brutto essere povero!

romni

nei confronti dei rom la povertà è una colpa, e neanche piccola: merita spesso una punizione proporzionata, anche la sottrazione dei figli

talvolta la storia fiinisce bene, quando per esempio spunta il buon cuore di qualche privato benestante, altrimenti! è questo il caso di un nucleo familiare di sei persone rom fuggite un anno fa dalla Romania documentata dal free lance Marco Reis e raccontata, qui sotto, da Remo Bassini de ‘il Fatto quotidiano’:

Così vivono le bambine rom, senza acqua e luce

di Remo Bassini
in “il Fatto Quotidiano” del 18 dicembre 2013

Tre bimbe rom, di 6, 8, 11 anni. È la sera di venerdì 30. Ed è tutto documentato da un video. Si
vedono i piumini colorati delle bimbe, e i volti dispiaciuti di giornalisti e vigili urbani di Vercelli.
Cercano di rassicurarle. “Questa notte dormirete al caldo, con la mamma. Salite in macchina,
venite, le previsioni dicono che nevicherà”. Non si muovono, loro. Le piccole mani artigliano il
giubbotto del papà, vogliono che resti con loro. Non si può.
Le porta a scuola tutte le mattine, in bicicletta. Lui magari ha le scarpe rotte, ma le bimbe sono
pulite, vestite bene, e hanno sempre un tramezzino, una mela” dicono le mamme e le maestre delle
piccole. È stato un giornalista free lance, Marco Reis, a scoprire che all’interno di un vecchio
casermone cadente, vivono tredici nuclei familiari di cui nulla si sa. O forse si sa, fingendo di non
vedere: in fondo è gente invisibile , quella che sta dentro. Tra questi nuclei c’è una famiglia di sei
persone. Sei rom, fuggiti, un anno fa, dalla Romania. Le tre bimbe, la madre Helena di 28 anni, il
padre Stephan, 32, la nonna della mamma, 72 anni, un bastone e una busta con le medicine per il
cuore sempre dietro. Non hanno trovato né casa né lavoro. Forse in Italia, lo hanno scoperto sulla
loro pelle, si sta come in Romania. Per mangiare o prendono dai cassonetti gli avanzi dei
supermercati, oppure chiedono l’elemosina. Per l’abitazione, trovano il grande casermone in un
rione periferico. Ci sono altri disperati, lì. Il padre, costruisce una baracca. Si sistemano, anche se
mancano acqua e luce, finché non arriva il freddo. Per lavarsi usano dei grandi recipienti. A
settembre provano a mandare le figlie a scuola: vengono accettate. Non potranno mangiare in
mensa con gli altri perché non hanno l’euro a pasto previsto, ma almeno possono imparare
l’italiano, integrarsi. Per illuminare i loro quaderni quando è buio, si usano le candele. Come i
poveri di una volta. Sta di fatto, però, che vivono in un tugurio. Il free lance Marco Reis entra nella
baracca, filma tutto e si stupisce, perché ogni cosa è a suo posto: l’angolo per il cibo, l’angolo della
nonna, quello delle bimbe con un paio di bamboline e delle lattine vuote, di coca, che d’estate
servivano da recipienti per i fiorellini. Ma non c’è il bagno, e per scaldarsi c’è solo una stufa
rudimentale, a legna. E di notte, raccontano le bambine, a volte arrivano i topi. C’è dell’altro però.
Il padre infatti deve sempre vigilare. Qualche vicino ubriaco la sera potrebbe avere intenzioni non
belle. Un anno fa, alcune baracche sono state incendiate, non si sa da chi. Delle bambine non
possono vivere in una situazione così precaria. E così intervengono vigili, assistenti sociali e
giornalisti. E viene trovata una soluzione: tre giorni in una struttura, si chiama Piccola Opera
Charitas, che ospita anziani e donne con problemi. Le tre bimbe non vorrebbero, meglio il gelo e i
topi che staccarsi dal padre. La popolazione si mobilita affinché il nucleo familiare non venga
diviso e così lunedì 2 dicembre viene trovata una seconda soluzione: i Salesiani sono disposti a
ospitare l’intero nucleo familiare. Alle bimbe brillano gli occhi, sono felici. Arriva però la doccia
fredda: non si può. Non si può perché la famiglia risulta in carico ai Servizi sociali del Comune e
quindi non c’è tempo perché la burocrazia, si sa, ha ritmi lenti. Non solo. Il caso è stato segnalato al
Tribunale dei Minori, a Torino. Gli amici italiani e rom della famiglia si preoccupano, temono il
peggio. “Non è che le bimbe verranno tolte a una famiglia colpevole d’essere povera ma che, a
queste bimbe, ha sempre badato nel migliore dei modi?”. “Sarebbe folle, e non può accadere, questa
è gente povera che ci ha insegnato qualcosa” dice il consigliere comunale Mariapia Massa, già
assessore all’assistenza. La voce di una possibile separazione è nata (lunedì e martedì) dal fatto che,
per alcune ore, alla mamma e alle bimbe non sono stati (lentezze burocratiche) restituiti i
documenti. Immediata, l’ipotesi di un comitato a sostegno della famiglia.
NESSUN RIGURGITO razzista, in città, anzi. “Se non si trovano soluzioni, ospito io tutta la
famiglia”, dice un imprenditore. Alla fine i documenti sono tornati nelle mani dei legittimi
proprietari. Che per un mese potranno vivere in tre stanze messe a disposizione dai Salesiani. E poi si vedrà.

