negli USA un ecumenismo che perdica la guerra spirituale
ecumenismo dell’odio negli Usa
un momento dell’incontro fra il Papa e il presidente statunitense Trump in Vaticano lo scorso 25 maggio
unecumenismo che predica la ‘guerra spirituale’ si sta diffondendo negli Usa:
Manicheismo “Negli Stati Uniti, il manicheismo politico-religioso è nato perché il linguaggio teologico ed ecclesiale, negli ultimi trent’anni specialmente, è divenuto molto polarizzato, a causa del sistema politico basato su due partiti. Quindi, su alcune questioni il laicato cattolico tende a identificarsi, anche dal punto di vista religioso, con i cattolici-repubblicani di un partito o i cattolici-democratici dell’altro. E’ un fenomeno che deriva dal sistema politico americano, ma anche dal carattere militante del suo cristianesimo, inclusa la Chiesa cattolica”. Massimo Faggioli, storico del cristianesimo, docente alla Villanova University di Philadelphia, commenta e spiega il saggio su “Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico” apparso sulla rivista ‘La Civiltà Cattolica’, un articolo che ha suscitato un ampio dibattito.
Una politica soggetta alla religione “Gli Usa sono un paese fondato da una comunità di cristiani molto credenti, convinti che fosse necessaria una rifondazione sociale e politica totale per vivere insieme sotto il controllo della religione”, spiega Faggioli. “La Chiesa cattolica ha un atteggiamento più cauto rispetto all’idea del dominio della religione sulla politica, ma negli ultimi anni negli Usa, c’è stata una migrazione d’idee e di persone dalle Chiese protestanti americane verso il cattolicesimo. C’è stata una grande massa di conversioni, anche fra intellettuali importanti, e questi convertiti hanno portato con loro questa idea protestante, essenzialmente calvinista e americana, per cui la politica è soggetta alla religione ed è difficile pensare a una separazione o a una distinzione fra questi due ambiti”. “L’articolo de La Civiltà cattolica, quindi, – continua lo storico – punta in modo corretto la sua attenzione su questo fenomeno, che definisce ‘Fondamentalismo evangelicale’, che è intellettualmente molto interessante, ma provoca alcuni problemi che vanno analizzati, come correttamente fa la rivista dei gesuiti”.
Letteralismo biblico “Si parla in questo caso di ‘fondamentalismo’ perché è un tipo di cristianesimo che si basa sul testo biblico, sulla scrittura, in modo fondamentale. Cioè ritrova nella Scrittura alcuni passaggi letterali che fondano o rifondano una società, una civiltà o una legislazione, in modo diretto, non mediato dal Magistero della Chiesa, com’è per i cattolici. Questa dinamica è tipicamente americana – spiega Faggioli – perché il letteralismo biblico in sé è un fenomeno estraneo al cattolicesimo che è più orientato sulla Tradizione della Chiesa piuttosto che direttamente sulla Scrittura. Negli Usa, invece, questa vicinanza alla tradizione calvinista-protestante ha fondamentalizzato alcuni cattolici”.
La Teologia della prosperità “Un altro effetto di questo fondamentalismo evangelicale è la ‘Teologia della prosperità’. Si tratta di un messaggio religioso diffuso negli Usa da alcune chiese cristiane neo-protestanti, secondo cui l’amore di Dio si rivela agli individui che sono in buona salute fisica e sono ricchi. Cioè, se uno è sano, è ricco e felice è un segnale che è amato da Dio. Questa è una teologia che è chiaramente eretica o aberrante, ma è molto importante in alcune Chiese protestanti – non solo degli Usa ma anche dell’America Latina e dell’Africa – e trova spazio, anche se in un modo diverso, all’interno del cattolicesimo americano. Questo è un fenomeno preoccupante perché è una diretta negazione del messaggio sociale della Chiesa cattolica sui poveri e la giustizia. C’è dunque un conflitto fra quello che la Chiesa dice sulla giustizia sociale e sui poveri e il ‘Vangelo della prosperità’, secondo cui i poveri sono lontani da Dio. Una posizione che è esattamente il contrario di quella del Magistero”. “Questo articolo – aggiunge Faggioli – fa il punto al momento giusto, perché il fenomeno Trump è l’elevazione della Teologia della prosperità a programma politico”.
I legami con l’ascesa di Trump “Il fenomeno dell’elezione di Trump è indubbiamente legato anche al diffondersi di questa teologia. E’ un fatto che i pastori invitati dal presidente americano all’inaugurazione della sua amministrazione, il 20 gennaio scorso, fossero i più importanti rappresentanti della teologia della prosperità negli Usa. Anche all’interno della Chiesa cattolica statunitense, le posizioni contro la Chiesa dei poveri o il messaggio sociale di Papa Francesco sono un effetto delle infiltrazioni di questa teologia. Ed è un fenomeno particolare che non si verifica, mi pare, in altre comunità cattoliche nel mondo”.
L’ecumenismo della trincea “La Civiltà Cattolica – continua Faggioli – a proposito di questa fusione tra Fondamentalismo evangelico e Cattolicesimo integralista giunge a parlare di ecumenismo fondamentalista e lo definisce ‘dell’odio’. Il motivo sta nel fatto che è un tipo di ecumenismo che non si preoccupa di creare dei ponti con i lontani, ma di identificare i lontani come nemici comuni sia ai cattolici che ai protestanti. E tra questi annovera i musulmani, in alcuni casi addirittura gli ebrei – con una sorta di antisemitismo – e non è quindi finalizzato al dialogo. L’articolo lo chiama ‘ecumenismo dell’odio’, ma sono proprio i sostenitori di questo tipo di fenomeno a definirlo ‘ecumenismo della trincea’. In questa visione il mondo è in guerra contro di noi e noi cristiani di diverse confessioni dobbiamo organizzarci per combattere questa guerra. E’ inutile dire che si tratta di un ecumenismo totalmente diverso da quello che Papa Francesco chiama l’ecumenismo ‘del sangue’, cioè del martirio. E’ un ecumenismo molto diverso che negli Usa ha un rilievo teologico, culturale e politico abbastanza importante, specialmente con la presidenza Trump”.
Netto contrasto col Magistero “E’ un fatto oggettivo che questo ecumenismo che predica la ‘guerra spirituale’, che si sta diffondendo negli Usa, sia in diretto contrasto con il Magistero del Papa. Si fa spazio con diversi linguaggi: ma, per esempio, molte delle recenti conversioni dalle Chiese evangelicali a quella cattolica, negli Usa, nascono nel riconoscimento di quest’ultima come una Chiesa più forte e cioè capace di combattere il nemico: in quella visione gli asiatici, i musulmani e altri. E’ una visione ideologica che accomuna diverse chiese che si ritrovano sulla stessa lunghezza d’onda ma non è quella del Magistero cattolico degli ultimi cinquant’anni”.
(Fabio Colagrande)
parola di cardinale: un nuovo rispetto nella chiesa verso i gay
Il cardinale Cupich
“nella chiesa dire persone gay, lesbiche o LGBT è un segno di rispetto”
Il cardinale di Chicago Blase Cupich è entrato nel dibattito relativo al modo in cui la Chiesa cattolica dovrebbe interagire con i gay e le lesbiche, parlando alla platea di Chicago ha detto che si dovrebbero usare le stesse parole che le persone LGBT utilizzano per definirsi.
“Iniziamo come sempre la conversazione affermando con certezza che tutte le persone hanno valore, che la loro vita deve essere rispettata e che noi dovremmo rispettarle“, ha affermato il Cardinale Cupich in risposta ad una domanda dopo un discorso tenuto al City Club di Chicago il 17 luglio.
“Ecco perché penso che i termini gay, lesbiche, LGBT e tutte quelle espressioni che le persone ritengono essere in sintonia col proprio essere, dovrebbero essere rispettate“, continua il cardinale di Chicago. “Le persone dovrebbero essere chiamate come desiderano essere chiamate piuttosto che uscirsene con termini che forse mettono a proprio agio solo noi. Quindi iniziamo a farlo“.
I commenti del cardinale arrivano in un momento in cui alcuni vescovi cattolici stanno prendendo in considerazione come impegnarsi verso la comunità LGBT. Lo scrittore americano James Martin, SJ, afferma nel suo nuovo libro “Guilding a bridge” che i gay e le lesbiche dovrebbero essere chiamati con queste medesime espressioni, notando che lo stesso papa Francesco ha usato il termine gay.
