalizzando la Legge». La Dottrina, appunto. Il papato rivoluzionario di Francesco circondato da nemici: il mandato ricevuto dal Conclave di ripulire la Curia romana dai tanti mali mondani (a cominciare dalla corruzione) ha provocato sconquassi. Sono tanti i “corvi”, vecchi e nuovi, in tonaca e non, che remano contro Bergoglio per costringerlo a dimettersi. In quasi cinque anni su di lui è piovuto di tutto: la bufala del tumore al cervello; Vatileaks atto secondo; la clamorosa rivolta dei cardinali conservatori sulle aperture ai divorziati; quei manifesti anonimi e le preghiere per farlo dimettere; la costante campagna di alcuni media di destra e le resistenze della Curia romana sulle riforme economiche. Per trovare un precedente del genere bisogna risalire a oltre mezzo secolo fa con Paolo VI. Papa Montini, successore di Giovanni XXIII, fu l’ epicentro dello scontro pesante che si giocò su un’altra rivoluzione: quella del Concilio Vaticano II e che segnò un solco tra clericali e progressisti. Papa Roncalli morì, infatti, durante il Concilio, nel 1963, e toccò a Paolo VI proseguirne l’ opera. Il peso di quei tempi terribili, nove anni dopo, si manifestò in una frase montiniana passata alla storia. La pronunciò il 29 giugno del 1972, solennità dei santi Pietro e Paolo, patroni di Roma: «Da qualche fessura, il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio». Allora, però, non c’erano il web e i social network come oggi. E anche per questo la battaglia antifrancescana risuona diffusamente. Torniamo allo scorso 4 febbraio. Il primo a simpatizzare con i manifesti è lo storico Roberto de Mattei, già consigliere di Gianfranco Fini e animatore della fondazione Lepanto. In un articolo del giorno prima su Corrispondenza Romana, l’agenzia di informazione che dirige, de Mattei anticipa le accuse a Bergoglio che compariranno sui muri romani dopo poche ore. Il 5 febbraio, poi, sul quotidiano Il Tempo, lo stesso de Mattei esalta e derubrica i manifesti a «pasquinata» e «pungente protesta in romanesco». Lo storico della destra tradizionalista si vanta anche di essere un devoto discepolo del professor Plinio Corréa de Oliveira, più noto come il “dottor Plinio”, pensatore cattolico antidemocratico e controrivoluzionario. Morto nel 1995, il brasiliano “dottor Plinio” promosse l’associazione Tfp, Tradizione, famiglia e proprietà, da cui sono nati gli Araldi del Vangelo. A metà giugno il presidente degli Arautos do Evangelho si è dimesso dal suo incarico a causa di un’indagine avviata dal Vaticano. Si chiama Joào Scognamiglio Clà Dias. In un video diffuso dal sito Vatican Insider monsignor Clà riferisce a sessanta sacerdoti la trascrizione di un dialogo particolare: quello tra un prete e un demonio durante un esorcismo. La riunione è del febbraio 2016, dopo il pellegrinaggio di Bergoglio in Messico. Il diavolo, a detta di monsignor Clà, è entusiasta di Francesco: «È mio, è mio, fa tutto quello che voglio, è uno stupido. Mi obbedisce in tutto, è la mia gloria, è disposto a fare tutto per me. Lui mi serve». I sacerdoti che ascoltano ridono convinti. Continua il demonio per bocca del capo degli Araldi del Vangelo: «Il Papa morirà cadendo in  Vaticano. Il dottor Plinio sta incentivando la morte del Papa».

