“con il cuore siamo col papa ma col cervello…”

il papa fa il papa ma …
di Tonio Dell’Olio

in “www.mosaicodipace.it” del 29 marzo 2022

In questi giorni, molti dei politici intervistati sulle posizioni espresse dal Papa circa il nuovo programma riarmista, rispondono con un mantra che dice: “Il papa deve dire quelle cose, è un po’ il suo lavoro, ma poi tocca a noi fare le scelte concrete”. L’altra versione ascoltata è: “Con il cuore siamo col Papa ma col cervello…”. La replica scontata è che l’organo realmente danneggiato sia il fegato. Il copione prevede che in taluni casi l’intervistato assuma un’aria sofferta e addolorata perché deve piegarsi al realismo di un mondo in cui le armi sono necessarie. Non saltano l’appuntamento filosofi e teologi che, con fini argomentazioni storiche, dottrinali, antropologiche e morali, giustifichino la liceità di investire miliardi di euro all’anno per rafforzare la difesa armata e dicono che sarebbe “peccato” piuttosto non farlo. Si respira l’aria di una resa rassegnata e incapace di ribellarsi a un destino che viene presentato come ineluttabile. La politica – invece – quando non è vittima delle lobby e di interessi economici, deve avere il coraggio di elevarsi per scrutare meglio l’orizzonte della storia e mettersi al servizio di progetti di pace. E se giudichiamo questo tempo di guerra come una sconfitta dolorosa, con quale coraggio andiamo a rafforzare le condizioni per proseguire nella stessa strada della guerra e della sua preparazione? Insomma se il Papa ha ragione, si abbia il coraggio di tirarne le conseguenze e di pensare politiche coerenti per un nuovo ordine mondiale. È tutt’altro che utopia.

papa Francesco che parla di pazzia della guerra è più realista dei realisti

“il papa parla di pace, ma…”

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“Il Papa parla contro il riarmo, ma… Il Papa fa il Papa, ma… Il Papa non può che dire ciò che dice, ma…”. C’è sempre un “ma” che in tanti imbarazzati commenti accompagna l’inequivocabile no alla guerra pronunciato da Francesco, per contestualizzarlo e depotenziarlo. Non potendo interpretare nel senso voluto le parole del vescovo di Roma, non potendo in alcun modo “piegarle” a sostegno della corsa al riarmo freneticamente intrapresa a seguito della guerra di aggressione scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, allora se ne prendono elegantemente le distanze, dicendo che sì, il Papa non può che dire ciò che dice ma poi deve essere la politica a decidere. E la politica dei governi occidentali sta decidendo di aumentare i già tanti miliardi da spendere per nuove e sempre più sofisticate armi. Miliardi che non si trovavano per le famiglie, per la sanità, per il lavoro, per l’accoglienza, per combattere la povertà e la fame.

La guerra è un’avventura senza ritorno, ripete Francesco sulle orme dei suoi immediati predecessori, in particolare di san Giovanni Paolo II . Anche le parole di Papa Wojtiła in occasione delle due guerre all’Iraq e della guerra nei Balcani vennero “contestualizzate” e “derubricate”, pure dentro la Chiesa. Il Papa che all’inizio del pontificato chiese di «non avere paura» nell’aprire «le porte a Cristo» nel 2003 supplicò invano tre governanti occidentali intenzionati a rovesciare il regime di Saddam Hussein, chiedendo loro di fermarsi. A distanza di quasi vent’anni, chi può negare che il grido contro la guerra di quel Pontefice non fosse soltanto profetico, ma anche imbevuto di profondo realismo politico? Basta guardare alla rovina del martoriato Iraq, trasformato per lungo tempo nella sentina di tutti i terrorismi, per comprendere quanto lungimirante fosse lo sguardo del santo Pontefice polacco.

Oggi accade lo stesso. Con il Papa che non si arrende all’ineluttabilità della guerra, al tunnel senza uscita rappresentato dalla violenza, alla logica perversa del riarmo, alla teoria della deterrenza che ha imbottito il mondo di così tante armi nucleari in grado di annientare diverse volte l’umanità intera.

«Io mi sono vergognato — ha detto nei giorni scorsi Francesco — quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato — non facendo vedere i denti, come adesso —, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare».

Il no alla guerra di Francesco, un no radicale e convinto, non ha nulla a che vedere con la cosiddetta neutralità né può essere presentato come una posizione di parte o motivata da calcoli politico-diplomatici. In questa guerra ci sono gli aggressori e ci sono gli aggrediti. C’è chi ha attaccato e ha invaso uccidendo civili inermi, mascherando ipocritamente il conflitto sotto il maquillage di una «operazione militare speciale»; e c’è chi si difende strenuamente combattendo per la propria terra. Il Successore di Pietro questo l’ha detto più volte con parole chiarissime, condannando senza se e senza ma l’invasione e il martirio dell’Ucraina che dura da più di un mese. Ciò non vuol dire però “benedire” l’accelerazione della corsa al riarmo, peraltro già iniziata da tempo dato che i Paesi europei hanno aumentato le spese militari del 24,5% a partire dal 2016, perché il Papa non è il “cappellano dell’Occidente” e perché ripete che oggi stare dalla parte giusta della storia significa essere contro la guerra cercando la pace senza mai lasciare nulla di intentato. Certo, il Catechismo della Chiesa cattolica contempla il diritto alla legittima difesa. Pone però delle condizioni, specificando che il ricorso alle armi non deve provocare mali e disordini più gravi del male da eliminare, e ricorda che nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso «la potenza dei moderni mezzi di distruzione». Chi può negare che l’umanità si trovi oggi sull’orlo del baratro proprio a causa dell’escalation del conflitto e della potenza dei «moderni mezzi di distruzione»?

«La guerra — ha detto ieri all’Angelus Papa Francesco — non può essere qualcosa di inevitabile: non dobbiamo abituarci alla guerra! Dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. Perché, se da questa vicenda usciremo come prima, saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia».

C’è dunque bisogno di prendere sul serio il grido, l’appello del Papa: è un invito rivolto proprio ai politici a riflettere su questo, a impegnarsi su questo. C’è bisogno di una politica forte e di una diplomazia creativa, per perseguire la pace, per non lasciare nulla di intentato, per fermare il vortice perverso che in poche settimane sta facendo tramontare le speranza di una transizione ecologica, sta ridando nuove energie al grande business del commercio e del traffico delle armi. Un vento di guerra che mettendo indietro le lancette dell’orologio della storia ci fa ripiombare in un’epoca che speravamo fosse stata definitivamente archiviata dopo la caduta del Muro di Berlino.

di ANDREA TORNIELLI

il pacifista ucraino e il suo appello all’Ucraina e alla Russia

l’appello di Yurii Sheliazhenko, coraggioso leader del movimento pacifista ucraino

Yurii Sheliazhenko fa parte del direttivo della rete pacifista internazionale World Beyond War. Vive in Ucraina. È segretario esecutivo dell’Ukrainian Pacifist Movement e membro dell’Ufficio europeo per l’obiezione di coscien

questo il suo appello

Viviamo in tempi difficili che richiedono coraggio per promuovere la pace. Quando nazioni vicine con una storia intrecciata cominciano a opprimersi, distruggersi e uccidersi a vicenda anno dopo anno, sul proprio territorio o invadendo il territorio del vicino…

Quando scrivi su Facebook che la Carta delle Nazioni Unite richiede la risoluzione pacifica di tutte le controversie e che, pertanto, il presidente Putin della Russia e il presidente Zelenskyy dell’Ucraina dovrebbero cessare il fuoco e avviare colloqui di pace – e ricevi commenti pieni di oscenità e maledizioni…

Quando viene proclamata la legge marziale e la mobilitazione totale e i fucili vengono consegnati a migliaia di persone appena reclutate e i selfie con i fucili diventano di tendenza sui social e nessuno sa chi e perché qualcuno improvvisamente spara in strada…

Quando anche i civili in un condominio si preparano ad accogliere il nemico con le molotov, lo raccomanda l’esercito, e cancellano dalla loro chat un vicino percepito come un traditore solo perché ha invitato la gente a stare attenta, a non bruciare la casa comune e a non permettere ai militari di usare i civili come scudo umano…

Quando suoni lontani di esplosioni dalle finestre si mescolano nella mente con messaggi di morte e distruzione, e odio, e sfiducia, e panico, e chiamate alle armi, a più spargimento di sangue per la sovranità…

…è un’ora buia per l’umanità. Dobbiamo sopravvivere e superarla, e impedire che si ripeta. Il Movimento pacifista ucraino condanna tutte le azioni militari da parte della Russia e dell’Ucraina nel contesto dell’attuale conflitto. Condanniamo la mobilitazione militare e l’escalation dentro e fuori l’Ucraina, comprese le minacce di guerra nucleare.

Lanciamo un appello alla leadership di entrambi gli Stati e alle forze militari affinché facciano un passo indietro e si siedano davvero al tavolo dei negoziati. La pace in Ucraina e nel mondo può essere raggiunta solo in modo nonviolento. La guerra è un crimine contro l’umanità. Pertanto, siamo determinati a non sostenere alcun tipo di guerra e a lottare per la rimozione di tutte le cause di guerra. È difficile rimanere calmi e sani di mente ora, ma con il sostegno della società civile globale è più facile.