Ma i critici hanno affermato che l’uso di questi termini in sostituzione di frasi come “persone che sperimentano attrazione verso lo stesso sesso” suonerebbe come una sconfitta di fronte alla secolarizzazione.
Il Cardinale Cupich, che ha voluto sottolineare un approccio pastorale a questioni di moralità sessuale che rispecchia la visione di Papa Francesco, ha affermato che la chiesa insegna che il matrimonio è unione tra un uomo e una donna, un sacramento che porta nuova vita nel mondo e che “la società ha il compito, mi pare di poter dire di sostenerla in modo differente e qualificante.”
Più tardi quella sera il Cardinale Cupich, intervenuto alla “Chicago Tonight ” della WTTW per discutere della violenza di gang armate in città, si è rifiutato di commentare un documento promulgato nella vicina diocesi di Springfield in cui, il vescovo Thomas Paprocki, ha detto ai sacerdoti che i gay e le lesbiche sposati non possono ricevere la comunione o avere dei funerali cattolici.
“Questa non è la nostra politica”, ha affermato il Cardinale Cupich, aggiungendo, “è prassi comunque non commentare le scelte politiche di altre diocesi” (…).
articolo di Michael J. O’Loughlin pubblicato sul sito della rivista cattolica America (USA) il 18 luglio 2017, libera traduzione di Pietro P.
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. Sò che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!)
E’ inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa)
Ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
E’ inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba ,il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
E’ inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
E’ inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
E’ inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
E’ inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
E’ inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
E’ inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
E’ inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
E’ inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
E’ inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!!)
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’ ‘invasione’, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’ Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al Sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano:”Aiutamoli a casa loro”, dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti.
Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?). Per questo vi prego di rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un ‘altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
Alex Zanotelli
nonostante tutto ho fiducia in papa Francesco
la trasparenza di Francesco non si è fermata a Ratisbona
la linea del Papa per la verità non risparmia il fratello di Ratzinger e il cardinal Muller appena sollevato dal suo incarico
“Choc”: non c’è altra parola per descrive l’effetto della pubblicazione del Rapporto Weber in Vaticano su quanto successo nella diocesi di Ratisbona. Papa Francesco è rimasto molto rattristato da quanto emerso nel documento, che ha peggiorato oltre ogni immaginazione il quadro già gravissimo emerso un anno e mezzo fa , in una prima relazione.
Ancora più prostrato Benedetto XVI visto che il caso riguarda la città dove ha insegnato all’Universita’ per lunghi anni e coinvolge suo fratelli Georg.
“Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, questo il commento allo choc da parte di padre Hans Zollner, gesuita, che dirige il Centro per la protezione dei minori dell’università Gregoriana e fa parte della Commissione pontificia voluta da Papa Francesco. Zollner, tedesco, è nato proprio a Ratisbona, nel 1966, ma ha frequentato altre scuole, diverse da quelle dove sono avvenute le violenze.
La frase citata da Zollner è un celebre versetto del Vangelo di Giovanni. Un versetto che pur non essendo nel motto episcopale di Rudolf Voderholzer, dal 6 dicembre 2012, vescovo di Ratisbona, sembra fatto a posta per lui. Questa frase di Gesù è quella che sembra avere ispirato Voderholzer in una decisione senza precedenti. Ha dato lui l’incarico ad un avvocato indipendente, Ulrich Weber, di scandagliare 60 anni di storie di violenze e abusi sessuali (alcuni casi risalgono all’immediata dopoguerra e le vittime hanno passato gli ottant’anni) avvenuti in due scuole cattoliche limitrofe all’istituzione culturale più prestigiosa della città, il famoso Coro della cattedrale. “E Weber lo ha ringraziato pubblicamente per questo”.
L’operazione trasparenza, insomma, non si è fermata neppure a Ratisbona. Non si è fermata cioè davanti al fatto che quella città tedesca è indissolubilmente legata alla vita del Papa emerito Benedetto XVI e di suo fratello Georg. “Il vescovo Voderholzer ha preso sul serio l’impegno di tolleranza zero contro la pedofilia di Papa Francesco e la sua responsabilità di pastore, quella che gli americani chiamano accountability”, aggiunge Zollner .
Voderholzer ha dato carta bianca a Weber, gli ha dato accesso completo agli archivi. I risultati emersi sono scioccanti, “sono tali che devono destare in noi inquietudine e vergogna”, dice ancora padre Hans. “Per il numero delle vittime coinvolte, per la lunga durato degli abusi sia fisici che sessuali, per il clima di violenza e di terrore”.
E non ultimo per le accuse contenute nel Rapporto a Georg Ratzinger, fratello di Benedetto XVI di non aver denunciato quello che aveva saputo. Così come quelle contro l’immediato predecessore di Voderholzer, il cardinale Gherard Muller, per dieci anni (2002-2012) alla guida della diocesi di Ratisbona, il cui mandato alla guida della Congregazione per la dottrina della fede – che ha tra i suoi compiti anche quello di affrontare i casi di pedofilia del clero – Papa Francesco non ha rinnovato proprio all’inizio di questo mese di luglio.
Era noto infatti che il rapporto Weber era ormai concluso e che sarebbe stato reso pubblico nell’arco di poche settimane. Ma in Vaticano si sostiene che la decisione papale su Muller ha a che fare con altro e non con il Rapporto Weber.
In polemica con Muller si era dimessa il primo marzo 2017, Marie Collins, una sopravvissuta agli abusi di un prete, che era stata nominata dal Papa nella Pontificia Commissione per la protezione dei minori. “Non ero a Ratisbona durante il mandato episcopale del cardinale Muller”, si limita a commentare Zollner, ma insieme sottolinea che “coloro che vogliono la verità devono essere ammirati per il coraggio di guardare in faccia la realtà e per la decisione di dare, sia pure con decenni di ritardo, aiuto alle vittime e qualche forma di sostegno e compensazione”.
Numero di sbarchi in Italia nel 2017: 22.339 al 28 giugno, secondo dati ufficiali del Ministero dell’Interno. 181.436 in tutto il 2016. Sono questi i numeri dell’“invasione” in nome dei quali il nostro Paese e l’Europa stanno abdicando ai fondamenti stessi della concezione illuminista dei diritti umani, un tempo, almeno a livello teorico, specificità dell’Occidente. La mera evidenza delle cifre svela la natura strumentale della campagna martellante che da mesi alimenta la sindrome emergenziale e fa crescere intolleranza e paura. Una paura “liquida, mobile”, diffusa, che ormai permea la società e che, con le parole di Baumann, «è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o economici» perché «produce uno stato mentale politicamente esplosivo», contro il quale nulla possono le analisi razionali o i richiami umanitari. Uno stato mentale che spiega la passività, anzi il drammatico consenso a misure un tempo considerate degne dell’orrore dei regimi totalitari. Un esempio per tutti: «Obbligo per le navi umanitarie di tenere le luci spente di notte», in un mare dove sicuramente ci sono centinaia di persone che rischiano di annegare. Qualcosa di irrazionale deve aver colto gli stessi vertici istituzionali, della UE e dei singoli Paesi: un incomprensibile panico “identitario” sembra attraversare il continente, che non pensa altro che a blindare tutti i suoi confini, con tutti i mezzi possibili. Se i treni piombati per migranti del governo dichiaratamente razzista di Orban un paio di anni fa ancora suscitavano scandalo, oggi a regimi sanguinari come quelli libico e turco si affida ufficialmente, attraverso corposi finanziamenti, il compito – sporco – di bloccare comunque i migranti a est e a sud. Nessuno può far finta di non sapere cosa accade nei centri di detenzione di quei Paesi. La storia condannerà senza appello l’Europa per questo, sarà come per la Shoah… Il mondo solidale cerca disperatamente di risvegliare le coscienze, ma per adesso la linea resta chiara. Le ultime decisioni disegnano un piano organico, che ha un solo scopo: fermarli, a qualunque costo. L’aumento dei morti non è una preoccupazione. E viene il dubbio che sia un obiettivo.