Sotto attacco

La guerra contro Francesco deflagra nell’autunno del 2015. È il 21 ottobre quando il Quotidiano Nazionale spara una bufala clamorosa: «Il Papa ha un tumore al cervello». Dieci giorni dopo, a seguire, la gendarmeria vaticana smaschera i corvi di Vatileaks 2: un monsignore spagnolo che si chiama Lucio Angel Vallejo Balda e una rampante trentenne di nome Francesca Immacolata Chaouqui. Da allora il fronte anti-Bergoglio, che sui siti della destra tradizionalista viene sbeffeggiato come un novello Lutero, una sorta di anti-Papa scelto dal demonio anziché dallo Spirito Santo, viene rimpolpato da altri attacchi, anche di natura teologica. Racconta a Fq Millennium una fonte che frequenta Casa di Santa Marta: «Francesco è serenissimo e andrà avanti nella sua opera di pulizia e di rinnovamento. Le dimissioni? Non ci ha mai pensato a meno che…». La frase s’interrompe. I puntini sospensivi coprono un tono d’improvviso preoccupato. «A meno che?», sollecitiamo. «A meno che non ci sia uno scandalo enorme che investa qualche figura che gode della sua fiducia. Vede, Francesco è sì diffidente ma spesso sceglie di slancio, confidando nel suo istinto e qualcosa può sbagliare». Le dimissioni, dunque, sono il vero obiettivo di chi nella Chiesa combatte questo Papa venuto «dalla fine del mondo». Le similitudini con il primo Vatileaks sono varie, ma la ratio è diversa. Lo scandalo che segnò la fine del pontificato teutonico di Joseph Ratzinger ebbe inizio all’alba del 2012. I1 corvo dell’epoca, il maggiordomo “papale” Paolo Gabriele, agì a fin di bene. Obiettivo, portare alla luce gli intrallazzi del cerchio magico riconducibile al famigerato cardinale Tarcisio Bertone e all’ambizioso Georg Gänswein, e tentare di salvare Benedetto XVI. Ma la slavina sugli affari dello Ior, la banca denominata Istituto per le Opere di Religione, e sul potere temporale della Curia divenne valanga. Un anno dopo, 1’11 febbraio 2013, Benedetto XVI annunciò la sua rinuncia al ministero petrino «per l’età avanzata». Un paio di mesi prima di lasciare il Palazzo Apostolico, Ratzinger ha nominato Gänswein prefetto della Casa Pontificia. Per educazione cristiana, Bergoglio non l’ha rimosso. Ma con tatticismo oseremmo dire parecchio democristiano, l’ha lasciato nel dolce far niente di una carica svuotata dalla presenza discreta di Leonardo Sapienza, il reggente della Casa Pontificia. Ogni giornata di Francesco è sorvegliata da Sapienza, non da Gänswein. Quando Bergoglio intende liberarsi di una presenza ingombrante, suggerisce di tornare a casa, semmai in preghiera, e di abbandonare la vita surreale della città-Stato. A Bertone, il cardinale che abita in un attico del Vaticano ristrutturato con i soldi dell’ospedale Bambino Gesù, Francesco ha consigliato di trascorrere gli ultimi periodi concessi dal Signore a Valdocco, casa madre di Don Bosco, la vera abitazione di un vero salesiano. Per Gänswein, invece, come confermano due importanti prelati a Fq Millennium, Bergoglio ha previsto una diocesi in Germania: «Ma i vescovi tedeschi sono d’accordo?», domanda in maniera retorica un collaboratore di Bergoglio. No, certo che no. I tedeschi, guidati dal cardinale progressista Reinhard Marx, preferiscono che Gänswein resti a Roma accanto all’amico Gerhard Ludwig Müller. Il nome di Müller è sempre citato dai biografi di Bergoglio per indicare un acerrimo nemico che troneggia dal Sant’Uffizio, l’attuale Congregazione per la Dottrina della fede. Müller viene contrapposto all’anziano cardinale Walter Kasper, che condivide appieno le aperture di Bergoglio ai divorziati, agli omosessuali, agli ultimi della società a cui le porte del Signore non vanno sbattute in faccia.