Purtroppo, anche i guerrafondai stanno spingendo la loro agenda in tutto il mondo. Chiedono più aiuti militari per l’Ucraina e sanzioni economiche distruttive contro la Russia. La Nato dovrebbe fare un passo indietro dal conflitto sull’Ucraina, aggravato dal suo sostegno allo sforzo bellico e dalle aspirazioni di adesione del governo ucraino all’Alleanza.

La Nato dovrebbe idealmente sciogliersi o trasformarsi in un’alleanza per il disarmo. L’Ucraina non dovrebbe schierarsi con nessuna grande potenza militare, che siano gli Stati Uniti, la Nato o la Russia. In altre parole, il nostro paese dovrebbe essere neutrale. Il governo ucraino dovrebbe smilitarizzare, abolire la coscrizione, risolvere pacificamente le dispute territoriali riguardanti Donbass e Crimea e contribuire allo sviluppo di una futura governance globale nonviolenta, invece di cercare di costruire uno Stato nazionale del 20° secolo armato fino ai denti.

Sarà più facile negoziare con la Russia e i separatisti se si condividerà la visione che l’Ucraina, il Donbass e la Crimea in futuro saranno insieme su un pianeta unito senza eserciti e confini. Anche se alle élite manca il coraggio intellettuale di guardare al futuro, la comprensione pragmatica dei benefici del mercato comune dovrebbe aprire la strada alla pace.

Tutti i conflitti dovrebbero essere risolti al tavolo dei negoziati, non sul campo di battaglia; il diritto internazionale lo richiede e non c’è altro modo plausibile per risolvere le controversie emergenti dai traumatici eventi del 2014 a Kiev, Crimea e Donbass, dopo otto anni di spargimento di sangue da parte delle forze ucraine e filorusse e con l’attuale tentativo militarista aggressivo russo di annullare quel cambio di regime in Ucraina.

Invece di affogare nella rabbia gli ultimi legami umani, abbiamo bisogno più che mai di preservare e rafforzare i luoghi di comunicazione e cooperazione tra tutte le persone sulla Terra, e ogni sforzo individuale di questo tipo ha un valore.

La nonviolenza è lo strumento più efficace e progressivo per la governance globale e la giustizia sociale e ambientale, rispetto alle illusioni sulla violenza sistemica e la guerra come panacea, soluzione miracolosa per tutti i problemi socio-economici.

L’Ucraina e la Russia non hanno forse sofferto abbastanza per capire che la violenza non funziona? Putin e Zelenskyy dovrebbero impegnarsi in colloqui di pace seriamente e in buona fede, come politici responsabili e rappresentanti dei loro popoli, sulla base di interessi pubblici comuni, invece di combattere per posizioni che si escludono a vicenda.”

(appello rilanciato dall’agenzia Pressenza)

L. Boff efuriosi attacchi da parte dei cristiani tradizionalisti e dei suprematisti bianchi i

attacchi spietati a papa Francesco, “giusto tra le nazioni”

un testo di Leonardo Boff

Dall’inizio del suo pontificato, nove anni fa, Papa Francesco è stato oggetto di furiosi attacchi da parte dei cristiani tradizionalisti e dei suprematisti bianchi, di quasi tutto il nord del mondo, degli Stati Uniti e dell’Europa. Hanno persino costruito un complotto, mettendo insieme milioni di dollari, per deporlo come se la Chiesa fosse un’impresa e il papa il suo amministratore delegato. Tutto invano. Lui segue il suo cammino nello spirito delle beatitudini evangeliche dei perseguitati.

Le ragioni di questa persecuzione sono diverse: ragioni geopolitiche, lotte di potere, un’altra visione della Chiesa e la cura della Casa Comune.

Alzo la mia voce in difesa di Papa Francesco a partire dalla periferia del mondo, dal Grande Sud. Mettiamo a confronto i numeri: solo il 21,5% dei cattolici vive in Europa, il 78,5% vive fuori dall’Europa e il 48% in America. Siamo, quindi, la stragrande maggioranza. Fino alla metà del secolo scorso la Chiesa cattolica era del primo mondo. Ora è una Chiesa del terzo e quarto mondo, che un tempo ebbe origine nel primo mondo. Qui sorge una questione geopolitica. I conservatori europei, ad eccezione di importanti organizzazioni cattoliche di cooperazione solidale, hanno un sovrano disprezzo per il Sud, in particolare per l’America Latina.

La Chiesa-grande-istituzione fu alleata della colonizzazione, complice del genocidio indigeno e partecipante allo schiavismo. Qui si è costituita una Chiesa coloniale, specchio della Chiesa europea. Succede che in più di 500 anni, nonostante la persistenza della Chiesa specchio, si è verificata un’ecclesiogenesi, la genesi di un altro modo di essere Chiesa. Chiesa, non più specchio, ma fonte: incarnatasi nella cultura locale indigena-afro-meticcia e dei popoli immigrati provenienti da 60 paesi diversi. Da questo amalgama ha creato il suo stile di adorare Dio e celebrare, di organizzare la sua pastorale sociale dalla parte degli oppressi, che lottano per la loro liberazione. Ha progettato la sua teologia adatta alla sua pratica liberatoria e popolare. Ha i suoi profeti, confessori, teologi e teologhe, santi e molti martiri, tra cui l’arcivescovo di San Salvador Arnulfo Oscar Romero.

Questo tipo di Chiesa è fondamentalmente composto da comunità ecclesiali di base, dove si vive la dimensione della comunione degli eguali, tutti i fratelli e le sorelle, con i loro coordinatori laici, uomini e donne, con i sacerdoti inseriti in mezzo alla gente e i vescovi, mai dando le spalle al popolo come autorità ecclesiastiche, ma insieme come pastori, con «odore di pecora» con la missione di essere «defensores et advocati pauperum», come si diceva nella Chiesa primitiva. Papi e autorità dottrinali vaticane hanno cercato di limitare e persino condannare un tale modo di essere Chiesa, spesso con l’argomento che non sono Chiesa perché non vedono in loro il carattere gerarchico e lo stile romanico. Questa minaccia è durata molti anni finché, finalmente, è emersa la figura di papa Francesco. Lui nasce dal brodo di questa nuova cultura ecclesiale ben espressa dall’opzione preferenziale, non esclusiva, per i poveri e dai vari filoni della teologia della liberazione che l’accompagna. Ha dato legittimità a questo modo di vivere la fede cristiana, soprattutto in situazioni di grande oppressione.

Ma ciò che scandalizza di più i cristiani tradizionalisti è il suo stile di esercitare il ministero dell’unità della Chiesa. Non appare più come il pontefice classico, vestito di simboli pagani, assunti dagli imperatori romani, in particolare la famosa “mozzetta”, quella piccola mantellina rossa piena di simboli del potere assoluto dell’imperatore e del papa. Francesco subito se n’è sbarazzato e ha indossato una “mozzetta” bianca, spoglia come quella del grande profeta del Brasile, Dom Helder Câmara, e con la sua croce di ferro senza gioielli. Ha rifiutato di abitare in un palazzo pontificio, quello che avrebbe fatto uscire San Francesco dalla tomba per condurlo dove ha scelto di vivere: in una semplice pensione, Santa Marta. E li [nella mensa] si mette in fila per servirsi da solo e mangia con tutti. Con umorismo possiamo dire: così è più difficile avvelenarlo. Non indossa Prada, ma le sue vecchie scarpe consumate. Nell’annuario pontificio in cui si usa un’intera pagina con i titoli onorifici dei Papi, egli semplicemente ha rinunciato a tutti loro, scrivendo solo Franciscus, pontifex. Ha detto chiaramente in uno dei suoi primi pronunciamenti che non presiederà la Chiesa con il diritto canonico, ma con amore e tenerezza. Innumerevoli volte ha ripetuto di volere una Chiesa povera e dei poveri.

Tutto il grande problema della Chiesa-grande-istituzione risiede, dagli imperatori Costantino e Teodosio, nell’assunzione del potere politico, trasformato nel potere sacro (sacra potestas). Questo processo raggiunse il suo culmine con papa Gregorio VII (1075) con la sua bolla Dictatus Papae che ben tradotto è la “Dittatura del Papa”. Come dice il grande ecclesiologo Jean-Yves Congar, con questo Papa si consolidò la svolta più decisiva della Chiesa, che tanti problemi ha creato e da cui non si è mai più liberata: l’esercizio centralizzato, autoritario e persino dispotico del potere. Nelle 27 proposizioni della bolla, il Papa è considerato il signore assoluto della Chiesa, l’unico e supremo signore del mondo, divenendo la suprema autorità nel campo spirituale e temporale. Ciò non è mai stato cancellato.

