“fraternità, fondamento e via per la pace”

papa Franc

 

 

messaggio del s. padre Francesco per la celebrazione della xlvii giornata mondiale della pace
1° gennaio 2014
Fraternità, fondamento e via per la pace 

1. In questo mio primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, desidero rivolgere a tutti, singoli e popoli, l’augurio di un’esistenza colma di gioia e di speranza. Nel cuore di ogni uomo e di ogni donna alberga, infatti, il desiderio di una vita piena, alla quale appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare.
Infatti, la fraternità è una dimensione essenziale dell’uomo, il quale è un essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura. E occorre subito ricordare che la fraternità si comincia ad imparare solitamente in seno alla famiglia, soprattutto grazie ai ruoli responsabili e complementari di tutti i suoi membri, in particolare del padre e della madre. La famiglia è la sorgente di ogni fraternità, e perciò è anche il fondamento e la via primaria della pace, poiché, per vocazione, dovrebbe contagiare il mondo con il suo amore.
Il numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri. Tale vocazione è però ancor oggi spesso contrastata e smentita nei fatti, in un mondo caratterizzato da quella “globalizzazione dell’indifferenza” che ci fa lentamente “abituare” alla sofferenza dell’altro, chiudendoci in noi stessi.
In tante parti del mondo, sembra non conoscere sosta la grave lesione dei diritti umani fondamentali, soprattutto del diritto alla vita e di quello alla libertà di religione. Il tragico fenomeno del traffico degli esseri umani, sulla cui vita e disperazione speculano persone senza scrupoli, ne rappresenta un inquietante esempio. Alle guerre fatte di scontri armati si aggiungono guerre meno visibili, ma non meno crudeli, che si combattono in campo economico e finanziario con mezzi altrettanto distruttivi di vite, di famiglie, di imprese.
La globalizzazione, come ha affermato Benedetto XVI , ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. [1] Inoltre, le molte situazioni di sperequazione, di povertà e di ingiustizia, segnalano non solo una profonda carenza di fraternità, ma anche l’assenza di una cultura della solidarietà. Le nuove ideologie, caratterizzate da diffuso individualismo, egocentrismo e consumismo materialistico, indeboliscono i legami sociali, alimentando quella mentalità dello “scarto”, che induce al disprezzo e all’abbandono dei più deboli, di coloro che vengono considerati “inutili”. Così la convivenza umana diventa sempre più simile a un mero d o u t d e s pragmatico ed egoista.
In pari tempo appare chiaro che anche le etiche contemporanee risultano incapaci di produrre vincoli autentici di fraternità, poiché una fraternità priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. [2] Una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una paternità trascendente. A partire dal riconoscimento di questa paternità, si consolida la fraternità tra gli uomini, ovvero quel farsi “prossimo” che si prende cura dell’altro.
«Dov’è tuo fratello?» ( Gen 4 , 9 )
2. Per comprendere meglio questa vocazione dell’uomo alla fraternità, per riconoscere più adeguatamente gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione e individuare le vie per il loro superamento, è fondamentale farsi guidare dalla conoscenza del disegno di Dio, quale è presentato in maniera eminente nella Sacra Scrittura.
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Secondo il racconto delle origini, tutti gli uomini derivano da genitori comuni, da Adamo ed Eva, coppia creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cfr G e n 1,26), da cui nascono Caino e Abele. Nella vicenda della famiglia primigenia leggiamo la genesi della società, l’evoluzione delle relazioni tra le persone e i popoli.
Abele è pastore, Caino è contadino. La loro identità profonda e, insieme, la loro vocazione, è quella di e s s e r e f r a t e lli , pur nella diversità della loro attività e cultura, del loro modo di rapportarsi con Dio e con il creato. Ma l’uccisione di Abele da parte di Caino attesta tragicamente il rigetto radicale della vocazione ad essere fratelli. La loro vicenda (cfr G e n 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro. Caino, non accettando la predilezione di Dio per Abele, che gli offriva il meglio del suo gregge – «il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» ( G e n 4,4-5) – uccide per invidia Abele. In questo modo rifiuta di riconoscersi fratello, di relazionarsi positivamente con lui, di vivere davanti a Dio, assumendo le proprie responsabilità di cura e di protezione dell’altro. Alla domanda «Dov’è tuo fratello?», con la quale Dio interpella Caino, chiedendogli conto del suo operato, egli risponde: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» ( G e n 4,9). Poi, ci dice la Genesi, «Caino si allontanò dal Signore» (4,16).
Occorre interrogarsi sui motivi profondi che hanno indotto Caino a misconoscere il vincolo di fraternità e, assieme, il vincolo di reciprocità e di comunione che lo legava a suo fratello Abele. Dio stesso denuncia e rimprovera a Caino una contiguità con il male: «il peccato è accovacciato alla tua porta» ( G e n 4,7). Caino, tuttavia, si rifiuta di opporsi al male e decide di alzare ugualmente la sua «mano contro il fratello Abele» ( G e n 4,8), disprezzando il progetto di Dio. Egli frustra così la sua originaria vocazione ad essere figlio di Dio e a vivere la fraternità.
Il racconto di Caino e Abele insegna che l’umanità porta inscritta in sé una vocazione alla fraternità, ma anche la possibilità drammatica del suo tradimento. Lo testimonia l’egoismo quotidiano, che è alla base di tante guerre e tante ingiustizie: molti uomini e donne muoiono infatti per mano di fratelli e di sorelle che non sanno riconoscersi tali, cioè come esseri fatti per la reciprocità, per la comunione e per il dono.
«E voi siete tutti fratelli» ( Mt 2 3 , 8 )
3. Sorge spontanea la domanda: gli uomini e le donne di questo mondo potranno mai corrispondere pienamente all’anelito di fraternità, impresso in loro da Dio Padre? Riusciranno con le loro sole forze a vincere l’indifferenza, l’egoismo e l’odio, ad accettare le legittime differenze che caratterizzano i fratelli e le sorelle?
Parafrasando le sue parole, potremmo così sintetizzare la risposta che ci dà il Signore Gesù: poiché vi è un solo Padre, che è Dio, voi siete tutti fratelli (cfr M t 23,8-9). La radice della fraternità è contenuta nella paternità di Dio. Non si tratta di una paternità generica, indistinta e storicamente inefficace, bensì dell’amore personale, puntuale e straordinariamente concreto di Dio per ciascun uomo (cfr M t 6,25-30). Una paternità, dunque, efficacemente generatrice di fraternità, perché l’amore di Dio, quando è accolto, diventa il più formidabile agente di trasformazione dell’esistenza e dei rapporti con l’altro, aprendo gli uomini alla solidarietà e alla condivisione operosa.