“Se ci dividono, ci ammazzano” ha detto la mamma. Sembra una pellerossa, parla poco e
parla male l’italiano. Ma è stata chiara.




vergogna

LAMPEDUSA

DISINFETTATI COME ANIMALI

 

Lampedusa

 

cose inverosimili, eppure succedono: la realtà più macabra supera la immaginazione più crudele, i nostri centri di accoglienza si manifestano ancora una volta dei veri campi di concentramento di infelice memoria

vedere per credere le immagini di un servizio trasmesso lunedì sera dal Tg2 (autore Valerio Cataldi), girate con un telefonino da un immigrato rinchiuso nel Centro di accoglienza. “Trattati come animali – racconta il ragazzo che ha fissato la barbarie sul suo cellulare – Ho visto tante cose in sei mesi, le persone che arrivano qui pensano che sia questa l’Italia”.

qui sotto la ricostruzione che del fatto fa E. Fierro su ‘il Fatto quotidiano’ e a seguire una riflessione su questo fatto vergognoso di A. Prosperi per ‘la Repubblica’ odierna, e infine una richiesta di perdono che Toni dell’Olio rivolge direttamente ad Ahmed: “Ti chiedo perdono, caro Ahmed, per tutto il trattamento inumano che ti abbiamo riservato soprattutto da quando sei arrivato in Italia. I fatti del CIE di Lampedusa documentati furtivamente con un telefonino offendono e umiliano non soltanto le persone migranti, ma anche ciascun cittadino di questo Paese. Offendono l’umanità. Si è detto che è una vergogna. Ma è molto di più”

UN VIDEO DEL TG2 MOSTRA COME, NEL CENTRO DI ACCOGLIENZA SULL’ISOLA, CON UNA MOTOPOMPA VIENE SPRUZZATO IL FARMACO CONTRO LA SCABBIA SUI CORPI DI MIGRANTI NUDI E AL GELO. BOLDRINI: “È INDEGNO”.

Un ragazzo dalla pelle scura nudo, al freddo, altri che aspettano, nudi e in fila. Un uomo con una tuta gialla e una “motopompa” che spruzza il disinfettante contro la scabbia. Non si fa così neppure con i cavalli. Con gli uomini sì, e non siamo in un lager nazista o della Siberia staliniana, siamo in Italia, a Lampedusa. Sono queste le immagini di un servizio trasmesso lunedì sera dal Tg2 (autore Valerio Cataldi), girate con un telefonino da un immigrato rinchiuso nel Centro di accoglienza. “Trattati come animali – racconta il ragazzo che ha fissato la barbarie sul suo cellulare – Ho visto tante cose in sei mesi, le persone che arrivano qui pensano che sia questa l’Italia”.

Le altre immagini mostrano operatori del Centro che urlano, altri che distribuiscono vestiti lanciandoli in aria, e sempre quella maledetta motopompa che disinfetta gli uomini nell’anno del Signore 2013, esattamente come si faceva agli inizi del Novecento su un’altra isola maledetta, Ellis Island, Usa, dove sbarcavano affamati e lerci gli italiani del Sud. Il servizio del Tg2, rilanciato dal web, ha provocato lo sdegno dell’intero mondo politico. Ministri e parlamentari hanno pubblicato comunicati grondanti sdegno e amarezza, fioccheranno le interrogazioni parlamentari. Ma sono parole vuote, tardive e false. Perché tutti sapevano, almeno da ottobre, quando c’è stata l’ultima ecatombe del mare con 600 morti, quali erano le condizioni dei vivi, di quei disperati costretti nel Centro di accoglienza di Lampedusa.

Quando ci fu il primo naufragio con 300 morti, il nostro giornale, le telecamere del nostro sito e quelle dei network di tutto il mondo, documentarono le condizioni di vita dei superstiti. Uomini e donne costretti a vivere all’aperto, bambini che dormivano su materassi di spugna lerci, capanne improvvisate con i sacchi della spazzatura. Cibo scarso e di pessima qualità. In quei capannoni dove potevano essere ospitate al massimo 300 persone, ne dormivano fino a mille. Un bagno solo per centinaia di uomini e donne. Queste cose le hanno viste tutti. Anche Letta e Alfano, arrivati a Lampedusa per un summit e portati per pochi minuti a visitare il Centro. Quelle donne mortificate e i bambini costretti a convivere con i cani randagi sono stati visti anche dalla ministra Kashetu Cécile Kyenge. Quando chiedemmo all’assessore alla Sanità della Regione Sicilia, Lucia Borsellino, cosa aveva visto scoppiò in lacrime. Tutti hanno promesso miracoli, quando a luglio è arrivato sull’isola Papa Francesco e ha gridato forte il suo “mai più”, tutti si sono asciugati le lacrime. Nessuno ha mosso un dito. Le condizioni del Centro sono rimaste come prima, se possibile, peggiorate. Passata l’onda mediatica, andati via giornalisti e tv, su Lampedusa e le sue miserie è calata una pietra tombale. Le uniche indignazioni che vale la pena rappresentare, sono quelle di chi sull’isola vive e da anni offre tutto se stesso per accudire, assistere, consolare gli immigrati venuti dal mare. E allora in questo articolo non leggerete per esteso dichiarazioni di ministri e politici (hanno parlato tutti. Boldrini: “trattamento indegno di un Paese civile”, Kyenge: “Tutto ciò è inaccettabile in uno Stato democratico”), ma quella del dottor Pietro Bartolo sì. L’ultima volta che lo abbiamo incontrato era il mese di ottobre, era sul molo Favarolo a occuparsi dei vivi, e dei morti.

AVEVA GLI OCCHI gonfi di lacrime per i troppi cadaveri di bambini e il corpo segnato da un recente ictus. Era in malattia, ma quel giorno decise di esserci e di fare la sua parte di medico. “È indegno di un Paese civile, un trattamento schifoso che viola la dignità umana. Ma perché non li hanno portati da me, li avrei curati nel mio studio rispettando la loro dignità di uomini e donne”. Giusi Nico-lini, sindaco dell’Isola che da anni si batte per la dignità dei suoi cittadini e dei migranti: “Che dire? Sono sconvolta, è una pratica degna di un lager”. Ora Enrico Letta promette un’inchiesta e minaccia sanzioni per i responsabili, ma è tardi. Perché la condizioni di quel centro e le modalità di gestione da parte di Lampedusa accoglienza, sono state ampiamente documentate da inchieste giornalistiche e reportage televisivi. Che attorno a Cie e Centri di accoglienza si sia organizzato un grande business è noto da anni. E allora, se una decisione va presa subito è quella di chiudere i Cie, di cancellare ogni tipo di contratto con cooperative e società non in grado di assicurare condizioni di vita umane in quelle strutture. Quando in ottobre intervistammo per il fattoquotidiano.it   Cono Galipò, numero uno della società che gestisce il centro di Lampedusa, respinse ogni accusa e contestazione. Per lui le condizioni di vita nel centro erano più che accettabili, al solito erano i giornalisti a fare inutili polemiche. Chissà come commenterà ora queste immagini che fanno vergognare l’Italia di fronte al mondo intero.