Basta leggere il Canone 331 in cui si dice che “il Pastore della Chiesa universale ha la potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale”. Qualcosa di inaudito: se cancelliamo il termine Pastore della Chiesa universale e inseriamo Dio la frase funziona perfettamente. Chi tra gli esseri umani, se non Dio, può attribuirsi una tale concentrazione di potere? Non è senza significato che nella storia dei Papi c’è stata una crescita del faraonismo del potere: da successori di Pietro, i Papi si sono creduti rappresentanti di Cristo. E come se non bastasse, rappresentanti di Dio, fino ad essere chiamati deus minor in terra. Qui si realizza l’hybris [l’arroganza] greca e ciò che Thomas Hobbes annota nel suo Leviatano: “Noto, come tendenza generale di tutti gli uomini, un desiderio perpetuo e irrequieto di potere e di più potere. La ragione di ciò risiede nel fatto che il potere non può essere garantito se non cercando ancora più potere”. Questa è stata la tragica traiettoria della Chiesa cattolica alle prese con il potere che persiste fino ai nostri giorni, fonte di polemiche con le altre Chiese cristiane e di estrema difficoltà nell’assumere i valori umanistici della modernità. Essa è lontana anni luce dalla visione di Gesù che voleva un potere-servizio (hierodulia) e non un potere-gerarchico (hierarquia).
Da tutto questo papa Francesco prende le distanze, cosa che suscita indignazione nei conservatori e anche nei reazionari, ben espressa nel libro di 45 autori dell’ottobre 2021: “Dalla pace di Benedetto alla guerra di Francesco” (From Benedict’s Peace to Francis’s War) a cura di Peter A Kwasnievskij. Noi replicheremmo così: “Dalla pace dei pedofili di Benedetto (coperti da lui) alla guerra contro i pedofili di Francesco (da lui condannati)”. È noto che il papa in pensione Benedetto XVI è stato indiziato come colpevole da un tribunale di Monaco per la sua clemenza nei confronti dei preti pedofili.

C’è un problema di geopolitica ecclesiastica: i tradizionalisti rifiutano un Papa che viene “dalla fine del mondo”, che porta al centro del potere vaticano un altro stile più vicino alla grotta di Betlemme rispetto ai palazzi degli imperatori. Se Gesù apparisse al Papa durante la sua passeggiata per i giardini vaticani, direbbe sicuramente: “Pietro, su queste pietre sontuose non edificherei mai la mia Chiesa”. Questa contraddizione è vissuta da papa Francesco avendo rinunciato alla sontuosità del palazzo e allo stile imperiale.
In effetti, c’è uno scontro di geopolitica religiosa tra il Centro, che ha perso la sua egemonia per numero e irradiazione, ma che conserva le abitudini dell’esercizio autoritario del potere, e la Periferia, numericamente maggioritaria tra i cattolici, con nuove chiese, con nuovi stili di vivere la fede e in dialogo permanente con il mondo, specialmente con i condannati della Terra, avendo sempre una parola da dire sulle ferite che sanguinano nel corpo del Crocifisso, presente nei poveri e oppressi.

Forse ciò che più infastidisce i cristiani ingessati nel passato è la visione della Chiesa vissuta dal Papa. Non una Chiesa-castello, chiusa in se stessa, nei suoi valori e dottrine, ma una Chiesa “ospedale da campo” sempre “in cammino verso le periferie esistenziali”. Essa accoglie tutti senza interrogarsi sul loro credo o sulla loro situazione morale. Basta che siano esseri umani in cerca del senso della vita e che soffrono per le avversità di questo mondo globalizzato, ingiusto, crudele e spietato. Condanna direttamente il sistema che dà centralità al denaro a spese delle vite umane e della natura. Ha realizzato diversi incontri mondiali con i movimenti popolari. Nell’ultimo, il quarto, ha detto esplicitamente: “Questo sistema (capitalista), con la sua logica implacabile, sfugge al dominio umano; bisogna lavorare per una maggiore giustizia e cancellare questo sistema di morte”. Nella Fratelli tutti lo condanna con forza.

È orientato da quello che è uno dei grandi apporti della teologia latinoamericana: la centralità del Gesù storico, povero, pieno di tenerezza verso i sofferenti, sempre dalla parte dei poveri e degli emarginati. Il Papa rispetta i dogmi e le dottrine, ma non è attraverso di loro che raggiunge il cuore delle persone. Per lui Gesù è venuto ad insegnarci come vivere: fiducia totale in Dio-Padre, vivere l’amore incondizionato, la solidarietà, la compassione per e con i caduti nelle strade, la cura per e con il Creato; beni che costituiscono il contenuto del messaggio centrale di Gesù: il Regno di Dio. Predica instancabilmente la misericordia sconfinata con cui Dio salva i suoi figli e figlie, perché Lui non può perdere nessuno di loro, frutto del suo amore, «perché è l’amante appassionato della vita» (Sap 11,24). Per questo afferma che «per quanto qualcuno sia ferito dal male, non è mai condannato su questa terra ad essere separato per sempre da Dio». In altre parole: la condanna è solo per questo tempo.
Invita tutti i pastori ad esercitare la pastorale della tenerezza e dell’amore incondizionato, formulata sinteticamente da un leader popolare di una comunità di base: “l’anima non ha confini, nessuna vita è straniera”. Come pochi al mondo, si è impegnato per gli immigrati provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente e ora dall’Ucraina. Si rammarica del fatto che i moderni abbiano perso la capacità di piangere, di sentire il dolore dell’altro e, da buon samaritano, di soccorrerlo nel suo abbandono.

La sua opera più importante è stata la preoccupazione per il futuro della vita della Madre Terra. La Laudato Sì esprime il suo vero significato nel sottotitolo: “sulla cura della Casa Comune”. Non elabora un’ecologia verde, ma un’ecologia integrale che abbraccia l’ambiente, la società, la politica, la cultura, la vita quotidiana e il mondo dello spirito. Assume i contributi più sicuri delle scienze della Terra e della vita, in particolare della fisica quantistica e della nuova cosmologia, il fatto che tutto è connesso “ci unisce anche tra noi, con tenero affetto, al fratello sole, alla sorella luna, al fratello fiume e alla madre terra”, come lui dice poeticamente nella Laudato Sì. La categoria della cura e della corresponsabilità collettiva acquista così tanta centralità al punto di dire nella Fratelli tutti che “siamo sulla stessa barca: o ci salviamo tutti salvati o nessuno si salva”.
Noi latinoamericani gli siamo profondamente grati per aver convocato il Sinodo Querida Amazônia, per difendere questo immenso bioma di interesse per tutta la Terra e come la Chiesa si è incarnata in quella vasta regione che copre nove paesi.

I grandi nomi dell’ecologia mondiale hanno testimoniato: con questo suo contributo, Papa Francesco si pone in prima linea nel dibattito ecologico contemporaneo.
Quasi disperato ma ancora pieno di speranza, propone un cammino di salvezza: una fraternità universale e un amore sociale come assi strutturanti di una bio-società su cui rifondare la politica, l’economia e ogni sforzo umano. Non abbiamo molto tempo, né abbastanza saggezza accumulata, ma questo è il sogno e la vera alternativa per evitare un cammino senza ritorno.
Il Papa che cammina da solo in Piazza San Pietro sotto una pioggia leggera, in tempo di pandemia, rimarrà un’immagine immortale e un simbolo della sua missione di Pastore che si preoccupa e prega per il destino dell’umanità.
Forse una delle ultime frasi della Laudato Sì rivela tutto il suo ottimismo e la speranza contro ogni speranza: “Camminiamo cantando che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano l’allegria della speranza”.
Hanno bisogno di essere nemici della propria umanità, coloro che condannano impietosamente gli atteggiamenti così umanitari di Papa Francesco, in nome di una cristianità sterile, come un fossile del passato e un contenitore di acque morte.

Hanno bisogno di essere nemici della propria umanità, coloro che condannano impietosamente gli atteggiamenti così umanitari di Papa Francesco, in nome di una cristianità sterile, come un fossile del passato e un contenitore di acque morte.

Questi cardinali, vescovi e altri che hanno scritto il libro sopracitato sono, infatti, cismatici e eretici nel senso primitivo della parola, quelli che rompano l’unità della comunità eclesiale.
I feroci attacchi che rivolgono al Papa possono essere tutto, meno che cristiani ed evangelici.

Papa Francesco sopporta tutto, intriso dell’umiltà di San Francesco d’Assisi e dei valori del Gesù storico. Per questo egli merita bene il titolo di “un giusto tra le nazioni”.

Leonardo Boff

pregare per la pace? come pregare

quale preghiera per la pace nel tempo della guerra in Ucraina?

di Jacques Musset*  

in “www.garriguesetsentiers.org” dell’11 marzo 2022 (traduzione: www.finesettimana.org)

Se Dio è presente nel più intimo dell’essere e se nel segreto della coscienza ispira il desiderio del vero, allora la sola preghiera di richiesta che valga non è più quella di sollecitare Dio ad intervenire, ma di chiedere a noi stessi, personalmente e come comunità, di essere disponibili alle richieste che salgono in noi dal più profondo quando ci preoccupiamo sinceramente di vivere secondo lo spirito che animava Gesù.