In particolare, la fraternità umana è rigenerata i n e d a Gesù Cristo con la sua morte e risurrezione. La croce è il “luogo” definitivo di f o n d a z i o n e della fraternità, che gli uomini non sono in grado di generare da soli. Gesù Cristo, che ha assunto la natura umana per redimerla, amando il Padre fino alla morte e alla morte di croce (cfr F il 2,8), mediante la sua risurrezione ci costituisce come u m a n i t à n u o v a , in piena comunione con la volontà di Dio, con il suo progetto, che comprende la piena realizzazione della vocazione alla fraternità.
Gesù riprende dal principio il progetto del Padre, riconoscendogli il primato su ogni cosa. Ma il Cristo, con il suo abbandono alla morte per amore del Padre, diventa p r i n c i p i o n u o v o e d e f i n i t i v o di tutti noi, chiamati a riconoscerci in Lui come fratelli perché f i g li dello stesso Padre. Egli è l’Alleanza stessa, lo spazio personale della riconciliazione dell’uomo con Dio e dei fratelli tra loro. Nella morte in croce di Gesù c’è anche il superamento della s e p a r a z i o n e tra popoli, tra il popolo dell’Alleanza e il popolo dei Gentili, privo di speranza perché fino a quel momento rimasto estraneo ai patti della Promessa. Come si legge nella Lettera agli Efesini, Gesù Cristo è colui che in sé riconcilia tutti gli uomini. Egli è la pace, poiché dei due popoli ne ha fatto uno solo, abbattendo il muro di separazione che li divideva, ovvero l’inimicizia. Egli ha creato in se stesso un solo popolo, un solo uomo nuovo, una sola nuova umanità (cfr 2,14-16).
Chi accetta la vita di Cristo e vive in Lui, riconosce Dio come Padre e a Lui dona totalmente se stesso, amandolo sopra ogni cosa. L’uomo riconciliato vede in Dio il Padre di tutti e, per conseguenza, è sollecitato a vivere una fraternità aperta a tutti. In Cristo, l’altro è accolto e amato come figlio o figlia di Dio, come fratello o sorella, non come un estraneo, tantomeno come un antagonista o addirittura un nemico. Nella famiglia di Dio, dove tutti sono figli di uno stesso Padre, e perché innestati in Cristo, f i g li n e l F i g li o , non vi sono “vite di scarto”. Tutti godono di un’eguale ed intangibile dignità. Tutti sono amati da Dio, tutti sono stati riscattati dal sangue di Cristo,
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morto in croce e risorto per ognuno. È questa la ragione per cui non si può rimanere indifferenti davanti alla sorte dei fratelli.
L a f r a t e r n i t à , f o n d a m e n t o e v i a p e r l a p a c e
4. Ciò premesso, è facile comprendere che la fraternità è f o n d a m e n t o e v i a per la pace. Le Encicliche sociali dei miei Predecessori offrono un valido aiuto in tal senso. Sarebbe sufficiente rifarsi alle definizioni di pace della P o p u l o r u m p r o g r e s s i o di Paolo VI o della S o lli c i t u d o r e i s o c i a li s di Giovanni Paolo II . Dalla prima ricaviamo che lo sviluppo integrale dei popoli è il nuovo nome della pace. [3] Dalla seconda, che la pace è o p u s s o li d a r i t a t i s .[4]
Paolo VI afferma che non soltanto le persone, ma anche le Nazioni debbono incontrarsi in uno spirito di fraternità. E spiega: «In questa comprensione e amicizia vicendevoli, in questa comunione sacra noi dobbiamo […] lavorare assieme per edificare l’avvenire comune dell’umanità».[5] Questo dovere riguarda in primo luogo i più favoriti. I loro obblighi sono radicati nella fraternità umana e soprannaturale e si presentano sotto un triplice aspetto: il d o v e r e d i s o li d a r i e t à , che esige che le Nazioni ricche aiutino quelle meno progredite; il d o v e r e d i g i u s t i z i a s o c i a l e , che richiede il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni difettose tra popoli forti e popoli deboli; il d o v e r e d i c a r i t à u n i v e r s a l e , che implica la promozione di un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri. [6]
Così, se si considera la pace come o p u s s o li d a r i t a t i s , allo stesso modo, non si può pensare che la fraternità non ne sia il fondamento precipuo. La pace, afferma Giovanni Paolo II , è un bene indivisibile. O è bene di tutti o non lo è di nessuno. Essa può essere realmente conquistata e fruita, come miglior qualità della vita e come sviluppo più umano e sostenibile, solo se si attiva, da parte di tutti, «una determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune»[7] . Ciò implica di non farsi guidare dalla «brama del profitto» e dalla «sete del potere». Occorre avere la disponibilità a «“perdersi” a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto. […] L’“altro” – persona, popolo o Nazione – [non va visto] come uno strumento qualsiasi, per sfruttare a basso costo la sua capacità di lavoro e la resistenza fisica, abbandonandolo poi quando non serve più, ma come un nostro “simile”, un “aiuto”».[8]
La s o li d a r i e t à c r i s t i a n a presuppone che il prossimo sia amato non solo come «un essere umano con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma [come] v i v a i m m a g i n e di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo»[9] , come un altro f r a t e ll o . «Allora la coscienza della paternità comune di Dio, della fraternità di tutti gli uomini in Cristo, “figli nel Figlio”, della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà – rammenta Giovanni Paolo II – al nostro sguardo sul mondo come un n u o v o c r i t e r i o per interpretarlo»,[10] per trasformarlo.
F r a t e r n i t à , p r e m e s s a p e r s c o n f i g g e r e l a p o v e r t à
5.
Nella C a r i t a s i n v e r i t a t e il mio Predecessore ricordava al mondo
come la mancanza di f r a t e r n i t à tra i popoli e
gli uomini sia una causa importante della p o v e r t à .[11] In molte società sperimentiamo una profonda p o v e r t à r e l a z i o n a l e dovuta alla carenza di solide relazioni familiari e comunitarie. Assistiamo con preoccupazione alla crescita di diversi tipi di disagio, di emarginazione, di solitudine e di varie forme di dipendenza patologica. Una simile povertà può essere superata solo attraverso la riscoperta e la valorizzazione di rapporti f r a t e r n i in seno alle famiglie e alle comunità, attraverso la condivisione delle gioie e dei dolori, delle difficoltà e dei successi che accompagnano la vita delle persone.
Inoltre, se da un lato si riscontra una riduzione della p o v e r t à a s s o l u t a , dall’altro lato non possiamo non riconoscere una grave crescita della p o v e r t à r e l a t i v a , cioè di diseguaglianze tra persone e gruppi che convivono in una determinata regione o in un determinato contesto storico-culturale. In tal senso, servono anche politiche efficaci che promuovano il principio della f r a t e r n i t à , assicurando alle persone – eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali – di accedere ai “capitali”, ai servizi, alle risorse educative, sanitarie, tecnologiche affinché ciascuno abbia l’opportunità di esprimere e di realizzare il suo progetto di vita, e possa svilupparsi in pienezza come persona.