Da Il Fatto Quotidiano del 18/12/2013.

 

LA NOSTRA VERGOGNA

A. Prosperi

Il telefono di Khalid ha catturato e messo in circolazione la scena di quello che accade da giorni abitualmente nel centro di accoglienza di Lampedusa. L’abbiamo visto tutti, non abbiamo scuse. Abbiamo visto come ogni giorno decine di uomini nudi vengano sottoposti al getto d’acqua di una pompa a motore, all’aperto, sotto il cielo dell’isola. Si tratta, dicono, di una pratica necessaria per disinfettare quei corpi. Per combattere in particolare il pericolo di un’epidemia di scabbia.

Giusto disinfettare, curare, garantire la salute — la nostra, perché è per questo che lo si fa. Del resto qualcuno ricorda ancora, in questo paese nostro che fu un tempo non lontano quello di un’emigrazione italiana di proporzioni bibliche, che cosa accadeva alla visita d’ingresso negli Stati Uniti, quando a Ellis Island i nostri antenati dovevano sottoporsi a rozzi, elementari esami fisici destinati a scoprire le eventuali malattie di cui erano portatori. Ma non venivano fatti oggetto di questa pratica brutale del denudarsi in pubblico per sottoporsi a un trattamento che disumanizza, degrada, porta automaticamente a una discesa dal livello della comune umanità a quello di cosa. Perché una cosa è chiara: non c’è nessuna ragione perché la disinfezione debba essere fatta così, collettivamente e all’aperto.

Denudare pubblicamente un essere umano vuol dire togliergli quella difesa elementare, quel segnale di umanità che consiste nel coprirsi, nel proteggere la propria nudità. Gli esseri umani si distinguono dalle bestie perché si coprono istintivamente. Dice la Bibbia che Adamo ed Eva, quando lasciarono l’Eden, scoprirono la loro umanità col senso di vergogna per il corpo nudo.

Dunque la domanda che viene spontanea è sempre quella formulata da Primo Levi: diteci, voi che siete al coperto nelle vostre tiepide case, se sono uomini questi esseri nudi nel dicembre che sa ormai di Natale, esposti al getto d’acqua che la pompa scarica sui loro corpi. E poiché la risposta è sì, né può essere diversa, bisogna passare all’altra domanda: dobbiamo chiederci chi siamo noi, responsabili in solido di questa riduzione a bestiame dell’umanità che sbarca a Lampedusa a rischio della vita e si aspetta di trovare da noi, se non le immagini dorate trasmesse dalla televisione, almeno non un simile livello di disumanità. Giusi Nicolini, la bravissima sindaca di Lampedusa, ha risposto per tutti noi: queste immagini ricordano i campi di concentramento. Nei lager non c’erano i telefonini. Oggiquesto strumento ci toglie l’ultimo alibi: la difesa del non vedere, del non sapere.

Ma se quello odierno è uno scandalo, si deve riconoscere che gli scandali sono necessari perché senza di essi non riusciamo ormai più ad aprire gli occhi. E speriamo che anche questa volta tutto non si riduca a un’emozione epidermica e che domani non ci si trovi di nuovo davanti all’impasto abituale di provocazioni leghiste e di politiche fatte di parole benevole quanto vane, di intenzioni mai seguite da fatti. Finora nemmeno l’escalation di quegli annegamenti di massa che hanno fatto del Mare di Sicilia un immenso cimitero marino è bastata a cambiare le cose.

L’episodio di Lampedusa, teatro all’aperto di ciò che l’Italia — ma anche, dietro di lei, l’Europa tutta — sa offrire a chi tenta di varcarne le soglie deve essere per una volta la scossa finale che porti una buona volta a raddrizzare il legno storto dei diritti così come vengono intesi e praticati da noi. Dobbiamo prendere atto che questo è solo l’ennesimo episodio di un sistema che ha preso forma di legge, si è radicato nel costume e nelle istituzioni: col risultato che l’umanità difettiva dell’immigrato rischia di apparirci di fatto come quella di un animale pericoloso, portatore di malattie: e questo perché sempre più decisamente si sono create da noi le premesse di una discriminazione sul terreno dei diritti primari che ha fatto scivolare sempre più l’Italia sulla china di un razzismo tanto più reale quanto meno confessato.

È tempo perché le chiacchiere buoniste, l’esibizione delle buone intenzioni, i rimedi della carità cedano il posto a misure di legge che riconoscendo dignità e diritti agli immigrati restituiscano anche a tutti noi la possibilità di non doverci ogni giorno vergognare.

Il dossier dei diritti civili deve essere riaperto subito. Non si può più rinviare la riforma della Bossi-Fini, perché mantenendola continueremmo a tenere in vita un sistema di disparità della popolazione della penisola italiana nel campo dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che ha fatto regredire l’intero paese e ne ha alterato perfino il linguaggio: si pensi al significato che ha assunto oggi la parola “accoglienza” in un paese come il nostro che, con tutti i suoi difetti, era noto un tempo almeno per questa speciale virtù dei suoi abitanti.

Umiliati

Mosaico dei giorni

18 dicembre 2013 – Tonio Dell’Olio

Ti chiedo perdono, caro Ahmed, per tutto il trattamento inumano che ti abbiamo riservato soprattutto da quando sei arrivato in Italia. I fatti del CIE di Lampedusa documentati furtivamente con un telefonino offendono e umiliano non soltanto le persone migranti, ma anche ciascun cittadino di questo Paese. Offendono l’umanità. Si è detto che è una vergogna. Ma è molto di più. Sei eritreo, siriano, tunisno o sudanese. Forse nel centro di Aleppo avevi un negozietto di piccole cose e tiravi avanti, ma la guerra ti ha costretto a fuggire. Non hai trovato altro modo che affidarti agli uomini senza scrupoli dell’organizzazione dei viaggi clandestini. Tutti i tuoi risparmi sono finiti nelle loro mani. Sofferenze indicibili. Viaggio infinito. Umiliazioni per te, per tua moglie e per i tuoi bambini. Cose che a volte non hai nemmeno lo stomaco di raccontare. Poi l’ultimo tratto. Forse il più pericoloso. Il mare. Una volta toccato terra speravi di aver raggiunto la salvezza e invece è stato un altro calvario. Insieme a te contadini, studenti, professionisti, gente comune che in alcuni casi viveva dignitosamente nella propria terra e che ora è umiliata in condizioni subumane, che non hanno nulla a che vedere con l’accoglienza e non sono giustificabili né con il primo soccorso né con l’emergenza. Ti chiedo perdono. Non ho altre parole se non per gli operatori della cooperativa “Lampedusa accoglienza” del consorzio Sisifo che gestisce quel centro e che forse erano in piazza ad applaudire le parole del Papa nel corso della sua visita a Lampedusa. Per ciascuno di voi quella cooperativa incassa 30-40 euro al giorno. L’ultimo segmento della gestione mafiosa dei migranti.