Immagino che attualmente, nel corso delle messe e dei culti domenicali in tutte le chiese e i templi cristiani del mondo siano formulate preghiere di intercessione per la pace in Ucraina. E che esse, almeno nelle chiese cattoliche, siano espresse nello stile abituale, in forma di richieste a Dio in termini più o meno simili a questi: “Perché cessi la guerra in Ucraina e venga una pace giusta in quel paese provato, preghiamo il Signore”, “Perché gli autori di questa guerra ingiusta prendano coscienza della loro ingiustizia e cessino i combattimenti, preghiamo il Signore”, “Perché le vittime di questa guerra siano sostenute, aiutate, confortate, preghiamo il Signore”, “Dio, pare di tutti gli uomini, ti preghiamo di cambiare il cuore di coloro che opprimono il popolo ucraino”, “Vieni in aiuto alle vittime e a coloro che soffrono crudelmente per questa guerra”, o ancora “Stimola la generosità dei paesi in pace affinché vengano in aiuto al governo e alle popolazioni rimaste sul posto o in fuga dalla guerra”…
Perché queste richieste sono inaccettabili per un cristiano del XXI secolo immerso nella cultura moderna? In che cosa possono screditare il cristianesimo agli occhi degli agnostici e degli atei a causa dell’immagine di “Dio” e dell’uomo che esse veicolano?
Una prima ragione è che danno di “Dio” una rappresentazione di onnipotenza senza limiti, arbitraria, un “Dio” che, per intervenire, avrebbe bisogno che ci si metta in ginocchio davanti a lui per gridare la propria miseria o urlargli i propri desideri più ardenti. Che cosa è mai questa divinità che si nutrirebbe per anni e per secoli di preghiere incessanti per degnarsi di distribuire i propri favori? Immagine meschina del Dio cristiano, più vicina alle divinità di un tempo di cui si immaginava che il potere fosse efficace in rapporto a preghiere interminabili e riti sofisticati. Che cosa è questo Dio di cui si proclama che è amore e che godrebbe nel farsi pregare per spargere le sue bontà, come se fosse sordo e lontano?
Ma c’è di più: anche la rappresentazione dell’uomo è in gioco in questo atteggiamento. Questo comportamento di supplica manifesta una innegabile dimissione di responsabilità da parte di coloro che lo professano. L’oggetto di queste richieste designa in realtà dei compiti che ognuno dei credenti e degli esseri umani deve svolgere proprio in quanto essere umano. Infatti, chi può offrire conforto a coloro che soffrono? Altri esseri umani. Chi deve creare condizioni di pace tra le persone e i popoli? Ogni cittadino a titolo personale e coloro che sono eletti per svolgere questo compito.
Chi deve fare in modo che le persone mangino a sufficienza in certi paesi in cui regna carestia endemica? Gli abitanti stessi di quei paesi, aiutati dal sostegno e la solidarietà disinteressata di quelli più ricchi. E queste responsabilità devono suscitare iniziative concrete, se no si rimane a livello di pii desideri che lasciano perdurare le peggiori ingiustizie. Come migliorare il proprio comportamento portato alla rabbia o all’egocentrismo, come sviluppare il proprio senso critico? Lo si fa in prima persona, lavorando man mano su se stessi. Potremmo moltiplicare gli esempi di richieste a “Dio” che in realtà dipendono dalla responsabilità umana. Questo modo di procedere non fa crescere né Dio né l’uomo.
Sento l’obiezione: nella Bibbia, in particolare nei Salmi, e nel Vangelo, non si raccomanda forse ai credenti di invocare “Dio” in aiuto? “Chiedete e vi sarà dato”, dice Gesù. Il Padre Nostro che ha insegnato è un’urgente preghiera di richiesta. Che cosa rispondere? In primo luogo, il forte monito di Gesù contro la ripetizione di formule che sarebbero efficaci di per se stesse. Proprio Gesù ci ricorda che Dio non ha bisogno delle preghiere per essere presente agli uomini e ai loro bisogni (Mt6,5-8). E insiste: “Non chiunque dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio” (Mt 7,21).
Inoltre, queste affermazioni devono essere collocate nel loro contesto storico e culturale. Per gli autori dei salmi, come per Gesù, “Dio” è una realtà trascendente, che abita il cielo ed è capace di operare miracoli dove l’uomo constata la propria impotenza. Per questo invitano a gridare verso di lui per sollecitare il suo intervento, anche se si è comunque sicuri della sua fedele presenza. Con il progresso delle cosiddette scienze esatte e la “liberazione” delle scienze umane in seguito alle critiche dell’Illuminismo, l’ambito nel quale fino a quel momento Dio regnava da essere supremo si è praticamente ristretto e secolarizzato. Non c’è più bisogno oggi di far intervenire Dio nella spiegazione e nella gestione della natura, nella comprensione della psicologia dell’essere umano, dei suoi comportamenti e delle sue malattie, nella comprensione delle leggi di cui ogni società ha bisogno per vivere in un certo equilibrio tra le forze centrifughe che la compongono… Gli uomini hanno acquisito un’autonomia nella conduzione della loro esistenza personale e sociale.
Una preghiera rispettosa di Dio e di noi stessi

Che cosa diventa allora “Dio”? È forse un epifenomeno che non ha più la sua ragion d’esser dopo essere stato spogliato delle sue prerogative tradizionali, oppure può designare per i credenti una realtà misteriosamente presente nel più intimo di ogni essere umano, lì dove nasce il meglio di sé: e cioè ciò che ha a che fare con il dono, con l’arte, con l’interiorità, con la conoscenza di sé, col rifiuto dell’inaccettabile, con il consenso e l’appropriazione di ciò che è. È ciò che esprimono i mistici di tutti i tempi e di tutte le tradizioni spirituali.
Quelle persone, che vivono ad un livello di estrema profondità del proprio essere, sperimentano, toccano, così dicono, una realtà che senza essere loro stessi è inseparabilmente legata a loro.
L’esperienza di questi superamenti è comune a tutti gli esseri umani che cercano di non barare con le richieste interiori a loro rivolte, ciò non significa che vi possiamo leggere la traccia di Dio. Se è legittimo chiamare “Dio”, in mancanza di altre parole, ciò che è al cuore di ogni spinta interiore ad umanizzarsi incessantemente in ogni dimensione, allora il modo di porsi nei confronti di questa fonte misteriosa non può più esprimersi come un tempo, quando Dio era concepito come esterno a sé e onnipotente in tutti gli ambiti.
Quale è dunque la preghiera di richiesta possibile che sia degna di “Dio” e dell’uomo? Ciò che rimane comune con il modo di esprimersi di un tempo, è la necessità del raccoglimento. Che, del resto, è una necessità per ogni uomo che non voglia vivere la propria esistenza come un sonnambulo o come una banderuola. Dedicare del tempo al silenzio, indipendentemente dal luogo e dalla maniera, è una condizione indispensabile per essere presenti a se stessi e al proprio mistero.
Ma allora, la preghiera cristiana di richiesta, personale o collettiva, come può esprimersi in maniera autentica? Se Dio è presente nel più intimo dell’essere e fa continuamente, se così si può dire, il suo lavoro di Dio, che è quello di ispirare nel segreto delle coscienze, senza teleguidarle, il gusto e il desiderio del vero, allora la sola preghiera di richiesta che valga non è più quella di sollecitare Dio ad intervenire, ma di chiedere a noi stessi, personalmente e come comunità, di essere disponibili ai moti, alle richieste, agli incitamenti (indipendentemente dalle parole) che salgono in noi dal più profondo quando ci preoccupiamo di vivere, senza ingannare noi stessi e gli altri, secondo lo spirito che animava Gesù.
Come è possibile farlo? Cambiando il modo di esprimerci. Se è vero che si finisce per pensare come si parla, allora, parliamo secondo verità affinché le nostre parole siano stimolanti individualmente e collettivamente e non rimangano solo facili e generose formule magiche senza presa sulla realtà. In questo modo, davanti a “Dio” (riconosciuto come Sorgente, Soffio interiore), i cristiani si comporteranno da adulti e non da esseri infantili.
Tentiamo di dire, nel contesto attuale, quale potrebbe essere una preghiera rispettosa di Dio e di noi stessi: “Davanti a te o Dio, diciamo ciò a cui ci impegnano il messaggio e il comportamento di Gesù, nel momento in cui l’Ucraina è vittima di una guerra ingiusta e distruttrice che fa moltissimi morti, che fa sprofondare i suoi abitanti nell’insicurezza e li costringe a fuggire dal loro paese in uno stato precario. Che ognuno di noi, secondo i propri mezzi, partecipi alle azioni intraprese per aiutare i rifugiati e anche coloro che rimangono sul posto; per dimostrare pubblicamente il nostro sostegno agli ucraini e la nostra condanna dell’aggressione che subiscono; per accogliere e accompagnare i rifugiati nella nostra regione”.
* Jacques Musset è un biblista francese, nato nel 1936. È stato cappellano di liceo, animatore di gruppi biblici e formatore nell’accompagnamento dei malati in ambito ospedaliero. Ex presbitero, sposato, ha scritto diversi libri sul suo itinerario spirituale. Anima incontri dell’Associazione culturale degli amici di Marcel Légaut.

