le ‘beatitudini’ del vescovo secondo papa Francesco

 le beatitudini del vescovo

il regalo di papa Francesco ai vescovi italiani

L'immagine del Buon Pastore sul cartoncino donato dal Papa ai vescovi italiani

l’immagine del Buon Pastore sul cartoncino donato dal Papa ai vescovi italiani – Cei

«beato il vescovo che fa della povertà e della condivisione il suo stile di vita, perché con la sua testimonianza sta costruendo il regno dei cieli»

Inizia così il testo legato all’immaginetta che il papa ha dato ai vescovi italiani al termine dell’incontro di apertura dell’Assemblea generale. Le parole riprodotte sull’immagine donata dal Papa sono quelle dell’omelia pronunciata dall’arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia, per l’ordinazione episcopale dei suoi ausiliari lo scorso 31 ottobre.

«le beatitudini del vescovo»

Beato il Vescovo che fa della povertà e della condivisione il suo stile di vita, perché con la sua testimonianza sta costruendo il regno dei cieli.

Beato il Vescovo che non teme di rigare il suo volto con le lacrime, affinché in esse possano specchiarsi i dolori della gente, le fatiche dei presbiteri, trovando nell’abbraccio con chi soffre la consolazione di Dio.

Beato il Vescovo che considera il suo ministero un servizio e non un potere, facendo della mitezza la sua forza, dando a tutti diritto di cittadinanza nel proprio cuore, per abitare la terra promessa ai miti.

Beato il Vescovo che non si chiude nei palazzi del governo, che non diventa un burocrate attento più alle statistiche che ai volti, alle procedure che alle storie, cercando di lottare al fianco dell’uomo per il sogno di giustizia di Dio perché il Signore, incontrato nel silenzio della preghiera quotidiana, sarà il suo nutrimento.

Beato il Vescovo che ha cuore per la miseria del mondo, che non teme di sporcarsi le mani con il fango dell’animo umano per trovarvi l’oro di Dio, che non si scandalizza del peccato e della fragilità altrui perché consapevole della propria miseria, perché lo sguardo del Crocifisso Risorto sarà per lui sigillo di infinito perdono.

Beato il Vescovo che allontana la doppiezza del cuore, che evita ogni dinamica ambigua, che sogna il bene anche in mezzo al male, perché sarà capace di gioire del volto di Dio, scovandone il riflesso in ogni pozzanghera della città degli uomini.

Beato il Vescovo che opera la pace, che accompagna i cammini di riconciliazione, che semina nel cuore del presbiterio il germe della comunione, che accompagna una società divisa sul sentiero della riconciliazione, che prende per mano ogni uomo e ogni donna di buona volontà per costruire fraternità: Dio lo riconoscerà come suo figlio.

Beato il Vescovo che per il Vangelo non teme di andare controcorrente, rendendo la sua faccia “dura” come quella del Cristo diretto a Gerusalemme, senza lasciarsi frenare dalle incomprensioni e dagli ostacoli perché sa che il Regno di Dio avanza nella contraddizione del mondo.

‘buona vita’, il nuovo libro di papa Francesco

“buona vita”

il manifesto di papa Francesco per risvegliarsi alla vita, a ogni età 

“Buona Vita”, il manifesto di Papa Francesco per risvegliarsi alla vita, a ogni età – L’anticipazione su ilfattoquotidiano.it
il nuovo libro di papa Francesco: Buona Vita. Tu sei una meraviglia (ed. Libreria Pienogiorno, 240 pagg., 15,90 euro), pubblicato in collaborazione con Libreria Editrice Vaticana
 Buona Vita è il manifesto di Papa Francesco per risvegliarsi alla vita, a ogni età. Il senso del libro è riassumibile in 15 regole per una Buona Vita indicate dal santo padre 
 
1 – Pensa, lì dove Dio ti ha seminato, spera! Sempre spera.
2 – Gesù ci ha consegnato una luce che brilla nelle tenebre: difendila, proteggila. Quell’unico lume è la ricchezza più grande affidata alla tua vita.
3 – Non arrenderti alla notte. Ricorda che il primo nemico da sottomettere non è fuori ma dentro di te. Pertanto, non concedere spazio ai pensieri amari, oscuri. Questo mondo è il primo miracolo che Dio ha fatto, e ha 15 regole per una buona vita messo nelle nostre mani la grazia di nuovi prodigi. Fede e speranza procedono insieme.

5 – Credi all’esistenza delle verità più alte e più belle. Confida in Dio Creatore, nello Spirito Santo che muove tutto verso il bene, nell’abbraccio di Cristo che attende ogni uomo alla fine della sua esistenza. Credi, Lui ti aspetta. Il mondo cammina grazie allo sguardo di tanti uomini che hanno aperto brecce, che hanno costruito ponti, che hanno sognato e creduto; anche quando intorno a sé sentivano parole di derisione.

6 – Non pensare mai che la lotta che conduci quaggiù sia inutile. Alla fine dell’esistenza non ci aspetta il naufragio: in noi palpita un seme di assoluto. Dio non delude. Se ha posto una speranza nei nostri cuori, non la vuole stroncare con continue frustrazioni. Tutto nasce per fiorire in un’eterna primavera. Anche noi. Dio ci ha fatti per fiorire. Ricordo la poesia del grande poeta greco Nikos Kazantzakis intitolata Il mandorlo: «La quercia chiese al mandorlo: / Parlami di Dio. / E il mandorlo fiorì».

7 – Ovunque tu sia, costruisci! Se sei caduto, alzati! Non restare mai a terra, alzati, lasciati aiutare per tornare in piedi. Se sei seduto, mettiti in cammino! Se la noia ti paralizza, scacciala con le opere di bene! Se ti senti vuoto o demoralizzato, chiedi che lo Spirito Santo possa nuovamente riempire il tuo nulla.

8 – Opera la pace in mezzo agli uomini. E non ascoltare la voce di chi sparge odio e divisioni. Non ascoltare queste voci. Gli esseri umani, per quanto siano diversi gli uni dagli altri, sono stati creati per vivere insieme. Nei contrasti, pazienta: un giorno scoprirai che ognuno è depositario di un frammento di verità.

9 – Ama le persone. Amale a una a una. Rispetta il cammino di tutti, lineare o travagliato che sia, perché ognuno ha la propria storia da raccontare. Ciascuno di noi ha una storia unica e insostituibile. Ogni bambino che nasce è la promessa di una vita che ancora una volta si dimostra più forte della morte. Ogni amore che sorge è una potenza di trasformazione che anela alla felicità.

10 – E soprattutto, sogna! Non avere paura di sognare. Sogna! Sogna un mondo che ancora non si vede, ma che di certo arriverà. La forza della nostra speranza è credere a una creazione che si estende fino al suo compimento definitivo, quando Dio sarà tutto in tutti. Gli uomini capaci di immaginazione hanno regalato all’umanità scoperte scientifiche e tecnologiche. Hanno solcato gli oceani, hanno calcato terre che nessuno aveva calpestato mai. Gli uomini e le donne che hanno coltivato speranze sono anche quelli che hanno vinto la schiavitù, e portato migliori condizioni di vita per tutti. Pensa a questi uomini e a queste donne.

11 – Sii responsabile di questo mondo e della vita di ogni uomo. Pensa che ogni ingiustizia contro un povero è una ferita aperta, e sminuisce la tua stessa dignità. La vita non cessa con la tua esistenza, e in questo mondo verranno altre generazioni che succederanno alla nostra, e tante altre ancora. Ogni giorno domanda a Dio il dono del coraggio. Ricordati che Gesù ha vinto per noi la paura. Lui ha vinto la paura! La nostra nemica più infida non può nulla contro la fede.

12 – E quando ti troverai impaurito davanti a qualche difficoltà della vita, ricordati che tu non vivi solo per te stesso. Nel Battesimo la tua vita è già stata immersa nel mistero della Trinità e tu appartieni a Gesù. E se un giorno ti prendesse lo spavento, o tu pensassi che il male è troppo grande per essere sfidato, pensa semplicemente che Gesù vive in te. Ed è Lui che, attraverso di te, con la sua mitezza vuole sottomettere tutti i nemici dell’uomo: il peccato, l’odio, il crimine, la violenza.

13 – Abbi sempre il coraggio della verità. Però ricordati: non sei superiore a nessuno. Ricordati di questo: non sei superiore a nessuno. Se tu fossi rimasto anche l’ultimo a credere nella verità, non rifuggire per questo dalla compagnia degli uomini. Anche se tu vivessi nel silenzio di un eremo, porta nel cuore le sofferenze di ogni creatura. Sei cristiano, e nella preghiera tutto riconsegni a Dio.

14 – Se sbagli, rialzati. Nulla è più umano che commettere errori. Ma quegli stessi errori non devono diventare per te una prigione. Non rimanere ingabbiato nei tuoi sbagli. Il Figlio di Dio è venuto non per i sani, ma per i malati: quindi è venuto anche per te. E se sbaglierai ancora in futuro, non temere, rialzati! Sai perché? Perché Dio è tuo amico.

15 – Se ti colpisce l’amarezza, credi fermamente in tutte le persone che ancora operano per il bene. Nella loro umiltà c’è il seme di un mondo nuovo. Frequenta le persone che hanno custodito il cuore come quello di un bambino. Impara dalla meraviglia, coltiva lo stupore. Vivi, ama, sogna, credi. E, con la grazia Dio, non disperare mai.

svegliati, chiesa italiana! un’intervista con don Armando Matteo

la chiesa italiana dorme e non comunica più

La Chiesa italiana non vuole svegliarsi, non vuole crescere e non vuole parlare con gli adulti. Come Peter Pan. E’ la tesi che don Armando Matteo, sottosegretario alla Congregazione per la dottrina della fede, sviluppa nel suo recente libro

stimolante intervista con l’autore

Il suo precedente libro (“Pastorale 4.0. Eclissi dell’adulto e trasmissione della fede alle nuove generazioni”, Ancora 2020) è stato mandato dal cardinal Bassetti, presidente della CEI, a tutti i vescovi italiani. Ora don Armando Matteo, da poco nominato sottosegretario alla Congregazione per la dottrina della fede, ha dato alle stampe un nuovo testo (“Convertire Peter Pan. Il destino della fede nella società dell’eterna giovinezza”, Ancora 2021), da leggere assolutamente.

Perché don Armando ha il pregio, non comune tra i teologi italiani, di mettere a fuoco le questioni scomode, a volte sgradevoli, che non si vorrebbero affrontare e di abbozzare non tanto e non solo risposte ma soprattutto un cambio di sguardo e di prospettiva. Don Armando, già assistente nazionale della FUCI, ha il coraggio di indicare una conversione radicale della mentalità pastorale e di delinearne i contenuti. Non bastano più rattoppi, servono scelte non più procrastinabili. La crisi, contrariamente a quanto molti ancora pensano, non è passeggera. Sta franando un mondo e la Chiesa è destinata a mutare il suo volto. Dopo la fine della societas christiana, una chiesa di minoranza. Ma non una chiesa di minorati. Credenti che stanno “dentro”, da adulti, nella complessità del presente. E ci stanno “rivestiti a festa”. Per salvare la profezia del Vangelo e custodire l’umanità.

Don Armando, partiamo dal titolo del libro: perché “convertire Peter Pan”? Tu scrivi di ritenerla un’assoluta necessità  altrimenti c’è il rischio che “Peter Pan converta noi credenti”..

“Peter Pan” è, a mio avviso, la cifra perfetta di quella rivoluzione straordinaria capitata all’universo degli adulti e delle adulte dell’Occidente. Nel giro di pochi anni, essi hanno sperimentato la possibilità di un’esistenza più lunga, meno frustrante, meno soggetta al lavoro faticoso, con maggiori confort, cibo, salute, occasioni di divertimento e di viaggi. E ancora con tantissime potenzialità e libertà che i nostri avi neppure potevano lontanamente sospettare. Nello stesso tempo questa nuova condizione li ha portati a reinterpretare il senso dell’umano sul metro della giovinezza.