Inascoltati gli appelli ad aprire vie sicure che consentano ai migranti di arrivare in condizioni dignitose, difficoltà a far partire un piano ampio di accoglienza solidale e al tempo stesso razionale, orientata a un inserimento positivo e autonomo a breve/medio termine: in questo quadro l’Italia accetta – nonostante alcune apparenti divergenze – le attuali linee guida della UE, ribadite da Juncker anche dopo l’ultimo vertice – «enormi progressi», «serio impulso» alle politiche sull’immigrazione –. L’obiettivo finale è il «ricollocamento», oltre che nella stessa Libia, in Egitto, Niger, Etiopia e Sudan, Paesi ad hoc promossi “sicuri”! Ad essi e agli altri Paesi del Maghreb si affida inoltre il compito di maggiori controlli alle frontiere e si chiede di collaborare per i rimpatri dei “migranti economici”. «Aiutiamoli a casa loro», insomma. Semplicemente: non devono venire. Non possiamo accoglierli tutti. Aumentare i rischi del viaggio come deterrente.
Per la rotta del Mediterraneo, la Libia si conferma al centro della strategia di contenimento – ancora 46 milioni di Euro dalla UE e larga parte dei 35 milioni di Euro assegnati all’Italia per l’emergenza –: deve trattenere chi vuole partire o intercettare in mare e riportare indietro chi si è imbarcato. Con questi fondi, e i milioni di Euro – diverse centinaia – promessi o già dati a Erdogan si sarebbe potuta organizzare un’accoglienza degna e economicamente vantaggiosa anche per i Paesi europei. Ma non è questo che si vuole, evidentemente. Come in tutti i settori del sociale oggi, bisogna innanzi tutto affermare forte che non è vero che non ci sono fondi.
C’è un punto critico in questo disegno: le navi umanitarie delle Ong. Fanno due cose intollerabili: salvano vite (migliaia e migliaia) e soprattutto sono testimoni del comportamento delle motovedette – tra cui quelle regalate dall’Italia – della Guardia costiera libica. Scrive Amnesty International: «Gli intercettamenti della Guardia costiera libica mettono spesso a rischio le vite dei migranti e dei rifugiati. Le procedure impiegate non corrispondono agli standard minimi e possono causare attacchi di panico e capovolgimenti delle imbarcazioni con conseguenze catastrofiche. Vi sono inoltre gravi denunce di collusione tra membri della Guardia costiera libica e trafficanti nonché di maltrattamenti nei confronti dei migranti. Le motovedette libiche aprono il fuoco contro altre imbarcazioni e, secondo le Nazioni Unite, sono state “direttamente coinvolte, con l’impiego di armi da fuoco, nell’affondamento di imbarcazioni con migranti a bordo”». La campagna diffamatoria contro le Ong impegnate nei salvataggi – sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana – ha preparato la strada a una serie di misure concrete volte a paralizzarle: arretramento dei limiti entro cui possono agire, ostacoli burocratici di ogni tipo per gli sbarchi, fino all’idea di chiudere loro i porti. Misura che violerebbe tutte le Convenzioni del mare. Del resto, la criminalizzazione della solidarietà è un tassello importante del quadro: da Lesbo a Ventimiglia, gli attivisti che danno da mangiare, aiutano ai confini, forniscono tende sono costantemente a rischio di denuncia. In Italia il Decreto Minniti offre molti strumenti anche in questa direzione. Un capitolo a parte, il più tragico: i minori non accompagnati. Soggetti fragili per eccellenza, avrebbero diritto a protezione e sostegno. Ormai è normale respingerli alle frontiere, tenerli di fatto in stato di detenzione o semplicemente abbandonarli a rischi e abusi. Solo in Italia ne “spariscono” in media una trentina al giorno.
Una deriva davvero pericolosa, che solo la solidarietà dal basso e un tenace lavoro culturale e di informazione possono tentare di contrastare.
i ‘due esodi’ alleati in fuga da due ‘sud’ creati dalle nostre ingiustizie – il popolo della speranza
la dura omelia del vescovo di Palermo sull’«alleanza dei due esodi»
in “il manifesto” del 16 luglio 2017
dura e coraggiosa omelia del vescovo di Palermo Corrado Lorefice durante la messa per la patrona della città, santa Rosalia, su migranti e migrazioni
“abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senza giustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano, mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno”
«Le pesti, le grandi, dilaganti emergenze siciliane del nostro tempo si presentano stasera davanti ai nostri occhi. La prima, la più importante credo, è il rischio diffuso della mancanza di futuro. Rischiamo di essere una Città e una Regione senza futuro, il futuro – ricordiamolo – di una storia gloriosa, perché la mancanza endemica di lavoro rischia non solo di gettare in una crisi irreversibile la nostra economia, ma soprattutto rischia di sottrarre la speranza di un domani ai nostri giovani». «L’esodo dalla Sicilia sta diventando una necessità storica terribile, che priva la terra del suo nutrimento decisivo. E ad alimentare un territorio, una Città, sono i desideri, i progetti, la voglia di fare, le idee e le aspirazioni delle giovani generazioni che si avvicendano nel corso dei decenni e dei secoli. Senza la linfa ideale e rinnovata di questo ardore, senza il sapore di questo sogno, non c’è domani – dice il vescovo – Ma senza lavoro vero, dignitoso, costruttivo, teso a cambiare il mondo, non c’è domani».
E ancora:
«Mentre si compie quest’esodo doloroso, Palermo e la Sicilia tutta sono il porto ideale di un altro esodo, di dimensioni planetarie, quello dei popoli del Sud del pianeta – dei nostri fratelli africani e del Medio Oriente – che giungono in Europa in cerca di rifugio e di opportunità di vita – prosegue – Non dobbiamo nasconderci però dietro i luoghi comuni o le visioni distorte di molta politica. La molla ultima di questo esodo biblico, al di là di ogni consapevolezza di chi parte, è il desiderio di giustizia. Perché abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senza giustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano, mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno. Un mondo in cui il Nord – gli Stati Uniti, l’Europa -, tutti i cosiddetti paesi sviluppati, possono sfruttare e depredare le ricchezze dei popoli del Sud – dell’Africa, dell’Asia – senza alcuno scrupolo e senza alcun ritegno. È da questo squilibrio che affama miliardi di persone, da questo ordine politico che accetta e fomenta la guerra e quindi la fuga disperata dei civili, è da questo modo di ordinare (o di disordinare) il mondo che viene l’esodo disperato di milioni di persone che in definitiva vengono a chiederci giustizia e diritti. E Palermo e la Sicilia rappresentano la meta privilegiata di questi viaggi, il porto ideale dell’Occidente».
Poi:
mons. Bettazzi riconosce la fede e la profezia di Giovanni Franzoni e gliene resta grato
Pax Christi Italia e Mosaico di Pace mi chiedono di esprimere la loro partecipazione al lutto della famiglia e della Comunità cristiana di S. Paolo a Roma per la morte di Giovanni Franzoni.
Personalmente lo ricordo, quando era Abate di S. Paolo, alle Assemblee della CEI e agli ultimi due Periodi del Concilio Vaticano II. Penso alla sua attività negli anni caldi dopo il 1968; il suo libro “La terra è di Dio” (cui seguì poi “Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri”) anticipava i problemi ecologici oggi sul tavolo della politica internazionale. Le sue prese di posizione sulla Chiesa dei poveri e sul dialogo con i comunisti sembrano appartenenti al passato, ma la sua dichiarazione di aver votato comunista lo portò alla “riduzione allo stato laicale”. Il suo temperamento ardente ma soprattutto il legame con la Comunità di S. Paolo, che aveva fondato e diretto fino ai nostri giorni, lo portarono a prese di posizioni di critica e di contestazione molto forti al di là di ogni compromesso (ad esempio di prendere domicilio nella mia Diocesi, pur restando a Roma), che indussero poi la Chiesa a decisioni drastiche.
Era rimasto, anche vivendo da laico (e sposandosi) uomo di fede. L’avevo incontrato il mese scorso, presentando insieme in una parrocchia piemontese il Concilio Vaticano II, di cui eravamo rimasti gli ultimi membri viventi italiani, ed era stato molto pacifico e fraterno. Forse i suoi atteggiamenti di contrasto non permetteranno lo si ponga tra i profeti, accanto a d. Mazzolari e d. Milani, ma non gli tolgono il merito di una profezia – sulla Chiesa dei poveri, sull’ecologia, sulla nonviolenza e la pace – perseguita con sincerità e con coraggio e con la coscienza di una fede sincera. Gliene restiamo grati.
in morte di G. Franzoni – l’autobiografia di un ‘cattolico marginale’
UN «CATTOLICO MARGINALE»
PRESENTATA IN CAMPIDOGLIO L’AUTOBIOGRAFIA DI GIOVANNI FRANZONI
«Cattolico marginale» è la formula scelta per definire Giovanni Franzoni, la cui autobiografia è stata presentata a Roma, in Campidoglio, lo scorso 20 maggio (Autobiografia di un cattolico marginale, Rubbettino Editore, 2014, pp. 262, 16€)
Una perifrasi dai molteplici significati, perché con l’aggettivo marginale si possono intendere molte cose. Ai margini vive ed opera la «Chiesa di periferia» a cui Franzoni ha scelto di appartenere, ha detto mons. Matteo Zuppi, vescovo ausiliare di Roma Centro, intervenuto alla presentazione del libro per un saluto iniziale. Marginale significa anche la «volontà di tenersi lontano e di rifiutare il potere», ha aggiunto Raniero La Valle. E stare sul margine può voler dire scegliere di «abitare lungo i confini della società e dell’umanità sofferente», ha sottolineato Francesca Brezzi, docente di Filosofia morale all’università Roma Tre.