Si ravvisa anche la necessità di politiche che servano ad attenuare una eccessiva sperequazione del reddito. Non dobbiamo dimenticare l’insegnamento della Chiesa sulla cosiddetta i p o t e c a s o c i a l e , in base alla quale se è lecito, come dice san Tommaso d’Aquino, anzi necessario «che l’uomo abbia la proprietà dei beni»[12] , quanto all’uso, li «possiede non solo come propri, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri»[13] .
Infine, vi è un ulteriore modo di promuovere la fraternità – e così sconfiggere la povertà – che dev’essere alla base di tutti gli altri. È il distacco di chi sceglie di vivere stili di vita sobri ed essenziali, di chi, condividendo le
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proprie ricchezze, riesce così a sperimentare la comunione fraterna con gli altri. Ciò è fondamentale per seguire Gesù Cristo ed essere veramente cristiani. È il caso non solo delle persone consacrate che professano voto di povertà, ma anche di tante famiglie e tanti cittadini responsabili, che credono fermamente che sia la relazione fraterna con il prossimo a costituire il bene più prezioso.
L a r i s c o p e r t a d e ll a f r a t e r n i t à n e ll’ e c o n o m i a
6. Le gravi crisi finanziarie ed economiche contemporanee – che trovano la loro origine nel progressivo allontanamento dell’uomo da Dio e dal prossimo, nella ricerca avida di beni materiali, da un lato, e nel depauperamento delle relazioni interpersonali e comunitarie dall’altro – hanno spinto molti a ricercare la soddisfazione, la felicità e la sicurezza nel consumo e nel guadagno oltre ogni logica di una sana economia. Già nel 1979 Giovanni Paolo II avvertiva l’esistenza di «un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale». [14]
Il succedersi delle crisi economiche deve portare agli opportuni ripensamenti dei modelli di sviluppo economico e a un cambiamento negli stili di vita. La crisi odierna, pur con il suo grave retaggio per la vita delle persone, può essere anche un’occasione propizia per recuperare le virtù della prudenza, della temperanza, della giustizia e della fortezza. Esse ci possono aiutare a superare i momenti difficili e a riscoprire i vincoli fraterni che ci legano gli uni agli altri, nella fiducia profonda che l’uomo ha bisogno ed è capace di qualcosa in più rispetto alla massimizzazione del proprio interesse individuale. Soprattutto tali virtù sono necessarie per costruire e mantenere una società a misura della dignità umana.
L a f r a t e r n i t à s p e g n e l a g u e r r a
7. Nell’anno trascorso, molti nostri fratelli e sorelle hanno continuato a vivere l’esperienza dilaniante della guerra, che costituisce una grave e profonda ferita inferta alla fraternità.
Molti sono i conflitti che si consumano nell’indifferenza generale. A tutti coloro che vivono in terre in cui le armi impongono terrore e distruzioni, assicuro la mia personale vicinanza e quella di tutta la Chiesa. Quest’ultima ha per missione di portare la carità di Cristo anche alle vittime inermi delle guerre dimenticate, attraverso la preghiera per la pace, il servizio ai feriti, agli affamati, ai rifugiati, agli sfollati e a quanti vivono nella paura. La Chiesa alza altresì la sua voce per far giungere ai responsabili il grido di dolore di quest’umanità sofferente e per far cessare, insieme alle ostilità, ogni sopruso e violazione dei diritti fondamentali dell’uomo [15] .
Per questo motivo desidero rivolgere un forte appello a quanti con le armi seminano violenza e morte: riscoprite in colui che oggi considerate solo un nemico da abbattere il vostro fratello e fermate la vostra mano! Rinunciate alla via delle armi e andate incontro all’altro con il dialogo, il perdono e la riconciliazione per ricostruire la giustizia, la fiducia e la speranza intorno a voi! «In quest’ottica, appare chiaro che nella vita dei popoli i conflitti armati costituiscono sempre la deliberata negazione di ogni possibile concordia internazionale, creando divisioni profonde e laceranti ferite che richiedono molti anni per rimarginarsi. Le guerre costituiscono il rifiuto pratico a impegnarsi per raggiungere quelle grandi mete economiche e sociali che la comunità internazionale si è data»[16] .
Tuttavia, finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione come quella attuale, si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità. Per questo faccio mio l’appello dei miei Predecessori in favore della non proliferazione delle armi e del disarmo da parte di tutti, a cominciare dal disarmo nucleare e chimico.
Non possiamo però non constatare che gli accordi internazionali e le leggi nazionali, pur essendo necessari ed altamente auspicabili, non sono sufficienti da soli a porre l’umanità al riparo dal rischio dei conflitti armati. È necessaria una conversione dei cuori che permetta a ciascuno di riconoscere nell’altro un fratello di cui prendersi cura, con il quale lavorare insieme per costruire una vita in pienezza per tutti. È questo lo spirito che anima molte delle iniziative della società civile, incluse le organizzazioni religiose, in favore della pace. Mi auguro che l’impegno quotidiano di tutti continui a portare frutto e che si possa anche giungere all’effettiva applicazione nel diritto internazionale del diritto alla pace, quale diritto umano fondamentale, pre-condizione necessaria per l’esercizio di tutti gli altri diritti.
La corruzione e il crimine organizzato avversano la f r a t e r n i t à
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8. L’orizzonte della fraternità rimanda alla crescita in pienezza di ogni uomo e donna. Le giuste ambizioni di una persona, soprattutto se giovane, non vanno frustrate e offese, non va rubata la speranza di poterle realizzare. Tuttavia, l’ambizione non va confusa con la prevaricazione. Al contrario, occorre gareggiare nello stimarsi a vicenda (cfr R m 12,10). Anche nelle dispute, che costituiscono un aspetto ineliminabile della vita, bisogna sempre ricordarsi di essere fratelli e perciò educare ed educarsi a non considerare il prossimo come un nemico o come un avversario da eliminare.
La fraternità genera pace sociale perché crea un equilibrio fra libertà e giustizia, fra responsabilità personale e solidarietà, fra bene dei singoli e bene comune. Una comunità politica deve, allora, agire in modo trasparente e responsabile per favorire tutto ciò. I cittadini devono sentirsi rappresentati dai poteri pubblici nel rispetto della loro libertà. Invece, spesso, tra cittadino e istituzioni, si incuneano interessi di parte che deformano una tale relazione, propiziando la creazione di un clima perenne di conflitto.
Un autentico spirito di fraternità vince l’egoismo individuale che contrasta la possibilità delle persone di vivere in libertà e in armonia tra di loro. Tale egoismo si sviluppa socialmente sia nelle molte forme di corruzione, oggi così capillarmente diffuse, sia nella formazione delle organizzazioni criminali, dai piccoli gruppi a quelli organizzati su scala globale, che, logorando in profondità la legalità e la giustizia, colpiscono al cuore la dignità della persona. Queste organizzazioni offendono gravemente Dio, nuocciono ai fratelli e danneggiano il creato, tanto più quando hanno connotazioni religiose.