Essi, infatti, credono ad una sola cosa e cioè che, fuori dalla giovinezza, non c’è salvezza per l’umano. In questo modo, tuttavia, mandando alla malora il tratto generativo e generazionale proprio della specie. Per questo, alla fine dei conti, noi adulti siamo sempre di più autoreferenziali e intransitivi. Ed il punto è che oggi Peter Pan – noi adulti, in soldoni – non solo non vuole più crescere, ma di fatto non fa più crescere nessuno.

Con incredibile precisione evita di assumere la pur minima postura adulta, quella che servirebbe ai nostri cuccioli per crescere. La Chiesa non può stare a guardare un tale “disastro”. E per intervenire deve accettare che Peter Pan ha messo radicalmente in crisi il suo sistema di trasmissione della fede e il suo modello di annuncio del Vangelo. E deve fare presto. Cambiando tutto quello che è necessario cambiare per provare a “convertire Peter Pan”. Il rischio, infatti, è che, prendendo e perdendo ancora tempo, Peter Pan convinca gli uomini e le donne di Chiesa che è “il fare come si è sempre fatto” l’elisir della eterna giovinezza della fede!

Ancora una volta insisti sulla mancanza dell’adulto. Perché nella Chiesa abbiamo così poca coscienza di questo fatto oggettivamente inconfutabile?

La prima ragione è che gli adulti siamo tantissimi. Il nostro Paese soffre di ciò che si chiama “degiovanimento”. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, ogni genitore aveva più figli, al presente ogni figlio ha più genitori! Ed è sempre difficile cogliere i cambiamenti che avvengono sulla propria pelle, ancora di più quando la stragrande maggioranza della popolazione vive tali cambiamenti. Questo vale anche per quegli adulti che presiedono alla vita della Chiesa. Peter Pan non è fuori di noi. È dentro di noi. La seconda è più importante ragione è che il sistema economico che ci governa fa di tutto per difendere l’innocenza di Peter Pan.

Che male c’è, per gli adulti, a volersi vestire, pensare, vivere, sognare, impegnarsi da giovane? Che male c’è se pesi 70 kili e vuoi metterti comunque i leggings? E se fai vedere i calzini o le caviglie e hai già 60 anni suonati? Peter Pan è la leva dell’economia oggi: i suoi affetti e i suoi affari vanno a braccetto. Pensiamo a quanto denaro, quanti interessi, quanta passione circola per quei tipi che in pantaloncini danno calci ad una palla di cuoio, ormai ogni giorno della settimana!

Non mi pare sia roba degna di una specie che si chiamò sapiens sapiens, non almeno ai livelli raggiunti oggi. In più sono decenni che la Chiesa continua a pensare e ad occuparsi del mondo dei giovani e dei ragazzi senza tenere conto del fatto che vivono a strettissimo contatto con un mondo adulto. Ora questo mondo adulto andrebbe pure conosciuto perché di fatto condiziona il destino buono delle nuove generazioni (possibilità di credere in Gesù, inclusa). Brevemente, non esiste un’attitudine ecclesiale di pensare il mondo degli adulti. Mettiamoci la rapidità della svolta del postmoderno e la frittata è fatta. Quando gli uomini di Chiesa parlano del mondo sembra che stiano raccontando qualcosa del giurassico.

Ti soffermi sulla provocazione (e la realtà) del segno delle chiese ancora semivuote. In che modo rischiano di essere parabola del cristianesimo prossimo?

Le chiese semivuote erano in realtà semivuote anche prima della pandemia da covid-19 che ci ha colpito. Noi le vedevamo piene, ma erano piene sostanzialmente di anziani e di piccoli. Allora non riuscivamo a vedere gli adulti e le adulte che già mancavano. Ed in verità è questo il vero vuoto del cristianesimo oggi. Ci manca una parola per gli adulti, una prassi di dialogo con gli adulti, un modo di essere e di parlare da credenti in grado di intercettare il cuore degli adulti. Il quale nel frattempo è sempre più ad immagine e somiglianza di Peter Pan.

Paradossalmente, poi, le chiese potrebbero restare ancora semivuote, anche quando (ed è cosa che non possiamo non sperare) quelli che ora non le frequentano (gli anziani e le anziane) per la paura del contagio o per aver assunto l’abitudine di seguire on line ed in tv le liturgie ritorneranno in presenza. Il seggio vacante dell’adulto di oggi non sarà colmato senza una vera e propria rivoluzione missionaria e pastorale da parte di noi credenti, di noi che ancora ci stiamo.

Tu rifiuti l’idea che esistano ancora – come sostiene Le Chevalier – “credenti non praticanti”. Perché?

Come provo a spiegare nel libro, penso che sia l’ora di storicizzare quella categoria. Essa era buona per indicare situazioni del passato che oggi si danno sempre più raramente. Mi riferisco a quelle situazioni di oggettiva conflittualità tra l’esistenza delle persone e l’appartenenza alla vita ecclesiale (la scelta del partito comunista, per esempio, una convivenza pubblica, un tradimento noto ed altro ancora). Coloro che si trovavano in queste situazioni erano portati a sentirsi quasi stigmatizzati dalla societas christiana e dunque a tenere per sé l’eventuale professione di fede cristiana. Mantenere in vita quella categoria è oggi più che pericoloso. Rappresenta l’alibi perfetto per ritardare la scelta della conversione missionaria e pastorale. Pensiamo a chi non pratica come ad uno che comunque crede: appunto ad un credente che semplicemente non pratica! Il trionfo di Peter Pan racconta di un’altra verità.

Dreher parlava di “opzione Benedetto”. Tu in modo suggestivo parli invece di “opzione Francesco”. Cosa intendi?

È tempo di mettere in pratica quello che da otto anni e mezzo ci raccomanda papa Francesco e che io ho riassunto con questa formula dell’“opzione Francesco”. Basta con ritirate sull’Aventino da cristiani depressi e risentiti. Basta con atteggiamenti gattopardeschi con piccole spulciatine alla siepe senza zappare a fondo il terreno del nostro giardino ecclesiale. Scegliamo Francesco! Per prima cosa, questo implica che dobbiamo accettare che il nostro non è un mondo che cambia, ma è un mondo che è già cambiato e che dunque siamo di fronte a rivoluzioni dell’umano che mettono in crisi gli assetti del passato e aprono a sfide inedite. Il postmoderno non è un raffreddore di mezza stagionale. In secondo luogo, dobbiamo accettare con serenità che non si dà più qualcosa come un “inconscio cristiano collettivo” al quale poter fare riferimento per il nostro annuncio del Vangelo.

La grammatica dell’umano che oggi vive è fortemente estranea (quando non addirittura contraria) alla grammatica di fondo del Vangelo. Ed è pure fortemente sostenuta dai processi economici che governano il mondo. Quei processi che dicono a Peter Pan che va tutto bene e che non c’è nessun male a non voler crescere e ad impedire di crescere ai suoi figli. Per questo, nel nostro impegno di evangelizzazione non siamo più avvantaggiati da nulla.

Si deve incominciare proprio dall’inizio: dal dire chi è Gesù e le ragioni per le quali proprio oggi è sommamente umano credere in lui. Dobbiamo andare da Peter Pan, fissarlo negli occhi e provare a svegliarlo. Da ultimo, dobbiamo cambiare l’attuale regime pastorale. Noi continuiamo a dare risposte a domande che nessuno ci pone più, perché nessuno si pone più. Insomma, noi continuiamo a porgere il buon cibo del Vangelo in un modo che non attrae più nessuno. E la situazione è tale che non possiamo rattoppare il regime pastorale ereditato. Va cambiato radicalmente, nella linea trasformazione delle parrocchie in luoghi in cui chiunque possa incontrarsi con Gesù e innamorarsi di lui.

Insisti sulla necessità di cambiare radicalmente la pastorale. Cosa e come immagini?

Quello che immagino e che mi auguro è che, grazie al nostro lavoro di invenzione pastorale, chiunque nel mondo possa sapere che le nostre parrocchie sono luoghi dove si incontra Gesù e si rischia di cambiare vita. Si rischia di lasciar andare Peter Pan per sempre. Oggi la gente neppure sa per cosa servono le parrocchie e i preti e i vescovi… In vista di questo lavoro di trasformazione della pastorale, ritengo che si dovranno ridurre il numero delle parrocchie, si dovranno ridurre il numero delle messe (la domenica in particolare).

Ancora: si dovrà “abolire” l’attuale sistema del catechismo, delle feste di prima comunione e di cresima, si dovrà insistere sulla conoscenza del Vangelo, sull’iniziazione del pregare, sulla pratica della carità. E tanto altro ancora come provo ad esemplificare nell’ultima parte del libro. Ma soprattutto ci tengo a dire che si dovrà lavorare per ridare al cristianesimo la sua nota specifica: la nota della gioia. Quella che nasce e rinasce ogni volta che ci si incontra con Gesù. Da tempo i ragazzi e i giovani, passandoci accanto e pur solo annusandoci, si chiedono se siamo cristiani perché depressi o se siamo depressi perché cristiani. Così non va! Cantiamo davvero canti nuovi al Signore! Rivestiamoci a festa, direbbe Bernanos!

Dare volto e forma ad un cristianesimo nuovo. Il cammino sinodale in che modo può aiutare a muoversi in questa direzione?

Ogni giorno prego per papa Francesco e per questo cammino sinodale della Chiesa italiana che mi ha dato la fede. Esso è una splendida occasione per fare tutto quello che in questi anni non abbiamo fatto, immaginando più o meno semicoscientemente che le cose sarebbero tornate come ai bei tempi passati. Ed è bello poter avviarci dentro questo cammino con le parole che papa Francesco ha usato nell’avviare il cammino triennale del prossimo Sinodo dei Vescovi, cui pure è intrecciato il nostro cammino sinodale.

Citando Congar, papa Francesco ci ha detto che dobbiamo cercare una Chiesa diversa, non un’altra Chiesa. E la diversità dovrebbe consistere proprio in questo: che, grazie al cammino sinodale, quella italiana possa essere una Chiesa capace di quello che oggi non le riesce più. E le non riesce più di fare nuovi cristiani e nuove cristiane. Questo è il volto del cristianesimo nuovo che ci serve. E’ il cristianesimo di uomini e donne talmente appassionati e innamorati di Gesù che sanno accendere nei cuccioli che vengono al mondo, oggi e domani, il fuoco della fede, il fuoco della speranza, il fuoco della carità.

il messaggio di papa Francesco per la quinta giornata del povero

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

V GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

Domenica XXXIII del Tempo Ordinario
14 novembre 2021

«I poveri li avete sempre con voi»

Mc 14,7

1. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7). Gesù pronunciò queste parole nel contesto di un pranzo, a Betania, nella casa di un certo Simone detto “il lebbroso”, alcuni giorni prima della Pasqua. Come racconta l’evangelista, una donna era entrata con un vaso di alabastro pieno di profumo molto prezioso e l’aveva versato sul capo di Gesù. Quel gesto suscitò grande stupore e diede adito a due diverse interpretazioni.

La prima è l’indignazione di alcuni tra i presenti, compresi i discepoli, i quali considerando il valore del profumo – circa 300 denari, equivalente al salario annuo di un lavoratore – pensano che sarebbe stato meglio venderlo e dare il ricavato ai poveri. Secondo il Vangelo di Giovanni, è Giuda che si fa interprete di questa posizione: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». E l’evangelista annota: «Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» (12,5-6). Non è un caso che questa dura critica venga dalla bocca del traditore: è la prova che quanti non riconoscono i poveri tradiscono l’insegnamento di Gesù e non possono essere suoi discepoli. Ricordiamo, in proposito, le parole forti di Origene: «Giuda sembrava preoccuparsi dei poveri […]. Se adesso c’è ancora qualcuno che ha la borsa della Chiesa e parla a favore dei poveri come Giuda, ma poi si prende quello che mettono dentro, abbia allora la sua parte insieme a Giuda» (Commento al vangelo di Matteo, 11, 9).