Ma marginale Franzoni lo è stato anche perché la Chiesa di Roma, guidata allora dal card. Ugo Poletti, decise di metterlo ai margini, di emarginarlo, per le sue tante scelte politiche di laicità, vicine agli impoveriti e agli oppressi ma lontane dall’istituzione ecclesiastica legata mani e piedi in un abbraccio demoniaco alla Democrazia Cristiana, al grande capitale, ai palazzinari, ai potenti della città. Perché quella di Franzoni e della Comunità di San Paolo – prima dentro e poi fuori della basilica di cui è stato abate – è stata una storia strettamente intrecciata a quella della città di Roma. «Senza Franzoni e la Comunità questa storia sarebbe stata molto diversa», ha ricordato La Valle, protagonista anche lui di tante vicende che videro Franzoni fra gli attori principali, dai “cattolici per il no” al referendum per confermare la legge sul divorzio del 1974, ai cattolici che militavano nel Pci e nella Sinistra indipendente. E Paolo Masini, assessore capitolino ai lavori pubblici e alle periferie della giunta guidata dal sindaco Ignazio Marino, ha affermato che «è un dovere e un onore per Roma Capitale (la nuova denominazione del Comune di Roma, ndr) poter ricordare Franzoni e la Comunità di San Paolo».
Sicuramente quella di Giovanni Franzoni non è stata una storia marginale nel senso di ininfluente. Ma una vicenda che ha profondamente segnato la storia della società e della Chiesa italiana post-conciliare. Il libro – curato da due membri della Comunità cristiana di base di San Paolo, Salvatore Ciccarello e Antonio Guagliumi, che hanno raccolto e poi trascritto il racconto direttamente dalla viva voce di Giovanni Franzoni, arricchendolo con una selezione di documenti straordinari, dalla corrispondenza privata di Franzoni con le zie, agli scambi epistolari con i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica che poi lo sospesero a divinis, alle lettere di solidarietà di diversi amici, come i vescovi Michele Pellegrino e Luigi Bettazzi oppure fratel Arturo Paoli – racconta questa storia, intersecando «macrostoria e microstoria». L’infanzia e l’adolescenza a Firenze sotto il fascismo e durante la guerra. Gi studi al Collegio Capranica e alla Gregoriana di Roma. L’ingresso nell’ordine dei Benedettini. Gli anni nell’abbazia di Farfa, il trasferimento a Roma nel 1964 come abate di San Paolo fuori le mura, la partecipazione alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II.
Nella basilica di San Paolo, Franzoni si lascia interrogare dalle contraddizioni della città e di un quartiere popolato e popolare come San Paolo, animato anche dalla convinzione che la vita monastica non significa isolamento dal mondo ma impegno nella storia. Prende forma così una comunità “orizzontale” di laici, donne e uomini, che cominciano a riflettere sul che fare per vivere un Vangelo ancorato alla società e alla città, immergendosi nelle vicende sociali e politiche: l’opposizione alla parata militare del 2 giugno e ai cappellani militari, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, il sostegno all’obiezione di coscienza al servizio militare, le lotte degli operai licenziati della Crespi (una fabbrica di infissi non lontana dalla basilica), l’attenzione agli emarginati e agli esclusi, in particolare i reclusi nell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà. A San Paolo si realizza anche quella piena partecipazione dei laici alla vita della Chiesa proclamata dal Concilio e mai compiuta: l’omelia della messa domenicale, celebrata in basilica dall’abate Franzoni, viene preparata il sabato sera in un confronto collettivo e paritario con i laici.
Fascisti e cattolici tradizionalisti protestano – passando anche all’azione con irruzioni durante le assemblee e con scritte contro Franzoni sui muri dei palazzi del quartiere –, i gerarchi ecclesiastici mugugnano e guardano a vista la comunità, ma non trovano elementi per intervenire con delle sanzioni. Fino all’aprile del 1973, a causa di una preghiera dei fedeli contro lo Ior, rigorosamente spontanea, letta da un giovane durante la messa domenicale. Il cerchio di stringe, a Franzoni viene imposto dal Vaticano di censurare preventivamente le preghiere, lui rifiuta e il 12 luglio 1973 si dimette da abate, non prima di aver pubblicato la lettera pastorale La terra è di Dio, che conteneva un severo atto d’accusa contro la speculazione fondiaria ed edilizia portata avanti con il silenzio e la complicità dell’istituzione ecclesiastica e contro gli stretti legami fra Chiesa e poteri economici, all’ombra della Democrazia Cristiana. E fuori dal tempio nasce la Comunità cristiana di Base di San Paolo, che l’anno scorso ha celebrato i suoi 40 anni di esistenza (v. Adista Notizie n. 36/13) vissuti con due obiettivi: desacralizzare e riappropriarsi del Vangelo per incarnarlo nella storia, in piena autonomia e libertà di coscienza.
E la storia continua. Nel referendum del 1974 Franzoni si schiera a favore del divorzio e viene sospeso a divinis. Nel 1976, dopo la sua dichiarazione di voto per il Pci, viene dimesso dallo stato clericale. Poi il referendum sull’aborto e il coinvolgimento in tutte le lotte sociali degli anni ‘80 e ‘90. In tempi più recenti l’opposizione alle guerre in Iraq e Afghanistan, il referendum sulla legge 40 contro l’ordine di astensionismo arrivato dal card. Ruini, il sostegno alle battaglie di Beppino Englaro e Piergiorgio Welby, commemorato a San Paolo mentre Ruini gli aveva negato il funerale religioso. Oggi le attività con i profughi afghani accampati alla stazione Ostiense, nell’indifferenza delle istituzioni capitoline; le storiche battaglie contro il Concordato e i cappellani militari, ma anche i percorsi di fede con il gruppo biblico e il gruppo donne che, seguendo il filone della ricerca teologica e biblica femminista, approfondisce le tematiche riguardanti la condizione delle donne nella Chiesa e nella società.
Un’autobiografia che, chiarisce Franzoni, non è «un’apologia e nemmeno un amarcord ma una storia in cammino che continua ancora».
luca kocci
frei Betto commemora François Houtart e Miguel d’Escoto
Una dolorosa perdita per il mondo, per l’America Latina, per la Chiesa della liberazione, la scomparsa, ad appena due giorni di distanza l’uno dall’altro, il 6 e l’8 giugno scorso, del sacerdote e sociologo belga François Houtart, fondatore del Centro Tricontinental dell’Università Cattolica di Lovanio e della rivista Alternatives Sud, e Miguel D’Escoto, sacerdote ed ex ministro degli Esteri del governo sandinista. A rendere loro omaggio, facendo memoria della loro vita e della loro instancabile militanza, è il domenicano Frei Betto, che, in un commento pubblicato sul sito Gente de Opinião (12/6) e su altri altri organi di informazione, ripercorre i momenti più significativi del suo rapporto con le due grandi figure della Chiesa della liberazione. Così, Frei Betto ricorda come Houtart avesse abbandonato l’Europa «per vivere in America Latina e dedicarsi ai movimenti sociali dei Paesi del nostro continente, dell’Africa e dell’Asia», diventando uno dei più prestigiosi intellettuali del movimento altermondialista, grazie soprattutto alle sue lucide critiche nei confronti del modello di sviluppo dominante e alle sue puntuali riflessioni sulla necessità (al di là della pur importante adozione di misure dirette a risolvere problemi immediati) di avviare seriamente una transizione verso un nuovo paradigma centrato sulla realizzazione del Bene Comune dell’Umanità. Con conseguente distinzione, da parte del sociologo belga, tra misure tali da configurare veri «passi avanti verso un nuovo paradigma» e quelle tradotte appena in «un adattamento del sistema esistente a nuove esigenze ecologiche e sociali», particolarmente evidenti, queste ultime, nei Paesi latinoamericani governati da forze più o meno progressiste, convinte, a suo giudizio, «che non si possano sviluppare le forze produttive senza passare per la logica del mercato capitalista» (v. Adista Documenti n. 16/12).