Penso al dramma lacerante della droga, sulla quale si lucra in spregio a leggi morali e civili; alla devastazione delle risorse naturali e all’inquinamento in atto; alla tragedia dello sfruttamento del lavoro; penso ai traffici illeciti di denaro come alla speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali, esponendo alla povertà milioni di uomini e donne; penso alla prostituzione che ogni giorno miete vittime innocenti, soprattutto tra i più giovani rubando loro il futuro; penso all’abominio del traffico di esseri umani, ai reati e agli abusi contro i minori, alla schiavitù che ancora diffonde il suo orrore in tante parti del mondo, alla tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente nell’illegalità. Scrisse al riguardo Giovanni XXIII : «Una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana. In essa infatti è inevitabile che le persone siano coartate o compresse, invece di essere facilitate e stimolate a sviluppare e perfezionare se stesse»[17] . L’uomo, però, si può convertire e non bisogna mai disperare della possibilità di cambiare vita. Desidererei che questo fosse un messaggio di fiducia per tutti, anche per coloro che hanno commesso crimini efferati, poiché Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr E z 18,23) .
Nel contesto ampio della socialità umana, guardando al delitto e alla pena, viene anche da pensare alle condizioni inumane di tante carceri, dove il detenuto è spesso ridotto in uno stato sub-umano e viene violato nella sua dignità di uomo, soffocato anche in ogni volontà ed espressione di riscatto. La Chiesa fa molto in tutti questi ambiti, il più delle volte nel silenzio. Esorto ed incoraggio a fare sempre di più, nella speranza che tali azioni messe in campo da tanti uomini e donne coraggiosi possano essere sempre più sostenute lealmente e onestamente anche dai poteri civili.
La fraternità aiuta a custodire e a coltivare la na t u r a
9. La famiglia umana ha ricevuto dal Creatore un dono in comune: la natura. La visione cristiana della creazione comporta un giudizio positivo sulla liceità degli interventi sulla natura per trarne beneficio, a patto di agire responsabilmente, cioè riconoscendone quella “grammatica” che è in essa inscritta ed usando saggiamente le risorse a vantaggio di tutti, rispettando la bellezza, la finalità e l’utilità dei singoli esseri viventi e la loro funzione nell’ecosistema. Insomma, la natura è a nostra disposizione, e noi siamo chiamati ad amministrarla responsabilmente. Invece, siamo spesso guidati dall’avidità, dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non custodiamo la natura, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito di cui avere cura e da mettere a servizio dei fratelli, comprese le generazioni future.
In particolare, il s e t t o r e a g r i c o l o è il settore produttivo primario con la vitale vocazione di coltivare e custodire le risorse naturali per nutrire l’umanità. A tale riguardo, la persistente vergogna della fame nel mondo mi incita a condividere con voi la domanda: i n c h e m o d o u s i a m o l e r i s o r s e d e ll a t e r r a ? Le società odierne devono riflettere sulla gerarchia delle priorità a cui si destina la produzione. Difatti, è un dovere cogente che si utilizzino le risorse della terra in modo che tutti siano liberi dalla fame. Le iniziative e le soluzioni possibili sono tante e non si limitano all’aumento della produzione. E’ risaputo che quella attuale è sufficiente, eppure ci sono milioni di persone che soffrono e muoiono di fame e ciò costituisce un vero scandalo. È necessario allora trovare i modi affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra, non soltanto per evitare che si allarghi il divario tra chi più ha e chi deve accontentarsi delle briciole, ma anche e soprattutto per un’esigenza di giustizia e di equità e di rispetto verso ogni essere umano. In tal senso, vorrei richiamare a tutti quella necessaria d e s t i n a z i o n e u n i v e r s a l e d e i b e n i che è uno dei principi-cardine della dottrina sociale della Chiesa. Rispettare tale principio è la condizione essenziale per consentire un fattivo ed equo accesso a quei beni essenziali e primari di cui ogni uomo ha bisogno e diritto.
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C o n c l u s i o n e
10. La fraternità ha bisogno di essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata. Ma è solo l’amore donato da Dio che ci consente di accogliere e di vivere pienamente la fraternità.
Il necessario realismo della politica e dell’economia non può ridursi ad un tecnicismo privo di idealità, che ignora la dimensione trascendente dell’uomo. Quando manca questa apertura a Dio, ogni attività umana diventa più povera e le persone vengono ridotte a oggetti da sfruttare. Solo se accettano di muoversi nell’ampio spazio assicurato da questa apertura a Colui che ama ogni uomo e ogni donna, la politica e l’economia riusciranno a strutturarsi sulla base di un autentico spirito di carità fraterna e potranno essere strumento efficace di sviluppo umano integrale e di pace.
Noi cristiani crediamo che nella Chiesa siamo membra gli uni degli altri, tutti reciprocamente necessari, perché ad ognuno di noi è stata data una grazia secondo la misura del dono di Cristo, per l’utilità comune (cfr E f 4,7.25; 1 C o r 12,7). Cristo è venuto nel mondo per portarci la grazia divina, cioè la possibilità di partecipare alla sua vita. Ciò comporta tessere una relazionalità fraterna, improntata alla reciprocità, al perdono, al dono totale di sé, secondo l’ampiezza e la profondità dell’amore di Dio, offerto all’umanità da Colui che, crocifisso e risorto, attira tutti a sé: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» ( G v 13,34-35). È questa la buona novella che richiede ad ognuno un passo in più, un esercizio perenne di empatia, di ascolto della sofferenza e della speranza dell’altro, anche del più lontano da me, incamminandosi sulla strada esigente di quell’amore che sa donarsi e spendersi con gratuità per il bene di ogni fratello e sorella.
Cristo abbraccia tutto l’uomo e vuole che nessuno si perda. «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» ( G v 3,17). Lo fa senza opprimere, senza costringere nessuno ad aprirgli le porte del suo cuore e della sua mente. «Chi fra voi è il più grande diventi come il più piccolo e chi governa diventi come quello che serve» – dice Gesù Cristo – «io sono in mezzo a voi come uno che serve» ( L c 22,26-27). Ogni attività deve essere, allora, contrassegnata da un atteggiamento di servizio alle persone, specialmente quelle più lontane e sconosciute. Il servizio è l’anima di quella fraternità che edifica la pace.
Maria, la Madre di Gesù, ci aiuti a comprendere e a vivere tutti i giorni la fraternità che sgorga dal cuore del suo Figlio, per portare pace ad ogni uomo su questa nostra amata terra.
D a l V a t i c a n o , 8 d i c e m b r e 2 0 1 3
FRANCISCUS

