il commento al vangelo della domenica

quella casa della gioia con la porta stretta


Quella casa della gioia con la porta stretta
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventunesima domenica del tempo ordinario
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi […] «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. […].

Signore, sono pochi quelli che si salvano? “Salvarsi”: parola che capisce solo chi sta affogando o chi si è perso, e di cui non si vede il fondo. Con la “parabola” di oggi, Gesù aggiunge un altro capitolo al suo racconto della salvezza, parla di una porta, di una casa sonante di festa, di gente accalcata che chiede di entrare.
Una casa, prima di tutto: una casa grande, grande quanto il mondo: verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. La salvezza è una casa che risuona di una confusione multicolore, dove sono approdate le navi del sud e le carovane d’oriente. Quella casa sembra quasi il nodo alle trasversali del mondo, il centro di gravità della storia, l’approdo. Così ci racconta la salvezza, come una casa piena di festa, casa fatta tavola, casa fatta liturgia di volti e di occhi lucenti attorno al profumo del pane e alle coppe del vino: “entra, siediti, è in tavola la vita!”. Per star bene, tutti noi abbiamo tutti bisogno di poche cose: un po’ pane, un po’ d’affetto, un luogo dove sentirci a casa (G. Verdi), non raminghi o esuli, non naufraghi o fuggiaschi, ma con il caldo di un fuoco, difesi da una porta che spinge un po’ più in là la notte.
Quando il padrone di casa chiuderà la porta, voi rimasti fuori, comincerete a bussare dicendo: Signore aprici. Abbiamo mangiato e bevuto con te, hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli vi dichiarerà: non vi conosco.
Se trasportiamo quelle immagini sul piano della nostra vita spirituale o comunitaria, quelle parole diventano: Signore, siamo noi, siamo sempre venuti in chiesa, abbiamo ascoltato tanto Vangelo e tante prediche, ci siamo confessati e comunicati, aprici! Perché non si apre quella porta, perché quel duro “non vi conosco”? Sono uomini e donne devoti e praticanti, ma hanno sbagliato qualcosa che rovina tutto: portano un elenco di molte azioni compiute per Dio, ma nessuna per i fratelli; sono atti religiosi, ma che non hanno trasformato la loro vita sulla misura di quella di Cristo. Non basta mangiare Gesù il, pane vero, occorre farsi pane, per essere riconosciuti come discepoli, come quelli che prolungano la vita di Gesù. “Non vi conosco”, voi celebrate belle liturgie, ma non celebrate la liturgia della vita. La misura è nella vita: non si può “amare Dio impunemente” (Turoldo), senza cioè pagarne il prezzo in moneta di vita donata, impegnata per il bene degli altri, almeno con un bicchiere d’acqua fresca donato…
“Non è da come uno mi parla delle cose del cielo che io capisco se ha soggiornato in Dio, ma da come parla e fa uso delle cose della terra” (S. Weil). Entra nel cielo di Dio solo chi ha addosso la terra degli uomini.

(Letture: Isaia 66,18b-21; Salmo 116; Lettera agli Ebrei 12,5-7.11-13; Luca 13,22-30)

il dono delle lacrime perché non ci resta che piangere

davanti a questa società rimangono solo le lacrime

si deridono gli ultimi, convinti che la ricchezza sia meritata si disprezzano i poveri

 

Illuminati dalla Parola, sospinti dallo Spirito, occorre perseguire l’alternativa evangelica al pensiero dominante.

da Altranarrazione

Ti chiediamo, Signore, il dono delle lacrime.
Lacrime di sdegno per l’ingiustizia, di compassione e di comprensione per i calpestati.
Vediamo il loro dolore per la scientifica sottrazione di opportunità e non vogliamo né girarci dall’altra parte, né passare oltre.
Ascoltiamo parole vuote di senso, senza partecipazione e non vogliamo né adeguarci, né addormentarci in una quiete ipocrita.
Ci troviamo nel cuore dell’Impero, in una società malata di distanza e ubriaca di gossip. Si vivono relazioni prigioniere della forma, si recita il copione previsto dal ruolo. Sul grande palcoscenico costruito dall’opulenza, la massima aspirazione è diventata una felicità di plastica. Senza luce negli occhi. Senza sorriso. Senza calore.
Non ci si ferma a confrontare il pensiero dominante con il paradigma evangelico. Non si considerano prospettive diverse, non emergono decisioni radicali, testimonianze autentiche. Scarseggiano i profeti, abbondano i replicanti. È una società rigida, legata dalla catena dell’immodificabilità, che preferisce la sicurezza garantita dai modelli iniqui alla novità introdotta dal dinamismo dello Spirito.
Si rende culto alla competizione con sofisticate liturgie. E non si manifestano dubbi o esitazioni neanche davanti al suo frutto avvelenato: il cinismo. Si abbandonano defunti e feriti per non perdere il “proprio” turno.
Rassicurati dai risultati raggiunti si deridono gli ultimi, convinti che la ricchezza sia meritata si disprezzano i poveri.
Perdonali, Signore, perché non sanno che insieme a Te si risorge da qualsiasi morte (soprattutto quando la causa è da ricercare nell’indifferenza, nella sopraffazione, nell’emarginazione).
Donaci, Signore, la grazia delle lacrime, perché il tempo è compiuto (Mc 1,15).

 Luca 7,31-35

«”A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così:
Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato,
abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!.
È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: È indemoniato. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!. Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”».

Narciso e la sua dittatura

ribelliamoci alla dittatura di Narciso

intervista a Vincenzo Paglia

a cura di Aldo Cazzullo
in “Corriere della Sera” del 8 ottobre 2017

Monsignor Paglia, nel suo nuovo libro lei scrive che «la fraternità è la promessa mancata della modernità».

«Purtroppo sì. Non che libertà e uguaglianza godano di ottima salute; ma la fraternità è la più negletta, e resta l’utopia da realizzare. Il Noi sta prima di noi stessi: l’io nasce da un Noi, si trova in un Noi; che poi è Dio. Il Noi viene da Dio. Ma dopo la morte di Dio sembra venuta ora la morte del prossimo».

La crisi, lei dice, è dentro noi stessi.

«Stiamo costruendo il mondo globale, ma il rischio è che manchi l’anima. Come se si volesse costruire una dimensione universale senza quel Noi che rende ragione di questo fenomeno. Ecco la profonda contraddizione del nostro tempo: l’avvento del mondo globale coesiste con la disintegrazione della società del convivere, attraverso la forma associata della vita, dalla famiglia alla città alle nazioni; come conferma ora il dramma catalano. Assistiamo alla nascita di un nuovo individualismo che asservisce tutto a se stesso, piega l’intera esistenza. Come un virus che ha infiacchito e sgretolato lo stare assieme».

Neppure la famiglia resiste?