Fedele al governo sandinista (malgrado le pesanti contraddizioni dell’amministrazione Ortega), come pure fedele alla Chiesa cattolica (malgrado la sospensione a divinis subita nel 1984 per il suo rifiuto a rinunciare all’incarico di ministro degli Esteri all’epoca della rivoluzione) è rimasto fino alla fine Miguel D’Escoto, il quale, nel 2014, si era visto accogliere da papa Francesco la sua richiesta di venire reintegrato nel sacerdozio ministeriale (v. Adista Notizie n. 30/14): auspicato lieto fine di una vicenda culminata con la sospensione a divinis decisa dal Vaticano nei confronti di d’Escoto e di altri due “ribelli”, i fratelli Fernando (scomparso il 20 febbraio del 2016, v. Adista Notizie n. 9/16) ed Ernesto Cardenal, rispettivamente ministri della Cultura e dell’Educazione del governo sandinista, tutti e tre convinti sostenitori della necessità di prestare tale servizio al loro Paese, a fronte di una tragica carenza di quadri intellettuali in conseguenza dell’analfabetismo endemico in cui il Nicaragua era precipitato sotto la sanguinosa dittatura di Somoza. Da allora, le strade dei tre sacerdoti-ministri si sarebbero poi divise: dopo la sconfitta della rivoluzione e la crisi del sandinismo, solo d’Escoto era rimasto nel Fronte sandinista, ricoprendo anche, con coraggio e fermezza, la presidenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dal 2008 al 2009 (durante la quale aveva anche reso possibile, tra molte altre cose, l’approvazione unanime, da parte dell’Assemblea Generale, della risoluzione relativa alla Giornata Internazionale della Madre Terra, da celebrarsi il 22 aprile di ogni anno; v. Adista n. 56/09). I due fratelli Cardenal avevano invece abbandonato il Fronte in polemica con la gestione autoritaria del partito da parte di Daniel Ortega e uno di loro, Fernando, era stato riammesso, già nel 1996, dopo un anno di noviziato, nella Compagnia di Gesù, da cui era stato espulso nel 1984 dietro pressione della Santa Sede.
François Houtart si è spento il 6 giugno scorso, in Ecuador. Aveva 92 anni e l’entusiasmo rivoluzionario di un giovane di 20. Il nostro ultimo incontro è stato a marzo, quando ho tenuto una serie di conferenze a Quito su invito del presidente Rafael Correa. François mi ha accompagnato tutto il tempo. Insieme siamo andati a Pucahuaico, dove è sepolto il corpo di mons. Leônidas Proaño, il vescovo degli indios identificato con la Teologia della Liberazione. La cappella, ai piedi del vulcano Imbabura, era piena di indigeni e di gente del popolo. Houtart aveva presieduto la celebrazione eucaristica.
(…). Ero stato alunno di François a Lovanio, in Belgio, dove per anni insegnò Sociologia e Scienze della Religione ad alunni provenienti dalla periferia del mondo, tra cui il colombiano Camilo Torres e il brasiliano Pedro Ribeiro de Oliveira, il quale racconta: «Nel 1975, tornai in Belgio per iniziare il dottorato. Durante la prima riunione di lavoro, Houtart, il mio relatore, smontò tutto quello che avevo preparato per la tesi sul cattolicesimo popolare. Disse che era insufficiente, perché non offriva una spiegazione sociologica. Per accrescere i miei timori, aggiunse: “Come saprai, solo la teoria marxista è realmente esplicativa. Le altre sono appena descrittive”. Uscii da lì stordito, senza riuscire a capire come un prete che era stato perito al Concilio e aveva persino collaborato alla stesura della Gaudium et Spes, fosse diventato marxista senza lasciare la Chiesa. A poco a poco compresi: opponendosi attivamente alla guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, aveva scoperto, nella teoria della lotta di classe, uno strumento teorico in grado di chiarire cosa vi fosse in gioco in quella guerra, nei movimenti anticolonialisti dell’Africa e dell’Asia e nelle dittature latinoamericane. La cosa migliore è che mi convinse una volta per tutte. L’ultima occasione in cui partecipammo insieme a un congresso di Sociologia della Religione, eravamo gli unici sociologi a usare lo strumentario marxista per spiegare fatti religiosi. Scherzai con lui, chiedendogli di aspettare ancora a lungo a lasciare questo mondo, per non lasciarmi solo a utilizzare Marx nell’analisi della religione…».
François era alto, aveva occhi molto chiari e sorrideva facilmente, anche nell’esprimere, al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, nel 2005, pertinenti critiche al governo brasiliano alla presenza dello stesso presidente Lula. Parlava pacatamente e argomentava in maniera didattica, avendo abbandonato l’Europa per vivere in America Latina e dedicarsi ai movimenti sociali dei Paesi del nostro continente, dell’Africa e dell’Asia. Nel 2016, aveva accompagnato il congresso nazionale del MST (Movimento dei Senza Terra), a Brasilia.
Partecipammo insieme a vari eventi in Brasile, a Cuba, in Nicaragua e in Bolivia. Mi chiedevo sempre come un uomo di più di 80 anni trovasse la forza di viaggiare per il mondo, spesso trascinando una pesante valigia con i suoi libri, senza mai lamentarsi di dormire in una tenda indigena nelle Ande, in un insediamento del MST in Brasile o in una capanna di coltivatori di riso in Vietnam.
Nei suoi anni di studio a Roma, François ebbe come collega un giovane chiamato Karol Wojtyla. Mi raccontò che il seminarista polacco aveva un’ossessione per l’apprendimento delle lingue. Approfittava delle ferie per recarsi in regioni europee in cui potesse imparare una nuova lingua. In un’occasione, accompagnò Houtart in Belgio, allo scopo di migliorare il suo francese e di conoscere il fiammingo.
Una notte, Wojtyla tornò a casa sotto una forte pioggia. Le sue scarpe si erano rovinate con l’acqua. François incontrò um seminarista belga che, portando lo stesso numero del polacco, poté cedergli un nuovo paio di scarpe. Decenni dopo, ormai sacerdote, il donatore chiese di essere ricevuto da Giovanni Paolo II. La burocrazia vaticana spiegò che l’agenda era piena. Inviando una nota al papa con il ricordo di quelle scarpe, le porte del Vaticano si aprirono.
Nel 2016, Houtart mi aveva invitato in Ecuador per un seminario sull’enciclica socioambientale Laudato si’ di papa Francesco. Il risultato del lavoro di quei giorni è stata la pubblicazione del libro, scritto a quattro mani, Laudato si’. Cambiamento Climatico e Sistema Económico (Quito, Centro de Publicaciones, Pontifícia Universidad Católica del Ecuador, 2016).
Durante il viaggio intrapreso lo scorso marzo nella regione andina dell’Ecuador, François mi aveva raccontato della sua partecipazione, a 15 anni, alla resistenza contro l’occupazione nazista in Belgio. Insieme a un amico aveva deciso di fabbricare una bomba artigianale per far deragliare un treno di soldati di Hitler. L’operazione non ebbe successo e gli valse una tirata d’orecchi da parte della madre. Mi aveva anche detto che aveva più di dieci fratelli. Dieci anni fa, quando erano tutti vivi, si erano riuniti per celebrare i mille anni che raggiungevano le loro età tutte insieme.
Durante la visita di Giovanni Paolo II a Cuba, nel gennaio del 1998, Fidel aveva invitato Houtart come assistente, insieme a Pedro Ribeiro de Oliveira, al teologo italiano Giulio Girardi e a me. Furono giorni di intenso lavoro comunitario.