[1] Cfr Lett. enc. C a r i t a s i n v e r i t a t e (29 giugno 2009), 19: A A S 101 (2009), 654-655.
[2] Cfr Francesco , Lett. enc. L u m e n f i d e i (29 giugno 2013), 54: A A S 105 (2013), 591-592.
[3] Cfr Paolo VI , Lett. enc. P o p u l o r u m p r o g r e s s i o (26 marzo 1967), 87: A A S 59 (1967), 299.
[4] Cfr Giovanni Paolo II , Lett. enc. S o lli c i t u d o r e i s o c i a li s (30 dicembre 1987), 39: A A S 80 (1988), 566-568.
[5] Lett. enc. P o p u l o r u m p r o g r e s s i o (26 marzo 1967), 43: A A S 59 (1967), 278-279).
[6] Cfr i b i d . , 44: A A S 59 (1967), 279.
[7] Lett. enc. S o lli c i t u d o r e i s o c i a li s (30 dicembre 1987), 38: A A S 80 (1988), 566.
[8] I b i d . , 38-39: A A S 80 (1988), 566-567.
[9] I b i d . , 40: A A S 80 (1988), 569.
[10] I b i d .
[11] Cfr Lett. enc. C a r i t a s i n v e r i t a t e (29 giugno 2009), 19: A A S 101 (2009), 654-655.
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[12] S u m m a T h e o l o g i a e II-II, q. 66, art. 2.
[13] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo G a u d i u m e t s p e s , 69. Cfr Leone XIII , Lett. enc. R e r u m n o v a r u m (15 maggio 1891), 19: A S S 23 (1890-1891), 651; Giovanni Paolo II , Lett. enc. S o lli c i t u d o r e i s o c i a li s (30 dicembre 1987), 42: A A S 80 (1988), 573-574; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace , C o m p e n d i o d e ll a D o t t r i n a s o c i a l e d e ll a C h i e s a , n. 178 .
[14] Lett. enc. R e d e m p t o r h o m i n i s (4 marzo 1979), 16: A A S 61 (1979), 290.
[15] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace , C o m p e n d i o d e ll a D o t t r i n a s o c i a l e d e ll a C h i e s a , n. 159 .
[16] Francesco , L e t t e r a a l P r e s i d e n t e P u t i n , 4 settembre 2013: L ’ O s s e r v a t o r e R o m a n o , 6 settembre 2013, p. 1.
[17] Lett. enc. P a c e m i n t e r r i s (11 aprile 1963), 17: A A S 55 (1963), 265.
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“la fame nel mondo è scandalosa”