La seconda interpretazione è data da Gesù stesso e permette di cogliere il senso profondo del gesto compiuto dalla donna. Egli dice: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me» (Mc 14,6). Gesù sa che la sua morte è vicina e vede in quel gesto l’anticipo dell’unzione del suo corpo senza vita prima di essere posto nel sepolcro. Questa visione va al di là di ogni aspettativa dei commensali. Gesù ricorda loro che il primo povero è Lui, il più povero tra i poveri perché li rappresenta tutti. Ed è anche a nome dei poveri, delle persone sole, emarginate e discriminate che il Figlio di Dio accetta il gesto di quella donna. Ella, con la sua sensibilità femminile, mostra di essere l’unica a comprendere lo stato d’animo del Signore. Questa donna anonima, destinata forse per questo a rappresentare l’intero universo femminile che nel corso dei secoli non avrà voce e subirà violenze, inaugura la significativa presenza di donne che prendono parte al momento culminante della vita di Cristo: la sua crocifissione, morte e sepoltura e la sua apparizione da Risorto. Le donne, così spesso discriminate e tenute lontano dai posti di responsabilità, nelle pagine dei Vangeli sono invece protagoniste nella storia della rivelazione. Ed è eloquente l’espressione conclusiva di Gesù, che associa questa donna alla grande missione evangelizzatrice: «In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto» (Mc 14,9).

2. Questa forte “empatia” tra Gesù e la donna, e il modo in cui Egli interpreta la sua unzione, in contrasto con la visione scandalizzata di Giuda e di altri, aprono una strada feconda di riflessione sul legame inscindibile che c’è tra Gesù, i poveri e l’annuncio del Vangelo.

Il volto di Dio che Egli rivela, infatti, è quello di un Padre per i poveri e vicino ai poveri. Tutta l’opera di Gesù afferma che la povertà non è frutto di fatalità, ma segno concreto della sua presenza in mezzo a noi. Non lo troviamo quando e dove vogliamo, ma lo riconosciamo nella vita dei poveri, nella loro sofferenza e indigenza, nelle condizioni a volte disumane in cui sono costretti a vivere. Non mi stanco di ripetere che i poveri sono veri evangelizzatori perché sono stati i primi ad essere evangelizzati e chiamati a condividere la beatitudine del Signore e il suo Regno (cfr Mt 5,3).

I poveri di ogni condizione e ogni latitudine ci evangelizzano, perché permettono di riscoprire in modo sempre nuovo i tratti più genuini del volto del Padre. «Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro. Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stesso. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 198-199).

3. Gesù non solo sta dalla parte dei poveri, ma condivide con loro la stessa sorte. Questo è un forte insegnamento anche per i suoi discepoli di ogni tempo. Le sue parole “i poveri li avete sempre con voi” stanno a indicare anche questo: la loro presenza in mezzo a noi è costante, ma non deve indurre a un’abitudine che diventa indifferenza, bensì coinvolgere in una condivisione di vita che non ammette deleghe. I poveri non sono persone “esterne” alla comunità, ma fratelli e sorelle con cui condividere la sofferenza, per alleviare il loro disagio e l’emarginazione, perché venga loro restituita la dignità perduta e assicurata l’inclusione sociale necessaria. D’altronde, si sa che un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L’elemosina, è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia. Insomma, i credenti, quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui.

Abbiamo tanti esempi di santi e sante che hanno fatto della condivisione con i poveri il loro progetto di vita. Penso, tra gli altri, a Padre Damiano de Veuster, santo apostolo dei lebbrosi. Con grande generosità rispose alla chiamata di recarsi nell’isola di Molokai, diventata un ghetto accessibile solo ai lebbrosi, per vivere e morire con loro. Si rimboccò le maniche e fece di tutto per rendere la vita di quei poveri malati ed emarginati, ridotti in estremo degrado, degna di essere vissuta. Si fece medico e infermiere, incurante dei rischi che correva e in quella “colonia di morte”, come veniva chiamata l’isola, portò la luce dell’amore. La lebbra colpì anche lui, segno di una condivisione totale con i fratelli e le sorelle per i quali aveva donato la vita. La sua testimonianza è molto attuale ai nostri giorni, segnati dalla pandemia di coronavirus: la grazia di Dio è certamente all’opera nei cuori di tanti che, senza apparire, si spendono per i più poveri in una concreta condivisione.

4. Abbiamo bisogno, dunque, di aderire con piena convinzione all’invito del Signore: «Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Questa conversione consiste in primo luogo nell’aprire il nostro cuore a riconoscere le molteplici espressioni di povertà e nel manifestare il Regno di Dio mediante uno stile di vita coerente con la fede che professiamo. Spesso i poveri sono considerati come persone separate, come una categoria che richiede un particolare servizio caritativo. Seguire Gesù comporta, in proposito, un cambiamento di mentalità, cioè di accogliere la sfida della condivisione e della partecipazione. Diventare suoi discepoli implica la scelta di non accumulare tesori sulla terra, che danno l’illusione di una sicurezza in realtà fragile ed effimera. Al contrario, richiede la disponibilità a liberarsi da ogni vincolo che impedisce di raggiungere la vera felicità e beatitudine, per riconoscere ciò che è duraturo e non può essere distrutto da niente e nessuno (cfr Mt 6,19-20).

L’insegnamento di Gesù anche in questo caso va controcorrente, perché promette ciò che solo gli occhi della fede possono vedere e sperimentare con assoluta certezza: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un’esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo. Si tratta, pertanto, di aprirsi decisamente alla grazia di Cristo, che può renderci testimoni della sua carità senza limiti e restituire credibilità alla nostra presenza nel mondo.

5. Il Vangelo di Cristo spinge ad avere un’attenzione del tutto particolare nei confronti dei poveri e chiede di riconoscere le molteplici, troppe forme di disordine morale e sociale che generano sempre nuove forme di povertà. Sembra farsi strada la concezione secondo la quale i poveri non solo sono responsabili della loro condizione, ma costituiscono un peso intollerabile per un sistema economico che pone al centro l’interesse di alcune categorie privilegiate. Un mercato che ignora o seleziona i principi etici crea condizioni disumane che si abbattono su persone che vivono già in condizioni precarie. Si assiste così alla creazione di sempre nuove trappole dell’indigenza e dell’esclusione, prodotte da attori economici e finanziari senza scrupoli, privi di senso umanitario e responsabilità sociale.

Lo scorso anno, inoltre, si è aggiunta un’altra piaga che ha moltiplicato ulteriormente i poveri: la pandemia. Essa continua a bussare alle porte di milioni di persone e, quando non porta con sé la sofferenza e la morte, è comunque foriera di povertà. I poveri sono aumentati a dismisura e, purtroppo, lo saranno ancora nei prossimi mesi. Alcuni Paesi stanno subendo per la pandemia gravissime conseguenze, così che le persone più vulnerabili si trovano prive dei beni di prima necessità. Le lunghe file davanti alle mense per i poveri sono il segno tangibile di questo peggioramento. Uno sguardo attento richiede che si trovino le soluzioni più idonee per combattere il virus a livello mondiale, senza mirare a interessi di parte. In particolare, è urgente dare risposte concrete a quanti patiscono la disoccupazione, che colpisce in maniera drammatica tanti padri di famiglia, donne e giovani. La solidarietà sociale e la generosità di cui molti, grazie a Dio, sono capaci, unite a progetti lungimiranti di promozione umana, stanno dando e daranno un contributo molto importante in questo frangente.

6. Rimane comunque aperto l’interrogativo per nulla ovvio: come è possibile dare una risposta tangibile ai milioni di poveri che spesso trovano come riscontro solo l’indifferenza quando non il fastidio? Quale via della giustizia è necessario percorrere perché le disuguaglianze sociali possano essere superate e sia restituita la dignità umana così spesso calpestata? Uno stile di vita individualistico è complice nel generare povertà, e spesso scarica sui poveri tutta la responsabilità della loro condizione. Ma la povertà non è frutto del destino, è conseguenza dell’egoismo. Pertanto, è decisivo dare vita a processi di sviluppo in cui si valorizzano le capacità di tutti, perché la complementarità delle competenze e la diversità dei ruoli porti a una risorsa comune di partecipazione. Ci sono molte povertà dei “ricchi” che potrebbero essere curate dalla ricchezza dei “poveri”, se solo si incontrassero e conoscessero! Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa di sé nella reciprocità. I poveri non possono essere solo coloro che ricevono; devono essere messi nella condizione di poter dare, perché sanno bene come corrispondere. Quanti esempi di condivisione sono sotto i nostri occhi! I poveri ci insegnano spesso la solidarietà e la condivisione. È vero, sono persone a cui manca qualcosa, spesso manca loro molto e perfino il necessario, ma non mancano di tutto, perché conservano la dignità di figli di Dio che niente e nessuno può loro togliere.

7. Per questo si impone un differente approccio alla povertà. È una sfida che i Governi e le Istituzioni mondiali hanno bisogno di recepire con un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni. Se i poveri sono messi ai margini, come se fossero i colpevoli della loro condizione, allora il concetto stesso di democrazia è messo in crisi e ogni politica sociale diventa fallimentare. Con grande umiltà dovremmo confessare che dinanzi ai poveri siamo spesso degli incompetenti. Si parla di loro in astratto, ci si ferma alle statistiche e si pensa di commuovere con qualche documentario. La povertà, al contrario, dovrebbe provocare ad una progettualità creativa, che consenta di accrescere la libertà effettiva di poter realizzare l’esistenza con le capacità proprie di ogni persona. È un’illusione da cui stare lontani quella di pensare che la libertà sia consentita e accresciuta per il possesso di denaro. Servire con efficacia i poveri provoca all’azione e permette di trovare le forme più adeguate per risollevare e promuovere questa parte di umanità troppe volte anonima e afona, ma con impresso in sé il volto del Salvatore che chiede aiuto.

8. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7). È un invito a non perdere mai di vista l’opportunità che viene offerta per fare del bene. Sullo sfondo si può intravedere l’antico comando biblico: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso […], non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. […] Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi. Proprio per questo, infatti, il Signore, tuo Dio, ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano.Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra» (Dt 15,7-8.10-11). Sulla stessa lunghezza d’onda si pone l’apostolo Paolo quando esorta i cristiani delle sue comunità a soccorrere i poveri della prima comunità di Gerusalemme e a farlo «non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Non si tratta di alleggerire la nostra coscienza facendo qualche elemosina, ma  piuttosto di contrastare la cultura dell’indifferenza e dell’ingiustizia con cui ci si pone nei confronti dei poveri.

In questo contesto fa bene ricordare anche le parole di San Giovanni Crisostomo: «Chi è generoso non deve chiedere conto della condotta, ma solamente migliorare la condizione di povertà e appagare il bisogno. Il povero ha una sola difesa: la sua povertà e la condizione di bisogno in cui si trova. Non chiedergli altro; ma fosse pure l’uomo più malvagio al mondo, qualora manchi del nutrimento necessario, liberiamolo dalla fame. […] L’uomo misericordioso è un porto per chi è nel bisogno: il porto accoglie e libera dal pericolo tutti i naufraghi; siano essi malfattori, buoni o siano come siano quelli che si trovano in pericolo, il porto li mette al riparo all’interno della sua insenatura. Anche tu, dunque, quando vedi in terra un uomo che ha sofferto il naufragio della povertà, non giudicare, non chiedere conto della sua condotta, ma liberalo dalla sventura» (Discorsi sul povero Lazzaro, II, 5).

9. È decisivo che si accresca la sensibilità per capire le esigenze dei poveri, sempre in mutamento come lo sono le condizioni di vita. Oggi, infatti, nelle aree del mondo economicamente più sviluppate si è meno disposti che in passato a confrontarsi con la povertà. Lo stato di relativo benessere a cui ci si è abituati rende più difficile accettare sacrifici e privazioni. Si è pronti a tutto pur di non essere privati di quanto è stato frutto di facile conquista. Si cade così in forme di rancore, di nervosismo spasmodico, di rivendicazioni che portano alla paura, all’angoscia e in alcuni casi alla violenza. Non è questo il criterio su cui costruire il futuro; eppure, anche queste sono forme di povertà da cui non si può distogliere lo sguardo. Dobbiamo essere aperti a leggere i segni dei tempi che esprimono nuove modalità con cui essere evangelizzatori nel mondo contemporaneo. L’assistenza immediata per andare incontro ai bisogni dei poveri non deve impedire di essere lungimiranti per attuare nuovi segni dell’amore e della carità cristiana, come risposta alle nuove povertà che l’umanità di oggi sperimenta.