«La famiglia resta senza dubbio in cima ai desideri di tutti. Eppure è il luogo dove più emergono le contraddizioni, dove i legami si indeboliscono via via: non ci si sposa per costruire un futuro assieme, ci si sposa per realizzarsi, sino a depotenziare la forza dei legami. Siamo arrivati all’assurdo di un uomo e poi di una donna che si sposano con se stessi».

Sono solo personaggi in cerca di pubblicità.

«Che purtroppo hanno raggiunto il loro obiettivo. L’individualismo piega anche la famiglia a se stesso; e una società defamiliarizzata porta a una società desocializzata, dove i vincoli sono alla mercé delle ambizioni individuali. Tutto questo non risponde al bisogno profondo che ognuno ha di sconfiggere la solitudine. Il mondo comincia plurale».

Nel libro c’è un capitolo dedicato all’«errore di Dio».

«Dio crea l’essere perfetto e poi si rende conto che è solo, ci ripensa e crea il suo vero capolavoro: la donna. Di fronte a lei anche Adamo cade in ginocchio. E alla loro alleanza Dio affida sia la custodia del creato sia la cura di tutti i legami sociali. L’alleanza dell’uomo e della donna deve guidare non solo la famiglia, ma anche la storia umana. Finché non va bene questa alleanza, anche la storia non andrà bene».

L’esclusione dell’altro, lei scrive, si manifesta con il rifiuto dei migranti, con la polemica contro lo ius soli. Non teme però che su questo punto la Chiesa abbia perso la sintonia con gran parte dell’opinione pubblica italiana?

«La Chiesa non può fare altro che difendere l’accoglienza e proporre a tutti di riconoscere il proprio bisogno dell’altro. In questo senso va interpretata bene anche la parabola del Samaritano».

Cioè?

«Si nota poco che Gesù rovescia la domanda “chi è il mio prossimo?”. Gesù non risponde, la capovolge. Dice che tu devi essere il prossimo dell’altro. E prossimo è superlativo di proper: devi essere il più vicino all’altro. Ecco perché l’accoglienza dello straniero è l’inizio per ritessere il tessuto del Noi. Se tu rifiuti il fratello in arrivo è come quando in casa il figlio unico non accetta che arrivi un altro. Dobbiamo reinventare la prossimità, il modo di essere più vicini a chi è più scartato. Ripartire dalle periferie, direbbe Papa Francesco».

Tra pochi mesi saranno i cinquant’anni della Comunità di Sant’Egidio, nata proprio nelle periferie romane. Lei da giovane sacerdote lasciò la sua parrocchia per fare da assistente spirituale al gruppo di giovani guidati da Andrea Riccardi.

«Fin dall’infanzia volevo fare il prete. Sono entrato in seminario a nove anni. Il libro è dedicato alla comunità: una storia che è andata oltre Roma fino ad abbracciare il mondo intero. Non è una storia finita, testimonia l’urgenza di partire da nuove periferie. Il pianeta è un’immensa megalopoli. Il sorpasso è del 2006: più della metà del mondo vive nelle città».

Lei disse al «Corriere» che negli anni Settanta nelle borgate c’eravate solo voi e le Brigate rosse.

«A Roma c’erano centomila baraccati. Ma oggi se possibile il tessuto sociale è ancora più lacerato e complesso. La periferia è divenuta un agglomerato di quartieri dove si è perso quel senso di comunità che nelle baracche ancora c’era. È cominciato lo sgretolamento di quel Noi che comunque legava e resisteva alla solitudine. Oggi quel processo giunge all’acme: la questione delle periferie è la questione centrale dell’età contemporanea».

Nelle periferie delle grandi città si combatte una guerra tra poveri, tra residenti e nuovi arrivati.

«Si sono moltiplicati i conflitti. Il veleno della violenza è diventato ancora più micidiale e riesce ad assoldare tutte le età della vita, dai bambini agli anziani. Le persone sono abbandonate a loro stesse, al livore, al rancore. È ovvio che in un terreno privo di relazioni umane non può che crescere la zizzania dell’odio. Tutto questo non genera solo violenze trasversali; mette in discussione la tenuta della democrazia. Da qui il populismo: chiunque in qualche modo si imponga diviene il leader in base alle emozioni più che al ragionamento».

Ma l’individualismo non è un istinto eterno dell’uomo? Non può essere anche una spinta positiva?

«Il valore dell’individuo è una grande conquista della cultura cristiana. Ma ora è diventato narcisismo, tradendo se stesso. Il primo santo dell’Occidente, il numero uno del calendario, è Narciso. Ha spodestato Prometeo, Ulisse e tutti i santi».

Come si guarisce dal narcisismo?

«Cambiando la domanda: non “chi sono io?”, ma “per chi sono io?”. Viviamo oggi l’indebolimento della speranza, che sola permette di superare gli egoismi innati in ciascuno di noi. Se non c’è un sogno per il quale vale la pena di vivere, ci si ritira in se stessi, e chiunque si salvi come può. Papa Francesco è un esempio straordinario, perché è uno che sogna in grande».

Non si sta manifestando una forte opposizione conservatrice a Bergoglio?

«Non c’è dubbio che Papa Bergoglio stia portando la Chiesa oltre le colonne d’Ercole dell’ordinarietà del rito. Richiede una vera e propria conversione: ciascuno deve uscire da sé, dal proprio individualismo. Questo non è facile né scontato. Impone una scelta che porta a cielo aperto, fuori dal luogo sicuro, dalle sacrestie, dalle certezze. L’opposizione nasce così. Non è il primo cui accade. Basti pensare a Gesù. Ma anche a Giovanni XXIII e a Paolo VI, i Papi del Concilio. A Giovanni Paolo II, il Papa del dialogo interreligioso di Assisi. E a monsignor Romero, ucciso dagli squadroni della morte sull’altare, durante l’Elevazione».

Romero diventerà finalmente santo? Lei è il postulatore della causa.

«Mi auguro che venga riconosciuto presto il miracolo della guarigione di una donna, con il bambino che aspettava. Così, dopo la decisione del Papa, la Chiesa potrà avere un altro santo che aveva addosso l’odore delle pecore, e per questo è stato ucciso».

il nemico come costruzione ideologica

  come si crea il nemico in casa

di Guido VialeViale

Dal razzismo nessuno è immune. Lo succhiamo con il latte materno. Lo assorbiamo con l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme spesso inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione

 E’ come con la cultura patriarcale, a cui il razzismo è strettamente imparentato e che riguarda, in forme differenti, sia gli uomini che le donne; che ne sono spesso sia vittime che portatrici inconsapevoli. Ma anche il razzismo si manifesta, in forme diverse, sia in chi lo pratica che nelle vittime. Il pensiero postcoloniale ha fatto capire quanto è lunga la strada delle vittime per liberarsi dagli stereotipi dei dominatori. Questo è il “grado zero” del razzismo; che ha poi molti altri modi, vieppiù pesanti, di manifestarsi.