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anche di fronte al problema della fame nel mondo l’approccio di papa Francesco è originale e innovativo rispetto a quello del magistero precedente:«Non possiamo girare la testa dall’altra parte e fare finta che questo non esista, (…) invito tutti noi a diventare più consapevoli delle nostre scelte alimentari che spesso comportano spreco di cibo e cattivo uso delle risorse a nostra disposizione». La prospettiva viene ribaltata. La fame non è un accidente della storia, quanto piuttosto un prodotto funzionale al sistema alimentare e produttivo in cui ognuno di noi gioca un ruolo e ha una parte. La svolta è radicale, non si mette più al centro solo l’aiuto che i ricchi fortunati devono per spirito di carità ai fratelli più sfortunati. Al contrario, Francesco dice chiaramente che noi, con il nostro stile di vita, siamo parte del problema e non solo della soluzione

così il bell’articolo di C. Pertini:

 

Il diritto al cibo

di Carlo Petrini
in “la Repubblica” del 11 dicembre 2013

C’è qualcosa di nuovo da dire a proposito della fame nel mondo? Qualcosa che non sia ancora stato detto. C’è. O meglio c’era. Ed è quel che ha detto lunedì Papa Francesco, portando all’attenzione di una politica, e probabilmente anche di una chiesa, avvitate su se stesse, una situazione planetaria che non è tollerabile: il fatto che quasi un miliardo di persone nel mondo sia malnutrita o soffra la fame non è una questione di sfortuna o di destino, è una questione di scelte e di responsabilità. In un videomessaggio registrato in occasione del lancio della nuova campagna della Caritas Internationalis contro la fame, il Pontefice ha richiamato l’attenzione del mondo su quello che ha chiamato «lo scandalo mondiale » della morte per fame. La fame non è certo un tema nuovo per il mondo cattolico e per i papi, ma è nuovo l’atteggiamento che emerge dalle parole di Francesco: «Non possiamo girare la testa dall’altra parte e fare finta che questo non esista, (…) invito tutti noi a diventare più consapevoli delle nostre scelte alimentari che spesso comportano spreco di cibo e cattivo uso delle risorse a nostra disposizione». La prospettiva viene ribaltata. La fame non è un accidente della storia, quanto piuttosto un prodotto funzionale al sistema alimentare e produttivo in cui ognuno di noi gioca un ruolo e ha una parte. La svolta è radicale, non si mette più al centro solo l’aiuto che i ricchi fortunati devono per spirito di carità ai fratelli più sfortunati. Al contrario, Francesco dice chiaramente che noi, con il nostro stile di vita, siamo parte del problema e non solo della soluzione. Il messaggio del Papa è arrivato nel momento in cui mezzo mondo si stava predisponendo a partecipare alle esequie di una delle figure più imponenti della modernità, Nelson Mandela, proprio nel continente in cui oggi si concentra la maggioranza degli affamati. Se Mandela è riuscito a vedere il suo continente liberato dalla vergogna dell’apartheid e dal colonialismo (almeno quello istituzionalizzato), non è tuttavia riuscito a vedere gli abitanti di quel continente liberi dalla fame. In un passaggio del suo messaggio Francesco dice: «Il cibo basterebbe a sfamare tutti» e «se c’è la volontà quello che abbiamo non finisce». Questo è il punto, la fame è una vergogna risolvibile, cancellabile dalla storia in tempi ragionevoli. Manca la volontà politica, e noi cittadini, associazioni, organizzazioni, partiti, movimenti, dobbiamo essere la massa critica che mette in moto il processo. Per il popolo ebraico le due calamità per eccellenza erano la fame e la schiavitù. Ecco, per sconfiggere definitivamente la schiavitù, almeno quella legalizzata, abbiamo dovuto aspettare secoli, e addirittura abbiamo attraversato periodi in cui l’umanità ha vissuto senza battere ciglio palesi contraddizioni. Basti pensare alla Costituzione Americana, stilata nel 1787, due anni prima della rivoluzione francese. Veniva sancita l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma per quasi un secolo, in contemporanea alla vigenza di quella Costituzione, negli stati del sud la schiavitù era non solo accettata ma addirittura normata. L’ultimo stato al mondo ad abolirla dal proprio codice è stata la Mauritania, nel 1980, più di due secoli dopo la nascita del movimento abolizionista. La fame sta seguendo un percorso simile. Francesco parla del «diritto dato da Dio a tutti di avere accesso a un’alimentazione adeguata». Aggiungo che anche il diritto degli uomini sancisce questo punto fermo. Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 si dice «ognuno ha il diritto a uno standard di vita adeguato per la salute e il benessere propri e della propria famiglia, incluso il cibo…», mentre nella Dichiarazione di Roma sulla Sicurezza Alimentare Mondiale del 1996 si fa un passo in più affermando «… il diritto di ogni persona ad avere accesso ad alimenti sani e nutrienti, in accordo con il diritto ad una alimentazione appropriata e con il diritto fondamentale di ogni essere umano di non soffrire la fame». Nessuno mette in discussione queste formulazioni, eppure tutti quanti conviviamo con la consapevolezza dell’esistenza di un miliardo di malnutriti. Il messaggio del Papa è una sollecitazione morale straordinaria, e andrebbe inserito in un dibattito politico che sembra aver dimenticato la centralità del cibo. L’obiettivo della sconfitta della fame
deve essere assunto come prioritario da ognuno di noi non solo per fratellanza universale, quanto piuttosto per il proprio benessere personale. Non possiamo essere felici se non lo sono anche gli altri, per cui fino a che non si riuscirà a cancellare questa vergogna non potremo dirci compiutamente realizzati. Se una fetta così grande della “grande famiglia umana” non ha accesso al cibo significa che noi non stiamo adempiendo al nostro dovere di fratelli. Il Pontefice parla dell’importanza del cibo nel messaggio cristiano e porta l’esempio della parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci. In quell’occasione, messo al corrente della moltitudine di persone affamate convenute per ascoltarlo, Gesù non esita e manda immediatamente i suoi discepoli a cercare cibo per tutti. Ecco il punto: senza cibo non c’è parola di salvezza che tenga. Oggi non è pensabile immaginare futuri possibili, vie d’uscita dalla crisi mondiale, nuovi paradigmi di convivenza, se un miliardo di persone non mangia. Per questo il messaggio di Francesco è un messaggio di liberazione. Dobbiamo scrollarci di dosso la ruggine delle nostre questioni di piccolo cabotaggio politico per volare alto e per affrontare sfide davvero epocali e centrali. Questo sistema alimentare mostra ogni giorno i suoi lati oscuri, da qualunque punto di vista lo si guardi. Ai morti per fame si contrappongono gli obesi, ai malnutriti gli ipernutriti, con la differenza che gli affamati e i malnutriti non sono artefici delle proprie scelte alimentari ma subiscono la violenza del sistema.