Formazione operaia
Nel 2016, François mi aveva offerto un interessante racconto sulla sua formazione, che riporto qui di seguito:
«Negli anni di seminario a Malines (Belgio), partecipai, durante le vacanze, a numerose riunioni della JOC (Gioventù Operaia Cattolica) in Vallonia e a Bruxelles. Fu allora che scoprii la situazione della classe operaia dell’epoca (1944-1949). Nel dopoguerra, lo sforzo di ricostruzione dell’Europa era accompagnato da un forte sfruttamento del lavoro e le condizioni sociali dei giovani erano particolarmente scandalose. I congressi regionali e nazionali della JOC permettevano di informarsi sul quadro più generale della situazione economica e sociale. Inoltre, ebbi la possibilità di visitare diverse fabbriche e miniere di carbone. La JOC belga mi mise in contatto con il movimento in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, in Germania, in Spagna e a poco a poco la dimensione internazionale si trasformò anch’essa in una parte importante del mio ingresso nel mondo del lavoro. In numerose occasioni, conversai con mons. Cardijn (fondatore della JOC) e rimasi molto impressionato dalla sua combattività, dalla sua insistenza sull’incompatibilità tra l’ingiustizia sociale e la fede cristiana e dalla sua conoscenza della vita dei giovani lavoratori. Scoprii anche il metodo pedagogico, quello di non partire dall’alto imponendo un sapere, ma dal basso, scoprendo la realtà: vedere, giudicare, agire.
Questa esperienza mi indusse, dopo l’ordinazione sacerdotale, a chiedere di intraprendere gli studi di Scienze Sociali e Politiche all’Università Cattolica di Lovanio. Vi passai tre anni, restando in permanente contatto con la JOC e viaggiando per l’Europa per gli incontri del movimento. Dedicai la mia tesi di laurea allo studio delle strutture pastorali di Bruxelles, avendo scoperto, da una parte, la loro assenza in ambienti operai e, dall’altra, l’identificazione della cultura religiosa cristiana con la cultura borghese, con conseguente divorzio dalla classe operaia e, particolarmente, dai giovani. (…). Dopo aver ottenuto una borsa di studio per l’Università di Chicago (1952-1953), al fine di continuare a studiare la Sociologia Urbana e la Sociologia della Religione, risiedetti in una parrocchia in cui lavorava il cappellano della JOC della città. Fu anche l’occasione per partecipare a numerosi incontri della JOC degli Stati Uniti. Durante le vacanze di Pasqua del 1953, andai all’Avana per assistere a un Congresso della JOC dell’America Centrale e dei Caraibi, alla presenza di Cardijn, tenendo riunioni con sezioni locali e incontrando il cappellano nazionale di Cuba.
È così che mi affacciai alla problematica latinoamericana, che desideravo conoscere da tempo. (…). Tenni lezioni per un semestre all’Università di Montreal e partecipai anche ad attività del movimento. Da lì mi trasferii di nuovo in America Latina e per 6 mesi percorsi quasi tutti i Paesi, dal Messico all’Argentina, sempre con la JOC, grazie ai contatti stabiliti durante i congressi internazionali. Fu una grande scuola la scoperta del continente dal basso. Una volta ancora, mi trovai di fronte all’abisso tra ricchi e poveri e al terribile sfruttamento dei giovani in ambito urbano e rurale. Rimasi colpito dal ruolo dei sacerdoti, impegnati nel rinnovamento di una Chiesa tanto distante dal popolo e tanto vicina alle élite e alle oligarchie sociali. Erano attivi in tutti i campi: sociale, liturgico, pastorale, biblico. Gran parte di questi sacerdoti apparteneva agli ordini religiosi e molti di loro avevano studiato in Europa. È stato questo contatto con l’America Latina a farmi intraprendere, nel 1958, uno studio socio-religioso sull’insieme del continente, con gruppi in ogni Paese e spesso con membri della JOC. Terminato nel 1962, fu pubblicato in quaranta volumi, finché il Consiglio Episcopale Latinoamericano non mi chiese di prepararne una sintesi in tre lingue da distribuire, all’inizio del Concilio Vaticano II, all’insieme dei vescovi e di accompagnarli come peritus durante nei 4 anni di lavoro conciliare.
Il card. Cardijn mi aveva chiesto nel frattempo di diventare il cappellano internazionale del movimento, ma, benché la proposta mi interessasse evidentemente molto, il mio vescovo, il card. Van Roey, non era di questo avviso. In seguito (…), mi misi in contatto anche con la JOC in Sri Lanka, in India, in Vietnam, in Corea del Sud, nelle Filippine. (…). In Sudafrica, in pieno apartheid, partecipai per 3 giorni a una riunione nazionale con giovani lavoratori bianchi, neri e meticci, malgrado fosse proibito, in un convento dei Padri Oblati, in Bloemfontein. Dovunque, in America Latina, Asia e Africa, mi riunii negli anni successivi con antichi membri della JOC, nei sindacati, nelle Ong o nel seno di partiti politici progressisti e anche rivoluzionari, come in Nicaragua o in Bolivia. Gli insegnamenti tratti dalla JOC sono stati numerosi e fondamentali. In primo luogo, la conoscenza del mondo operaio, delle sue lotte, delle sue organizzazioni. Quindi il metodo del “vedere, giudicare, agire”, che offre una cornice per la riflessione assai efficace in termini di analisi della realtà e di azioni a essa conformi. Se ho studiato Sociologia e ho portato avanti costantemente il lavoro di ricerca, è stato proprio per affinare il “vedere” in società molto diverse e complesse. E ciò mi ha anche permesso di scoprire che era possibile leggere la società non solo dall’alto, ma anche dal basso e che l’opzione del Vangelo era quella di guardare al mondo con gli occhi dei poveri e degli oppressi. Non esiste una scienza neutrale, soprattutto nel quadro delle scienze umane. La pedagogia della JOC e il suo adattamento all’ambiente specifico di giovani lavoratori, spesso a malapena alfabetizzati, mi ha insegnato a utilizzare un linguaggio semplice, a strutturare correttamente il ragionamento perché venga compreso, in una parola a scendere dal piedistallo accademico e a imparare anche da coloro che sono portatori di un sapere pratico, spesso disprezzato dal sapere cosiddetto colto.
Infine, è ancora la JOC che mi ha portato ad approfondire la dimensione sociale del Vangelo, e a comprendere come il Signore ci chieda un amore efficace. Non si tratta unicamente di un atteggiamento personale: questo amore implica la costruzione di una società giusta e l’impegno a seguire l’esempio offerto da Gesù all’interno della sua società, in cui annunciò i valori del Regno di Dio, l’amore per il prossimo, la giustizia, l’uguaglianza, la misericordia, la pace, combattendo tutti i poteri oppressivi, economici, sociali, politici e anche religiosi. Non morì invano sulla croce» (Quito, 1 marzo 2016).
La vita oltre
Nidia Arrobo Rodas, che lavorava con François alla Fundación Pueblo Indio del Ecuador, ha raccontato i suoi ultimi momenti:
«Il nostro amato François se ne è andato così come è vissuto, con una serenità totale, integro, lucido, diafano, in piedi… Il giorno prima, dopo un Atto di denuncia presso lo IAEN (Instituto de Altos Estudios Nacionales) sul genocidio Tamil, avevamo cenato come d’abitudine con la zuppa che tanto gli piaceva – per lui era imprescindibile, la sera, mangiarla insieme nella nostra mini residenza – e, come d’abitudine, era andato a dormire… Chiaramente nella sua stanza aveva continuato a lavorare… Non sappiamo fino a che ora… Fino alle 23 abbiamo ancora ricevuto sue e-mail. Al mattino, si era alzato per fare la doccia ma le forze gli erano venute meno… Si era seduto sulla poltrona vicino al letto e, con la mano sul cuore, è rimasto a dormire il sonno più profondo della sua vita, placidamente, senza alcun rumore, nel più profondo silenzio… Un infarto… Alle sette e mezzo della mattina… si è risvegliato in Dio. Eravamo stati dal cardiologo, su mia richiesta, proprio ad aprile, perché sentivo che si agitava molto e che era come se gli mancasse l’aria… Il cardiologo gli aveva detto che doveva operarsi perché l’arteria del cuore era ostruita, e il bypass non rispondeva più come quattro anni prima, quando gli era stato applicato. Gli avevo detto: François, l’operazione è urgente. Aveva scelto di farla in Belgio su suggerimento dello stesso cardiologo… Ma, per quanto insistessi, aveva deciso di non andare subito: “Ho molti impegni, devo finire le lezioni a giugno e poi vado”. Gli avevo detto che sarebbe passato molto tempo. Ma egli era padrone assoluto della sua volontà e delle sue decisioni… Aveva deciso di completare ciò che era previsto e di partire a giugno per la sua operazione, che, diceva, era un’inezia. Aveva già i biglietti e le valigie pronte per viaggiare il 9 giugno prima a Bogotá, poi una settimana a Cuba, poi una settimana in Brasile e infine in Belgio. Io sapevo che aveva scelto di vivere con noi, che era felice, che ha vissuto felicemente… e penso che in fondo al cuore volesse terminare qui i suoi giorni.