la ‘diserzione’ di Tonio dell’Olio

Diserto
di Tonio Dell’Olio
di Mosaico dei giorni
Sì, diserto. Dalla scelta governativa di dire che la guerra è sbagliata e, per questo si combatte la guerra con la guerra.
Diserto dall’accoglienza selettiva di persone che scappano dalla fame della guerra e dalla guerra della fame quasi a indicare che il luogo di provenienza faccia la differenza. Sì, da questo razzismo non dichiarato ma praticato – eccome! – diserto.
Diserto dall’annegamento nelle informazioni di un solo conflitto mentre si condannano al silenzio le guerre dei poveri.
Diserto la dislessia che pare affliggere alcuni cristiani di fronte alle pagine del Vangelo che parlano di amore dei nemici, di spade da rimettere nel fodero e di “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.
Diserto la retorica di certe manifestazioni che scelgono di non disturbare il manovratore, di dire e non dire, di applaudire il Papa scegliendo di fare esattamente il contrario e di essere buoni per tutte le stagioni.
Diserto dall’arruolamento obbligatorio nel partito del realismo presunto che condanna ogni azzardo fuori dal perimetro del perbenismo.
Diserto la logica dell’applauso prima di tutto, del consenso a tutti i costi, del comandamento di non compromettere la carriera.
Diserto, e per questo so di essere condannato con i senzapotere all’infamia delle pecore nere o delle mosche bianche mentre sono gli altri a rinnegare i colori dell’arcobaleno.