http://www.peacelink.it/mosaico/a/39508.html 




il papa contro il clericalismo

presente-passato-futuro 

Papa Francesco: quando nella Chiesa manca la profezia, c’è il clericalismo

Quando manca la profezia nella Chiesa, manca la vita stessa di Dio e ha il sopravvento il clericalismo: è quanto ha affermato Papa Francesco stamani nella Messa presieduta a Santa Marta nel terzo lunedì d’AvventoIl profeta – ha affermato il Papa commentando le letture del giorno – è colui che ascolta le parole di Dio, sa vedere il momento e proiettarsi sul futuro. “Ha dentro di sé questi tre momenti”: il passato, il presente e il futuro:

“Il passato: il profeta è cosciente della promessa e ha nel suo cuore la promessa di Dio, l’ha viva, la ricorda, la ripete. Poi guarda il presente, guarda il suo popolo e sente la forza dello Spirito per dirgli una parola che lo aiuti ad alzarsi, a continuare il cammino verso il futuro. Il profeta è un uomo di tre tempi: promessa del passato; contemplazione del presente; coraggio per indicare il cammino verso il futuro. E il Signore sempre ha custodito il suo popolo, con i profeti, nei momenti difficili, nei momenti nei quali il Popolo era scoraggiato o era distrutto, quando il Tempio non c’era, quando Gerusalemme era sotto il potere dei nemici, quando il popolo si domandava dentro di sé: ‘Ma Signore tu ci ha promesso questo! E adesso cosa succede?’”. 

E’ quello che “è successo nel cuore della Madonna – ha proseguito Papa Francesco – quando era ai piedi della Croce”. In questi momenti “è necessario l’intervento del profeta. E non sempre il profeta è ricevuto, tante volte è respinto. Lo stesso Gesù dice ai Farisei che i loro padri hanno ucciso i profeti, perché dicevano cose che non erano piacevoli: dicevano la verità, ricordavano la promessa! E quando nel popolo di Dio manca la profezia – ha osservato ancora il Papa – manca qualcosa: manca la vita del Signore!”. “Quando non c’è profezia la forza cade sulla legalità”, ha il sopravvento il legalismo. Così, nel Vangelo i “sacerdoti sono andati da Gesù a chiedere la cartella di legalità: ‘Con quale autorità fai queste cose? Noi siamo i padroni del Tempio!’”. “Non capivano le profezie. Avevano dimenticato la promessa! Non sapevano leggere i segni del momento, non avevano né occhi penetranti, né udito della Parola di Dio: soltanto avevano l’autorità!”:

“Quando nel popolo di Dio non c’è profezia, il vuoto che lascia quello viene occupato dal clericalismo: è proprio questo clericalismo che chiede a Gesù: ‘Con quale autorità fai tu queste cose? Con quale legalità?’. E la memoria della promessa e la speranza di andare avanti vengono ridotte soltanto al presente: né passato, né futuro speranzoso. Il presente è legale: se è legale vai avanti”.

Ma quando regna il legalismo, la Parola di Dio non c’è e il popolo di Dio che crede, piange nel suo cuore, perché non trova il Signore: gli manca la profezia. Piange “come piangeva la mamma Anna, la mamma di Samuele, chiedendo la fecondità del popolo, la fecondità che viene dalla forza di Dio, quando Lui ci risveglia la memoria della sua promessa e ci spinge verso il futuro, con la speranza. Questo è il profeta! Questo è l’uomo dall’occhio penetrante e che ode le parole di Dio”:

“La nostra preghiera in questi giorni, nei quali ci prepariamo al Natale del Signore, sia: ‘Signore, che non manchino i profeti nel tuo popolo!’. Tutti noi battezzati siamo profeti. ‘Signore, che non dimentichiamo la tua promessa! Che non ci stanchiamo di andare avanti! Che non ci chiudiamo nelle legalità che chiudono le porte! Signore, libera il tuo popolo dalla spirito del clericalismo e aiutalo con lo spirito di profezia’”.




ancora polemiche per il ‘campo sosta’ di Lucca

Al campo Rom altri 25mila euro, ma scoppia la polemica

Servizi sociali, in conferenza dei sindaci solo l’assessore di Altopascio vota contro

Andranno al campo nomadi di Lucca i 25mila euro residui di fondi regionali destinati alle Case della salute. La destinazione è stata decisa dal Comune di Lucca e approvata con il solo voto contrario di Elena Silvano, assessore comunale ad Altopascio con deleghe a servizi sociali, tutela della famiglia, integrazione, pari opportunità e sanità. Sul suo profilo Facebook, la Silvano ha reso pubblica la vicenda. «Situazioni familiari sempre più difficili. Ogni mattina — scrive — incontro persone che piangendo e con vergogna mi raccontano di sfratti, utenze sigillate e di non sapere come fare a fare la spesa. Il Comune c’è e c’è il volontariato ma non basta. Quasi sempre ci sono bambini in queste famiglie o persone anziane con la pensione minima che basta appena appena per mangiare e pagare le bollette. E poi mi chiedono perché in Conferenza dei sindaci ho votato contro (l’unica in rappresentanza di Altopascio) tra i Comuni della Piana all’utilizzo di un residuo di 25.000 euro di fondi da usare per la Piana di Lucca che il Comune di Lucca ha voluto fortemente destinare al campo Rom. Comprendo le ragioni di dignità umana ma in una situazione di emergenza come quella odierna in cui chi ha scelto l’Italia come luogo dove vivere, pagare le tasse e crescere la propria famiglia ha perso i punti di riferimento forse bisognerebbe cercare di dare una boccata di ossigeno prima a queste famiglie».