Vecchi e nuovi nemici

Per alimentare lo scontro tutto tedesco e tutto papalino, si sostiene che Müller sia un pupillo di Ratzinger. In realtà, Benedetto voleva spedirlo all’archivio segreto Vaticano, circondato dai libri certo, ma innocuo. Al contrario, Mülller smania per rimarcare i suoi dissapori verso la segreteria di Stato dove Bergoglio ha collocato l’ex nunzio Pietro Parolin, determinante nell’accrescere il ruolo del Vaticano all’estero, dalla risoluzione di pace in Colombia con le Farc al ritorno degli Stati Uniti nella Cuba ancora castrista. Qualche settimana fa, Müller ha convocato in ufficio quattro assistenti in predicato di ricevere una promozione dalla Segreteria di Stato, che però ne ha concesse soltanto due. Per decoro, di solito si informano i promossi e non i bocciati, ma il tedesco lavora per acuire le distanze, non per debellare i risentimenti. In Segreteria di Stato, però, soprattutto fra le seconde gerarchie, «un coacervo del clero con i laici che seguono ed eseguono» (citazione di una nostra fonte), si arenano le iniziative di Papa Francesco. Come la sezione Migranti e Rifugiati del dicastero per il Servizio allo Sviluppo umano integrale, che Bergoglio ha istituito qualche mese fa con al centro il simbolo della pietà nel mare, un giubbotto salvagente arancione. Il moto perpetuo di desistenza all’interno della Curia ha pure sancito il più grosso fallimento del pontificato: la riforma dell’Economia con la bussola della trasparenza. Il cardinale George Pell, indebolito dall’accusa di aver coperto degli abusi nella sua ex diocesi in Austrialia, doveva guidare la borsa del Vaticano della Segreteria per l’Economia, invece s’è ritrovato bersagliato dalle rivelazioni dell’inchiesta australiana, dai libri di Vatileaks II che hanno tratteggiato il profilo di uno spendaccione tendente al lusso, sopraffatto dal collega Domenico Calcagno, residuo dell’epoca di Bertone, capo della ricchissima Apsa, l’organismo che amministra il patrimonio della sede apostolica. Pell è limitato alla «compilazione» delle buste paga», come ripetono le nostre fonti, e non condiziona le strategie di Calcagno, un cardinale ligure collezionista di pistole. Per arginare Calcagno, nell’autunno del 2013, Bergoglio ha mandato all’Apsa monsignor Mauro Rivella, delegato per la sezione ordinaria della struttura: «Io spero che qualcuno di onesto ci sia lì», sospira un esponente della Curia vicino a Francesco. Un altro risvolto di questo scontro è recentissimo. Con un comunicato di tre righe, il 20 giugno, il Vaticano ha annunciato le dimissioni di Libero Milone, nominato due anni fa Revisore generale dei conti da Papa Francesco. Milone ha fallito: non è riuscito a coordinare e scandagliare le spese della città-Stato, a riprova dei contrasti insanabili tra la Spe di Pell e l’Apsa di Calcagno. Dopo la denuncia di Milone per la violazione del suo computer nell’ufficio vaticano fu avviata l’inchiesta dei gendarmi che sfociò in Vatileaks II. Ora l’addio dell’ex capo di Deloitte può diventare benissimo il prologo di Vatileaks III. Il groviglio dell’anti-bergoglismo si poggia anche su siti, blog e quotidiani come Libero, Il Giornale, Il Tempo e Il Foglio. E raduna firme autorevoli, inorridite dal nuovo corso francescano in materia di Dottrina e Liturgia: lo scrittore Antonio Socci; i vaticanisti Sandro Magister, Marco Tosatti e Aldo Maria Valli; altri saggisti e cronisti come Riccardo Cascioli, Vittorio Messori e Rino Cammilleri. I punti di riferimento di questa galassia minoritaria sono i quattro cardinali che hanno vergato i fatidici Dubia, plurale latino di dubbi. I loro nomi, in ordine alfabetico: Walter Brandmüller, Raymond Leo Burke, Carlo Caffarra e Joachim Meisner. I Dubia sono stati consegnati a Francesco il 19 settembre 2016 e contestano, fondamentalmente, le aperture ai divorziati risposati dell’ Amoris laetitia, l’esortazione apostolica che Bergoglio ha pubblicato dopo il sinodo sulla famiglia. Il Papa non ha mai risposto e nel gennaio di quest’anno il cardinale Burke ha finanche minacciato un atto formale di correzione di errore grave del pontefice. Per Burke, Papa Francesco potrebbe persino essere accusato di “eresia formale”, che lo farebbe decadere automaticamente dal ministero petrino. Dimissioni, decadenza, morte. Sono le strade percorse da quella Chiesa che si vuole liberare di Bergoglio. La speranza della morte torna nelle parole di monsignor Luigi Negri, già vescovo di Ferrara. Il 28 ottobre 2015, su un Frecciarossa partito da Roma Termini, il prelato è al telefono con Renato Farina, firma ciellina di Libero che collaborava con il Sismi di Nicolò Pollari con lo pseudonimo di “Betulla”. Questa la frase di monsignor Negri: «Speriamo che con Bergoglio la Madonna faccia il miracolo come aveva fatto con l’altro». L’altro è Giovanni Paolo I, Papa Luciani, morto nel 1978 dopo soli 33 giorni di pontificato.»