Mi auguro che la Giornata Mondiale dei Poveri, giunta ormai alla sua quinta celebrazione, possa radicarsi sempre più nelle nostre Chiese locali e aprirsi a un movimento di evangelizzazione che incontri in prima istanza i poveri là dove si trovano. Non possiamo attendere che bussino alla nostra porta, è urgente che li raggiungiamo nelle loro case, negli ospedali e nelle residenze di assistenza, per le strade e negli angoli bui dove a volte si nascondono, nei centri di rifugio e di accoglienza… È importante capire come si sentono, cosa provano e quali desideri hanno nel cuore. Facciamo nostre le parole accorate di Don Primo Mazzolari: «Vorrei pregarvi di non chiedermi se ci sono dei poverichi sono e quanti sono, perché temo che simili domande rappresentino una distrazione o il pretesto per scantonare da una precisa indicazione della coscienza e del cuore. […] Io non li ho mai contati i poveri, perché non si possono contare: i poveri si abbracciano, non si contano»(“Adesso” n. 7 – 15 aprile 1949). I poveri sono in mezzo noi. Come sarebbe evangelico se potessimo dire con tutta verità: anche noi siamo poveri, perché solo così riusciremmo a riconoscerli realmente e farli diventare parte della nostra vita e strumento di salvezza.

Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2021,
Memoria di Sant’Antonio di Padova

FRANCESCO

 

la pornografia uccide l’amore

quei nostri figli invasi dal porno
di Massimo Recalcati
in “La Stampa” del 4 novembre 2021

L’allarme è stato ancora recentemente lanciato dal Presidente del Tribunale dei minori di Bari, Riccardo Greco: i nostri figli sono esposti ad un consumo di immagini pornografiche senza alcun filtro. Si tratta di una esposizione potenzialmente nociva in quanto può promuovere comportamenti imitativi che corromperebbero un accesso gioioso alla vita sessuale enfatizzando l’aggressività, la violenza e il consumo dei corpi fine a se stesso. Questo allarme non è ingiustificato e andrebbe tenuto in seria considerazione. Il nostro tempo se per un verso si è giustamente liberato definitivamente dai tabù che avevano costretto la vita sessuale a subordinarsi alla macchina repressiva di una morale apertamente sessuofobica, ora il rischio è quello di un sesso non tanto senza tabù, ma senza amore, erotismo e mistero.
Se il nostro tempo ha dissolto l’ombra cupa dei tabù, esso sembra promuovere – anche a causa di una presenza massiccia della pornografia accessibile sulla rete senza alcun filtro – una inedita dissociazione non solo tra il sesso e l’amore ma anche tra il sesso e l’erotismo. Il legame tra sesso e amore mostra quanto la presenza dell’amore sia decisiva a sottrarre la sessualità dal rischio di una sua mercificazione. Se infatti la pulsione sessuale tende a ricercare il suo soddisfacimento anonimamente, a prescindere dal nome proprio del partner – vi sono rapporti sessuali, anche tra i giovanissimi, che avvengono nel più totale anonimato -, l’amore ricorda sempre l’imprescindibilità e l’insostituibilità del nome proprio. Legando il corpo al nome esso rende questo corpo unico, amabile appunto, dunque non seriale, non anonimo, non un semplice strumento di godimento. La potenza
dell’amore consiste infatti nel fare convergere la spinta della pulsione sessuale sul carattere unico del nome dell’amato. Diversamente, senza la presenza dell’amore, la pulsione sessuale dispiega il suo moto anarchicamente. Nel tempo dell’adolescenza questa anarchia della pulsione non deve ovviamente essere demonizzata. E’ parte integrante della vita di ogni adolescente. In primo piano è la legittima curiosità per un mondo nuovo di conoscenze, di sensazioni e di sperimentazioni che ruotano attorno al corpo sessuale. Il risveglio di primavera della giovinezza esige infatti che questo corpo trovi all’esterno della famiglia le sue soddisfazioni. Il problema è che questa apertura necessaria può dar luogo ad un accumulo disordinato di sensazioni che anziché costituire una esperienza tendano a distruggere ogni forma di esperienza. Bion definiva il tossicomane come colui che non sa aspettare.
Il consumo febbrile di materiali pornografici o l’accumulo superficiale di relazioni sessuali
occasionali, possono essere una manifestazione significativa di questa difficoltà. Ma l’attesa, come, del resto, il velo e la distanza, la poesia e la cura, è una figura fondamentale del desiderio. Non sapere aspettare nella distanza può significare procedere nel senso del consumo compulsivo di sensazioni senza che si dia possibilità di renderle una esperienza che contribuisce a dare forma alla vita. Accentuando il consumo senza filtro delle nuove sensazioni anche l’esperienza erotica – non solo quella dell’amore – vien resa impossibile. Come se ne esce? E’ proprio la cultura ad insegnarci, ben più a fondo di quello che potrebbe fare qualunque corso specializzato di educazione sessuale, che si dovrebbe imparare a trattare un corpo come se fosse un libro. Non a caso in diversi oggi                      parlano anche della morte del libro. Non si può leggere un libro senza darsi il tempo giusto, senza concedersi una pausa, una riflessione, senza la cura e la dedizione che l’esercizio della lettura richiede. Non vale forse lo stesso per l’incontro erotico tra i corpi? La ricerca compulsiva del porno come oggetto di consumo immediato che soddisfa l’iperattivismo neo-libertino del nostro tempo non introduce affatto alla vita erotica, ma solo ad un consumismo senza desiderio.
Il corpo erotico, infatti, diversamente dal corpo porno, è un corpo che diviene soggetto di
esperienza. Non è sempre necessario il grande amore perché questo avvenga, ma una cultura che renda i nostri figli e le nostre figlie sensibili alla presenza dell’altro non come oggetto da saccheggiare ma come un soggetto da conoscere. Il corpo porno esclude la dimensione della relazione dalla vita sessuale, laddove invece il corpo erotico si fonda proprio sull’esistenza di una relazione. Ma il problema più generale è che il nostro tempo tende sempre più a privilegiare gli oggetti alle relazioni. Si tratta di una vera e propria intossicazione. E’ quello che Pasolini definiva già nel suo tempo “sistema dei consumi”.

il fallimento sui migranti è il fallimento dell’Europa

il fallimento europeo sui migranti

dal gioco dell’oca a quello del calamaro: in Bosnia tra i respinti d’Europa, senza dignità e diritti

YANNIS KOLESIDIS/EPA

C’è da chiedersi se il regista di Squid Game si sia fatto un giro sulla rotta balcanica prima di scrivere una delle serie di maggiore successo nella storia di Netflix. Perché il “GAME” della rotta balcanica, così battezzato dai migranti, perché dalla Bosnia alla Croazia si torna sempre alla casella di partenza, ormai assomiglia più che al gioco dell’oca al gioco del calamaro, quello in cui sei disposto a tutto, anche a morire pur di ottenere in palio una vita decente.

E invece di 1-2-3 Stella o del gioco delle biglie qui si partecipa a un gioco ancora più adrenalitico, quello che termina direttamente nel Cimitero dei Senza Nome di Merzarje. Solo che i rifugiati, i migranti, i viaggiatori senza diritti che sono accampati alla meno peggio tra le foreste della Bosnia, in un limbo umidiccio e nebbioso, non se la sono scelti loro di essere gli emarginati del mondo, gli invisibili da confinare lontano dalla vita “normale”.

Andare in Bosnia a visitare i campi profughi, come ho fatto con alcuni colleghi del Parlamento europeo (Pietro Bartolo, Alessandra Moretti, Pierfrancesco Majorino) è il minimo sindacale che uno che fa il nostro mestiere deve fare. Il problema è che si torna indietro con la prova provata del fallimento dell’Ue sulla politica migratoria. Di quel modello di esternalizzazione della gestione dei flussi migratori, che forse è l’unico possibile di fronte a 12 paesi europei che hanno la sfacciataggine di chiedere soldi per costruire muri, ma che continua a essere quello più sbagliato di sempre.

Dalla Siria, dal Pakistan, dall’Afghanistan i viaggiatori senza diritti con mezzi di fortuna e molto con i piedi (spellati e incancreniti) arrivano in Bosnia con la speranza di attraversare la frontiera con la Croazia per entrare finalmente nell’Unione europea e nei paesi desiderati, Italia, Francia, Spagna. Ma il “gioco” della vita è balordo e non perdona: alla frontiera con la Croazia la polizia continua a perpetrare violenze, così raccontano, a picchiare e derubare i migranti che arrivano e a “pushbeccarli” (pushback), cioè a rispedirli al mittente. Pochissimi i vincitori del GAME, quelli che arrivano a Trieste, e ottengono il premio; poter forse raggiungere la meta 

Ibrahim, un insegnate pakistano di inglese, mi dice che ha provato ad attraversare la frontiera 26 volte, e che ci riproverà. Racconta di essere stato picchiato e soprattutto denudato e poi in mutande rimandato indietro. Ha una moglie e un padre in Grecia, la figlia e la madre in Turchia, e chiede che a Lipa almeno le docce abbiano l’acqua calda, altrimenti chi se la fa tutti i giorni la doccia con l’acqua gelata? Mi fermo con alcuni di loro e colpisce la dignità con cui ti rivelano l’unica loro colpa: la sfiga di essere nati in un posto di serie B, rispetto a quelli della Premiere League.

La situazione di Lipa, il campo noto per le immagini di bambini coi piedi nudi sulla neve dello scorso gennaio, è migliorata, va detto. Organizzazioni come OIM e UNHCR stanno costruendo anche con finanziamenti europei un nuovo insediamento con spazi comuni adeguati e riscaldati e container per la notte piccoli ma certamente preferibili rispetto alle tende montate alla meno peggio. L’impegno di associazioni come IPSIA, Croce Rossa, Caritas, SOS è insostituibile e sono loro i nostri referenti per visitare e capire.

Ma l’impressione rimane quella del confino, del confinamento dei migranti lontano dal resto del mondo, sospesi nel tempo e nello spazio. E rimangono molte ambiguità sulla gestione dei 90 milioni trasferiti dal 2018 dall’Ue alla Bosnia, in un paese in cui i livelli di corruzione sono giganteschi. Ci proviamo con tutta la nostra insistenza e antipatia a chiedere al sindaco di Bihàc e al Governatore del Cantone di Una Sana. La risposta è sempre troppo vaga.

Nei centri per minori la situazione è migliore rispetto a Lipa. I bambini e i ragazzi vanno a scuola e le famiglie stanno insieme (anche se, stacci tu in tre famiglie in una stanza). Una bimba, Halima, di tre anni, mi segue ovunque, ha capito che faccio alcuni scatti e appena riesce si mette davanti a me in posa per farsi ritrarre, come una attrice consumata. Velocissima, spunta fuori da tutte le parti e si fa fotografare decine di volte. Con la spensieratezza di una bimba di 3 anni che forse non ha visto altro che quelle stanze e quel refettorio, e non ha sentito che quell’odore.

Provo a scacciare l’immagine dei miei figli, per evitare un contrasto insopportabile e tiro dritto prendendo una marea di appunti. E provo a scacciarla ancora quando incontriamo la famiglia Adday, siriana, separata per un puro incidente del destino in Grecia e infilata in un’odissea che neanche ad ascoltarla ci credi. Madre a Berlino e un ricongiungimento che sembra impossibile. Quel papà e quei tre ragazzi che giganteggiano in dignità e vengono a scusarsi per averci fatto piangere. Ma come?