da ‘la Nazione’ del 16.12.2013




la rivolta ‘liquida’ dei ‘forconi’

‘forconi liquidi’

funerali

forcone

una acuta, arguta e appropriata riflessione di M. Serra (su l ‘amaca’ odierna) sulla protesta confusa, sbriciolata e anche sgangherata rappresentata dai ‘forconi’:

Si rassicurino i tutori dell’ordine repubblicano: nella famosa società liquida, è liquida anche la rivolta. A pochi giorni dalla nascita del movimento i capi dei Forconi (sedicenti o eterodiretti) già temono infiltrazioni, litigano, uno va a Roma l’altro per ripicca resta a Cadoneghe, uno caldeggia un golpe dei Carabinieri l’altro dice che anche i Carabinieri fanno parte della Casta, uno vuole uscire dall’Europa e un paio d’altri vogliono invaderla, uno ha votato Grillo un altro non è mai andato a votare un terzo si è soffiato il naso con la scheda. Uno gli hanno chiuso la fabbrica perché non pagava i contributi, un altro era un operaio che non gli pagavano i contributi. Uno piace al Giornale, l’altro al Fatto.
Uno vuole impiccare i banchieri ebrei, un altro anche i banchieri non ebrei.
Nemmeno l’ultrasinistra degli anni Settanta, divisa in una dozzina di partiti che al primo punto del programma avevano la distruzione degli altri undici, era così impreparata alla rivoluzione. Questo non muta di una virgola il malumore, la paura, la solitudine e la rabbia di qualche milione di italiani. Diciamo, però, che perfino per fare l’antipolitica un poco di politica aiuta.

Da La Repubblica del 17/12/2013.

 



M.Ovadia e la lezione dei grandi pacifisti: la violenza delle piazze

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una saggia riflessione di M. Ovadia sulla nostra attualità che vede nelle nostre piazze uno scatenarsi di violenza anche dura e gratuita come modo di risoluzione di problemi politici: la grande lezione che, attualissima, ci viene da Gandhi e Mandela:

La violenza delle piazze e la lezione di Gandhi e Mandela

di Moni Ovadia
in “l’Unità” del 14 dicembre 2013

L’esplosione di violenza, intesa come violenza «strictu sensu», ovvero quella fisica, incontrollata o apparentemente tale, lo scontro cercato con le Forze dell’Ordine, l’attacco distruttivo ai simboli del potere, all’indomani del loro manifestarsi, ricevono fiumi di esecrazione e di espressioni scandalizzate a carattere eminentemente retorico. È un rito consuetudinario, si sa. Ora, per essere chiari, io personalmente sono non solo politicamente contrario a tale forma di violenza, ma lo sono anche antropologicamente. Considero oltretutto che, alla fine, si riveli sempre essere un boomerang che si ritorce anche contro la migliore delle cause che cada nella trappola di servirsene. Porta con sé il rischio di coinvolgere, inutilmente, persone incolpevoli che si trovano per caso nel teatro della violenza stessa. Solo la rivolta contro un regime tirannico e liberticida giustifica una violenza insurrezionale per abbatterlo e dopo le grandi lezioni di Gandhi e di Nelson Mandela, anche questa opzione sbiadisce sullo sfondo di altre opzioni di lotta. Fatta questa premessa necessaria, è inevitabile porsi una domanda retorica ma cogente. Come mai tutti coloro che si scandalizzano tanto per la violenza che esplode nelle strade e nelle piazze, non hanno aperto bocca di fronte alle mille e più vili forme di violenza sotto i loro occhi quale la perdurante ingiustizia, ininterrottamente perpetrata contro i ceti più deboli, la violenza del privilegio, la violenza della privazione del lavoro, della sua dignità, la violenza della distruzione della dignità sociale e di quella personale con la riduzione della nobiltà del lavoratore a condizioni servili, massacranti e umilianti? La vasta parte del ceto politico, ha gozzovigliato con le risorse nazionali, le ha sprecate per favorire gli amici degli amici sottraendole alla ricchezza comune, ha passato interi anni a chiacchierare nei talk show prendendo solennemente impegni che non avrebbe mantenuto, ha raggirato gli elettori, ne ha ignorato la volontà con trucchi da mediocre prestidigitatore e si è esercitata nel più sconcio narcisismo mentre il Paese sprofondava nella polverizzazione sociale e il ceto medio si sgretolava dando la stura ad un pauroso incremento della disoccupazione e della sfiducia esistenziale. I sussiegosi stigmatizzatori della violenza di piazza, si sono guardati bene dal condannare la violenza dei grandi speculatori e delle banche che, con le loro azioni banditesche hanno generato la paurosa crisi che divora le nostre vite ed è grazie al marasma sociale creato da questi furfanti che nelle sacrosante ragioni della protesta, possono anche annidarsi fascisti e imbecilli che lanciano accuse sinistre sui banchieri, non in quanto tali, ma in quanto ebrei. Come se i banchieri non ebrei fossero invece dei benefattori. Ma per questa feccia di antisemitismo a Milano abbiamo un detto eloquente: «La razza dei pirla l’è mai finida».




il miglior saluto a Mandela: una riflessione di Boff

Boff

 

Il significato di Mandela per il futuro dell’umanità

nel giorno dei solenni funerali di Nelson Mandela, credo che saluto migliore non poteva arrivare da un altro grande uomo, L. Boff, che riflette sulla morte di Mandela il quale  “con la sua morte si è tuffato nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più, perché si è trasformato in un archetipo universale, di colui che non ha ottenuto giustizia, ma che non conserva rancore, che ha saputo perdonare, riconciliare i poli antagonisti e trasmetterci una incrollabile speranza che per l’essere umano si può ancora fare qualcosa”

Nelson Mandela, con la sua morte si è tuffato nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più, perché si è trasformato in un archetipo universale, di colui che non ha ottenuto giustizia, ma che non conserva rancore, che ha saputo perdonare, riconciliare i poli antagonisti e trasmetterci una incrollabile speranza che per l’essere umano si può ancora fare qualcosa.