in morte di C. Molari – un ricordo di Vito Mancuso

IN ONORE DI CARLO MOLARI, DEL SUO PENSIERO, DELLA SUA VITA
relazione tenuta a Bologna nel luglio 2018 in occasione del novantesimo compleanno di Carlo Molari e alla sua presenza
1. Un teologo convertito 
A metà degli anni Ottanta la casa editrice Marietti richiese a dieci teologi italiani una testimonianza sul loro essere teologi in vista di un volume che poi pubblicò con il titolo Essere teologi oggi. Dieci storie. Tra questi teologi vi era Carlo Molari che iniziò il suo intervento così: “Fare teologia non è un mestiere o un semplice servizio reso agli altri, ma è un modo concreto di vivere la fede ecclesiale, è uno stile di vita, e per me, oggi, è componente di identità personale, ragione di tutta la mia storia”.
È bello per me oggi, bello di quella bellezza un po’ solenne che hanno sempre le celebrazioni, tenere un discorso in onore di Carlo Molari, ovvero della sua teologia e della sua vita, perché in lui le due dimensioni, come scrisse egli stesso 32 anni fa, sono venute a coincidere: per lui fare teologia è stata ed è la ragione di tutta la sua storia. Vorrei anzi dire che egli non si è limitato a fare teologia, ma è arrivato a essere teologia; non si è limitato cioè a essere un teologo nel senso di un professionista della dottrina dell’istituzione Chiesa cattolica; ma è arrivato a essere egli stesso teo-logia, cioè “parola o discorso su Dio”, “parola o discorso di Dio”, “logos-legame linguistico con Dio”. Questa identità di fare e di essere teologia è la medesima che si ritrova nelle grandi figure della storia teologica, tra cui menziono un solo nome che è impossibile non fare parlando di Molari, quello di Pierre Teilhard de Chardin.
Molari scelse di intitolare la testimonianza richiestagli dalla Marietti Conversioni di un teologo. Scelse cioè di descrivere il suo essere teologo all’insegna di tre passaggi non previsti dalla sua condizione iniziale di teologo ufficiale della Chiesa cattolica. Egli avrebbe potuto non convertirsi e rimanere nel binario assegnatogli, e sicuramente il suo viaggio lungo la carriera ecclesiastica l’avrebbe portato molto in alto: e in questo momento a celebrare i suoi novant’anni ci sarebbe qualcun altro al posto mio e forse anche al posto vostro. Ma Molari si convertì, per la precisione si convertì tre volte, e in queste sue tre conversioni consiste il nucleo pulsante della sua teologia e, ancora più profondamente, della sua umanità. Esse gli hanno impedito di diventare cardinale (a meno di ulteriori sorprese, qualche volta i teologi diventano cardinali all’ultimo momento), ma l’hanno reso un uomo vero, sincero, libero, liberante, e un teologo dal pensiero coraggioso, profondo e cristallino. Perché una cosa è chiara al primo sguardo: incontrare la teologia di Molari significa incontrare la libertà, quella libertà esigente che ti pone di fronte alla verità di te stesso. Nella prefazione a un volume del 1972, La fede e il suo linguaggio (in cui sono raccolti i suoi saggi pioneristici sul rapporto tra la fede e la sua espressione verbale), Molari fa della sincerità la condizione di verità della teologia: “Le riflessioni sul mistero dell’esistenza, come sono i saggi teologici, non si possono fare senza essere sinceri… per questo ogni libro di teologia è una specie di confessione”. Molari è sincero e invita chiunque lo incontra alla sincerità e quindi alla conversione. Ma quali sono le sue tre conversioni?
2. Le tre conversioni
Si potrebbe parlare di esse come di una conversione filosofica, di una conversione teologica e di una conversione spirituale. Nel contributo sul suo essere teologo Molari le descrive così:
1) la conversione alla cultura contemporanea; più in particolare si trattò della scoperta della prospettiva evolutiva nell’interpretazione della natura e della svolta linguistica nell’interpretazione della cultura; una conversione che definisco filosofica;
2) la conversione al nuovo modo di fare teologia applicando all’ambito teologico le prospettive apprese dalla cultura contemporanea; una conversione teologica che portò Molari a essere processato dal Sant’Uffizio tra il 1974 e il 1977 ricevendo infine il monito di non esporre più le sue idee e venendo sollevato dall’insegnamento nelle università pontificie romane; il che lo portò il 14 febbraio 1978, all’età di 50 anni, a chiedere e a ottenere la pensione (il che significa che è da 40 anni che tu Carlo pesi sulle casse dello Stato pontificio!);
– 3) la conversione dovuta all’incontro, non libresco ma vivo ed esperienziale, con le altre religioni; una conversione che definisco spirituale.
3. La prima conversione: al nostro tempo
Questa prima conversione consiste nell’intendere la cultura contemporanea non più come un nemico da cui difendersi e da conoscere solo per smontarlo apologeticamente, secondo quanto gli era stato insegnato durante gli anni della formazione, ma come fonte da cui apprendere insegnamenti sulla vita, il mondo, la storia. La cultura contemporanea viene accostata secondo un’autentica funzione costruttiva e le questioni teologiche vengono pensate al suo interno. Molari acquisisce dalla cultura contemporanea in particolare due grandi orizzonti: la prospettiva evolutiva e la svolta linguistica.
– Per quanto riguarda la prima, si tratta della visione dinamica secondo cui la perfezione non è più pensata come inizio, ma come fine del processo evolutivo. La creazione in questa prospettiva non è ancora finita ma continua. Molari ama ripetere che “la forza creatrice non ha ancora espresso tutta la sua possibile perfezione”. Ne viene che il tempo assume una valenza straordinaria: “Esso non è il luogo dove le cose accadono, ma una struttura intima delle cose” (Per una spiritualità adulta, Cittadella 2007, pp. 9-10).
E di conseguenza muta anche la visione dello spazio: il mondo non è più un insieme di cose e di individui già strutturati, ma un sistema di aggregati che si trasformano in continuazione. La categoria decisiva diviene quindi, ben prima di quella di sostanza che da Aristotele in poi ha costituito la modalità decisiva di vedere il mondo, la categoria di relazione: “La vita è relazione… Prima viene la relazione, poi viene la nostra individualità che cresce attraverso i rapporti. Spesso pensiamo che prima diventiamo persone o siamo individui e poi stabiliamo le relazioni, invece è vero il contrario: prima c’è la relazione entro la quale noi sorgiamo come individui” (Il difficile cammino della fede, Oreundici, p. 38).
– Per quanto riguarda la svolta linguistica, Molari giunge alla convinzione che “il linguaggio rispecchia più l’uomo che parla che le cose di cui parla” (Per una spiritualità adulta, 23), che il linguaggio cioè è un’invenzione umana per tradurre l’esperienza della realtà. Il che presenta grandi ripercussioni per una religione come il cristianesimo che ha tra le fonti della sua rivelazione un libro e che richiede verbali professioni di fede. Ma Molari è conseguente: “Non esiste un linguaggio divino insegnato agli uomini. Tutte le parole nascono da esperienze umane e sono invenzioni umane” (La svolta linguistica e la teologia, l’altrapagina 2013, p. 12).
Da qui una precisa idea sulla Bibbia: “In senso proprio la Scrittura non è parola di Dio, è la trascrizione di tradizioni relative a eventi vissuti nell’atteggiamento di accoglienza dell’azione di Dio” (Il difficile cammino della fede, Oreundici, p. 28). E da qui un’idea altrettanto precisa sulle formule della tradizione ecclesiastica: “Le formule della fede non trasmettono nozioni o parole divine e neppure verità trascendenti; nascono da esperienze” (La svolta linguistica e la teologia, p. 25).
Da qui la seconda conversione, quella al nuovo modo di fare teologia, diviene inevitabile.
4. La seconda conversione: al nuovo modo di fare teologia
Molari elenca i temi che sempre più presero a occupare il suo interesse di teologo: “la secolarizzazione, l’incidenza in teologia della coscienza storica, le conseguenze del nuovo concetto di rivelazione, il ripensamento del metodo teologico, la riacquisizione della teologia negativa con il superamento dell’antropomorfismo, la correzione del neocalcedonesimo cristologico, la revisione dell’antropologia e l’adattamento dei modelli pastorali” (Essere teologi oggi, pp. 108-109). Ovviamente è impossibile esporre la sua teologia riguardo a tutti questi temi, quindi io mi limiterò a quelli essenziali per ogni elaborazione teologica cristiana, cioè Dio e Cristo.
1. Dio
Coerentemente con l’affermazione secondo cui “il linguaggio rispecchia più l’uomo che parla che le cose di cui parla”, per Molari parlare di Dio significa parlare della nostra esperienza al riguardo. Ecco come egli spiega il fondamento esistenziale delle affermazioni teologiche: “Noi non esprimiamo Dio, ma quello che sentiamo di Lui, la sua azione creatrice in noi. Avvertiamo che in noi è in azione una forza più grande di noi. Ogni volta che pensiamo, avvertiamo che la Verità in azione nella nostra mente è più profonda delle nostre idee; ogni volta che amiamo, ci rendiamo conto che il Bene che ci attira supera quello che noi possiamo offrire; ogni volta che progettiamo la giustizia, sappiamo di non poter mai realizzare pienamente la Giustizia… questa è l’esperienza della trascendenza che noi chiamiamo Dio” (Per una spiritualità adulta, p. 44).
L’esperienza della trascendenza si dà non in speciali e misteriose rivelazioni, ma nelle più alte e insieme più comuni esperienze umane: la Verità, il Bene, la Giustizia. Fare esperienza di trascendenza significa prendere coscienza “di non essere la sorgente, il centro di se stesso, ma di essere inserito in un processo più grande, attraversato da un’energia più profonda… L’uomo spirituale afferma: Non sono io a pensare, ma è il pensiero che in me cerca di esprimersi; non sono io ad amare, ma è il bene che in me cerca di diventare amore” (Per una spiritualità adulta, p. 84; cfr. anche p. 129).
Molari parla ripetutamente di Dio come forza creatrice, ma in linea con la teologia negativa sa prendere le distanze anche da questa espressione: “Noi non sappiamo cos’è Dio; io so che quando parlo di Dio come forza creatrice, metto in gioco una componente che non corrisponde alla realtà, ma so che oggi è il modo con cui io posso vivere l’esperienza di fede e posso esprimerla coerentemente” (Il difficile cammino della fede, Oreundici, p. 30).
L’apofatismo riguarda non solo l’essenza di Dio, ma anche il suo agire, al cui proposito Molari è chiarissimo nell’affermare che non esiste nulla nel mondo creato che possa essere interpretato come diretta azione divina che opera del tutto a prescindere dalle creature. E cita Teilhard de Chardin: “Dio, propriamente parlando, non fa le cose, ma fa che le cose si facciano” (Per una spiritualità adulta, p. 47). Secondo Molari l’azione di Dio non aggiunge qualcosa, ma immette nella creatura un’energia conducendola a esprimere in se stessa la perfezione cui è destinata.
Ne viene quanto segue: “Dobbiamo essere radicali… dobbiamo eliminare ogni ambito riservato a una sua azione che non si esprima nelle creature” (Il difficile cammino della fede, Oreundici 2013, p. 23). Ancora: “Dobbiamo evitare richiami a interventi soprannaturali o ad azioni riservate di Dio” (ivi). Nessun evento della creazione e della storia va attribuito a Dio, perché Dio non fa nessuna cosa nella creazione e nella storia: “Tutto ciò che nella storia emerge e viene realizzato, tutto avviene attraverso creature” (Id., p. 25).
Non è che Dio non agisca, il Dio di Molari non ha nulla a che fare con il Deus otiosus del deismo; ma l’azione di Dio consiste nel conferire la condizione di possibilità dell’azione delle creature: “Nell’interpretazione di chi crede in Dio tutto ciò che accade è sostenuto e alimentato da una forza più grande, ma tutto avviene sempre attraverso dinamiche che hanno una loro struttura interna” (Id., p. 36).
Ciò che vale per la creazione, vale esattamente allo stesso modo per la rivelazione: “Non ci sono dottrine rivelate da Dio, perché noi non possiamo conoscere il pensiero di Dio. Ciò che di Dio conosciamo, lo apprendiamo attraverso l’esperienza di fede” (Il difficile cammino della fede, Oreundici, p. 26).
2. Gesù
Fin dal dibattito sull’io di Cristo (sulla sua fede, sulla sua conoscenza, sulla sua coscienza) che ebbe luogo a Roma tra Pietro Parente e Paul Galtier tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50, il pensiero cristologico di Molari si può definire come un cammino verso la coerenza nel pensare la piena umanità di Cristo. Egli partì da una cristologia da lui definita dotata di “tratti chiaramente cripto-monofisisti” (Essere teologi oggi, p. 102), secondo la quale l’anima di Gesù Cristo godeva da subito di scienza infusa e di visione beatifica (cfr. Per una spiritualità, p. 159). Al contrario Molari, in linea con la prospettiva evolutiva, ritiene che “l’incarnazione umana del Logos continua fino a Pasqua”, e che “Gesù è diventato figlio di Dio a poco a poco” (Per una spiritualità, 160).
Anche sulla redenzione il lavoro di Molari è fortemente innovativo. Egli parla al riguardo di due pregiudizi da eliminare: 1) “che Gesù sapesse fin dall’inizio che sarebbe morto in modo violento; 2) che tale morte fosse parte di un decreto divino, fosse cioè necessaria alla salvezza”. Riguardo a queste due idee molto diffuse nel cristianesimo del passato e del presente, Molari afferma che si tratta di “pregiudizi non fondati nella Scrittura” (Per una spiritualità, p. 168).
Da qui la reinterpretazione innovativa dei concetti soteriologici di espiazione e di soddisfazione, e il passaggio dalla prospettiva ascendente secondo cui Gesù salva perché ha offerto una riparazione a Dio, alla prospettiva discendente secondo cui Gesù salva perché ha offerto da parte di Dio la forza dello Spirito (cfr. Per una spiritualità, p. 173).
Per Molari la mediazione di Cristo va intesa in senso discendente, nel senso che è Dio, per mezzo dell’uomo Gesù, che agisce (cfr. Teologia del pluralismo religioso, p. 119).
5. La terza conversione: alla pluralità delle religioni
Prendere sul serio l’esistenza delle altre religioni significa pensarle ex parte Dei, come effetti a loro volta di quella forza creatrice in cui consiste l’azione divina. Questo però fa nascere una serie di problemi teologici che Molari elenca così: “la natura della fede salvifica; il significato assoluto di Cristo come Messia; i criteri dell’inculturazione; la convergenza di tutte le religioni per la realizzazione della giustizia e della pace nel mondo” (Essere teologi oggi, p. 123).
Il suo punto di vista consiste nel ritenere che l’assolutezza del cristianesimo non riguarda il cristianesimo, ma i valori per i quali Gesù è vissuto ed è morto. La sua rivelazione “è nella storia ed è perciò accessibile a tutti, anche se non entrano nella Chiesa o non si riferiscono al Gesù storico” (Essere teologi oggi, 123).
Questa impostazione comporta il superamento non solo dell’ecclesiocentrismo con il classico assioma extra ecclesiam nulla salus, ma anche del cristocentrismo; più precisamente, di quella prospettiva che fa dipendere la salvezza dalla sequela del Gesù dei Vangeli e dalla partecipazione alla sua passione, morte e risurrezione. Per Molari, alla luce del fatto che “il Nome di Dio è ineffabile” e quindi “si esprime sempre e solo storicamente e quindi in forma limitata (Id., p. 104), “è innegabile che l’attività di Gesù ha avuto dei limiti culturali e storici” (Teologia del pluralismo religioso, Pazzini, Rimini 2013, p. 96).
Il passaggio centrale della sua cristologia, al contempo base della sua teologia del pluralismo religioso, consiste nel distinguere il Gesù storico dal Verbo eterno. Si tratta cioè di considerare che il Gesù storico non esaurisce e non può strutturalmente esaurire (proprio per la sua storicità) la ricchezza ontologica del Verbo eterno. Per questo Molari afferma quindi una “eccedenza rivelativa e salvifica del Verbo eterno rispetto a Gesù Cristo” (Teologia del pluralismo religioso, p. 121).
E Gesù? Gesù è “la cifra storica per individuare altri nomi umani, un criterio assoluto per interpretare le altre traduzioni del Nome ineffabile” (Id., 104). La funzione di Gesù è di essere “un criterio unico per rintracciare il vero e il giusto che si trova nelle altre rivelazioni storiche di Dio” (Id., 139-140).
Muta ovviamente anche il compito della Chiesa: non più convertire tutti al cristianesimo, ma “testimoniare i valori annunciati da Gesù in modo che tutti accolgano il progetto di Dio e diventino uomini autentici” (Essere teologi oggi, 123).
Le religioni quindi si devono convertire, ponendosi al servizio di qualcosa di più importante di loro, qualcosa che le scavalca e che le contiene. L’umanità del XXI secolo si salverà dal nichilismo e dalla globalizzazione uniformante solo se le tradizioni spirituali sapranno ritrovare questa prospettiva più ampia all’insegna non certo del relativismo quanto piuttosto della relatività e della relazione tra tutte le strade.
6. Maestro di vita
Ma, come ho detto all’inizio, Molari non si è limitato a fare teologia, è piuttosto arrivato a essere teologia. Va detto cioè che il frutto più maturo delle sue tre conversioni riguarda non la teologia, ma la sua umanità; non il teologo, ma l’uomo. Occorre quindi parlare di lui come di un maestro di spiritualità.
Molari sostiene la presenza nel nostro tempo di una forte domanda di spiritualità: “Tutti dobbiamo diventare mistici. Oggi è un’esigenza, questa” (Per una spiritualità, p. 136). Per lui la spiritualità nasce quando si sente di essere “ambiti di una Realtà più grande”, e questo “vale per tutte le religioni” (Per una spiritualità, p. 136).
Specifica poi che “la spiritualità di cui oggi c’è bisogno è una spiritualità della relazione, vale a dire il passaggio dalla spiritualità dell’essere a quella della relazione” (Per una spiritualità, p. 136). Ma per quanto insista sulla spiritualità della relazione, Molari presenta quelle che a mio avviso sono le sue pagine spirituali più intense quando giunge a parlare della solitudine e del raccoglimento in se stesso dell’essere umano. In questo la sua proposta spirituale può essere intesa come un’interpretazione della più bella definizione di religione che io conosca, quella del matematico e filosofo Alfred Whitehead: “Religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine” (Religion in the Making).
Il cammino dell’uomo conduce necessariamente alla vecchiaia e alla morte e il compito della spiritualità è di prendere sul serio questo orizzonte facendo scaturire da esso una proposta di vita. Molari lo fa scrivendo quanto segue: “Invecchiare esige la capacità di fare progressivamente a meno di tutti i riferimenti di identificazione, per essere semplicemente se stessi… La morte ci chiederà di avere acquisito in modo così completo e definitivo il proprio nome, da saperlo abitare senza necessità di altri riferimenti” (Per una spiritualità, p. 85). Mi sembra di risentire le parole con cui Ernesto Balducci nel 1985 concludeva L’Uomo planetario: “Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo”.
Molari parla della morte come del “criterio supremo della vita”. Secondo lui “noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne… siamo in una situazione che è destinata a finire”. Quindi ecco il criterio decisivo: “Ciò che nella vita ci consente di finire bene è giusto, ciò che ci impedisce di morire bene è male” (Per una spiritualità, p. 110).
Dalla considerazione della morte in quanto traguardo del nostro essere Molari fa discendere cinque criteri della vita autentica: “La morte chiederà a tutti: 1) di avere consolidato la propria identità al punto da saperne abitare il nome senza ricorrere ad altri riferimenti; 2) di avere imparato il distacco da tutte le cose; 3) di avere interiorizzato così gli altri da sapere partire senza tenere nessuno per mano; 4) di avere imparato ad amare in modo così oblativo da saper donare se stessi senza rimpianti; 5) di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla” (Per una spiritualità, p. 111).
Più avanti riassume i 5 criteri così: 1) identità definitiva; 2) distacco dalle cose e dalle persone; 3) interiorizzare le persone per partire in solitudine; 3) amare fino all’oblatività radicale; 5) fiducia nella vita.
7. Conclusione
Desidero concludere leggendo una preghiera di Carlo Molari che a mio avviso riassume bene la sua teologia e la sua spiritualità. Ma desidero introdurla con le parole che tu Carlo dedichi a tuo padre: “Mio padre era tornitore meccanico e adorava il suo lavoro. Ricordo ancora il suo volto, mentre a stento tratteneva le lacrime, quando nel 1944 i tedeschi ridussero in frantumi il suo tornio, che egli ricompose dopo il passaggio del fronte pezzo per pezzo. Ma era soprattutto un fervido credente. La sua pratica religiosa era costante e serena. Alla sua testimonianza, credo, debbo la decisione di diventare sacerdote” (Essere teologi oggi, p. 98). È bello pensare che la preghiera del teologo Molari che ora vi leggo affondi le radici nelle preghiere del Molari tornitore meccanico:
“Io che il mio cammino è sostenuto e alimentato da un amore grande, da una forza che non posso accogliere completamente in poco tempo ma solo passo dopo passo, lungo tutto il tragitto verso il compimento, per cui mi affido, apro il mio cuore, senza riserve. Io non so, ma Tu sai, io non posso, ma Tu puoi alimentare il mio sviluppo, posso diventare capace di attraversare ogni situazione e viverla in modo positivo. Io debbo diventare vivo, non c’è nessuno che mi può sostituire in questo compito; divento attraverso ogni gesto che compio, ogni pensiero che sviluppo, ogni rapporto che intrattengo, per cui sono consapevole della grande responsabilità che ho di fronte a Te e di fronte al mondo” (In cammino verso la Pasqua, p. 41).
Vito Mancuso, Bologna 19 settembre 2018