Primo: fastidio. Anch’esso in gran parte inconsapevole, ma più facile da riconoscere. Fatto di mille atti di insofferenza: l’uso, a volte ironico, di termini offensivi; il volgere lo sguardo altrove; la contrapposizione tra “casa nostra” e chi casa e paese suoi non li ha più. Nelle classi svantaggiate ha radici nella competizione, vera o presunta, per spazi, servizi e lavoro. Poi vengono le parole e i gesti aggressivi e discriminatori: l’affermazione di una “nostra” superiorità; le iniziative per escludere, separare, discriminare; le  angherie che giustificano emarginazione e sfruttamento con differenze “razziali”. Fin qui la pratica del razzismo è affidato all’iniziativa “spontanea” dei singoli. Poi vengono le azioni organizzate, come i pogrom di varia intensità e la delega alle istituzioni: le angherie contro profughi, migranti, sinti e rom, della polizia o delle amministrazioni locali; le campagne di stampa e media contro di loro; le politiche di respingimento e le leggi discriminatorie. Ma ovviamente non ci si ferma qui. Il grado superiore è trattare profughi e migranti come scarafaggi, il loro confinamento fisico e, alla fine, le politiche di sterminio. Implicite, quando si affida a Stati “terzi” il compito di provvedervi, chiudendo gli occhi su ciò che questo comporta. Esplicite, quando vengono gestite direttamente. La Shoah è stata la manifestazione più aberrante di questa deriva; ma, prima di essa, lo sono stati i massacri del colonialismo e ora lo sono le pulizie etniche delle molte guerre civili del nostro tempo. Ma una volta la popolazione poteva far finta di non vedere. Oggi, nel villaggio globale dei media, le stragi le vediamo ogni giorno sul teleschermo. Ma vediamo anche quanto sia facile scivolare lungo la china della ferocia; e quanto sia invece difficile risalirla in senso inverso. D’altronde la strada che collega volgarità e prepotenza verso le donne al femminicidio, che in guerra può comportare stupri di massa, schiavitù e stragi, ha una unidirezionalità analoga.

profughi

Alla luce di queste considerazioni, l’alternativa tra respingimenti e accoglienza di profughi e migranti – che sta dividendo la popolazione di tutto l’Occidente “sviluppato” in due campi contrapposti, facendo terra bruciata delle posizioni intermedie – dovrebbe indurre a chiedersi quali possibilità di successo abbia il respingimento. Non nel suscitare consenso – qui il suo successo è travolgente – ma nel realizzare i suoi obiettivi. Ma anche se invocarlo non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio. Non sono in gioco solo politica, diritto e convivenza, ma l’idea stessa che ci facciamo di noi e degli altri come persone.

Innanzitutto respingere, se si riesce a farlo, vuol dire rigettare tra gli artigli di chi li ha costretti a fuggire coloro che cercano asilo nei nostri territori; condannarli a inedia, morte, angherie e ferocia da cui avevano cercato di sottrarsi; o, peggio, farne le reclute di milizie e guerre da cui siamo ormai circondati, dall’Africa al Medioriente; o, ancora, affidare il compito di farla finita con “loro” – nella speranza, vana, di dissuadere altri dal tentare la stessa strada – a Stati, potentati o bande criminali che si trovano lungo la loro strada.

Ma respingere è più un desiderio che una possibilità reale: molti Stati da cui provengono profughi e migranti non hanno accordi di riammissione; non sono disposti a “riprenderseli”; non hanno istituzioni e mezzi per farlo. O li usano per ricattare, come fa il Governo turco. Per sbarazzarsene bisogna lasciarli affogare. Altrimenti, in Italia e in Grecia, i due punti di approdo, le persone cui viene negata l’accettazione – asilo, protezione sussidiaria o umanitaria, permesso di soggiorno – vengono abbandonate alla strada e alla clandestinità: merce a disposizione di lavoro nero e criminalità. In questa condizione sono già in decine di migliaia. Ma se il resto d’Europa continuerà a mantenere barriere ai confini di questi paesi, non ci sarà altra soluzione che quella di enormi campi di concentramento dove internare centinaia di migliaia di refoulés, senza alcuna prospettiva di uscita. Nessuno ne parla, ma il Governo non sta facendo niente per far aprire ai profughi sbarcati in Italia le porte di tutta l’Europa. Ma poi, dopo i campi di concentramento, cos’altro?

Ma mentre le politiche di respingimento infieriscono sul popolo dei profughi, legittimando ogni forma di razzismo, e si moltiplicano le stragi che accompagnano le guerre cosiddette “umanitarie”, non si fanno i conti con il fatto che in Europa ci sono decine di milioni di cittadini europei (oltre quaranta milioni di religione musulmana) legati da vincoli di cultura, religione, nazionalità e parentela, alle vittime dei soprusi perpetrati dentro e fuori i confini dell’Unione. Come si può pensare che tra loro non maturi una ripulsa ben più forte che quella che proviamo noi? Ma anche, tra molti, soprattutto giovani, la pulsione a “colpire nel mucchio”, come succede a tante vittime “collaterali” dei nostri bombardamenti? E’ uno stragismo che ha poco a che fare con la religione, ma molto con un senso pervertito di indignazione. Affrontare questi fenomeni senza una politica di riconciliazione (e, ovviamente, di pace) dentro e fuori i confini d’Europa significa promuovere l’apartheid. Ce n’è già tanto, ma di strada da percorrere è ancora molta. Con le politiche di respingimento si fa credere che adottandole potremo mantenere il nostro stile di vita e i nostri consumi, per quanto insoddisfacenti. Invece, che si accolga o si respinga, le nostre vite e le forme della convivenza sono destinate a cambiare radicalmente. Niente sarà più come prima.

chi è Gesù?