Dopo aver passato 27 anni in prigione, eletto presidente del Sudafrica nel 1994, si propose e realizzò la grande sfida di trasformare una società strutturata secondo la suprema ingiustizia dell’apartheid che disumanizzava le grandi maggioranze nere del paese condannandole a essere non-persone, in una società unica, unita, senza discriminazioni, democratica e libera. E ci è riuscito perché aveva scelto il cammino della virtù, del perdono e della riconciliazione.

Perdonare non è dimenticare. Le piaghe restano lì, molte ancora aperte. Perdonare è non permettere che l’amarezza e lo spirito di vendetta abbiano l’ultima parola e stabiliscano la direzione della vita. Perdonare è liberare le persone dai lacci del passato, voltar pagina e cominciare a scriverne un’altra a quattro mani, di neri e di bianchi. La riconciliazione è possibile e reale soltanto quando c’è l’ammissione completa dei delitti da parte dei loro autori e la piena conoscenza degli atti da parte delle vittime. La pena dei criminali è la condanna morale davanti a tutta la società. Una soluzione di questo tipo, sicuramente originalissima, presuppone un concetto alieno dalla nostra cultura individualista: lo UBUNTU, che vuol dire: “io posso essere io solo attraverso te e con te”. Pertanto, senza un laccio permanente che ci tenga uniti tutti con tutti, la società starà, come la nostra, sotto il rischio di lacerazione e di conflitti senza fine.

Dovrà figurare nei manuali scolastici del mondo intero questa affermazione umanissima di Mandela: “io ho lottato contro la dominazione dei bianchi e ho lottato contro la dominazione dei neri. Io ho coltivato la speranza dell’ideale di una società democratica e libera, nella quale tutte le persone vivono insieme e in armonia e hanno opportunità uguali. È un ideale per il quale io spero di vivere e raggiungerlo. Ma, se necessario, è un ideale per il quale sono disposto a morire”.

Perché la vita e la saga di Mandela fondano una speranza nel futuro dell’umanità e della nostra civiltà? Perché siamo arrivati al nucleo centrale di un accumulo di crisi che può minacciare il nostro futuro come specie umana. Stiamo proprio nel pieno della sesta grande estinzione di massa.

Cosmologi (Brian Swim) e biologi (Edward Wilson) ci avvertono che, se le cose continuano come adesso, arriveremo verso l’anno 2030 al culmine di questo processo devastante. Questo vuol dire che la credenza persistente nel mondo intero, anche in Brasile, che la crescita economica materiale comporterebbe sviluppo sociale e culturale spirituale è un’illusione. Stiamo vivendo tempi di barbarie e senza speranza.

Cito l’insospettabile Samuel P. Huntington, antico assessore del Pentagono e analista perspicace del processo di globalizzazione, al termine del suo Lo scontro delle civiltà: “la legge e l’ordine sono il primo requisito di civiltà; in gran parte nel mondo essi sembrano stare evaporando; in una base mondiale, la civiltà appare, sotto molti aspetti, che stia cedendo davanti alla barbarie, generando l’immagine di un fenomeno senza precedenti, una Età delle Tenebre mondiale, che si abbatte sopra l’Umanità” (1997:409-410).

Aggiungo l’opinione del noto filosofo e scienziato politico Norberto Bobbio, che come Mandela credeva nei diritti umani e nella democrazia come valori per risovere il problema della violenza tra gli Stati e per una convivenza pacifica. Nella sua ultima intervista ha dichiarato: “Non saprei dire come sarà il Terzo Millennio. Le mie certezze cadono e soltanto un enorme punto interrogativo agita la mia mente: sarà il millennio della guerra di sterminio o della concordia tra gli esseri umani? Non ho possibilità di rispondere a questa indagine”.

Davanti a questi scenari bui, Mandela risponderebbe sicuramente sostenuto dalla sua esperienza politica: sì, è possibile che l’essere umano si concili con se stesso, e sovrapponga la sua dimensione di sapiens a quella di demens e inauguri una nuova forma di stare insieme nella stessa Casa.

Forse valgano le parole del suo grande amico, l’arcivescovo Desmond Tutu, che ha coordinato il processo di Verità e Riconciliazione: “ho affrontato faccia a faccia la bestia del passato, avendo chiesto e ricevuto il perdono, giriamo adesso pagina – non per dimenticare questo passato, ma per non permettere che ci tenga prigionieri per sempre.

Avanziamo in direzione di un futuro glorioso e di una nuova società in cui le persone valgano non in ragione dell’irrilevanza biologica o di altri strani attributi, ma perché sono persone di valore infinito, create a immagine di Dio”.

Questa lezione di speranza ci lascia Mandela: noi potremo ancora vivere se, senza discriminazioni, concretizzeremo di fatto l’Ubuntu.

Traduzione di Romano Baraglia




p.Maggi e p.Pagola commentano il vangelo

p. Maggi

 

III DOMENICA AVVENTO – 15 dicembre 2013

SEI TU COLUI CHE DEVE VENIRE O DOBBIAMO ASPETTARE UN ALTRO?