(…). Abbiamo goduto della sua presenza gioviale, piena di amicizia, di finezza di spirito, di delicatezza, di attenzioni, ma al tempo stesso so che anche lui è stato felice con noi… Ce lo diceva sempre e questo mi riempie di gioia e di gratitudine. Lo sentiamo tra di noi, è vivo e resterà vivo e resuscitato nelle lotte di liberazione di tutti gli impoveriti del mondo e nei dolori di parto dei popoli indigeni e della nostra Pachamama. Come risulta dal suo testamento, lo abbiamo cremato… e al più presto le sue ceneri riposeranno insieme a quelle della madre in Belgio».
Miguel D’Escoto
Due giorni dopo la scomparsa di Houtart, ho perso un altro amico, anche lui prete e rivoluzionario, padre Miguel D’Escoto, morto a 84 anni. Ministro degli Affari Esteri del Nicaragua sandinista tra il 1979 e il 1990, ha presieduto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite negli anni 2008-2009.
Figlio di un diplomatico, D’Escoto era nato a Los Angeles nel 1933. Era stato ordinato sacerdote nella congregazione di Maryknoll ed era stato uno dei fondatori della casa editrice newyorchese Orbis Books, che, nel 1977, aveva pubblicato negli Stati Uniti il mio libro Lettere dalla prigione, con il titolo Against Principalities and Powers.
Fu D’Escoto a ricevere me e Lula a Managua, in occasione del primo anniversario della Rivoluzione Sandinista, nel luglio del 1980. Ci condusse alla casa di Sérgio Ramirez, allora vice-presidente del Paese, la sera del 19 luglio, quando conoscemmo e conversammo lungamente con Fidel Castro.
Nel gennaio del 1980, venne a São Paulo, in compagnia di Daniel Ortega, presidente del Nicaragua, per partecipare al primo congresso mondiale della Teologia della Liberazione. Fu uno degli oratori della Notte Sandinista, nel teatro dell’Università Cattolica di São Paulo.
Il 29 novembre del 1981, a Managua, lo incontrai nuovamente a casa sua (…), insieme a Daniel Ortega, al segretario generale del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale René Nuñez, ai teologi Gustavo Gutiérrez, Pablo Richard, Fernando Cardenal, Uriel Molina e al ministro del Benessere Sociale, p. Edgard Parrales.
D’Escoto, che era appena tornato dal Messico, aveva descritto in maniera dettagliata le conversazioni sull’America Centrale che avevano intrattenuto il presidente López Portillo e il general Alexander Haig, segretario di Stato degli Stati Uniti. Tra le persone presenti a casa di D’Escoto era palpabile la soddisfazione per l’efficienza dello spionaggio sandinista all’interno del governo messicano.
Parlammo della congiuntura della Chiesa, della campagna internazionale contro la Rivoluzione e della Gioventù Sandinista, affidata alle cure di Fernando Cardenal. Mi preoccupava il carattere meccanicistico del marxismo divulgato tra i giovani sandinisti, una mera apologetica di vecchi manuali russi. Posi l’accento sull’importanza che i sacerdoti al potere – D’Escoto, Parrales e i fratelli Cardenal – esplicitassero pubblicamente la loro vita di fede. Temevo che riflettessero un’immagine più politica che cristiana.
Il 16 novembre del 1984, a Managua, tornai a casa di D’Escoto. Gli chiesi per quale motivo non fosse andato alla riunione dell’OEA (Organizzazione degli Stati Americani, ndt) a Brasilia. «Per non legittimare l’OEA – rispose – che continua a servire da strumento nelle mani degli Stati Uniti contro la sovranità dei popoli dell’America Centrale».
Celebrammo l’eucarestia sotto la veranda di vimini del suo cortile. Leggemmo e meditammo Matteo 4, 25 ss. D’Escoto si sfogò: «Ho il corpo e la mente stanchi, perché non riesco più a seguire il ritmo accelerato imposto dalle circostanze. Sogno di godermi la solitudine, di aver tempo per me, di non dover stare sempre attento al telefono. So però che nel frattempo è solo un sogno. Dalla mia intimità con Gesù traggo le forze che mi sostengono».
Alla fine della celebrazione, mi disse: «Ti chiedo due cose. Sto leggendo con molto piacere l’ultimo libro di dom Pedro Casaldáliga. Ho saputo che, fra poco, andrà in Spagna. Chiedigli di passare prima per il Nicaragua. E insisti con dom Paulo Evaristo Arns perché venga all’insediamento di Daniel, il prossimo 10 gennaio».
«Perché non telefoniamo ora a dom Paulo?», suggerii. Tentammo, ma il cardinale di São Paulo non era in casa.
Undici giorni dopo trasmisi personalmente il messaggio a dom Paulo Evaristo Arns. L’anno successivo, dom Pedro Casaldáliga visitò il Nicaragua.
Nel marzo del 1986, lo incontrai nuovamente all’Avana, in compagnia di Rosario Murillo (attuale vice-presidente del Nicaragua e moglie di Daniel Ortega) e di Manuel Piñeiro, capo del Dipartimento per l’America del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba. Parlammo a lungo della situazione del Nicaragua e dell’appoggio esplicito che i vescovi Miguel Obando e Pablo Antonio Vega davano alla politica aggressiva di Reagan. D’Escoto era dell’opinione che i preti, i religiosi e i laici dovessero affrontare coraggiosamente l’arcivescovo di Managua, passando, se necessario, alla disobbedienza ecclesiastica. Questo gli valse, successivamente, la sospensione dall’esercizio sacerdotale da parte di Giovanni Paolo II, misura revocata da papa Francesco.
Nel gennaio del 1989, all’Avana, ci vedemmo alla commemorazione dei 30 anni della Rivoluzione Cubana. Si intrattenne in una lunga conversazione con Leonardo Boff sulla teologia della Trinità. «È la base della mia spiritualità», gli sentii dire. E si lamentò della situazione del suo Paese: «La cosa più dura per il popolo del Nicaragua non è l’aggressione americana, ma la mancanza di appoggio da parte della Chiesa».
Ci sono stati altri incontri, successivamente, come all’epoca in cui presiedeva l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, perdendo completamente la fiducia nell’efficacia di questa importante istituzione, manipolata dagli interessi della Casa Bianca.
La scomparsa di François Houtart e Miguel D’Escoto è una perdita per l’America Latina, per la causa dei poveri e per la Teologia della Liberazione. L’eredità che ci lasciano riguarda il modo in cui vivere la fede cristiana in un mondo diviso tra pochi miliardari e una moltitudine di miserabili e ciò che significa essere discepoli di Gesù in questo tormentato inizio del XXI secolo.
anche per l’islam l’essenza di Dio è perdono e misericordia – un altro modo di guardare all’islam
di Pietro Citati in “la Repubblica” del 10 luglio 2017
In nessuna religione, mai, l’unicità di Dio ha avuto un ruolo così intenso, violento ed esasperato come nell’Islam. “Non vi è divinità all’infuori di Dio”: vale a dire; “non vi è nulla che esiste all’infuori di Dio”. Come dice al-Ghazali (1058-1110), all’inizio del “Rinnovamento delle scienze religiose” (“Scritti scelti”, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, Utet),
“nella sua essenza egli è Uno senza socio, Singolo senza simile, Signore senza oppositore, Solo senza rivali, Eterno senza un prima, Perpetuo senza un principio, Perenne senza un ultimo, Sempiterno senza fine, Sussistente senza cessazione, Continuo senza interruzione”. Allah è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”, dice il Corano. Non è un corpo con una forma, né una sostanza con limite e misura. Non è simile a cosa alcuna: misure non lo limitano, né lo contengono spazi. Egli è: non lo circoscrivono lati: non lo racchiudono terre né cieli; è seduto sul Trono senza contatto, assestamento, insediamento, dimora, spostamento. Egli non abita in cosa alcuna, né alcuna cosa abita in lui: è troppo elevato perché lo possano contenere luoghi, troppo puro perché lo possano limitare tempi; anzi Egli era prima di creare tempi e luoghi. Egli è l’Unico che non ha contrari, il Signore che non ha opposti, il Ricco che non ha bisogno, il Potente che fa ciò che vuole, il Sussistente, il Dominatore delle cose inerti, degli animali e delle piante, Colui che ha la grazia, la maestà, lo splendore e la perfezione. Se un uomo è rinchiuso nell’inferno, basta che egli conosca l’unicità di Dio perché lasci l’inferno. Come disse Maometto: “Chiunque dice: ‘non vi è Iddio se non Iddio, entrerà in Paradiso’”.