Tenere insieme le contraddizioni di un’Europa che si è finalmente svegliata dopo la pandemia e che ha sterzato con NextGenEu verso una solidarietà concreta, ma che si porta dietro queste ombre e gli eterni egoismi di governi incapaci di guardare oltre la frontiera del consenso immediato non è semplice. La rotta balcanica e il GAME sono lì a ricordarci che il puzzle ancora non torna, che i tasselli non si compongono l’uno con l’altro. Anzi.

il sistema capitalistico non può essere la soluzione dei nostri più grossi problemi

 «il problema è il capitalismo»

ma i leader evitano di dirlo

intervista a Leonardo Boff

a cura di Claudia Fanti
in “il manifesto” del 4 novembre 2021

Il sistema capitalista non offre le condizioni per operare mutamenti strutturali, cioè per sviluppare un altro paradigma di produzione più amichevole nei confronti della natura e in grado di superare la disuguaglianza sociale. La sua logica interna è sempre quella di garantire in primo luogo il profitto, sacrificando la natura e le vite umane.

Il grido dell’indigena brasiliana Txai Suruí, figlia di uno dei leader più rispettati del suo paese, Almir Suruí, è risuonato proprio in apertura della Cop 26:

«Mio padre mi ha insegnato che
dobbiamo ascoltare le stelle, la luna, gli animali, gli alberi. Oggi, il clima sta cambiando, gli animali
stanno scomparendo, i fiumi muoiono, le nostre piante non fioriscono più come prima. La Terra ci
sta dicendo che non abbiamo più tempo».

Ma è già troppo tardi per cambiare strada?

Lo abbiamo chiesto a Leonardo Boff, tra i padri
fondatori della Teologia della Liberazione, quella dei poveri e del «grande povero» che è il nostro
pianeta devastato e ferito, il cui duplice – e congiunto – grido ha occupato il centro della sua intera
riflessione.

Tra i firmatari dell’accordo sulla deforestazione raggiunto alla Cop 26 c’è anche Bolsonaro. Il
trionfo dell’ipocrisia?

Nulla di minimamente credibile può venire dal governo Bolsonaro: con lui la menzogna è diventata
politica di stato. Solo su un punto ha detto la verità: «Il mio governo è venuto per distruggere tutto e
per ricominciare da capo». Peccato che questo reinizio sia nel segno dell’oscurantismo e del
negazionismo scientifico, che si tratti di Covid o di Amazzonia. La sua opzione economica va in
direzione esattamente opposta a quella per la preservazione ecologica: Bolsonaro ha favorito
l’estrazione di legname, l’attività mineraria all’interno delle aree indigene, la distruzione della
foresta per far spazio alla monocoltura della soia e all’allevamento. Solo da gennaio a settembre,
l’Amazzonia ha perso 8.939 km² di foresta, il 39% in più rispetto allo stesso periodo del 2020 e
l’indice peggiore degli ultimi 10 anni. La sua adesione al piano di ridurre le emissioni di metano del
30% entro il 2030 è pura retorica. In realtà, non ci sono dubbi sul fatto che proseguirà sulla strada
della deforestazione continuando a mentire al Brasile e al mondo.

L’Amazzonia potrà sopravvivere ad altri 10 anni di deforestazione?

Il grande specialista dell’Amazzonia Antônio Nobre afferma che, al ritmo attuale di distruzione, e
con un tasso di deforestazione già vicino al 20%, in 10 anni si potrebbe raggiungere il punto di non
ritorno, con l’avvio di un processo di trasformazione della foresta in una savana appena interrotta da
alcuni boschi. La foresta è lussureggiante ma con un suolo povero di humus: non è il suolo che
nutre gli alberi, ma il contrario. Il suolo è soltanto il supporto fisico di un complicata trama di
radici. Le piante si intrecciano mediante le radici e si sostengono mutuamente alla base, costituendo
un immenso bilanciamento equilibrato e ritmato. Tutta la foresta si muove e danza. Per questo
motivo, quando una pianta viene abbattuta, ne trascina molte altre con sé.

Siamo ancora in tempo per intervenire?

I leader mondiali hanno accuratamente evitato di toccare quello che è il vero problema: il
capitalismo. Se non cambiamo il modello di produzione e di consumo, non fermeremo mai il
riscaldamento globale, arrivando al 2030 con un aumento della temperatura oltre il grado e mezzo.
Le conseguenze sono note: molte specie non riusciranno ad adattarsi e si estingueranno, si
registreranno grandi catastrofi ambientali e milioni di rifugiati climatici, in fuga da terre non più
coltivabili, oltrepasseranno i confini degli stati, per disperazione, scatenando conflitti politici. E con
il riscaldamento verranno anche altri virus più pericolosi, con la possibile scomparsa di milioni di
esseri umani. Già ora i climatologi affermano che non c’è più tempo. Con l’anidride carbonica che
si è già accumulata nell’atmosfera, e che vi resterà per 100-120 anni, più il metano che è 80 volte
più nocivo della CO2, gli eventi estremi saranno inevitabili. E la scienza e la tecnologia potranno
attenuare gli effetti catastrofici, ma non evitarli.

Ha sempre affermato che senza un vero cambiamento nella nostra relazione con la natura non
avremo scampo. L’umanità è pronta per questo passo?

Il sistema capitalista non offre le condizioni per operare mutamenti strutturali, cioè per sviluppare
un altro paradigma di produzione più amichevole nei confronti della natura e in grado di superare la
disuguaglianza sociale. La sua logica interna è sempre quella di garantire in primo luogo il profitto,
sacrificando la natura e le vite umane. Da questo sistema non possiamo aspettarci nulla. Sono le
esperienze dal basso a offrire speranze di alternativa: dal buen vivir dei popoli indigeni
all’ecosocialismo di base fino al bioregionalismo, il quale si propone di soddisfare le necessità
materiali rispettando le possibilità e i limiti di ogni ecosistema locale, creando al tempo stesso le
condizioni per la realizzazione dei beni spirituali, come il senso di giustizia, la solidarietà, la
compassione, l’amore e la cura per tutto ciò che vive.

una società diversa – un sogno impossibile? la marcia della pace Perugia-Assisi

“I care”
in marcia per una società della cura
domenica 10 ottobre , la bella marcia della pace Perugia-Assisi in edizione covid19, molto partecipata con l’attenzione ad evitare  assembramenti troppo stretti
una ricostruzione di Mario Di Vito
in “il manifesto” del 12 ottobre 2021
Il cielo incerto e il primo vero freddo della stagione non fanno troppa paura. In ventimila, da tutta
l’Italia, hanno percorso i 24 chilometri che separano Perugia da Assisi per la sessantesima edizione
della Marcia per la Pace. In testa lo striscione con scritto «I care», con un occhio alla pandemia e un
altro alla volontà esplicita dei partecipanti di prendersi cura del mondo.
«C’è bisogno della cultura della responsabilità e della cura reciproca – scandiscono gli
organizzatori –, cura delle giovani generazioni, della scuola, dell’educazione, degli altri, del pianeta,
dei bene comuni, della comunità e delle città». Un impegno che non riguarda soltanto quest’annata,
ma che, nelle intenzioni, dovrà segnare tutto il prossimo decennio: «Cura è il nuovo nome
della pace», come da frase di don Lorenzo Milani.
Un messaggio ribadito anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha inviato un
messaggio ai manifestanti: «I valori che ispirano e la partecipazione che continua a suscitare la
Marcia sono risorse preziose in questo nostro tempo di cambiamenti, ma anche di responsabilità.
Questa edizione si svolge a sessanta anni dalla prima marcia promossa da Aldo
Capitini, quell’originaria, esigente aspirazione alla pace e alla non violenza ha messo
radici profonde nella coscienza e nella cultura delle nostre comunità.
La pace non soltanto è possibile. Ma è un dovere per tutti». Tra i volti, oltre alla presenza
istituzionale del sindaco di Perugia Andrea Romizi e
della governatrice umbra Donatella Tesei, da segnalare Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace
condannato la settimana scorsa a tredici anni per aver cercato di offrire ai migranti un futuro
migliore e un’accoglienza degna in questo paese.
«Sono qui – spiega un Lucano visibilmente provato dagli eventi – perché non ho altri riferimenti per
trovare entusiasmo e continuare. Non mi importa, alla fine penso che è quasi naturale pagare gli
effetti collaterali di quello che ho fatto, senza dire luoghi comuni o costruire alibi. Quando ho
cominciato ad interessarmi alle politiche di accoglienza è stato per una casualità e mai avrei
immaginato che la normalità sarebbe diventata un fatto così eclatante.
Per me, non ci può essere pace senza diritti umani, senza uguaglianza e senza rispetto della vita. La
Marcia della pace significa trovare la pace».
Applausi di tutto il corteo per lo striscione della Cgil, in solidarietà per il terrificante assalto subito
ieri da parte di un gruppo di militanti fascisti in libera uscita per le strade di Roma durante la
manifestazione dei «no green pass».
I militanti del sindacato hanno anche apprezzato le non scontate parole di vicinanza espresse dal
palco da Romizi e Tesei, esponenti della destra umbra. Il sindaco di Perugia ha anche voluto
esprimere «un pensiero affettuoso all’imam Abdel Qader, nostro concittadino e amico, uomo di
pace e di dialogo che saliva sempre con noi su questo palco e che oggi non c’è più a causa delle
conseguenze del Covid».
Tra il folto gruppo di stendardi istituzionali, si fa notare la sindaca di Assisi Stefania Proietti.
«Siamo in migliaia a gridare basta alla violenza e all’indifferenza – dice –, oggi più di ieri è urgente
non solo invocare la pace ma anche farla con azione concrete. Oggi più di ieri bisogna prendersi
cura degli altri e mettere al centro la vita, la persona, la dignità».
Nella folla in marcia si vedono padre Alex Zanotelli, don Luigi Ciotti, Cecilia Strada, Aboubakar
Soumahoro, la moglie dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso lo scorso febbraio in Congo
Zadia Seddiki, i genitori del reporter Andy Rocchelli Elisa e Rino Signori.
Il resto è militanza diffusa, cattolici di base, striscioni, bandiere, migliaia di persone partite da ogni
angolo d’Italia per per poter dire di esserci, per affermare di combattere ogni giorno per la pace,
l’uguaglianza e la solidarietà. Per cercare di fare del mondo un posto migliore. 
nel grandioso quadro della multicolore partecipazione e dei messaggi inneggianti alla ‘convivialità delle differenze’ un bell’angolino rappresentato da alcune ragazzine rom del campo di Coltano (Pisa) orgogliosamente ed entusiasticamente presenti con la loro bandiera e il loro striscione con la ruota rappresentante il senso della vita come viaggio; con loro p. Agostino che da sempre condivide amichevolmente la loro vita nel campo
qui sotto la descrizione del loro viaggio vissuto con entusiasmo

la marcia della pace Perugia-Assisi  di Violza- Fatima- Adem- Yasin e il diario del viaggio scritto da due di loro, ‘scritto con semplicità’

Alle 4 del mattino siamo in partenza per Perugia , assonnati e freddolosi, iniziamo il viaggio. Di per sé la marcia noi  l’abbiamo iniziata due giorni fa, quando insieme abbiamo deciso di partecipare con entusiasmo e abbiamo voluto preparare un NOSTRO striscione. Ci dispiace per Laura che all’ultimo momento non ha VOLUTO venire, perdendo il suo entusiasmo. Sono le 6:20 e Agostino si è fermato a prendere un caffè, perché dorme ancora, invece noi siamo ancora assonnati. Abbiamo preparato uno striscione a modo nostro, la frase che abbiamo creato è :

NOI ROM VIVIAMO LA PACE CON IL CUORE E CON I PIEDI

è uno striscione bello e colorato perché è fatto con le nostri mani e la nostra fantasia.