COSA SIGNIFICA CHE GESÙ È IL DIO-CON-NOI?

di Alberto Maggi

maggi
che con Gesù, Dio non è più da cercare, ma da accogliere e con Lui e come Lui andare verso gli uomini. Mentre prima di Gesù la direzione degli uomini era orientata verso Dio, e tutto quello che si faceva si faceva per Dio e Dio era al primo posto e l’uomo al secondo: amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutto te stesso cioè l’amore a Dio era totale, l’amore al prossimo no: amerai il prossimo tuo come te stesso perciò un amore limitato, un amore relativo. Quindi prima di Gesù l’umanità era orientata verso Dio: tutto quello che faceva lo faceva per Dio; con Gesù tutto questo cambia. Con Gesù l’uomo non vive più per Dio ma vive di Dio e con Lui e come Lui non andrà più verso Dio, perché Dio è con noi, ma andrà verso gli uomini. Quindi nei Vangeli l’unico valore assoluto, l’unico valore veramente non negoziabile è il bene dell’uomo. Non c’è altro valore più importante del bene dell’uomo, questo è il significato del Dio-con-noi

i primi tre anni di papa Francesco

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un “overview effect” del pontificato di Francesco

di Luis Badilla
in “ilsismografo.blogspot.it” del 4 gennaio 2016

“Overview effect” è la dicitura inglese utilizzata per descrivere lo stato d’animo e la percezione degli astronauti quando, sospesi a migliaia di chilometri al di fuori dall’atmosfera terrestre, possono vedere dall’esterno il pianeta e percepirlo nella sua interezza e unità organica e panoramica. L’espressione, coniata da Frank White (1987 – “The Panoramica Effect”) ha ovviamente un senso molto preciso: effetti percettivi nel singolo e dunque il concetto include emozioni, sentimenti, empatie ed elaborazioni personali. A quasi tre anni di distanza dal suo inizio forse è possibile un “overview effect” del pontificato di Francesco. A nostro avviso, provando a “planare” su 33 mesi di pontificato sono questi, elencati sotto, alcuni dei punti principali seppure non gli unici:

(1) La dottrina e la riforma

La Chiesa Cattolica transita – con Papa Francesco – all’interno di un tempo cruciale e di un percorso che potrebbero profilare le sue caratteristiche essenziali per i prossimi decenni. Papa Francesco ha avviato una graduale ma ferma riforma che, se portata fino a determinati punti di non-ritorno, farà del processo in corso un cambiamento epocale irreversibile. Per questo “programma” non esiste un modello o progetto bergogliano. L’orizzonte e i binari sono semplici: ritorno all’essenzialità, a Gesù e al suo Vangelo. Francesco lo ha detto con queste parole: “La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.” (Firenze, 10 novembre 2015). Ecco dunque la grande vera riforma di Papa Francesco e se non si percepisce globalmente nella sua totale interezza quest’orizzonte non è possibile capire il pontificato di Francesco; anzi, si rischia di prendere sentieri fuorvianti raccontando cose marginali e senza vera importanza, e soprattutto si rischia di confondere la forma con il fondo.

(2) La misericordia e l’umanesimo

L’anima di questo tentativo del Papa ha un solo nome e questo nome svela il suo spirito ultimo e integrale: la Misericordia del Padre, “che perdona tutto e sempre”. Francesco dice: “Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).” (Firenze, 10 novembre 2015).

(3) Le beatitudini e il samaritano

Per il Papa la credibilità dell’annuncio e del messaggio evangelici si trova solo nella coerenza tra vita e fede di ogni singolo cristiano, dal primo all’ultimo, di tutta la Chiesa, e non vi sono eccezioni, scorciatoie o alibi. Ogni cristiano, se autentico seppure peccatore – ma mai di cartapesta o da salotto – è chiamato a riflettere nella sua piccolezza, addirittura nel suo essere peccatore, il volto di Gesù. La vita del cristiano samaritano vero si realizza nelle Beatitudini e così, ognuno diventa discepolo e missionario. Il samaritano mette in pratica la volontà di Dio e solo così può risplendere la credibilità del Vangelo. In quest’ambito le Meditazioni mattutine del Papa a Santa Marta, le sue brevi omelie (che
qualcuno ha voluto declassare a pensieri del giorno), ormai sono un punto fermo del magistero di Francesco, del suo pontificato. La loro rilevanza determinante non può essere sottovalutata. Da Santa Marta il Papa dialoga con i fedeli, con ogni singolo cattolico ovunque si trovi.

(4) Famiglia luogo specifico dell’Uomo e della Chiesa

Papa Francesco, ormai è chiarissimo, considera la “famiglia”, in quanto luogo privilegiato dell’uomo e della Chiesa, il passaggio ineludibile di una nuova evangelizzazione. Concludendo il Sinodo ordinario sulla famiglia, Francesco sottolineò: “Anche attraverso la ricchezza della nostra diversità, che la sfida che abbiamo davanti è sempre la stessa: annunciare il Vangelo all’uomo di oggi, difendendo la famiglia da tutti gli attacchi ideologici e individualistici.” (24 ottobre 2015). Lo scorso 18 novembre Francesco sottolineò nel corso dell’Udienza generale: “Le famiglie cristiane facciano della loro soglia di casa un piccolo grande segno della Porta della misericordia e dell’accoglienza di Dio. E’ proprio così che la Chiesa dovrà essere riconosciuta, in ogni angolo della terra: come la custode di un Dio che bussa, come l’accoglienza di un Dio che non ti chiude la porta in faccia, con la scusa che non sei di casa.” “Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).” (Firenze, 10 novembre 2015).

(5) Vescovo di Roma in cammino con il suo popolo: contenuto e forma.

In molti lo hanno chiamato “stile Bergoglio” e tutto cominciò la sera de 13 marzo 2013, quando l’arcivescovo di Buenos Aires dalla Loggia Centrale della Basilica Vaticano si presentò così: “Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo … ma siamo qui … Vi ringrazio dell’accoglienza. (…) E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza.” Papa Francesco in questi 21 mesi ha proposto uno stile dell’esercizio del primato di Pietro, centrato nella semplicità evangelica più volte richiamata nei documenti del Concilio ma spesso snobbata perché scomoda alla chiesapotere. In questo caso lo stile è sostanza.

(6) I sentimenti di Gesù e il potere

Sempre a Firenze, nel novembre scorso, Papa Francesco, parlando a tutta la Chiesa e non solo a quella in Italia, ha voluto ribadire una sua esortazione: “Non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.” Poi, la seconda e ultima volta che in quest’allocuzione il Papa pronunciò la parola “potere” aggiunse: “Che Dio protegga la Chiesa (italiana) da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza.” Francesco è certo, sostenuto dalle evidenze della storia che il potere porta la “Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata”. A Firenze, il Santo Padre si domandò: “Ma allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa?” Ecco la sua risposta: “Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme.”