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi 

Mt 11,2-11

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Il vangelo di oggi ci riporta alla profonda crisi nella quale cadde Giovanni Battista. Lui, che pur aveva riconosciuto in Gesù il Messia, ora comincia a dubitarne. Perché? Giovanni Battista era l’erede di una spiritualità, di una tradizione, di una religiosità, che sperava in un popolo di giusti, come aveva profetato il profeta Isaia: il tuo popolo sarà tutto di giusti.
E rimane sconcertato dal comportamento di Gesù che afferma di non essere venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori. Lui aveva presentato un messia che avrebbe castigato peccatori e miscredenti e sente dire che Gesù non annunzia il castigo di Dio, ma l’amore di Dio proprio per queste categorie.
Allora Giovanni è in crisi e gli manda un ultimatum che ha tutto il sapore di una scomunica. “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?” Gesù nella sua risposta elenca le azioni del messia così come erano descritte nel libro del profeta Isaia, e sono sei azioni, corrispondenti ai sei giorni della creazione, coi quali si comunica vita ai chi vita non ce l’ha.
“I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la Buona Notizia”, ma Gesù censura l’ultima delle azioni del messia, la vendetta contro i pagani, la vendetta contro i dominatori.
Gesù non parla di vendette, ma parla soltanto di amore di Dio. Gesù non presenta il castigo di Dio, ma presenta una via di Dio, quella dell’amore, per far crescere tutte le persone. E c’è un monito di Gesù, che è attuale più che mai, “E beato colui che non trova in me motivo di scandalo!”
Cosa significa questo? Le persone del tempo tremavano naturalmente all’immagine del Dio presentato da Giovanni Battista, un Dio che punisce, un Dio che castiga, un Dio che si offende. Però era il Dio che loro conoscevano, per cui tremavano, ne avevano paura, ma non si scandalizzavano. Al contrario si scandalizzano del Dio di Gesù.
Le stesse persone che non si scandalizzavano sentendo parlare di un Dio terribile nelle sue vendette e nei suoi castighi, sono proprio quelle che si scandalizzano sentendo l’annunzio di Gesù di un Dio che ama tutti quanti indipendentemente dalla loro condotta e dal loro comportamento. Questo alle persone pie, alle persone religiose, di oggi come allora, porta sempre sconcerto. E’ intollerabile, inaccettabile, che Dio il suo amore lo riversi sugli uomini indipendentemente dai loro meriti o dal loro comportamento.
Bene, una volta che i discepoli di Giovanni se ne sono andati, Gesù elogia Giovanni di fronte alle folle. E lo fa con due paragoni importanti. Dice: “Cosa siete andati a vedere nel deserto?” Si tratta di Giovanni. “Una canna sbattuta dal vento?”, cioè un opportunista che si china ad ogni vento di potere, che si mette al servizio di ogni potente.
“Cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi del re”. Allora Gesù sta mettendo in guardia i suoi ascoltatori, Giovanni è l’inviato di Dio, ma gli inviati non possono essere degli opportunisti, sempre a galla con il potente di turno. Gli inviati di Dio non possono essere cortigiani, vivere al palazzo, mangiare alla mensa del potente, ma devono essere coloro che denunciano le nefandezze del potente.
E poi Gesù conclude dicendo che: “Fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel Regno dei cieli è più grande di lui”.
Cosa vuol dire Gesù con questa espressione? Come Mosè non è potuto entrare nella terra promessa pur avendo guidato il popolo, così Giovanni Battista ha annunziato il regno di Dio, ma non c’è potuto entrare perché è stato ucciso. Ecco qui la grandezza di Giovanni Battista, però quelli del Regno saranno ben più grandi di Giovanni, inviato di Dio.

 

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CURARE FERITE

commento di p. Pagola al brano evangelico di Mt 11, 2-11 della odierna domenica:

L’attuazione di Gesù lasciò sconcertato il Battista. Egli aspettava un Messia che avrebbe estirpato dal mondo il peccato imponendo il giudizio rigoroso di Dio, non un Messia affezionato a curare ferite ed alleviare sofferenze.

Dalla prigione di Maqueronte invia un messaggio a Gesù: “Sei tu quello che deve venire o dobbiamo sperare in un’altro?.” Gesù gli risponde con la sua vita di profeta curatore: “Raccontate a Giovanni quello che state vedendo e sentendo: i ciechi vedono e gli zoppi camminano; i lebbrosi guariscono ed i sordi sentono; i morti resuscitano ed ai poveri è annunciato loro la Buona Notizia”. Questo è il vero Messia: quello che viene ad alleviare la sofferenza, curare la vita ed aprire un orizzonte di speranza nei poveri.

Gesù si sente inviato da un Padre misericordioso che vuole per tutti un mondo più degno e felice. Per questo motivo, Lui si dedica a curare ferite, guarire dalle indisposizioni e liberare la vita. E Perciò chiede a tutti: “Siate compassionevoli come lo è vostro Padre.”
Gesù non si sente inviato da un Giudice rigoroso per giudicare i peccatori e condannare il mondo. Per questo motivo, egli non spaventa nessuno con gesti da giustiziere, ma offre ai peccatori e alle prostitute la sua amicizia ed il suo perdono. E quindi chiede a tutti: “Non giudicate e non sarete giudicati.”
Gesù non cura mai in maniera arbitraria o per puro sensazionalismo. Egli è mosso dalla compassione, e cerca di restaurare la vita di quelle genti malate, abbattute e distrutte. Queste persone sono le prime che devono sperimentare che Dio è amico di una vita degna e per questi motivi egli guarisce.
Gesù non insisté mai nel carattere prodigioso delle sue cure né pensò ad esse come ricetta facile per sopprimere quella sofferenza nel mondo. Presentò la sua attività curatrice come testimonianza per dimostrare ai suoi seguaci in che direzione bisogna agire per fare strade a quel progetto umanizzatore del Padre che egli stesso chiamava “regno di Dio.”
Il Papa Francesco afferma che “curare ferite” è un compito urgente: “Vedo con chiarezza che quello che la Chiesa necessita oggi è una capacità di curare ferite e dare calore, vicinanza e prossimità ai cuori…. Questa è in primo luogo la cosa: curare ferite, curare ferite”. Egli poi ci dice di “farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce e consola”. Parla anche di “camminare con le persone nella notte, saper dialogare e perfino discendere nella loro notte e nella loro oscurità senza perdersi.
Confidando la sua missione ai discepoli, Gesù non li immagina come dottori, gerarchi, liturgisti o teologi, bensì come curatori. Il loro compito sarà doppio: annunciare che il regno di Dio è vicino e curare malati.
Per questo motivo tu aiuta a curare ferite.

José Antonio Pagola




sul primo messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale della pace

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L’uomo dell’anno e delle carceri

così definisce papa Francesco L. Kocci in un articolo su ‘il Manifesto’ nel quale presenta il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale della pace evidenziando il superamento, rispetto ai due pontefici precedenti, della impostazione ‘ideologica’ dei valori irrinunciabili e di una valutazione fondamentalmente negativa della modernità, e la sottolineatura della dimensione concreta di attenzione alle povertà, compresa la drammatica situazione dei carcerati:

il manifesto”
13 dicembre 2013

Luca Kocci

 

Il primo messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della pace dell’1 gennaio è un discorso di taglio prevalentemente politico e saldamente ancorato alla Bibbia.