Sono le 7,40 e siamo arrivati a Ponte San Giovanni. Qui aspettiamo l’arrivo della marcia prevista tra un’ora circa, approfittiamo per fare colazione e riposarci, c’è chi dorme,  chi mangia patatine e chi va al bagno. Attendiamo con ansia l’arrivo del Corteo della Pace, partito da Perugia. La giornata sembra bella con un po’ di nuvole ma non piove. Mentre attendiamo l’arrivo del Corteo, lì sul posto c’è tanta gente in attesa dell’arrivo del Corteo. Decidiamo di aprire il nostro striscione e di sventolare le due bandiere dei ROM e quella della Pace. Tante persone ci hanno chiesto che bandire fossero, quelle che tenevamo in mano, perché non la conoscevano. Noi abbiamo spiegato il significato della nostra bandiera: i due colori, l’azzurro e il verde e la ruota. Tutti sono rimasti sorpresi della nostra spiegazione è hanno apprezzato molto le nostre parole. Incuriositi molti ci hanno chiesto se eravamo ROM e da dove veniamo. Anche durante la marcia tante persone hanno chiesto la stessa cose. Ovviamente non sono mancati gli apprezzamenti per il nostro striscione e la nostra presenza in questo corteo.

Come ci sono piaciute anche le tantissime fotografie che la gente ci chiedeva, come segno di simpatia e gratitudine. In questa marcia abbiamo conosciuto Gualtiero un amico di vecchia data di Agostino, che  ha voluto restare con noi fino alla fine e con la sua presenza ci ha espresso la sua simpatia. Partecipando a questa marcia noi ci siamo divertiti tanto, nonostante la stanchezza, la pesantezza delle nostre gambe, ma è stato bello camminare insieme a così tanta gente per manifestare anche noi la volontà di un mondo più pacifico. Per noi è stata la prima volta fare una iniziativa insieme a così tanta gente che venivano da tanti posti diversi. Durante il viaggio di ritorno, noi ci siamo chiesti come mai la gente non conosceva la nostra bandiera. È vero, purtroppo la maggioranza degli italiani ci conoscono solo per gli aspetti negativi, perché invece a loro manca una conoscenza più VERA DELLA NOSTRA VITA: se non conosco la nostra bandiera, come fanno a conoscere la nostra storia, la nostra vita? Noi siamo contenti di aver partecipato, perché così abbiamo potuto farci conoscere, infatti molta gente si è sorpresa che anche noi rom siamo venuti a manifestare per la Pace.

Dobbiamo dire la verità, ci siamo fermati a Santa Maria degli Angeli, a 5 chilometri da Assisi, eravamo molto stanchi e i nostri piedi non c’è la facevano ad andare avanti. Rimane il desiderio per una prossima marcia di arrivare fino alla città di San Francesco. Dopo esserci riposati verso le ore 15 abbiamo preso il treno per ritornare a Ponte San Giovanni, per prendere il nostro camper, durate il viaggio di ritorno la stanchezza si è fatta sentire e abbiamo approfittato di riposarci. Questa è la storia della nostra marcia Perugia- Assisi. Alle 19,30 siamo arrivati al campo di Coltano, dove le nostre famiglie ci aspettavo con ansia e curiosità.

il modello teologico post-teista per una teologia per i nostri tempi?

 

Per un cristianesimo post-teista

per un cristianesimo post-teista

 da: Adista Documenti n° 35 del 09/10/2021

 

Il modello post-teista: una nuova speranza transreligiosa e planetaria

il modello post-teista

una nuova speranza transreligiosa e planetaria

 da: Adista Documenti n° 35 del 09/10/2021

 Non è solo in Italia che ci si interroga sul post-teismo. Il dibattito sul necessario cambiamento di paradigma nell’interpretazione del messaggio cristiano attraversa molti altri Paesi, dalla Spagna alla Francia, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Argentina al Cile. Ed è proprio per un confronto tra realtà anche geograficamente diverse che alcuni dei protagonisti di questo cammino di ricerca, José ArregiJosé María Vigil Santiago Villamayor (tre degli autori del libro Oltre Dio edito da Gabrielli), più lo statunitense Tony Brun e il cileno Gerardo González, hanno organizzato il 19 settembre scorso, su Zoom, un’ampia consultazione dal titolo “Un altro Dio e un altro cristianesimo sono possibili” (questo il link del video, in spagnolo e senza sottotitoli: https://www.academia.edu/video/jYrYX1). Un incontro a cui hanno partecipando oltre 100 persone, esprimendo dubbi, avanzando proposte, suggerendo correzioni e, anche, rivelando il proprio entusiasmo verso il nuovo paradigma post-teista, sulla base di una profonda convinzione: che di fronte alla scelta tra un profondo rinnovamento, l’adeguamento alla cultura dominante o l’arroccamento sulle posizioni tradizionali, è la prima alternativa quella su cui vale la pena scommettere, con tutto ciò che comporta anche rispetto all’immagine di Dio. E come contributo alla riflessione, centrata su tre interrogativi – qual è la nostra attuale situazione nel passaggio post-religionale; come favorire la sostituzione del paradigma religioso pre-moderno; quali elementi hanno bisogno di una maggiore maturazione – gli autori hanno preparato un testo base sul modello post-teista, proposto come «uno spazio comune per tutti i movimenti e i progetti per un altro mondo possibile». «L’umanità e il pianeta – si legge nel testo di convocazione dell’incontro – gemono nei dolori del parto aspirando alla giustizia universale, al benessere e alla felicità di tutti gli esseri viventi, a cominciare dai più vulnerabili. È un sentire universale e una dinamica che riteniamo propria anche della sapienza di Gesù di Nazaret».  

 

Qui, in  traduzione dallo spagnolo, il testo base della consultazione, scritto «in memoria di Roger Lenaers» (v. Adista News 7/8/21; la notizia della scomparsa di John Shelby Spong sarebbe arrivata solo dopo, v. Adista Notizie n. 33/21).  

Introduzione   

Molti/e cristiani/e sono oggi a disagio con i contenuti della loro fede. Sentono di richiamarsi a una cosmovisione pre-moderna ormai superata, verso cui provano una crescente disaffezione. Anche in altre tradizioni religiose o umaniste e in generale nella cultura di molti Paesi si produce un fenomeno simile. E così ci troviamo di fronte a un’umanità smarrita in transito verso nuove interpretazioni della realtà e un’unitaria speranza planetaria, post-secolare e post-teista.  

Tale smarrimento si deve in primo luogo ai nuovi modelli epistemologici, pluralisti e relativisti che mettono in discussione l’esistenza di una verità assoluta; ammettono molteplici linguaggi e procedimenti, che siano empirici, inclusivi o simbolici, ma in ogni caso dialogici e autocritici; sono distanti dal dogmatismo e dalla soggettività derivati dall’autorità e da presunte rivelazioni.  

Tali nuovi modelli pongono la religione nella necessità di rivedere i propri presupposti epistemologici e le proprie figure simboliche. Ma ciò non avviene in maniera sufficiente. Da questi nuovi modelli epistemologici deriva un’ontologia nuova. Una interpretazione della realtà come un tutto complesso e unitario di materia, energia, vita e coscienza, basata su una visione non dualista, olistica, in cui la “materia dinamica” autoconfiguratrice è fonte di successive proprietà emergenti qualitative, matrice che genera tutto l’esistente. Un’interpretazione che si oppone al dualismo materia-spirito e costituisce un grave colpo all’immagine tradizionale del Dio creatore, spirito puro, onnipotente e provvidente.  

Le religioni sono costruzioni sociali e così come sono state costruite si possono decostruire. Non sono creazioni eterne e inamovibili di un Dio ente supremo ed esterno al mondo. E così, in relazione al cristianesimo, ci sembra che la Bibbia non sia più il principio e fondamento della storia, la narrazione per antonomasia, tanto meno esclusiva. Il Mistero della Salvezza è una grande metafora e la Storia Sacra un racconto particolare contraddetto dalla scienza. La Rivelazione come verità primaria e superiore non è sostenibile. Non c’è un Dio precedente e separato dal mondo né uno spirito puro al di fuori della realtà creatrice, né un Figlio di Dio venuto a redimerci dalla morte e dal male, frutti di un peccato ereditario.  

Un altro cristianesimo è possibile e necessario. Si deve liberare la divinità dalla sua identificazione con un Ente Supremo dominante, Gesù dalla sua sacralizzazione come unigenito Figlio di Dio, incarnato in un ebreo della specie Homo Sapiens, e la Chiesa dal sistema cognitivo obsoleto che la tiene prigioniera e dalla sua struttura gerarchica derivata in gran par te dall’immagine di un Dio unico e onnipotente. È necessario convergere in una pratica laica di liberazione centrata sui diritti umani e la giustizia ecologica e ispirata a Gesù di Nazaret ed eventualmente ad altri cammini profetici e spirituali. Costruire un racconto universale che, partendo da modelli scientifici come la teoria della Grande Storia, incorpori l’ispirazione e lo spirito delle metafore e dei simboli religiosi; un racconto che sia al tempo stesso universale, particolare e provvisorio.  

In molte città dell’Europa, dell’America Latina, degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia e di altri Paesi sono sorti gruppi dal grande potenziale rinnovatore, i quali avvertono questo cambiamento di paradigma come un terremoto devastante che provoca prima sconcerto, poi sollievo e infine una rinascita spirituale. Ci piacerebbe camminare con voi in tale passaggio e per questo vi invitiamo a questa ampia consultazione.  

1. La tarda modernità, post-religionale e post-secolare  

Il mondo sta sperimentando una mutazione di grande portata, una metamorfosi globale; ci troviamo nell’occhio dell’uragano di un nuovo tempo assiale simile a quello del VI secolo prima della nostra era. Le idee, i costumi, le relazioni, la geopolitica, la tecnoscienza, ecc., configurano un contesto assai diverso da quello derivato dalle coinvinzioni più profonde del cristianesimo. L’immagine tradizionale predominante di Dio è cambiata e la sua esistenza è già da anni messa in discussione in maniera generalizzata; la scienza sostituisce le grandi risposte religiose; le questioni del male e della morte, dell’origine e della fine della vita vengono vissute in modo non mitologico e l’anelito comune è orientato generalmente verso la liberazione, l’autonomia e un benessere integrale e universale qui sulla terra. La religione, allora, perde il suo humus ed entra in competizione con altri progetti assiologici che le tolgono terreno. Senza contare, nel caso del cristianesimo, che il pluralismo e la globalizzazione lo rendono una religione tra le tante.  

Le posizioni conservatrici in politica e nella morale favoriscono l’esaurimento dei contenuti religiosi, ridotti a qualcosa di magico, obsoleto e contrario alla liberazione, e trovano nel vecchio cristianesimo la legittimazione del proprio modello oppressore di società e di persona. Sembra infine annunciarsi una nuova specie umana frutto dell’info-bio-tecnologia, esseri umani modificati geneticamente o roboticamente (transumanesimo) o nuovi esseri post-umani.  

L’esperienza religiosa “tremenda e affascinante” di altri tempi, costruita sullo sdoppiamento del mondo, cede oggi il testimone a una trascendenza più laica basata sulla venerazione, sull’amore e sull’impegno per la liberazione universale. Ciò che in altri tempi abbiamo chiamato “soprannaturale” non è tale, ma identificato oggi con l’atteggiamento di gratuità legato alla profondità umana.  

2. Il nuovo paradigma epistemologico  

La concezione della verità è cambiata. Le teorie epistemologiche attuali, assumendo la complessità e la prospettiva costruttivista della conoscenza, sono più aperte e meno pretenziose che nei secoli passati. Dal positivismo estremo si è passati a una concezione empirica più soft.  

Per i più recenti epistemologi non c’è bisogno che gli enunciati scientifici siano strettamente verificabili o confermati da esperimenti: basta che siano plausibili, che possano essere sottoposti al principio di falsificabilità. La conoscenza avanza negando l’errore più che affermando la certezza e sostituendo i paradigmi che non spiegano convenientemente i fatti.  