(7) La sinodalità, dimensione costitutiva della Chiesa

Per Papa Francesco, “quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola Sinodo. Camminare insieme – Laici, Pastori, Vescovo di Roma – è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica.” Così spiegò Papa Francesco il 17 ottobre, in occasione della Commemorazione del 50.mo dell’istituzione del Sinodo per decisione di Paolo VI, la sua convinzione sulla importanza determinante della sinodalità. Poi Francesco osservò: “Fin dall’inizio del mio ministero come Vescovo di Roma ho inteso valorizzare il Sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare. Per il Beato Paolo VI, il Sinodo dei Vescovi doveva riproporre l’immagine del Concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo. Lo stesso Pontefice prospettava che l’organismo sinodale «col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato».” Francesco ha detto a più riprese, e in diversi contesti, che “una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire»”, spiegando che si tratta di “un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7).” Il Papa non si è limitato a prospettare un sentiero sottolineando, “proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”, ha voluto anche trarre le conseguenze in modo chiaro e trasparente onde evitare ambiguità e parole inutili. “Il primo livello di esercizio della sinodalità si realizza nelle Chiese particolari. (…) Il secondo livello è quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali. (…) L’ultimo livello è quello della Chiesa universale. Qui il Sinodo dei Vescovi, rappresentando l’episcopato cattolico, diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale. Due parole diverse: “collegialità episcopale” e “Chiesa tutta sinodale”. Esso manifesta la collegialitas affectiva, la quale può pure divenire in alcune circostanze “effettiva”, che congiunge i Vescovi fra loro e con il Papa nella sollecitudine per il Popolo di Dio”. In questo contesto Papa Francesco conclude: “Mentre ribadisco la necessità e l’urgenza di pensare a «una conversione del papato», volentieri ripeto le parole del mio predecessore il Papa Giovanni Paolo II: «Quale Vescovo di Roma so bene […] che la comunione piena e visibile di tutte le comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo. Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova».”

quale identità per l’Europa?

«la vera identità europea è quella del confronto, non dell’odio»

intervista a Massimo Borghesi

massimo

a cura di Andrea Tornielli
in “La Stampa-Vatican Insider” del 19 novembre 2015

«La vera identità europea, quella aperta al confronto, non quella dell’odio», è quella che si ritrova nella «splendida lettera che Antoine Leiris ha scritto ai terroristi, dopo la morte di sua moglie per opera degli attentatori di Parigi»