il saluto di D. Tutu a Mandela

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“Il mio Madiba non c’è più”

il vescovo Desmon Tutu dà il suo caloroso e affettuoso e commosso saluto all’amico e costruttore, con lui, del nuovo’ Sud Africa:

Non riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.

Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura.

Mandela superò le aspettative.

Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco. Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.

Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.

Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.

Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.

Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?

Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.

Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.

Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.

Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.

 

in “la Repubblica” del 7 dicembre 2013




Obama stringe la mano a Castro

 

Mandela

IL PRESIDENTE USA A SOWETO RICORDA L’INSEGNAMENTO DI PACE DEL MADIBA E SALUTA IL LÌDER CUBANO

 

 

Il cielo sopra Soweto piange e i sudafricani ballano nella commozione del ricordo di Madiba. Tutto il mondo era riunito ieri nello stadio della township nera simbolo dell’apartheid e del riscatto sudafricano. Un centinaio di capi di Stato, di governo, e di vip all’asciutto nelle tribune, e gente comune con gli ombrelli aperti sulle gradinate in rappresentanza del popolo orfano del padre della loro nuova patria. Lo spirito di riconciliazione aleggia sullo stadio, si condensa nelle parole di Obama – il più incitato dalla folla: il più fischiato è stato il presidente padrone di casa Zuma – che parla dell’“ultimo gigante della Storia dal quale prendere esempio” e, passando dalle parole ai fatti, arriva spedito in tribuna e stinge la mano a Raul Castro, il presidente cubano. Mezzo secolo di crisi, scaramucce e incomprensioni, una cortina di astio reciproco – ultimo arnese ideologico della Guerra fredda – distesa nel tratto di mare che separa Stati Uniti e Cuba sollevata da un gesto di distensione. 

Davanti a una platea che più internazionale non si può – presidenti ed ex presidenti uno accanto all’altro, imbarazzanti impresentabili nel consesso mondiale con lasciapassare una tantum vista l’eccezionalità del-l’evento: c’era anche l’ottuagenario dittatore dello Zimbabwe Mugabe – Obama rende storica, ma allo stesso tempo offusca, la cerimonia per Mandela, rubando la scena al Madiba con una stretta di mano in suo nome, e dando anche un bacio a Dilma Rousseff, la presidenta brasiliana arrabbiata con la casa Bianca per lo spionaggio compiuto contro di lei dall’Nsa di Washington. Poi, quasi ebbro per il momento storico di gloria, Obama fotografa con l’autoscatto del cellulare il suo largo sorriso accanto alla premier danese e a quello britannico Cameron, sotto lo sguardo severo della moglie Michelle e poi quello scandalizzato di mezzo mondo che su Internet vede l’immagine del presidente ridanciano.

Tutt’intorno a quell’evento che fa dell’ovale di Soweto (dove avvenne l’ultima apparizione tra la folla di Mandela nel 2010) l’ombelico del mondo, il popolo sudafricano balla e canta il ricordo del suo uomo-simbolo. Preso talmente a esempio che anche il presidente del Consiglio italiano si lascia contagiare dalla retorica globale da utilizzare la figura e le gesta di Mandela come lezione per l’Europa: “Venendo qui si capisce che o l’Europa si unisce o l’Europa non conta niente. È un’impressione che da qui oggi rimando a casa in Europa. Una impressione sulla quale dobbiamo assolutamente riflettere”.

Le esequie di Mandela proseguiranno fino al fine settimana, quando ci sarà il funerale e la sepoltura; intanto i leader mondiali ripartono verso le loro capitali, e il Sudafrica s’inebria del momento di visibilità mondiale, prima di tornare ai problemi che, grazie a Mandela, non sono più la segregazione razziale, ma la segregazione economica tra ricchi (anche neri) e poveri (tanti neri).