I contrasti coi Cavalieri Raymond Burke è un americano del Wisconsin, diventato l’antipapa dei tradizionalisti. Dice un altro autorevole prelato consultato da Fq Millennium: «Burke è un personaggio folkloristico. In realtà, tra i cardinali dei Dubia, l’unico ad avere un certo spessore teologico è Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna». Benedetto XVI nominò Burke a capo della Segnatura Apostolica, supremo tribunale della Santa Sede. Francesco lo ha rimosso, pensionandolo con una poltrona supermondana: patrono dell’Ordine di Malta. I famosi Cavalieri hanno più di dieci secoli di storia.
Sono nati con le Crociate a Gerusalemme. Oggi l’Ordine è un colosso della diplomazia umanitaria: ha relazioni ufficiali con più di cento Stati e alle Nazioni Unite ha lo status di osservatore permanente. La sede del governo è nel Palazzo Magistrale, nella strada più ricca del centro di Roma, in via dei Condotti. Ma il cuore pulsante dell’Ordine batte sull’Aventino, tra i colli più belli ed esclusivi della Capitale: Villa Magistrale, dove il Gran Maestro riceve ufficialmente capi di Stato e rappresentanti dei governi. Ed è dai Cavalieri di Malta, sotto la regia di Burke, che parte un’altra sfida a Bergoglio, alla fine del 2016. Dall’antica riservatezza dell’Ordine trapela una notizia importante: il Gran Maestro Fra’ Matthew Festing, inglese, ha sospeso dalla carica di Gran Cancelliere il barone tedesco Albrecht von Boeselager. Il vertice dei Cavalieri è strutturato come un governo. Il Gran Maestro è eletto a vita ed è il capo assoluto. Il Gran Cancelliere, invece, assomma le funzioni di ministro dell’Interno e degli Affari Esteri. La colpa di Von Boeselager risale a quando gestiva gli imponenti aiuti sanitari, da Grande Ospedaliere. Durante il suo mandato sono stati distribuiti preservativi in zone del mondo martoriate dall’Aids, in vari Stati africani e asiatici. Una colpa grave. I Cavalieri più alti in grado devono da Costituzione essere nobili e religiosi professi. Aver fatto, cioè, professione dei voti solenni di castità, povertà e obbedienza. Von Boeselager è ritenuto un cattolico liberal. Suo padre Philipp, nel luglio del 1944, fu tra i militari congiurati dell’Operazione Valchiria, il tentativo fallito di rovesciare il regime di Hitler. Il fratello di Albrecht, invece, di nome Georg, è stato nominato da Francesco nel board laico dello Ior. Dopo la sospensione, Papa Bergoglio apre un’inchiesta sull’Ordine. La prima clamorosa decisione scuote i Cavalieri alla fine di gennaio. La commissione d’inchiesta voluta dal pontefice ha due conclusioni: Von Boeselager deve ritornare Gran Cancelliere e Fra’ Festing si deve dimettere da Gran Maestro. In attesa del “conclave” per il successore, l’Ordine viene affidato a un Luogotenente interinale e a un Delegato speciale della Santa sede. Ma la guerra prosegue, alimentata anche da Burke. La svolta finale, non senza altre sorprese, alla fine di aprile. Il 29 viene eletto il nuovo capo. Non un Gran maestro, ma, come ha suggerito lo stesso pontefice, un Luogotenente generale: l’italiano Fra’ Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto. A Roma si presenta, nonostante l’esplicito divieto del Vaticano, anche Fra’ Festing. Vuole ricandidarsi. Questa è la prima volta, in mille anni di storia, che un Cavaliere non obbedisce al pontefice. Il mandato del nuovo Luogotenente è quello di riformare l’Ordine. I Cavalieri vantano un patrimonio astronomico: 1,7 miliardi di euro. E alla faida interna tra tedeschi e inglesi viene ricondotta la vicenda di una controversa donazione di 30 milioni di franchi svizzeri da parte di un trust di Ginevra. Soldi di misteriosa provenienza sui cui indaga la magistratura svizzera per appropriazione indebita.