Lo afferma il filosofo Massimo Borghesi, autore del libro Critica della teologia politica, in questo dialogo con Vatican Insider a partire dai tragici eventi di Parigi, che interrogano l’Europa sulle sue radici, la sua identità e le sue scelte. I terribili attentati di Parigi hanno gettato nel panico l’Europa, soprattutto perché molti Jiadhisti sono nati in Francia, non sono venuti dall’estero. Che cosa significa questo? Com’è stato possibile che l’Europa stessa sia stata l’incubatrice del fondamentalismo? «Le cause per cui migliaia di jiadhisti, provenienti dall’Europa, vanno a combattere in Siria e in Iraq a favore dello Stato Islamico sono sostanzialmente tre. La prima è data dallo sradicamento dei giovani musulmani di seconda-terza generazione, come accade nelle banlieue parigine, rispetto alla società circostante. Come in Accattone di Pasolini, essi vedono la città dalla periferia, non conoscono il centro, se ne sentono respinti. Non sono veramente parte della nazione in cui sono nati. La loro condizione sociale, una scolarizzazione spesso fallita, favoriscono un senso di emarginazione e, quindi, di risentimento verso un mondo, quello europeo, che avvertono come estraneo e ostile. La seconda causa è data dal mondo occidentale odierno, il cosiddetto “mondo liquido” connotato da un individualismo profondo, da un’eclisse parimenti profonda di valori e di ideali, da promesse di vita non realizzabili. A un giovane, che avverte interiormente l’esigenza di valori in cui impegnarsi, l’Europa odierna è in grado di offrire divertissment ma non ideali che muovano verso la solidarietà. In Francia i valori della Republique risuonano, come La marsigliese, solo nell’ora del pericolo. Diversamente non sono in grado di unificare. La religione della Laicité indica un’identità formale che copre il valore polemico delle differenze senza risolverlo. Il terzo fattore che è alla genesi del jiadhismo europeo è l’Islam europeo, l’Islam incontrato in tante moschee europee. Al vuoto spirituale del vecchio continente, alla emarginazione sociale e culturale, il giovane di provenienza araba cresciuto in Europa oppone la scoperta di una fede radicale, totalizzante, mutuata da iman che esportano i dettami dell’Islam più integralista, quello wahabita promosso e finanziato dall’Arabia Saudita». Come definirebbe questo tipo di Islam? «È un Islam essenzialmente politico, teocratico, una religione politica che attrae molti giovani, sradicati e colmi di risentimento, proprio per il successo politico dell’Isis. Ciò che colpisce questi giovani è esattamente quello che provoca in noi orrore: il messaggio di potenza planetaria suscitato dalle immagini delle gole tagliate, dalle vittorie del califfato. L’Isis è il mito di una rivincita dell’Islam e del mondo arabo sull’Occidente, è il sogno di una rivincita che alberga nel risentimento. L’Islam jiadhista è una teologia politica – fenomeno di cui mi sono occupato nel mio volume Critica della teologia politica – che, come tutte le teologie politiche, vive e si nutre della vittoria del Dio degli eserciti. Solo una sconfitta può, in questo caso, provocare una crisi ideale. Le teologie politiche, per loro natura, muoiono nei campi di battaglia». «Siamo in guerra!». Questa è la reazione che sembra essere maggioritaria. La prima risposta è stata un’intensificazione dei bombardamenti sullo Stato islamico: è adeguata? «La risposta non può non essere anche militare con le avvertenze, però, richiamate dal capo della Chiesa siro-cattolica, Mar Ignace Youssif III Younan, e cioè che l’Isis non si sconfigge semplicemente con i raid e con bombardamenti indiscriminati. Il massacro di Parigi ha rappresentato per l’Isis, certamente, una sorta di autogoal. Ha costretto, infatti, gli Stati  fiancheggiatori del califfato, dalla Turchia di Erdogan, all’Arabia Saudita, allo stesso Occidente americano-europeo, a fermarsi. L’utilizzazione dell’Isis in funzione anti-Assad, anti-Iran, anti-Putin, non può più essere tollerata dall’opinione pubblica. L’eccidio parigino, come è stato detto, è l’11 settembre europeo. Solo il Qatar, uno degli Stati più ricchi e più integralisti del mondo, continua il suo sporco gioco finanziando fortemente Daesh. È chiaro che se non si prosciugano i finanziamenti, le importazioni di petrolio, le forniture cospicue di armi, un conflitto non avrà mai fine. Riguardo alla guerra essa va misurata con attenzione. Né Obama né gli europei sono disposti a impiegare truppe di terra, con il rischio di migliaia di morti. Inoltre l’Isis non esiterebbe un momento a prendere in ostaggio intere città, in primis Mosul, in modo tale che la battaglia dovrebbe svilupparsi casa per casa con moltissime vittime civili innocenti. La forma che il conflitto dovrà assumere – con buona pace di Salvini e di coloro che gridano alla guerra – non è quindi chiara. Ciò che è positivo, al momento, è l’accordo trovato tra l’occidente e Putin, dopo anni di contrasto duro. Ciò permette di individuare finalmente il nemico, l’“unico” nemico». Colpiscono le parole con le quali Claudio Magris, all’indomani degli attentati di Parigi, ha riconosciuto la lungimiranza di Giovanni Paolo II che invitava a non fare le guerre in Iraq. Quanto ciò che sta accadendo può essere legato alle scelte compiute nel recente passato dall’Occidente, con le guerre che ha mosso in Medio Oriente e con il finanziamento di gruppi ribelli che si sono poi trasformati nell’internazionale del terrore? «Il giudizio di Magris è prezioso. Molti di coloro che oggi inneggiano alla guerra dell’Occidente contro l’Islam, che utilizzano Giovanni Paolo II e Benedetto XVI contro Papa Francesco, accusato di essere troppo remissivo verso i musulmani, dimenticano che fu proprio Giovanni Paolo II a opporsi strenuamente contro la guerra in Iraq voluta da George Bush jr., a opporsi alla “guerra di civiltà” di chi voleva la crociata dell’Occidente “cristiano” contro l’Islam. Come scrive Magris: “Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio – precario e odioso, ma pur sempre equilibrio – di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati”. E qui potremmo aggiungere: come era più intelligente Reagan rispetto ai Sarkozy e ai Cameron che hanno rovesciato certo un dittatore ma solo per gettare un paese, la Libia, nel caos più totale, vero brodo di coltura dell’estremismo più radicale». Da che cosa nasce l’estremismo fondamentalista? «In realtà il vero nodo è questo: l’estremismo islamico è il prodotto di due fattori. Il primo è dato da un problema che riguarda direttamente l’Islam contemporaneo, il suo rapporto con la modernità, le libertà civili e religiose. Ne ha parlato, con saggezza, il filosofo Abdennour Bidar nella sua Lettera aperta al mondo musulmano (http://www.gliscritti.it/blog/entry/2895). Non è certo l’unico, epperò nella sua Lettera è come se sintetizzasse tutti i problemi di un occidentale islamico. L’Isis è un mostro che non coincide con l’Islam, con la fede tranquilla di milioni di credenti. E, tuttavia, ha le sue radici in una possibile lettura dell’Islam, quella di matrice wahabita. Una lettura che richiede di essere affrontata “criticamente” se si vuol superare le aberrazioni di fondamentalisti criminali che giustificano il loro operato a partire dalla religione. Allo scopo le semplici dissociazioni o prese di distanza sono auspicabili ma non dirimenti. Così come non aiutano le posizioni di coloro che affermano non esservi alcuna connessione tra l’Islam e la politica. Il problema è più complesso e richiede una vera e propria rilettura della tradizione. Come ha affermato Hocine Drouiche, imam di Nîmes e vice-presidente del Consiglio degli imam di Francia: “Per secoli i musulmani hanno escluso la ragione e la razionalità dalla loro vita religiosa. Nel pensiero islamico moderno vi è una  vera crisi della ragione. Di conseguenza, i musulmani vivono in situazioni paradossali non solo nei confronti dei valori islamici, ma anche dei valori europei”. È questa chiusura, questa dissociazione tra fede e ragione, che genera il fondamentalismo, il fideismo chiuso che vede negli altri i “crociati”, i miscredenti, gli impuri. Il secondo fattore che nel corso degli ultimi 40 anni ha favorito la radicalizzazione dell’Islam è stato l’uso che ne ha fatto l’Occidente, gli Usa in primis, in funzione antisovietica prima, con i Talebeni sostenuti in Afghanistan contro Mosca, e con l’Isis poi in funzione anti-Assad alleato di Putin. Il mostro, come ha riconosciuto Hillary Clinton, è uscito dalle segrete stanze della Cia e del Pentagono, foraggiato dagli alleati arabi filo-americani e dalla Turchia, membro della Nato. Il bambino, cresciuto, è divenuto ora molesto e ingombrante, al punto che i loro artefici non sanno come disfarsene. Nel frattempo centinaia di migliaia di persone sono morte, milioni sono fuggiti, interi Stati sono sprofondati nella miseria e nella disperazione». Secondo lei è in atto uno scontro di civiltà? Che cosa significa per l’Europa, per i suoi valori e la sua cultura, questo confronto con l’Islam fondamentalista? «Certamente il rinnovato confronto con un islamismo aggressivo, che pareva un lontano ricordo del passato, obbliga il vecchio continente a un ripensamento. Dopo l’89 l’era della globalizzazione ha coinciso con un post-modernismo estetico-edonistico-individualistico. La “fine della storia”, profetizzata da Francis Fukuyama, sembrava offrire il panorama della nuova felix aetas, senza nemici né guerre, contrassegnata da affari e divertissement. Poi è venuto l’11 settembre e con esso è tornata la teologia politica (teocon e islamista), il nemico, la guerra. I risultati di quel conflitto li vediamo oggi con il Medio Oriente e il nord Africa allo sbando. Per questo l’Europa, dopo Parigi, non può ripensarsi alla luce di una nuova (o vecchia) teologia politica così come auspicano le destre. La soluzione, l’uscita dal nichilismo postmoderno, non sta nella costruzione di identità affermate in antitesi ad altre, identità dialettiche che ricopiano, nell’opposizione, quella dell’avversario. È questa la via dello “scontro di civiltà”, quella auspicata dal quotidiano “Libero” la cui testata non si è vergognata di titolare, in risposta agli eccidi parigini, “Bastardi islamici”. Una vera e propria incitazione all’odio. Né l’Europa può credere, d’altra parte, che il problema si risolva favorendo lo scioglimento delle differenze. Come nel caso di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Un provvedimento demenziale che dimostra i limiti di un multiculturalismo che, alla prova dei fatti, dimostra di essere incapace di sostenere le diversità culturali. Chi viene o nasce in un Paese deve innanzitutto imparare a rispettarne le tradizioni, gli usi, i costumi, le leggi. È una legge non scritta dei popoli. Né può pensare, machiavellicamente, di simulare in attesa di essere maggioranza. Se non si gradiscono leggi e costumi è bene che si vada altrove. Il Paese che accoglie deve, d’altra parte, favorire le condizioni d’integrazione, in primis attraverso la scuola, il lavoro, l’università. Puntando particolarmente sui giovani. È nell’ambito scolastico, come dimostrano gli istituti cristiani nei paesi arabi che non fanno distinzione di religione, che sorgono amicizie, stima reciproca, rapporti duraturi tra persone di fedi diverse. Qui si costruisce il futuro. Certo, dovrebbero essere scuole mirate al lavoro, non parcheggi, né luoghi di déracinement». Come bisogna reagire, dunque? «Tanto il posmodernismo relativistico quanto l’identitarismo, le due ideologie con cui abbiamo risposto, finora, all’integralismo islamico, hanno mostrato abbondantemente i loro limiti. Abdennor Bidar, nella sua Lettera, afferma che il mondo islamico europeo ha, se lo vuole, le risorse per tirarsi fuori dalle secche a cui l’integralismo lo sta portando. Allo stesso modo, potremmo dire che la vecchia Europa, per quanto disincantata e violentata nelle sue tradizioni, ha le risorse per rispondere in modo non meramente reattivo. La splendida lettera che Antoine Leiris ha scritto ai terroristi, dopo la morte di sua moglie per opera degli attentatori di Parigi, ne è documento: “Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime
morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi”. Questa è la vera identità europea, quella aperta al confronto, non quella dell’odio. La civiltà dell’Europa, quella autentica, è dominata, come ha evidenziato Remi Brague nel suo bel libro Europe. La voie romaine, dalla “secondarietà”, dalla capacità della Roma antica di farsi “seconda” rispetto alla cultura ellenica e del cristianesimo di farsi “secondo” rispetto all’ebraismo. Per questo l’Europa è capace di “integrazione”, non ha bisogno di azzerare la tradizione, la fede, la cultura di coloro che calpestano il suo suolo. Non ha paura dell’altro. Ha il dovere di difendersi ma è anche sufficientemente forte per sopportare le differenze».