Tale evoluzione epistemologica nell’ambito della conoscenza considerata strettamente scientifica, il metodo positivo matematico-verificazionista, ci può servire da base per l’analisi del cambiamento religioso che oggi si sperimenta. È venuta meno la concezione della credenza dogmatica a favore di un’interpretazione più in termini di racconto, di simbolo o metafora. Le scienze umane e sociali (psicologia, sociologia, storia…), per essere rigorose, si servono di metodi scientifici o perlomeno non devono contrapporsi ai dati scientifici. Neppure la filosofia può ignorare o contraddire i risultati delle scienze. E le spiritualità o religioni tengono fortemente conto del proprio carattere di costruzione sociale e simbolica con funzioni meno esplicative e più comportamentali. Le manifestazioni umane simboliche (di carattere etico, estetico, sapienziale…), purché in linea con i dati scientifici, sono riconosciute come vie di accesso a una conoscenza reale, per quanto non possano essere sottoposte ai criteri di verificabilità-falsificabilità delle scienze positive.  

Ben al di là di una mera somma di discipline, la transdisciplinarietà, o scambio tra équipe, metodi e programmi di ricerca, offre una visione più completa della complessità del reale. La religione e il cristianesimo vogliono sentirsi parte di questo sforzo transdisciplinare. Hanno scoperto il grande errore di confondere la metafora con la descrizione realista, l’ispirazione con la norma. E accettano di assumere le nuove teorie dell’evoluzione, della genetica, della relatività e della meccanica quantistica, delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale. È ormai impossibile – oltre che chiaramente assurdo – pensare a idee permanenti, a dogmi immutabili e indiscutibili, a una morale irriformabile, a verità divinamente rivelate, a istituzioni infallibili. Il riduzionismo scientifico e il fondamentalismo religioso si stemperano e convergono.  

Scienza e fede  

Se prima, in senso figurato, “la fede aveva sempre ragione”, ora è la scienza a stabilire il criterio della minima verità comune. È oggi la ragione aperta la matrice dell’ispirazione credente. La conoscenza non emana dalla «Parola di Dio», né è assolutamente certa. Prima la scienza era accettabile nella misura in cui concordava con quella Parola rivelata. Ora lo schema si è in qualche modo invertito.  

La Bibbia – come ogni testo ispiratore – ci offre significato e speranza, in quanto racconto simbolico- poetico, ma deve essere intesa in linea con l’informazione scientifica. Scienza e fede sono linguaggi diversi: la scienza può arricchirsi con la fede, ma la fede non può essere in contraddizione con la scienza. La Bibbia non è il principio e il fondamento della comprensione della realtà, della morale e dell’organizzazione sociale o politica. Neppure può essere la fonte unica della spiritualità. Diciamo piuttosto che la Bibbia non ha ragione, ha anima. Dietro la smitizzazione di Rudolf Bultmann, il riconoscimento dei generi letterari e le ricerche archeologiche, intendiamo la Bibbia non tanto come un libro sacro e definitivo, normativo e rivelatore, Parola di Dio e verità assoluta, quanto piuttosto come un insieme di miti e storie con una funzione sapienziale, spirituale e socio-politica. Oggi vengono scritti racconti e poesie di uguale densità, sublimità e finalità.  

Tutte le religioni, pur assai diverse nelle forme, svolgono funzioni equivalenti e camminano verso una sovraetica della compassione. Il loro valore non può più derivare dalla forza della loro presunta ispirazione divina bensì dalla loro risposta alle necessità e ai diritti dell’essere umano. Con Kant potremmo dire: Credi e agisci in maniera tale che la tua fede possa essere considerata valida da tutta l’umanità.  

3. La nuova concezione della realtà  

Ci sembra più coerente e solida un’interpretazione non-dualista della realtà; aperta, olistica, emergente e creativa, in cui il caso e la necessità si coniugano senza necessità di un piano prestabilito, ma rivelando grande complessità, bellezza e ordine malgrado tanti fallimenti e involuzioni. Non crediamo che possano esserci cose o esseri spirituali sprovvisti di una qualsiasi forma o supporto. Angeli e demoni, oggetti sacri, santi, miracoli, considerati come esistenze indipendenti o interventi divini, sono costruzioni della nostra mente. Capacità come quelle di ragionare, amare, godere della bellezza e dare valore alla giustizia, che nella cosmovisione tradizionale eravamo soliti definire frutti dello spirito umano, sono qualità emerse dalla realtà materiale o energetica cosmica nel processo  evolutivo.  

Proprietà emergenti e materia creativa  Il cosmo è un grande sistema con “proprietà emergenti” (proprietà che dipendono dal comportamento del sistema e che non possono essere spiegate dagli elementi che lo compongono, ndt). La vita e la coscienza emergono da un processo di auto-organizzazione a partire dalla materia o energia primordiale. Tutto è costituito da una materia dinamica e creativa da cui sorgono successivamente molteplici “proprietà emergenti”. In ultima istanza non ci sono confini definiti tra la sfera fisica, quella vivente e quella mentale.  

La materia è qualcosa di primordiale che evolve continuamente, e non la cosa statica, senza vita e sterile che risulta da una percezione superficiale. Non intendiamo più la materia come qualcosa di passivo, inerte, agli antipodi dello spirito; più che una massa è attività, energia, movimento. Il dualismo materia- spirito falsifica la realtà. La realtà è in ultimo termine inaccessibile alla nostra conoscenza e si presenta come qualcosa di aperto ed enigmatico. L’indeterminazione della materia e il nuovo concetto di legge fisica come espressione di tendenze probabili impediscono un’immagine integrale, oggettiva ed esatta del mondo e una concezione realista della conoscenza.  

4. Il racconto di Gesù di Nazareth

Gesù di Nazareth è una persona come noi, non l’essere perfetto, né il redentore, con il suo sangue, di un peccato mitico ed ereditario. La sua interpretazione come il Cristo ha ammantato di esclusività il suo messaggio e ne ha forzato l’imposizione. Quello di Gesù di Nazaret è un racconto ispiratore, una storia incompleta e una costruzione religiosa simbolica, aperta, oltre il molteplice mito creato dalle discepole e dai discepoli delle prime generazioni a partire dalla sua venerazione come Profeta degli ultimi tempi, Figlio di Dio o Messia sofferente esaltato da Dio, Sapienza o Logos di Dio incarnato. È a partire da questo mito che alcuni tentarono di ricostruire la sua storia, “vita e miracoli”, e altri costruirono un immenso edificio razionale sulla base di questa “filiazione divina”. Ma il dato originario è il racconto di fede dei discepoli e delle discepole della seconda generazione, il “Gesù della fede”. Il Cristo della Chiesa, il dogma cristologico, è una costruzione dottrinale, la quale, secondo i tempi e le epoche, ha potuto comunque veicolare l’ispirazione di “santità” o dedizione suscitata da Gesù.  

Il titolo “Figlio di Dio” è un’espressione simbolica propria dell’epoca che non possiamo più interpretare letteralmente. Il punto decisivo non è tanto quello che si racconta che abbia detto e fatto Gesù, se sia stato il Messia (“Cristo”) definitivo e atteso, quanto il senso di elevazione e di gratuità che suscita in noi, ciò che avviene nella memoria e nell’interiorità quando ci si imbatte nelle cose ultime. La cosiddetta “divinità di Gesù” non è un tratto oggettivo della sua persona. La intendiamo come metafora della sua umanità radicale ed espressione dell’adesione vitale che ci ispira quando ci lasciamo toccare dalla sua sapienza. Il messaggio liberatore e gli atti carismatici di Gesù hanno dato vita a un “movimento” che lo ha riconosciuto come profeta e martire esaltato da Dio, costituito come Messia o Figlio del Dio che verrà. Nelle chiese di cultura greca, questa confessione giudaico-cristiana si è trasformata nella confessione della filiazione ontologica, dualista, ed è in questa chiave che si sarebbero elaborati più tardi i dogmi cristologici. Ma questo linguaggio e questi significati risultano estranei alla filosofia, alla cosmovisione scientifica e alla cultura comune di oggi.  

5. Il post-teismo  

Un passaggio decisivo della nostra decostruzione/ricostruzione è il non-teismo, o post-teismo: il superamento del teismo, ossia smettere di pensare, immaginare, credere in un Ente Supremo, Dio creatore e Causa esterna del mondo; un Ente “anteriore” o almeno distinto da questo, immagine ancora in vigore tra i credenti in generale, tra la maggioranza dei teologi e nella dottrina ufficiale cristiana. Tale visione non risulta più concepibile né credibile per la maggioranza delle persone e in particolare per gli intellettuali, per quanto sensibili possano essere al mistero più profondo della realtà: la loro intelligenza spirituale cammina verso altre direzioni.  

Il teismo nasce e cresce nell’età dei metalli, quando si intensifica l’agricoltura, aumenta la popolazione e si costruiscono città, e nelle città i templi. I compiti si specializzano, la società diventa più complessa. C’è bisogno di miti, leggi, capi, autorità, funzionari e guerrieri per trasmettere gli ordini del signore, farli rispettare e conquistare territori. La società si gerarchizza, gli esseri umani diventano schiavi gli uni degli altri… E c’è bisogno di divinità per dare coesione, sicurezza e legittimità ultima alla convivenza ordinata, gerarchizzata e sottomessa.  

L’architettura del mondo viene riconvertita su “due piani”. I miti della separazione tra il cielo e la terra – dal quinto millennio prima della nostra era – provocano la lacerazione della realtà cosmica, fino ad allora unita, unitaria, unica, totale (olistica). Rimane confinata nel piano basso la realtà materiale, naturale, carnale e sessuale e sale al cielo una realtà strettamente spirituale, immateriale, non naturale, non carnale e non sessuale, spirituale e soprannaturale. Il dualismo e Theos sono, però, rappresentazioni superate e per questo diciamo che non c’è bisogno di essere teisti né di sviluppare un’esistenza soprannaturale per essere cristiani, benché tale immagine sia ancora presente nella maggior parte delle persone.  

Il post-teismo non è, in sé, né ateo, né nichilista, né materialista-riduzionista, né chiuso alla sacralità e alla divinità; semplicemente, si sbarazza criticamente e coscientemente di un prodotto evolutivo creato dall’essere umano, una “fantasia utile” di cui si è servito in un momento dato dello sviluppo della sua cultura e infrastruttura materiale.  

Il post-teismo è compatibile con la diversità di simboli con cui riconosciamo con riverenza e in maniera attiva un Mistero ultimo o una Realtà Ineffabile nella quale siamo. È un invito a superare tanto il teismo quanto l’ateismo convenzionale di tipo positivista, a riscoprire la casa comune cosmica, a far ritorno dalla fuga soprannaturale alla natura a cui apparteniamo. Il postteismo non pone una camicia di forza all’esperienza del mistero e permette la creatività spirituale e l’autonomia, poiché non c’è la coercizione di un’immagine imposta e fissa: è contrario all’assolutismo di una rappresentazione unica. Equivale a un agnosticismo attivo. Un “non sapere” che fonde il suo vuoto cognitivo nel vuoto infinito, come uno sguardo profondo verso un orizzonte senza forma che, per la sua imprecisione, può adottare diverse figure aperte e ispiratrici. Cammina sulle acque della realtà, sempre olistica, senza separarle.  

6. Alcune inquietudini di fronte al post-teismo  

C’è chi dice che il post-teismo intacchi l’ordine sociale e il suo fondamento principale, ma è piuttosto la società teocentrica e teocratica costituita con l’aiuto di questo Theos prima descritto che è servita da standard e guida per un conservatorismo autoritario distruttore dell’armonia sociale, frenando da un lato il progresso della conoscenza e dell’educazione civica laica e dall’altro alimentandoli ma in maniera subordinata ai propri fini pastorali.  

Si obietta che il non-teismo distrugge la religiosità popolare. Effettivamente, la critica decostruttiva del Theos può provocare la crisi profonda di molte immagini, convinzioni e pratiche della religiosità popolare. Ma non è questo l’obiettivo diretto della nostra riflessione post-teista: non vogliamo dettare a nessuno nuove idee, immagini o pratiche religiose o non religiose. Crediamo, tuttavia, che, senza alcun tipo di paternalismo, sia una nostra responsabilità proporre, con onestà e rispetto, criteri teologici che riteniamo più coerenti con la cosmovisione attuale, affinché le persone stesse giudichino e scelgano da sé in maniera da poter essere protagoniste della propria liberazione integrale.  