Bisignani e il “tumore”

Negli ambienti clericali dei farisei di destra, la sconfitta patita sull’Ordine di Malta è percepita come l’ennesimo golpe mancato contro Bergoglio. È lo stesso spartito che i conservatori suonano ormai dall’autunno del 2015, quando viene diffusa la bufala del tumore al cervello di Francesco e si evoca per la prima volta la morte salvifica del pontefice. Sulle pagine di Avvenire, quotidiano ufficiale della Cei, la Conferenza dei vescovi italiani, è addirittura il direttore Marco Tarquinlo a indicare la fonte della bufala: «Qualunque immondizia venga sterilmente messa in circolo, il cammino della Chiesa procede (. ..). Possiamo dirlo? Ma, sì, diciamocelo: siamo semplici e siamo francescani, non “bisignani”». Scritto sprezzantemente con la minuscola, come un sostantivo e non un cognome, Tarquinio si riferisce a Luigi Bisignani, faccendiere con due condanne definitive, per il tangentone Enimont transitato sui conti dello Ior e per la loggia paramassonica P4. Allievo riconosciuto di Licio Gelli, venerabile della loggia P2, il pregiudicato Bisignani da semplice postino andreottiano, nella Prima Repubblica, diventa uno degli uomini più potenti e invisibili del berlusconismo, grazie al suo antico legame con Gianni Letta. Tra il faccendiere e la bufala c’è un indubitabile filo nipponico: l’oncologo Takanori Fukushima, che Bisignani conosce per vicende familiari. Fukushima avrebbe visitato il Papa, viene fatto trapelare, ma non è vero nulla e il medico arriva persino a taroccare una sua foto che lo mostra in compagnia di Bergoglio. Da esperto conoscitore delle tecniche depistatorie, il piduista e piquattrista tenta anche di incolpare, senza successo, Joaquín Navarro Valls, ex portavoce di Giovanni Paolo II e potente membro dell’Opus Dei, di essere il propalatore della falsa notizia. Lo fa con un articolo sul Tempo, quotidiano spesso al centro della battaglia al bergoglismo. Quello che poi accade dieci giorni dopo, agli inizi di novembre, offre un quadro più chiaro: la gendarmeria vaticana arresta monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e la pierre Francesca Immacolata Chaoui, che tra l’altro si vanta di essere amica di Marco Carrai, fedelissimo di Matteo Renzi. Entrambi, il monsignore e la pr, fanno parte della Cosea, la commissione simbolo del rinnovamento di Francesco per le finanze, e sono accusati di aver fornito a due giornalisti, Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, documenti riservati. Pure stavolta si staglia l’ombra sinistra di Bisignani. Monsignor Balda lo accusa di essere “il capo” di Chaouqui, sic et simpliciter. Le inchieste sono due: una vaticana, l’altra italiana, poi trasferita da Terni a Roma e ancora non chiusa. Sullo sfondo emerge l’eterno profilo della cattomassoneria e della nobiltà nera papalina incline alla Tradizione. Chaoqui ostenta infatti credenziali avute dalla contessa Marisa Pinto Olori del Poggio, Sua Eccellenza Dama di Gran Croce e Giustizia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio. La contessa è stata vicepresidente della Fondazione Gerusalemme, quando questa era guidata da Giancarlo Elia Valori, manager e altro nume della catto-massoneria iscritto al Grande Oriente d’Italia, la maggiore obbedienza italiana, e alla loggia deviata della P2. È un mondo che vuole resistere alla rivoluzione francescana di Bergoglio. Lo stesso Bisignani, nell’era Ratzinger, è stato pubblicamente riconosciuto come «grande amico» da Marco Simeon. Monsignor Carlo Maria Viganò, in una feroce lettera a Benedetto XVI descrisse Simeon come simbolo della lobby gay protetta dal cardinale Bertone. Testuale. Il processo vaticano ha condannato Balda a diciotto mesi e Chaouqui a dieci. A distanza di due anni, il monsignore è ritornato nella natia Spagna, ma le nostre fonti riferiscono di averlo visto di nuovo in Italia, impegnato a organizzare una fondazione. Peraltro il sacerdote dovrebbe essere ridotto allo stato laicale. Fq Millennium ha contattato l’avvocato rotale Emanuela Bellardini, legale di Balda, che si è rifiutata di confermare o meno le due notizie. Chaouqui si è messa in proprio con una piccola società di comunicazione e ha scritto un libro sulla sua vicenda. In un’intervista al Fatto ha alluso andreottianamente ad altri documenti esclusivi custoditi in un caveau. Bisignani, infine, sebbene radiato dall’ordine dei giornalisti, continua a scrivere di Bergoglio sul Tempo. Sperando in un clamoroso scisma nella Chiesa.

l’eredità spirituale lasciataci da p. Orternsio da Spinetoli

 

Oltre l'“inutile fardello” di dogmi e di miti. Lo straordinario insegnamento di Ortensio da Spinetoli

oltre l’“inutile fardello” di dogmi e di miti

lo straordinario insegnamento di Ortensio da Spinetoli

da: Adista Documenti n° 28 del 29/07/2017

Un’occasione da non perdere per rivisitare l’appassionata ricerca del frate cappuccino e biblista di fama internazionale Ortensio da Spinetoli, scomparso il 31 marzo 2015: è questo che offre il suo scritto, pubblicato postumo, dal titolo L’inutile fardello. L’insegnamento di uno straordinario teologo controcorrente (Chiarelettere, Milano, 217, pp. 85, euro 10), «una sorta di manifesto per il rinnovamento esegetico e teologico della Chiesa» in cui, come scrive nella Prefazione Alberto Maggi, biblista dell’Ordine dei Servi di Maria, «è racchiuso tutto il ricco pensiero di padre Ortensio».