fare memoria dei morti: il 2 novembre

Bianchi

 

memoria dei morti

2 novembre

commento di E. Bianchi

Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.

Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne, ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte. Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.

Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.). Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.

La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.

E’ in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12).

Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”.

La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come communio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.

 
 

raddoppiati i poveri in pochi anni

IL RAPPORTO CARITAS 2015

  in sette anni raddoppiati i poveri

povertà

 Erano poco meno di due milioni nel 2007; sono risultati essere oltre 4 milioni nel 2014. Colpiti anche il Nord, i giovani e chi un lavoro comunque ce l’ha. La Caritas italiana chiede di nuovo l’introduzione del Reis, il Reddito di inclusione sociale proposto dall’Alleanza contro la povertà
E’ raddoppiata in sette anni. Dal 2007, anno in cui la crisi iniziò a mordere, al 2014 la povertà assoluta, in Italia, ha colpito un numero crescente di pesone, passando da 1,8 a 4,1 milioni di persone. Dal punto di vista percentuale si è saliti dal 3,1% al 6,8% della popolazione. È quanto emerge dal Rapporto 2015 sulle politiche contro la povertà in Italia curato dalla Caritas italiana in collaborazione con l’Università Cattolica, presentato oggi a Roma. Sono mutati anche geografia e volti della povertà (per vedere la tabella riassuntiva clicca qui). Prima della crisi era un fenomeno circoscritto sostanzialmente al Meridione, ora riguarda anche il Nord. Prima penalizzava soltanto gli anziani, ora anche i giovani. Prima riguardava le famiglie con almeno tre figli, adesso anche quelle con due. Prima si era poveri perché senza lavoro, ora si è poveri anche con il lavoro. E a pagare il prezzo più alto, durante la crisi, sono stati i più poveri tra i poveri: il 10% delle persone in povertà assoluta ha sperimentato una contrazione maggiore del proprio reddito (-27%) s uperiore a quella del 90% della popolazione.

In questi anni, rivela il Rapporto intitolato Dopo la crisi, costruire il welfare, sono cambiati i governi, ma le politiche sociali non hanno contribuito a risolvere la situazione, che rischia di diventare strutturale se non viene messo in piedi un sistema di welfare pubblico. Il Rapporto analizza nel dettaglio la situazione socio-politica. «Per poter valutare l’operato del Governo guidato da Matteo Renzi nei confronti della povertà è opportuno considerare la realtà delle politiche contro la povertà prima del suo arrivo, cioè l’eredità lasciata dai suoi predecessori». si legge. «Primo, l’Italia è l’unico Paese europeo, insieme alla Grecia, privo di una misura nazionale mirata a sostenere l’intera popolazione in povertà assoluta. Secondo, l’attuale sistema di interventi pubblici risulta del tutto inadeguato per volume di risorse economiche dedicate e frantumato in una miriade di prestazioni non coordinate, suddivise tra una varietà di categorie e con caratteristiche diverse. Terzo, la gran parte dei finanziamenti pubblici disponibili è dedicata a prestazioni monetarie nazionali mentre i servizi alla persona, di titolarità dei Comuni che poi coinvolgono anche il terzo settore, sono sottofinanziati. Quarto, la distribuzione della spesa pubblica è decisamente sfavorevole ai poveri: l’Italia ha una percentuale di stanziamenti dedicati alla lotta alla povertà inferiore alla media dei Paesi dell’area euro».

Cos’è cambiato durante la crisi? «In termini strutturali nulla», viene risposto nel Rapporto, «poiché nel periodo 2007-2014 non sono state introdotte novità degne di nota. L’unica misura stabile introdotta nel periodo è stata la Social Card, attiva dal 2008, che non ha modificato in misura significativa il quadro delineato, data l’esiguità tanto degli importi previsti quanto del numero di poveri raggiunti. In parallelo, le già ridotte risposte esistenti sono state ulteriormente indebolite dalle politiche di austerità rivolte ai Comuni, che li hanno portati a contrarre la loro spesa sociale, già molto scarsa. Oggi ci troviamo, dunque, di fronte a una povertà diffusa e a un welfare pubblico ancora del tutto inadeguato».

E Renzi? «L’attuale Governo ha sinora introdotto alcuni interventi per supportare il reddito delle famiglie rivolti prevalentemente a fasce più ampie della popolazione ma che, in varia misura, riguardano anche i nuclei in povertà: il bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti, il bonus bebè per famiglie con figli entro i tre anni, il bonus per le famiglie numerose e l’Asdi. L’insieme degli interventi di sostegno al reddito sinora varati restituisce un quadro piuttosto chiaro. Ai poveri viene fornito qualche sollievo – concede il Rapporto Caritas -, che si traduce in un complessivo incremento medio di reddito pari al 5,7%, risultato migliore rispetto ai precedenti Governi. Si tratta, però, di un avanzamento marginale e non privo – per come è stato disegnato – di controindicazioni. Pertanto, la valutazione d’insiemenon può che essere la seguente: in materia di sostegno al reddito l’attuale esecutivo, ad oggi, non si è discostato in misura sostanziale dai suoi predecessori e ha confermato la tradizionale disattenzione della politica italiana nei confronti delle fasce più deboli di popolazione.