Si presuppone che il post-teismo ponga al secondo posto o indebolisca l’impegno liberatore. Pensiamo di no. Il superamento del teismo tradizionale ancorché maggioritario non nega né riduce il primato della liberazione integrale, ma la libera solo dalla sua epistemologia e dalla sua impalcatura mitiche, sempre più insostenibili a breve e medio termine. La riflessione post-teista vuole offrire criteri e strumenti teologici (in senso ampio) oggi più coerenti per la liberazione da tutte le oppressioni. La liberazione richiede anche la liberazione da un “Dio” che sottomette o legittima la sottomissione.  

Preoccupa la perdita della relazione personale con Dio. Il paradigma post-teista riconosce che si tratta di un antropomorfismo, di un’erronea supposizione simile a quella di un “amico invisibile” al nostro fianco o al di sopra di noi. Bisognerebbe parlare piuttosto del carattere sovrapersonale della realtà ultima, di tutta la realtà, in quanto il concetto di “persona” è stato e continua a essere generalmente inteso come un soggetto individuale di fronte a un altro. L’intera realtà, tuttavia, è relazionale. Il post-teismo riconosce le esperienze dell’interiorità, le molteplici forme di sentirsi parte di una realtà tanto ambigua quanto impregnata di bellezza e di bontà, oggetto di gratitudine, fonte di speranza e di compassione attive. Che si usi un nome piuttosto che un altro o si scelga il silenzio o una maniera dialogica.  

Altre inquietudini si riferiscono all’apparenza panteista del post-teismo. Ma noi non diciamo che tutto è Dio, bensì che ciò che è stato chiamato Dio è in tutto come essere e non come ente superiore separato. E soprattutto continueremo a cercare il significato e il posto che occupa Gesù in questa nuova visione. Al momento rimandiamo a quanto detto nel punto 4. Ricapitolando, ci sembra che oggi, per molte persone cristiane, profondamente sincere e impegnate, non solo sia lecito ma sia anche urgente lasciarsi dietro ogni immagine teista di Dio, andando con ciò oltre Gesù, figlio del suo tempo.  

7. Il cambiamento da sostenere 

  Questo nuovo modello di cristianesimo comporta un ritorno ai valori evangelici, per quanto reinterpretati. Il vangelo non costituisce tanto un’identità religiosa concreta superiore quanto un appello ai valori universali su cui la comunità umana sta dialogando e cercando un consenso a partire dal suo miglior sentire. Ci troviamo di fronte non tanto a una conversione morale o a un apostolato nuovo quanto a una nuova interpretazione della conoscenza, della realtà e della divinità.  

Molte persone religiose pensano che, se si perde la religione, il mondo perderà il fondamento della verità e soprattutto della morale. Ma dietro la grande decostruzione del teismo e della religione rimane il vigore creativo della realtà, l’autopoiesi dell’amore, ispirata alla profondità dell’essere umano e di tutto quanto è. Una speranza senza certezze e un amore senza condizioni, come leggiamo nel racconto di Gesù.  

Oggi è quasi impossibile continuare con le pratiche religiose derivate dal teismo. La teologia che le sostiene sprofonda come costruzione razionale. Fondata su metafore e credenze mitologiche, rivendica coerenza e verità quando ciò che esiste è, semplicemente, una creazione di significato e di motivazione. La teologia è riconducibile piuttosto a una speleologia del cuore umano, una socio-antropologia della trascendenza che si apre nella coscienza, senza un “a priori” teista o ateo.  

Bisogna colmare una volta per tutte il ritardo premoderno. E farlo e dirlo senza paura. Nelle celebrazioni, in qualunque modo siano, nei comunicati e nelle conversazioni, possiamo servirci di qualcosa di meglio che di alcuni miti inespressivi e ritualizzati ed evitare convinzioni certe e moralismi basati su miracoli e cammini di redenzione. Si può mostrare piuttosto la meraviglia della nostra Grande storia universale, creativa, aperta. Provare stupore per la quantità innumerevole di stelle, particelle e neuroni, per la buona volontà, per il valore del perdono, della consolazione, della civiltà e dell’azione per la giustizia; per l’armonia con la natura e per la compassione nei confronti dei più bisognosi, recuperando così in altro modo i grandi valori e le grandi scoperte delle tradizioni religiose e cooperando sullo stesso piano con tutti. Né la religione di un altro mondo, né la rassegnata mancanza di significato nella laicità. La nostra missione è essere compartecipi dell’evoluzione creatrice, ispirati da Gesù di Nazaret.

in morte di Spong, il teologo della morte del teismo, non di Dio

 

Addio a John Shelby Spong, tra i padri della teologia post-teista

addio a John Shelby Spong, tra i padri della teologia post-teista

tratto da: Adista Notizie n° 33 del 25/09/2021  

 Dopo il teologo belga Roger Lenaers, scomparso lo scorso 5 agosto, ci ha lasciato, all’età di 90 anni, anche il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, un’altra delle figure più emblematiche del nuovo pensiero teologico legato al paradigma post-religionale e post-teistico. Se ne è andato nel sonno, dopo una vita da lui descritta come felice e piena d’amore e sempre accompagnata dalla speranza, anche dalla speranza della vita eterna. 

Proprio a questo tema, del resto, aveva dedicato uno dei suoi libri, dal titolo, appunto, Vita eterna. Una nuova visione (scritto nel 2009 e uscito in italiano nel 2017 per i tipi di Gabrielli Editori), tentando di rispondere in maniera credibile a un interrogativo centrale non solo per la fede cristiana ma anche per la vita di ogni singolo essere umano: «Al di là della religione, al di là del teismo, al di là del cielo e dell’inferno, è ancora plausibile parlare di vita eterna»? 

Sganciando definitivamente tale visione dai concetti di premio e castigo, e dunque invitando a condurre la propria esistenza sotto la spinta dell’amore anziché della paura, il teologo statunitense non aveva però rinunciato a credere alla possibilità che «la vita umana autocosciente» condivida «l’eternità di Dio e che – scriveva –, nella misura in cui sono in comunione con quella forza vitale in perpetua espansione, quella potenza d’amore che arricchisce la vita e quell’inesauribile Fondamento dell’essere, io vivrò, amerò e sarò parte di ciò che Dio è, non vincolato dalla mia mortalità ma dall’eternità di Dio». Una svolta dalla divinità sopra di noi a quella dentro di noi che, concludeva Spong, «non significa allontanarsi da Dio, come i paurosi grideranno; significa, e io ora lo credo, camminare in Dio». 

Ma il suo impegno a «salvare il cristianesimo come forza per il futuro», rendendone il messaggio nuovamente rilevante e significativo per le donne e gli uomini contemporanei, era iniziato già molto tempo prima, e cioè da quando, attento ai numerosi segnali di declino evidenziati da ogni parte dalla religione cristiana, aveva compreso, «come vescovo e come cristiano impegnato», la necessità di trovare nella Chiesa il coraggio che la rendesse «capace di rinunciare a molti schemi del passato». 

Un impegno, il suo, tradottosi, alla vigilia del XXI secolo, in un libro diventato una pietra miliare in questo cammino di riflessione teologica: Why Christianity Must Change or Die (edito in Italia nel 2019 da Il pozzo di Giacobbe, con il titolo Perché il cristianesimo deve cambiare o morire), successivamente ridotto a un manifesto in 12 tesi attaccato, «alla maniera di Lutero», all’ingresso principale della cappella del Mansfield College, all’Università di Oxford, e poi inviato per posta a tutti i leader cristiani del mondo: su Dio, Gesù, il peccato originale, la nascita verginale, i miracoli, la teologia dell’espiazione, la resurrezione, l’ascensione, l’etica, la preghiera, la vita dopo la morte, l’universalismo. Dodici tesi che Spong aveva ripreso, sviluppandole ulteriormente, nel suo ultimo libro, scritto all’età di 87 anni, uscito negli Stati Uniti nel 2018 e pubblicato in Italia grazie alla casa editrice Mimesis nel 2020, con il titolo Incredibile. Perché il credo delle Chiese cristiane non convince più. Era stato, in realtà, il suo quinto “ultimo libro”, ciascuno nascosto “a sua insaputa” «sotto il tappeto» del processo di elaborazione del precedente, ma a questo, il teologo, proprio adducendo ragioni di salute, aveva assicurato che non ne sarebbero seguiti altri. 

Preceduto da opere importanti come, oltre a quelle già citate, Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovoGesù per i non religiosi, Il quarto VangeloLetteralismo biblico: eresia dei gentiliI peccati della Bibbia (edite da Massari e sempre curate da Ferdinando Sudati, come tutti i libri di Spong nel nostro Paese), il volume aveva offerto una sintesi conclusiva della sua coraggiosa rilettura post-teista del cristianesimo, in direzione di una nuova espressione religiosa compatibile con le recenti acquisizioni scientifiche: senza dogmi, senza dottrina, senza gerarchie, senza la pretesa di possedere la verità assoluta. 

Una visione del cristianesimo «così radicalmente riformulata da poter vivere in questo nuovo audace mondo» – come già scriveva in Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo – ma legata ancora all’esperienza che ha dato origine a questa fede-tradizione più di duemila anni fa. Non a caso l’autore si è sempre professato come un gioioso, appassionato, convinto credente nella realtà di Dio: «Credo che Dio sia reale e che io viva profondamente e significativamente in rapporto con questa divina realtà. Proclamo Gesù mio Signore. Credo che egli abbia mediato Dio in un modo poderoso e unico nella storia dell’umanità e in me». Tuttavia, aggiungeva nello stesso libro, «non definisco Dio come un essere soprannaturale. Non credo in una divinità che può aiutare una nazione a vincere una guerra, intervenire a curare la malattia di una persona cara, permettere a una particolare squadra sportiva di battere la sua avversaria». 

Morte del teismo, non di Dio 

Secondo Spong, il Dio inteso teisticamente come «un essere con potere soprannaturale» da supplicare, obbedire e compiacere starebbe sul punto di morire, se non è già morto, per quanto le autorità ecclesiastiche preferiscano continuare il gioco del “facciamo finta”. Tuttavia, precisava il teologo, la morte del teismo come descrizione umana di Dio non comporta affatto di per sé la morte di Dio. Non esige, cioè, la rinuncia alla speranza che «ci sia una realtà trascendente presente nel cuore stesso della vita» che sia possibile chiamare Dio e che «la sua presenza sia sperimentata come qualcosa che ci richiama oltre i nostri timorosi e fragili limiti umani». Né intacca la convinzione che questa realtà trascendente si sia rivelata nella vita di Gesù in modo così completo da permettere di vedere in lui il significato di Dio. 

Questa speranza in Spong non è mai venuta meno: «Dio è la sorgente ultima della vita. Si venera Dio vivendo pienamente, condividendo profondamente ». E ancora: «Dio è la sorgente ultima dell’amore. Si adora questo Dio amando generosamente, diffondendo con levità amore, donando amore senza fermarsi a valutare il costo». E, infine: «Dio è l’Essere, e veneriamo questo Dio avendo il coraggio di essere tutto quello che possiamo essere», andando oltre «il modo di sopravvivere chiusi in se stessi». E dunque «Dio non è morto. Siamo veramente entrati in Dio. Siamo portatori di Dio, co-creatori, incarnazioni di ciò che Dio è». 

Ma nel mondo post-teistico, secondo Spong, continuerà a esserci spazio anche per la Chiesa, anche dopo che il culto non avrà più lo scopo di confessare i nostri peccati a un “paterno giudice”, né di contare sul potere delle preghiere comunitarie per dirigere il corso della storia del mondo. Una Chiesa che si dedicherà all’espansione del Regno di Dio, operando con determinazione non per un programma religioso, ma per il programma della vita, della vita in abbondanza per tutti, non imponendo la propria verità a nessuno ma vivendo solo per accrescere l’amore.

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