Un pensiero che, «come un bisturi doloroso ma vitale, costringe a ripensare importanti concetti teologici che sono ancora un tabù» per la maggioranza dei credenti, dal peccato originale all’eucarestia, dalla verginità di Maria alla «mistica del patire». E per il quale Ortensio ha pagato un prezzo molto alto – l’isolamento, il processo da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (alla maniera «in uso nell’Unione Sovietica, cioè senza alcuna possibilità né di conoscere le accuse né tantomeno di difendersi»), l’allontanamento dall’insegnamento -, ma senza mai abbandonarsi a «recriminazioni rancorose», nella consapevolezza, sottolinea Maggi, «di dover tenere in conto la beatitudine della persecuzione». E, d’altro canto, senza neppure mai arrendersi, ma riprendendo anzi con rinnovata energia «le sue spietate lucide analisi della realtà di una Chiesa alla deriva», una Chiesa che egli voleva «più vicina al modello indicato da Gesù Cristo».

Se Ortensio, studioso «coltissimo e meticoloso» – come lo descrive nell’Introduzione Franco Cortinovis, diventato, in seguito a un folgorante incontro nel 2005, suo discepolo, amico e stretto collaboratore nella stesura dei testi, fino a ricevere da lui l’incarico testamentario di “erede letterario” – ha dedicato gran parte della sua vita e della sua ricerca allo studio del Gesù storico, completamente oscurato dal Cristo della fede, questo libro postumo offre con forza, nuovamente, l’immagine di un Cristo divino perché profondamente umano, «demitizzando idee radicatissime» come quelle relative alla dottrina del peccato originale, sconosciuta ai profeti e «di cui Gesù stesso – scrive Ortensio – non ha fatto parola»,  o all’interpretazione sacrificale della morte di croce, che rende Gesù «la “vittima” di espiazione dei peccati dell’umanità che Dio non ha mai chiesto né aspetta», o alla trasformazione della Chiesa in un’istituzione gerarchico-monarchica, in un totale stravolgimento della proposta del suo fondatore.

Un testo inedito, quello appena pubblicato, che, come spiega Cortinovis, nasce dallo sviluppo di una lettera personale scritta nel 2014, un anno prima della sua morte, a un giovane confratello che aveva espresso interesse per i temi a lui cari e a cui Ortensio, abituato al trattamento tutt’altro che positivo che gli era spesso riservato da vari appartenenti al suo ordine, aveva fatto dono di una delle sue opere, l’Itinerario spirituale di Cristo. Accompagnando il dono con una lettera, Ortensio aveva voluto così offrire al suo confratello un’introduzione e una chiave di lettura per aiutarlo a entrare nel tema del libro, ma fornendo in tal modo, sottolinea Cortinovis, «una potente sintesi del suo pensiero», una «testimonianza troppo preziosa per non condividerla con i suoi lettori, presenti e futuri».

E se, come prevede Maggi, anche questo libro, come tutti quelli di padre Ortensio, «susciterà scandalo, scalpore, sarà fonte di polemiche e censure», aggiungendosi «ai tanti testi vivamente sconsigliati da chi ha paura di tutto quel che è nuovo e che può turbare le sicurezze che l’immutabile dottrina della chiesa offre», ci pensa Ortensio stesso a rassicurare il suo giovane confratello: «Le mie indicazioni – scrive – possono apparire troppo innovative, ma rispetto al progresso che ha fatto, sta facendo in questi ultimi anni e farà presto la scienza biblico-teologica, i competenti e gli informati non possono che definirle “conservatrici” (v. Hans Küng, Eugen Drewermann, Matthew Fox, John Dominic Crossan, John Shelby Spong, Roger Lenaers, José Arregui, da noi Augusto Cavadi, Vito Mancuso, Felice Scalia, per far solo qualche nome; tutta gente che purtroppo la gerarchia ignora quando non condanna ma che ormai fanno scuola dentro e fuori l’istituzione)». E agginge: «L’esortazione che facevo agli alunni al termine di “certe” lezioni e che ho continuato a ripetere al pubblico dopo le mie conferenze, è sempre stata la stessa: “Non si pensi che siano queste le ultime o le definitive risposte. Le più giuste, senz’altro migliori, sono quelle che devono venire. Sappiamo cercare e aspettare fiduciosi”». Perché, conclude, non ci sono dubbi sul fatto che «il relativismo, la precarietà, la provvisorietà non indicano indifferentismo religioso, nichilismo o ateismo, ma costituiscono l’unico atteggiamento spirituale e culturale legittimo in un mondo diventato pluridimensionale e multietnico, in cui la verità si è fatta più lontana perché la realtà si è fatta più vicina e si rivela agli scienziati, ai filosofi e quindi anche (e perché no?) ai teologi, più complessa e mobile (evolutiva) di quanto si fosse mai pensato fino a ora».