papa Francesco in in televisione da Fazio – critiche di metodo ma linguaggio chiaro e forte

i giornaloni prevenuti sul papa “degli ultimi”

di Gad Lerner
in “il Fatto Quotidiano” del 9 febbraio 2022

Domenica scorsa 6 milioni e 731 mila spettatori hanno seguito per un’ora papa Francesco che dialogava su Rai3 con Fabio Fazio su un vasto spettro di tematiche cruciali del nostro tempo e sul mistero della fede. Ma nessuno dei principali giornali italiani ha ritenuto questo evento degno della prima pagina, né tantomeno di commentare nel merito le riflessioni del pontefice; quasi fossero risapute e irrilevanti.
Il più noto dei critici televisivi, Aldo Grasso, si è limitato a una breve, ironica recensione sul web per dire che il papa aveva sbagliato location e che voleva sembrare “un parroco in tv”. Esortandolo a non riprovarci perché “una volta va bene, dalla seconda si entra nel detestabile chiacchiericcio che Francesco ha detto di biasimare”. In una parentesi Grasso se l’è presa pure con Fazio, suggerendo che “era più prete l’intervistatore dell’intervistato”. Niente di originale: ci aveva già pensato un ospite indispettito, tempo fa, a dargli del “fratacchione”. C’è poi chi ha indugiato sul dilemma se si trattasse di una vera o di una finta diretta, come se cambiasse qualcosa. Mentre la storica Lucetta Scaraffia aveva preventivamente criticato la scelta del papa che, accettando di partecipare a una trasmissione leggera, sminuirebbe il suo ruolo di capo della Chiesa riducendosi a una “celebrity” qualsiasi. Anche lei, dopo, ha criticato Fazio per non aver osato rivolgere domande scomode al suo ospite. Questa ridda di malevole obiezioni di metodo ha evidenziato un senso di fastidio nei confronti di Francesco, e della sua scelta di concedersi proprio a Fazio, tanto intenso da indurre costoro a ignorare i contenuti del suo intervento. Non devono averla pensata così i telespettatori, numerosi come non mai per una trasmissione già rigettata da Rai1 e da Rai2 a causa del suo orientamento politico e culturale. Eppure, di tutto si può accusare il papa tranne che di non aver parlato chiaro. Chi l’ha seguito con animo sgombro, ne è rimasto colpito.

Ha ricordato che il lavoro
non riceve una giusta retribuzione.

Ha denunciato l’istinto dei governanti che antepongono la logica del potere alla cura degli uomini, spendendo più in armi che in opere di bene.

Ha definito criminale l’accanimento contro i migranti.

Ha chiamato con il loro nome, lager, i campi di prigionia libici finanziati dai nostri soldi.

Ha richiamato l’antica saggezza dei popoli che nella madre terra riconoscono una natura da custodire, anziché avvelenarla.

Ha raccomandato di guardare negli occhi i poveri, di non avere paura a toccarli perché il tatto è il più prezioso dei sensi, e aiuterà a scacciare le paure che ci assalgono.

Ha ammesso di non riuscire a spiegarsi la sofferenza dei bambini nell’ambito del disegno divino in cui pure crede. Ha indicato la mondanità e il clericalismo come i
vizi peggiori della Chiesa.

Ha esortato alla preghiera come bisogno umano fin dalla più tenera infanzia.