Nel suo bel libro L’esoterismo islamico (Adelphi), Alberto Ventura esplora Allah, senza cessare di paragonarlo alle figure divine nella Qabbalah, nel Tao, nella cultura indiana e in pseudo-Dionigi l’Areopagita.
Non possiamo che implorare Allah:
“O Dio, dice al-Ghazali, ti chiedo una grazia totale, una protezione continua, una misericordia completa, un’esistenza felice: ti chiedo beneficio perfetto e favore completo, generosità dolcissima, bontà affabile. O Dio sii con noi e non contro di noi. Attua largamente le nostre speranze, congiungi i nostri mattini e le nostre sere, versa in gran copia il tuo perdono sulle nostre colpe, accordaci il favore di correggere i nostri difetti, o Potente, o Perdonatore, o Generoso, o Sapiente, o Onnipotente. O Primo dei primi, o Ultimo degli ultimi, o più Misericordioso della misericordia”.
Al-Ghazali insegue tutti gli aspetti di Dio. Allah è oltre ogni nome e attributo, oltre ogni condizione e relazione, oltre tutte le apparenze e gli occultamenti, oltre ogni palesarsi e nascondersi, oltre ogni congiungimento e separazione, oltre tutte le contemplazioni e le intuizioni, oltre ogni cosa pensata e immaginata. Egli è oltre l’oltre, e poi oltre l’oltre, e poi ancora oltre l’oltre. Egli è il Principio infinito, incondizionato e immortale, che non può venire racchiuso entro i confini della ragione umana. È l’essere e il non-essere, il manifestato e il non manifestato, il suono e il silenzio. La sua immagine più adeguata è una notte tenebrosissima, nella quale non si può scorgere nulla di determinato e preciso. Allah non somiglia a niente: nessuna cosa gli somiglia; la sua mano non somiglia alle altre mani, né la sua penna alle altre penne, né la sua parola alle altre parole, né la sua scrittura alle altre scritture. Eppure somiglia al mondo e all’uomo e il mondo e l’uomo gli assomigliano: “se non ci fossero le somiglianze, l’uomo non potrebbe elevarsi dalla conoscenza di sé stesso alla conoscenza del creatore”. Allah determina tutte le cose. Non avviene, nel mondo inferiore e in quello superiore, batter di ciglio, balenar di pensiero, subitaneo volgere di sguardo, se non per decreto, potere e volontà di Dio. Da lui proviene il male e il bene, l’utilità e il danno, l’Islam e la miscredenza, la conoscenza e la sconoscenza, il successo e la perdita, il vero e il falso, l’obbedienza e la disobbedienza, il politeismo e la fede. Anche il male – insiste al-Ghazali – e gli atti di ribellione umana non accadono per volontà di Satana ma di Dio. A volte egli proibisce ciò che vuole, e ordina ciò che non vuole. Non ha scopi, mentre gli uomini hanno scopi precisi. Desidera ciò che desidera senza alcun timore; e decide e fa quello che vuole, senza timore. Se ti fa perire, egli ha già fatto perire un numero infinito di tuoi simili e non ha smesso di tormentarli. “Sorveglia i tuoi respiri e i tuoi sguardi – dice al-Ghazali – e sta bene attento a non distrarti da Dio un solo istante”. A volte egli ci protegge da ogni tribolazione e malattia: ma egli non ha mai, in nessun momento, obblighi verso di noi o verso il mondo, di cui non ha assolutamente bisogno. Come diceva Ali Bakr, la nostra assoluta incapacità di comprendere Dio è il nostro modo supremo di comprenderlo: sapere che noi siamo esclusi da lui è la nostra vera vicinanza. “Lode a colui che ha stabilito per le creature una via alla sua comprensione attraverso l’incapacità di comprenderlo”. Quando Dio entra nel cuore umano, la luce vi risplende, il petto si allarga, scopriamo il mistero del mondo, la grazia della misericordia cancella il velo dell’errore, e brilla in noi la realtà delle cose divine. Il cuore ripete il nome di Dio, fino a quando la lingua lo pronuncia incessantemente, senza essere comandata. Da principio è un rapido baleno che non permane, poi ritorna, si ritira, passa, ritorna. Tuttavia nemmeno in questo istante esiste in al-Ghazali quella identificazione con Dio, che altri mistici islamici (come al-Hal- laj) esperimentano e di cui parlano inebriati. Al-Ghazali preferisce parlare di annientamento dell’uomo: anzi di annientamento dell’annientamento, “perché il fedele si è annientato rispetto a sé stesso, e si è annientato rispetto al proprio annientamento: in quello stato egli è incosciente di sé stesso e incosciente della propria incoscienza”. Rispetto al Principio supremo, ogni elemento della realtà, se viene considerato in sé e per sé, è quasi insignificante, quasi illusorio, quasi un puro nulla. Ma al tempo stesso esso è significante perché è capace di riflettere l’Assoluto increato. Allora il molteplice manifesta l’essenza, e il passaggio dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice è istantaneo. Così il mare, dice Ibn Arabi, si moltiplica nella forma delle onde, pur rimanendo sé stesso. Dio è altro rispetto alle cose: ma non così altro da escludere ogni somiglianza; dunque è insieme altro e simile. Se qualcuno dicesse: “non conosco che Dio eccelso” direbbe la verità; ma se dicesse “non conosco Dio eccelso”, direbbe ugualmente il vero. Questa – sottolinea Alberto Ventura – è la profonda doppiezza, ambiguità e ricchezza della vita e della cultura islamica. Quando l’intelletto umano è libero dagli inganni della fantasia e dell’immaginazione, esso può vedere le cose come sono. È quella che al-Ghazali chiama la condizione profetica: nella quale rifulgono le tavole dell’invisibile, le leggi dell’Altra vita, le conoscenze su Dio che vanno oltre la portata dello spirito intellettivo. Dio dunque si può vedere. Ci sono persone che vedono le cose tramite lui, e altre che vedono le cose e tramite le cose vedono lui. I primi hanno una visione diretta di Dio: i secondi lo deducono dalle sue opere; i primi appartengono alla categoria dei giusti, i secondi a quella dei sapienti. Talvolta Dio si manifesta così intensamente e in modo così esorbitante, che viene occultato. Come dice il Corano, Dio è nascosto dietro settanta (o settecento o settemila) veli di luce e di tenebra: se egli li rimuovesse, il suo sublime splendore brucerebbe chiunque sia giunto vicino a lui con lo sguardo. Dio si nasconde dietro sé stesso. La sua luce è il suo velo. Secondo una tradizione raccontata dal Al-Ghazali, Dio ha detto: “Se il mio servo commette un peccato grande come la terra, io lo accolgo con un perdono grande come la terra”. Quando l’uomo pecca, l’angelo tiene sollevata la penna per sei ore: se l’uomo si pente e chiede perdono, l’angelo non registra il peccato a suo carico; se continua a peccare, registra il suo peccato soltanto come una cattiva azione. Dio non si stanca di perdonare finché il suo servo non si stanca di chieder perdono. Se il fedele si propone una buona azione, l’angelo la segna prima che egli l’abbia compiuta e, se la compie, gliene vengono registrate dieci. Quindi Dio la moltiplica fino a settecento volte. Allah perdona soprattutto i grandi peccatori. Come dice Maometto: “Io ho la facoltà di intercedere per i grandi peccatori. Credi forse che userei questa facoltà per gli uomini obbedienti e timorati? No, essa riguarda soltanto gli insozzati dalla mente confusa”. Ibrahim, figlio di un emiro della Battriana, racconta: “Mentre una volta giravo intorno alla Ka’ba, in una notte piovigginosa e scura, mi fermai presso la porta e dissi: ‘mio Signore preservami dal peccato, affinché mai io mi ribelli a Te’. Una voce proveniente dalla Ka’ba mi sussurrò: ‘O Ibrahim mi chiedi di preservarti dal peccato e tutti i miei servi mi chiedono questo. Se io preservassi te e loro dal peccato, su cosa riverserei la mia grazia e chi perdonerei?’”.
Il perdono di Dio: sia per gli islamici sia per i cristiani, questa è l’essenza della rivelazione di Allah.