Di seguito ampi stralci del capitolo sull’eucarestia. 

 

un bilancio positivo di quattro anni di pontificato di papa Francesco

dopo quattro anni e mezzo Francesco sta cambiando chiesa e mondo

di Filippo Trippanera
in “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” – www.chiesadituttichiesadeipoveri.it – del 22 luglio 2017

Dopo circa quattro anni e mezzo di pontificato (il tempo che fu sufficiente a Giovanni XXIII per “terremotare” la Chiesa), penso che si possa abbozzare un primo tentativo di bilancio del pontificato di Francesco. Complessivamente, mi pare di poter dire che siamo in presenza di un Magistero forte, convinto, deciso e penetrante; un Magistero pastorale, ma anche pieno di dottrina ed incisivo nella Chiesa e nel mondo, ben al di là dei rilievi – per così dire – di “audience” e di “share”.

Le opposizioni e le critiche che emergono – soprattutto all’interno della Chiesa, dei vescovi e dei cardinali di Curia – non scalfiscono minimamente e non fanno oscillare il timone della barca di Pietro. Sono posizioni prevalentemente autoreferenziali, senza fondamenti – a me pare – teologici o dottrinali, pastorali o biblici o di tradizione cattolica. Tutte queste opposizioni – o “dubia” – prescindono del tutto dal Concilio Vaticano Secondo e dai grandi Magisteri di san Giovanni XXIII e del beato Paolo VI. Chiusa la parentesi apertasi con la tragica morte di Giovanni Paolo I e definita con le – in qualche modo – profetiche dimissioni di Benedetto XVI, è ripreso il cammino conciliare e possiamo ben dire che il 13 marzo 2013 equivale al 9 dicembre 1965. E, se erano già fuori del tempo le posizioni di Ottaviani, Siri e di buona parte della Curia pacelliana, ancor di più lo sono quelle degli oppositori di Francesco. La debolezza di queste opposizioni si ricava anche dai modi con cui vengono espresse, da far pensare che dietro ci sia un disegno più politico e di immagine che pastorale e di fede. Molto significativo è il modo con cui sono state lasciate filtrare alcune esternazioni del papa emerito, soprattutto in merito al ricordo del cardinale Meisner, di recente scomparso; esternazioni interpretate come un contrasto con il pontificato di Francesco, in plateale difformità dal silenzio assoluto e dalla preghiera, cui aveva dichiarato di uniformarsi il papa emerito. Non ho motivo di mettere in dubbio la correttezza e la lealtà di Benedetto XVI, il quale credo abbia voluto affermare principi autentici senza minimamente pensare di porre in discussione il magistero del suo successore. Il problema è di chi ha fatto filtrare questa notizia come se fosse una critica a Francesco. La stessa presenza costante di mons. George Gershwin – prefetto della Casa pontificia – in quasi tutte le apparizioni pubbliche di Francesco, che, a mio avviso, è stato un atto di delicatezza del nuovo papa verso il suo predecessore, può venire interpretata come un controllo, una sentinella, una interferenza pesante; ma non credo che ciò sia. Quanto, poi, ai vari Socci, Negri, Burcke, Caffarra e sodali, penso che lascino il tempo che trovano. Altre opposizioni e critiche sembrano – talora – emergere da altro versante dell’opinione pubblica della Chiesa o dal suo interno e riguardano una pretesa timidezza, indecisione o mancanza di coraggio e/o credibilità del papa verso problemi molto importanti, come il ruolo della donna, il suo sacerdozio, la gestione delle finanze della Santa Sede nonché l’atteggiamento sulla pedofilia e sul gender. Questo tipo di posizioni mi sembrano anch’esse autoreferenziali e dettate più da esigenze di immagine che di sostanza. Io penso che papa Francesco, invece, pur con i suoi modi e, forse, con i suoi limiti ovvii, sia pienamente nel solco profondo della Chiesa e del Concilio Vaticano Secondo, e sta operando un reale cambiamento in profondità, non solo della Chiesa, ma anche del mondo. Questa mia opinione si fonda su dati del tutto oggettivi, ormai storici. Innanzi tutto, il linguaggio che egli usa: dal “buonasera” del 13 marzo 2013, ai ripetuti e costanti “buon giorno, arrivederci, buon pranzo, buona notte” premessi alle sue allocuzioni invece delle formule classiche “Sia lodato Gesù Cristo; pace e bene; cari figlioli (terminologia usata da Giovanni XXIII); e simili … “; un linguaggio asciutto, essenziale, come il “ Cari fratelli e sorelle “, come la menzione frequente di “fratelli cardinali; fratelli patriarchi, pope, papi, vescovi (di altre Chiese cristiane)”. Un linguaggio che non lascia spazio ad interpretazioni e che incarna la Chiesa in mezzo agli uomini. Questo tipo di linguaggio, si trasforma in comportamenti specifici ed estremamente significativi, ben al di là dell’aneddotica … Ma il fatto emblematico di questo pontificato è la canonizzazione del beato Giovanni XXIII, senza miracoli, in contestualità con il “santo post-subito” di Giovanni Paolo II; canonizzazione preceduta dall’elevazione alla porpora di mons. Loris Capovilla, quasi centenario, e incentrata in quella straordinaria definizione di papa Giovanni come “guida guidata”. Giovanni XXIII era stato proclamato beato con tanto di miracolo nell’anno 2000, in contestualità con il papa Pio IX. Un’accoppiata di beati che fece molto discutere per l’avvicinamento del papa del Concilio Vaticano Secondo al papa del Sillabo e del Vaticano primo. Apparve a molti la relegazione di Giovanni XXIII ad una sorta di eccezione ad una regola ben incarnata da Pio IX. Alla canonizzazione il discorso si capovolge e, nella sostanza, si delinea la straordinaria figura di papa Giovanni come maestro di generazioni e tale da costituire la regola evangelica, che dà dignità ad eccezioni come Pio IX e Giovanni Paolo II, la cui santità miracolosa attinge e trova fondamento nella santità senza miracoli di Giovanni XXIII. Lo spessore e la portata di questo fatto, eminentemente teologici, dottrinali, pastorali, conciliari ed evangelici, sono qualificanti e profondi, e trovano puntuale conferma in altre costanti del pontificato di Francesco, ben al di là delle piccolezze, con cui si vorrebbe limitarlo e metterlo in difficoltà. In tal senso, estremamente significative sono la beatificazioni di papa Paolo VI e di Oscar Arnulfo Romero, come prodotto di una linea pastorale e teologica incentrata sulle continue e costanti citazioni (nei documenti e nei discorsi), su ogni argomento, del papa Paolo VI (il più citato da Francesco), per un verso; e nei continui e costanti riferimenti alla teologia della liberazione, massacrata dai due suoi predecessori, dall’altro. In questa linea vanno colti anche i continui, costanti ed argomentati riferimenti e citazioni anonime del Patto delle Catacombe, della Chiesa dei poveri, di Giorgio La Pira, di don Lorenzo Milani, di don Tonino Bello, di Ernesto Balducci, di Davide Turoldo e di don Mazzolari; personaggi che evidentemente Francesco conosce bene e profondamente fino a farli propri, tanto da citarli – spesso alla lettera – senza farne menzione. Sotto questo profilo, resta impressionante l’omelia pronunciata sulla piazza di L’Avana, accanto alla gigantografia del Che Guevara, tutta incentrata su un concetto chiave contenuto in “Lettera a una professoressa”: “fai strada ai poveri senza farti strada”, che il papa ha tradotto: “servire i poveri senza servirsene”, e conclusa con le testuali parole di don Tonino Bello: “chi non vive per servire non serve per vivere”. E sempre in questa linea vanno letti tutti i suoi documenti: dalla “Evangelii Gaudium” alla “Laudato sì”, e tutti gli atti canonici da lui emessi, nonché i provvedimenti assunti, ad iniziare dalla nomina dei vescovi (basti pensare, qui in Italia, a Galantino, a Bassetti, a Montenegro, a Zuppi, a Lorefice, ed ora a De Donatis ed a Delpini ed ai nuovi vescovi di Ferrara, Brescia ed Ancona), dei cardinali, alla continua internazionalizzazione del Sacro Collegio. Tutto un magistero che incide profondamente nella vita della Chiesa e del Popolo di Dio, e che mette costantemente ai margini gli oppositori ed i critici. In sostanza, possiamo concludere nel senso che Francesco continui in questa sua linea, che sta cambiando profondamente la Chiesa, dai vertici fino alle periferie, ed impegnarci – come sempre ci chiede e, in particolare, chiese a Barbiana – a pregare per lui “perché possa trarre ispirazione da questo bravo prete … Per portare avanti la sua fiaccola”.

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