Considerare tutto ciò una predica inutile, condannata all’oblio, è l’esito del cinismo diffuso che spinge tanti sapientoni a trattare con sufficienza il suo prodigarsi. Banalizzano il suo pensiero come se si trattasse di una versione religiosa del “politicamente corretto”. Lo snobbano. Dà loro fastidio che la critica radicale del sistema dominante, entrate in crisi le ideologie, possa rianimarsi nella dimensione del sacro, trovare alimento e aggiornamento nella tradizione biblica. E naturalmente li irrita che il papa possa trovare interlocutori nel pensiero laico e nei suoi strumenti di divulgazione popolare. Il progressismo, comunque inteso, è la loro bestia nera. Torni a fare il suo
mestiere, questo papa, senza troppe invasioni di campo! È fin troppo facile constatare che questi scandalizzati critici di Francesco, non importa se cristiani osservanti o meno, sono essi per primi espressione del clericalismo contro cui domenica scorsa egli ha puntato il dito. Lo ha fatto sorridendo, spiegando perché si trova più a suo agio abitando in una struttura alberghiera piuttosto che negli appartamenti vaticani dove vivevano isolati i suoi predecessori. Loro santi, lui no, ha scherzato.
Non credo proprio che la moltitudine di persone, fedeli e non, che lo hanno guardato e ascoltato davanti al teleschermo, ne abbiano tratto la sensazione di un pastore venuto meno al suo ruolo.
Resterà un papa di minoranza, ma ha dimostrato di saper trasmettere il suo messaggio sormontando il muro di sufficienza cementato dallo scetticismo dei media che lo trattano come una bizzarra anomalia. Scommetto che oggi, giustamente, troverà vasta eco sulle prime pagine dei giornali l’accorata lettera con cui Benedetto XVI respinge l’accusa di “comportamenti erronei” nella vicenda degli abusi pedofili perpetrati a Monaco di Baviera quando lui ne era arcivescovo. Continuino pure a riservare un trattamento minore ai messaggi di Francesco. Nel mondo lui troverà altri seguaci.

i lager dei nostri tempi finanziati dall’Europa – l’accusa di papa Francesco

la denuncia del papa a ‘Che tempo che fa’

“Disperati rinchiusi nei lager, l’Ue agisca”

in “La Stampa” dell’8 febbraio 2022

«Ci sono lager in Libia, dobbiamo pensare alla politica migratoria e l’Europa deve farlo insieme,
l’Unione europea deve mettersi d’accordo evitando che l’onere delle migrazioni ricada solo su alcuni Paesi come l’Italia e la Spagna». A denunciare la situazione dei centri di accoglienza libici è stato il Papa domenica sera, rispondendo alle domande di Fabio Fazio a «Che Tempo Che Fa».
«Quello che si fa con i migranti – ha spiegato – è criminale: per arrivare al mare soffrono tanto. Ci sono immagini terribili, lager gestiti dai trafficanti. Quanto soffrono quelle persone nelle mani dei
trafficanti. Soffrono, poi rischiano per traversare il Mediterraneo, e alcune volte vengono respinti».
«Il migrante – ha poi concluso – sempre va accolto, va accompagnato, va promosso e integrato».

la cifra monstre di 25,8 miliardi di euro per le armi

assurdo con la complicità di tutti i partiti

spesa militare italiana da record

nel 2022 sfiorati i 26 miliardi di euro

i dati dell’Osservatorio Mil€x rivelano che nel 2022 la spesa militare italiana tocca la cifra monstre di 25,8 miliardi di euro. I nuovi armamenti segnano il record storico di 8,3 miliardi di euro. Mentre i premi Nobel propongono il disarmo. Eppure continua il silenzio assordante di politici e media mainstream

Lo aveva annunciato e l’ha subito fatto. «Ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora», aveva detto Mario Draghi lo scorso 29 settembre durante la conferenza stampa sulla “Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza” (Nadef), il primo passo in vista dell’elaborazione della legge di bilancio.

Spesa militare: un 2022 da record

Ed ecco che la spesa militare prevista per l’anno prossimo supererà il muro dei 25 miliardi di euro (25,8 miliardi). Lo rivela uno studio dell’Osservatorio Milex sul bilancio previsionale dello Stato per il 2022.

«Il Bilancio del Ministero della Difesa per il 2022 – riporta Milex – sfiora i 26 miliardi di euro con un aumento di 1,35 miliardi, ma vanno poi aggiunti gli stanziamenti di altri ministeri».

Dal 2017 la spesa militare italiana ha continuato a crescere soprattutto per l’acquisto di nuovi armamenti: sono ben 8,3 miliardi di euro stanziati nel 2022, un miliardo in più rispetto al 2021 ed un record storico.

L’Italia ha nuovi programmi di riarmo

Nei mesi scorsi il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha infatti sottoposto all’approvazione del Parlamento un numero senza precedenti di programmi di riarmo: diciotto, di cui ben tredici di nuovo avvio, per un valore già approvato di 11 miliardi di euro e un onere complessivo previsto di 23 miliardi.

La parte del leone è dell’aeronautica militare con programmi per oltre 6 miliardi di euro. C’è di tutto: dai fondi per il nuovo caccia Tempest (2 miliardi dei 6 previsti), che si aggiungerà agli F-35, ai nuovi eurodroni classe Male; dagli aerei Gulfstream per la guerra elettronica alle nuove aerocisterne per il rifornimento in volo. Una grossa fetta della torta è destinata alle nuove batterie missilistiche antiaeree per missili Aster (2,3 miliardi di euro) e ai nuovi blindati Lince: ben 3.600 rimpiazzeranno i 1.700 già in dotazione all’esercito.

Nuovi armamenti: record di spesa militare italiana

Non solo. La scorsa settimana – riporta ancora l’Osservatorio Milex – il ministero della Difesa ha richiesto alle commissioni Difesa di Camera e Senato l’approvazione di otto nuovi programmi di riarmo tra cui spiccano due nuovi cacciatorpedinieri lanciamissili classe Orizzonte da circa 1,2 miliardi l’uno che saranno prodotti da Fincantieri.

Fanno riferimento alla Marina anche il programma per la nave supporto per le operazioni subacquee degli incursori del Comsubin da 35 milioni, una trentina di blindati anfibi 8×8 da sbarco di Iveco e Oto Melara da 10 milioni l’uno e altrettanti gommoni armati da sbarco dal prezzo unitario di quasi un milione e mezzo.

Si tratta di programmi targati ancora “SMD 2021”, cioè relativi al 2021: annata che straccia ogni record storico con ben 31 richieste presentate per un valore complessivo finanziato di oltre 15 miliardi di euro e in proiezione un onere complessivo di oltre 30 miliardi di euro.

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spesa militare italia
Anfibio 8×8 dell’Iveco – Foto di pubblico dominio (via Wikimedia Commons)

Italia al comando della missione in Iraq

Nel frattempo, il ministero delle Difesa è in procinto di incrementare il contingente militare in Iraq per poter assumere il comando della missione della Nato: trasformerà la partecipazione militare italiana in una vera operazione di combattimento rispetto a quella che finora era solo una presenza per la difesa di aree sensibili e per l’addestramento dell’esercito iracheno.

Per adempiere al nuovo compito i vertici militari si sono affrettati a chiedere di poter armare i droni Reaper con missili aria-terra e bombe a guida laser – trasformandoli così da semplici ricognitori a veri bombardieri – e di dotarsi di una flotta di Hero-30, i cosiddetti “droni kamikaze” che si autodistruggono nel colpire l’obiettivo.

I veri scopi delle missioni militari

Missione militare il cui vero scopo è quello di proteggere gli interessi delle multinazionali del petrolio e del gas. Come ha rivelato una ricerca di Greenpeace, due terzi delle spese delle operazioni militari all’estero dei paesi europei riguardano la difesa di fonti fossili: l’Italia negli ultimi quattro anni ha speso 2,4 miliardi di euro nelle missioni militari collegate a piattaforme estrattive, oleodotti e gasdotti che riguardano l’Eni.

Del resto il ministero della Difesa non nasconde più, come faceva in passato, il desiderio di «disporre di uno Strumento militare in grado di esprimere le capacità militari evolute di cui il Paese necessita per tutelare i propri interessi nazionali»: lo riporta la “Direttiva per la politica industriale della Difesa” emanata dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, lo scorso 29 luglio.

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Fonte: Osservatorio Mil€x

Il silenzio omertoso dei politici nazionali

Programmi di riarmo e missioni militari che meriterebbero un ampio confronto pubblico, oltre che nelle aule parlamentari, perché rivelano un radicale cambiamento della politica estera e di difesa dell’Italia.

Invece, tranne qualche rara voce, tutto tace. Un silenzio omertoso avvolge, ormai da anni, le decisioni che riguardano le spese militari e i programmi di armamenti e coinvolge non solo il mondo della politica, ma anche la quasi totalità dell’informazione nazionale, soprattutto quella televisiva.

Spesa militare mondiale raddoppiata dal 2000: ecco una “semplice proposta per l’umanità”

Non è un caso, quindi, che anche l’appello di cinquanta premi Nobel e scienziati, tra cui Carlo Rubbia e Giorgio Parisi, abbia trovato l’ennesimo silenzio dei leader politici italiani. L’appello chiede ai governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite di avviare trattative per una riduzione concordata della spesa militare del 2% ogni anno per cinque anni.

«La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari all’anno»scrivono i Nobel. «Il meccanismo della controreazione alimenta una corsa agli armamenti in crescita esponenziale che equivale a un colossale dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate a scopi migliori».

Da qui la loro “Semplice proposta per l’umanità” che può essere sottoscritta anche da semplici cittadini (qui il link per firmare). Un piccolo segno, forse, ma necessario almeno per far sentire ai rappresentanti politici nazionali che è tempo di cominciare a dire anche qualche “Signor No!”.

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