I tanti temi economico-sociali affrontati sono infatti posti all’attenzione soprattutto dei «poteri civili» e tutti interpretati con la chiave di lettura della «fraternità» («fondamento e via per la pace»), un’immagine a cui Bergoglio attribuisce forti connotati biblici ed evangelici. E alla politica è rivolto un appello perché agisca «in modo trasparente e responsabile», creando «un equilibrio fra libertà e giustizia» e «fra bene dei singoli e bene comune», rinunciando agli «interessi di parte» che si incuneano fra cittadini e istituzioni. Inoltre, in linea con la condotta comunicativa adottata finora, il papa da un lato conferma l’abbandono dei toni da crociata sui «principi non negoziabili» – onnipresenti nei messaggi di Ratzinger, che lo scorso anno, per esempio, identificò gli «operatori di pace» con gli oppositori della «liberalizzazione dell’aborto» e i difensori della «struttura naturale del matrimonio» –, dall’altro ribadisce la sfiducia nelle «etiche contemporanee», «incapaci di produrre vincoli autentici di fraternità», perché «priva del riferimento ad un Padre comune».

Fatta questa premessa, il messaggio riprende molti dei contenuti espressi da Bergoglio nel suo pontificato (9 mesi proprio oggi) e affronta una serie di nodi sociali. A partire dalla critica al neoliberismo, come aveva già fatto nella esortazione apostolicaEvangelii gaudium, dove aveva affermato che «questa economia uccide». E al suo corollario della «speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali». «Il succedersi delle crisi economiche – scrive Francesco nel messaggio per la Giornata della pace – deve portare agli opportuni ripensamenti dei modelli di sviluppo economico e a un cambiamento negli stili di vita». Livello politico, quindi, e livello personale. Si riduce la «povertà assoluta» ma aumenta la «povertà relativa, cioè le diseguaglianze tra persone e gruppi che convivono in una determinata regione o in un determinato contesto storico-culturale». Allora, chiede Bergoglio, sono necessarie politiche che riducano la «sperequazione del reddito» e «promuovano il principio della fraternità, assicurando alle persone, eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali, di accedere ai “capitali”, ai servizi, alle risorse educative, sanitarie, tecnologiche».

Alle guerre è dedicato uno dei passaggi centrali del messaggio del papa, che denuncia – come aveva già fatto nei giorni in cui la crisi siriana era all’apice – il ruolo fondamentale degli armamenti nella genesi e nello svolgimento dei conflitti. «Rinunciate alla via delle armi e andate incontro all’altro con il dialogo, il perdono e la riconciliazione per ricostruire la giustizia», scrive Bergoglio. «Tuttavia, finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione come quella attuale, si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità», per cui rilancio l’appello «in favore della non proliferazione delle armi e del disarmo».

La «fraternità» è avversata anche dalla «corruzione, oggi capillarmente diffusa», e dalle «organizzazioni criminali», «tanto più quando hanno connotazioni religiose». Bergoglio non lo dice esplicitamente, ma pare evidente il riferimento alle mafie di casa nostra, permeate di cattolicesimo persino nella loro simbologia. E da tanti altri mali sociali: la «devastazione delle risorse naturali», lo «sfruttamento del lavoro», la «prostituzione che ogni giorno miete vittime innocenti», il «traffico di esseri umani» – denunciata anche nel discorso rivolto ieri mattina ai nuovi ambasciatori presso la Santa sede –, la «tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente».

La conclusione del messaggio di Bergoglio, anche questo non è un tema nuovo, è per le «condizioni inumane di tante carceri, dove il detenuto è spesso ridotto in uno stato sub-umano e viene violato nella sua dignità di uomo, soffocato anche in ogni volontà ed espressione di riscatto». La Chiesa e il volontariato fanno molto, aggiunge il papa, ora tocca anche ai «poteri civili». Un viatico per la prossima marcia per l’amnistia, la giustizia, la libertà promossa dai Radicali il giorno di Natale che partirà proprio da San Pietro.




“necessità di maggiore giustizia”

Il Papa e l’appello alla politica
«Redistribuire reddito è dovere»

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Sono necessarie «politiche che servano ad attenuare una eccessiva sperequazione del reddito». Lo scrive il Papa in un passaggio del suo primo messaggio per la 47esima giornata mondiale della pace (primo gennaio) pubblicato oggi dal Vaticano con il titolo «Fraternità, fondamento e via per la pace».
 «Nella Caritas in veritate il mio Predecessore ricordava al mondo come la mancanza di fraternità tra i popoli e gli uomini sia una causa importante della povertà», scrive il Papa. Ma «se da un lato si riscontra una riduzione della povertà assoluta, dall`altro lato non possiamo non riconoscere una grave crescita della povertà relativa, cioè di diseguaglianze tra persone e gruppi che convivono in una determinata regione o in un determinato contesto storicoculturale. In tal senso – prosegue Bergoglio – servono anche politiche efficaci che promuovano il principio della fraternità, assicurando alle persone – eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali – di accedere ai “capitali”, ai servizi, alle risorse educative, sanitarie, tecnologiche affinché ciascuno abbia l`opportunità di esprimere e di realizzare il suo progetto di vita, e possa svilupparsi in pienezza come persona. Si ravvisa anche – sottolinea il Papa – la necessità di politiche che servano ad attenuare una eccessiva sperequazione del reddito. Non dobbiamo dimenticare l`insegnamento della Chiesa sulla cosiddetta ipoteca sociale, in base alla quale se è lecito, come dice san Tommaso d`Aquino, anzi necessario ‘che l`uomo abbia la proprietà dei benì, quanto all`uso, li ‘possiede non solo come propri, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altrì».Da Bergoglio è quindi arrivato un vero e proprio appello alla politica. 
«La fraternità genera pace sociale perché crea un equilibrio fra libertà e giustizia, fra responsabilità personale e solidarietà, fra bene dei singoli e bene comune – si legge ancora – Una comunità politica deve, allora, agire in modo trasparente e responsabile per favorire tutto ciò. I cittadini devono sentirsi rappresentati dai poteri pubblici nel rispetto della loro libertà. Invece, spesso, tra cittadino e istituzioni, si incuneano interessi di parte che deformano una tale relazione, propiziando la creazione di un clima perenne di conflitto»