«Occorre decidere se si vuole o meno dar vita ad un sistema fondato su una misura rivolta a chiunque sia in povertà assoluta, un livello essenziale costituito da un mix tra diritti nazionali e risposte disegnate dalla rete dei servizi locali e dotato di finanziamenti adeguati», termina il Rpporto: «un sistema, in altre parole, come quello previsto dal Reddito d’inclusione sociale (Reis), proposto dall’Alleanza contro la povertà in Italia e del quale la Caritas italiana auspica l’introduzione»

onore e auguri a don Ciotti

don Luigi Ciotti compie 70 anni

ritratto in chiaroscuro di un sacerdote pop (critiche comprese)

 

CIOTTI

A un certo punto pensarono che volessero farlo ministro

 

Era marzo 2013 e gli italiani stavano scoprendo le consultazioni in streaming con Pier Luigi Bersani e la delegazione dei 5 stelle. Altra vita, altri tempi. Ma Don Luigi Ciotti, che oggi compie 70 anni, ha camminato lungo tutti i corridoi e tutti i marciapiedi, attraversando tutte le campagne liberate dalla mafia e poi abbracciando prima papa Woitjla, poi papa Ratzinger e infine papa Francesco, un giorno ricevendo la medaglia dell’Accademia dei Lincei o l’onorificenza di Cavaliere e il giorno dopo stringendo la mano ai tossicodipendenti di Torino oppure mescolandosi come una persona qualsiasi al corteo funebre per i ragazzi bruciati vivi della Thyssenkrupp, le lacrime agli occhi.

Ecco perché, vedendolo uscire da palazzo Chigi quel giorno di marzo, il cronista dell’Ansa volle chiedere se davvero avrebbe fatto parte – lui, un prete – del nuovo governo Bersani. Non era una ipotesi peregrina: Don Ciotti è uno dei volti pop dell’impegno italiano. Pop nel senso letterale, popolare e conosciuto, per niente frivolo ma flessibile, come un tempo Margherita Hack e ancora oggi Andrea Camilleri, venerati e carismatici e indispensabili per lanciare gli appelli della società civile, tanto più che questo sacerdote di origini calabresi ma naturalizzato torinese ha fondato due pilastri del terzo settore italiano, il Gruppo Abele e Libera.

Insomma quel giorno, vestito come è sempre solito abbigliarsi e cioè in abiti che sembrano riciclati, il maglione sdrucito e i pantaloni da operaio, Don Ciotti rispose che no, non avrebbe fatto il ministro: “‘E’ da 42 anni che sono ministro della Chiesa, poi faccio altro e volentieri collaboro a percorsi comuni nella lotta alle mafie”.

“Faccio altro”. Don Ciotti fa tantissimo. Nell’immaginario collettivo è un prete di sinistra, ma non estremo come lo era don Andrea Gallo – non ne possiede l’ironia e non è un gaudente. Non sposa gli omosessuali, non si fa fotografare con le transessuali. Quando non partecipa alle marce antimafia in Sicilia e in Calabria a fianco dei Borsellino e dei famigliari di vittime della criminalità organizzata, quando non è invitato a parlare nelle scuole dove ai ragazzi augura di ricevere “la dolce pedata di Dio” – una delle ultime volte, nella Locride, in classe ha rivelato inaspettatamente un dettaglio mai divulgato prima, il fatto che la madre gli morì tra le braccia dopo aver scoperto che qualcuno voleva ucciderlo sul pianerottolo di casa – ecco, quando non è assorbito dagli impegni più vicini abbraccia volentieri le iniziative a favore della Costituzione con Gustavo Zagrebelski, Antonio Ingroia, Stefano Rodotà e Maurizio Landini, poiché la sua stella polare è la difesa della legalità, del lavoro dei giudici, e certamente è stato uno degli esponenti meno visibili dell’antiberlusconismo.

Con Libera, l’associazione antimafia fondata nel 1995 sull’onda dell’indignazione per l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Don Ciotti è uscito dal perimetro torinese per allargare l’impegno sociale al resto d’Italia, specialmente il Sud. Geniale l’intuizione, poi diventata legge proprio per impulso di Libera, di destinare i beni confiscati alla mafia ai giovani e alle associazioni pronte a utilizzare quelle terre e quegli edifici in coltivazioni e luoghi buoni, onesti.

Ma è il Gruppo Abele, nato nel 1965, il fulcro dell’impegno di don Luigi: Abele che aiuta Caino, il tossico, la prostituta, “no ai cristiani da salotto”, una piccola associazione che per prima aprì in Italia uno sportello per aiutare le vittime della droga e poco a poco si è ramificata, è diventata casa editrice di libri e riviste, ha partorito le cooperative di Consorzio Abele Lavoro, si è annidata nel cuore della Torino che conta, il nome che Cesare Previti scelse per scontare la pena ai servizi sociali.

Pluripremiato, plurilaureato ad honorem, diviso tra terra e cielo come recita il titolo di uno dei suoi libri, a don Ciotti non poteva capitare niente di peggio che un libro-denuncia scritto da un giornalista rispettato come Luca Rastello, morto recentemente, torinese come il Gruppo Abele, ex collaboratore di don Ciotti che al Gruppo Abele sembra essersi ispirato per “I buoni” (Chiarelettere, 2014).

Ne “I buoni”, che poi sono i cattivi, un personaggio molto simile a Don Ciotti governa attraverso un cerchio magico intoccabile una associazione che si occupa di emarginati ma con estremo pressapochismo e senza preoccuparsi dei diritti degli operatori che ci lavorano, con finanziamenti non proprio chiari. Nella Torino che un giorno vorrebbe immaginarsi senza Fiat e senza don Ciotti come tratto caratteristico, si racconta che nel Gruppo Abele il libro di Rastello non sia stato gradito ma che, allo stesso tempo, molti abbiano riconosciuto le voragini e ai cronisti basta alzare il telefono per trovare numerosi ex operatori ed ex collaboratori pronti a giurare che Rastello ha scritto soltanto la verità.

Non è un caso che a dieci giorni dal temutissimo arrivo nelle librerie il fondatore di Libera abbia detto pubblicamente che sì, in effetti nell’associazione qualche criticità c’era. Ma in quella occasione a difendere l’onorabilità del sacerdote ormai torinese scesero in campo due pesi massimi – e ugualmente intoccabili – del Pantheon dei buoni italiani e cioè Gian Carlo Caselli e Nando Dalla Chiesa, amici da sempre di don Luigi, che dalle colonne del Fatto quotidiano scrissero che il libro di Rastello è volgare e pieno di risentimento privato.

Dopo quella querelle il povero Rastello è morto lanciando una sorta di maledizione ai finti buoni, che poi è una categoria universale e quasi intrinseca delle divinità italiane: di qua i guru della sinistra che attirano schiere di ammiratori e gente di grande fede destinata alla delusione perpetua o alla illusione psicotica (papa Francesco sembra fare eccezione, tra gli altri), di là i malvagi delle multinazionali e del pensiero differente. In fondo il libro di Luca Rastello ha dimostrato che don Ciotti resiste alla santificazione che invece è propria di quasi tutti i rappresentanti della moralità e della bontà in Italia – molti dei nomi dei santificati sono stati disseminati in questo articolo – e di questo il fondatore del Gruppo Abele dovrebbe essere alla fine molto grato.

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