Da Il Fatto Quotidiano del 11/12/2013: art. di Stefano Citati

 



a proposito dei ‘forconi’

 

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la protesta dei ‘forconi’

 

 

 

sono stati annunciati presidi e blocchi stradali a Torino, all’alba del terzo giorno della protesta dei Forconi, quando nel capoluogo piemontese la polizia ha provveduto a sgomberare il presidio di piazza Derna. I manifestanti sono attivi anche in Veneto, dove per il momento il traffico è regolare. Le zone maggiormente interessate della manifestazione sono quelle dei caselli autostradali della A4 di Soave (Verona), Montecchio (Vicenza) e Vicenza Oves 

la situazione è chiaramente delicata, difficile e merita seria riflessione: mi sembra di dover condividere in toto le considerazioni asciutte ed essenziali di M. Serra ne ‘l’amaca’ di oggi su ‘la Repubblica’:

 

“Ceto medio impoverito”: è in quel magma di dolore e risentimento che si giocano i destini del Paese. Fa paura, quel magma, nel quale nuotano come pesci ultras di calcio e fascisti (termini spesso sinonimi), e nel quale si fanno le ossa capi e capetti poco cristallini. Faceva sorridere, in un tigì, questa dichiarazione del capo dei Forconi siculi: “Potrei dire che ci daremo fuoco a migliaia davanti alle Prefetture, ma potrei anche dire che vogliamo ragionare sul da farsi”. Anche i rivoltosi, in Italia, hanno qualcosa di democristiano.
Il vero problema è che quando non ci si sente più rappresentati (dal sindacato, dai partiti) l’animo si avvelena. Aumenta il panico, aumenta la rabbia. E la coperta della rappresentanza politica, in Italia, è sempre più corta. Sinistra e sindacati hanno moltissime domande da farsi, in proposito. La prima è: da quanti anni non siamo più capaci di dare voce ai nuovi ultimi della nostra società, che sono i precari, i disoccupati, gli esodati, i piccolissimi imprenditori? La seconda domanda è: come mai, pur sapendolo, non siamo ancora riusciti a fare, a dire, a pensare niente di nuovo e di utile, sul fronte delle povertà non rappresentate, dunque difese da nessuno, e in balia del primo demagogo o fanatico di passaggio?




linea dura sulla prostituzione?

lacrima

Sulla prostituzione non serve la linea dura

 faccio mia questa riflessione di Michela Marzano perché lo condivido quasi tutto, meno cioè quando afferma: “considero altrettanto assurdo partire dal presupposto che la scelta di prostituirsi non possa mai essere considerata come una scelta. In nome di quale principio si può dire a una donna, che afferma di prostituirsi volontariamente, che la sua non è affatto una scelta? Chi ha il diritto di sapere meglio di chi è direttamente implicato in un’azione o in una condotta quale sia o meno il suo bene?” 
è chiaro che si tratta di una scelta, e di scelta volontaria, ma è scelta per il vero proprio bene? ed è scelta operata nelle migliori condizioni oggettive per il proprio bene?

La settimana scorsa l’Assemblea nazionale francese ha approvato una nuova legge sulla prostituzione. Seguendo l’esempio svedese, d’ora in poi anche in Francia i clienti saranno passibili di una multa di 1500 euro. Vince così, nonostante le polemiche, la linea dura di Madame Vallaud-Belkacem, il ministro francese delle Pari Opportunità, e di alcune associazioni femministe che si battono per mettere definitivamente fine alla prostituzione. Ma siamo certi che la prostituzione sarà così debellata? E la tratta degli esseri umani organizzata e alimentata dalla criminalità organizzata? E la differenza tra chi si prostituisce “per scelta” e chi invece è costretto a farlo subendo violenze e minacce?

Intendiamoci bene. Trovo assurda la posizione di chi, per giustificare la prostituzione, afferma che prostituirsi è “il mestiere più antico del mondo” o di chi, come i “343 bastardi”, osano affermare che il corpo delle donne appartiene a chi paga. Sono la prima ad insistere sulla necessità di combattere a oltranza lo sfruttamento della prostituzione cercando i mezzi giuridici più adeguati per punire chi costringe le donne (ma talvolta anche gli uomini) a vendersi, utilizzando ricatti, violenza o sotterfugi. Non ho mai pensato di banalizzare la prostituzione, come fanno i “libertari”, facendo l’elogio dell’autonomia individuale e dell’autodeterminazione, anche semplicemente perché mettere tra parentesi le condizioni reali all’interno delle quali si da il proprio consenso non può che aggravare l’oppressione dei più deboli e aumentare il potere dei più forti. 
Come spiegano alcune ex-prostitute, che pure ammettono di non essere mai state costrette a prostituirsi, sarebbe un errore considerare la prostituzione come un’attività anodina: molte di loro hanno dovuto inventarsi strategie di difesa per preservare una parte della propria vita affettiva e per concludere, ogni volta, il più rapidamente possibile con il cliente. Ecco perché fare del consenso il solo criterio capace di separare il legittimo e l’illegittimo può talvolta portare a giustificare atteggiamenti di dominazione, che approfittano delle fragilità degli esseri umani più esposti.

Ciò detto, considero altrettanto assurdo partire dal presupposto che la scelta di prostituirsi non possa mai essere considerata come una scelta. In nome di quale principio si può dire a una donna, che afferma di prostituirsi volontariamente, che la sua non è affatto una scelta? Chi ha il diritto di sapere meglio di chi è direttamente implicato in un’azione o in una condotta quale sia o meno il suo bene? Certo, si invoca sempre il principio di dignità per giustificare questo tipo di posizioni. Ma quando si giudica una persona in nome della dignità umana, non si rischia poi di violare proprio quella famosa dignità che si pretende di difendere?
Anche io sogno un mondo in cui nessuno, per guadagnarsi da vivere, sia portato a prostituirsi, ossia a vendersi al miglior offerente, indipendentemente dal fatto che ciò che si vende sia il corpo, il sesso, l’intelligenza o l’anima. Ma come sempre accade, un mondo di questo genere non lo si impone a colpi di leggi punitive; lo si costruisce pian piano creando delle condizioni effettive di non-sfuttamento dei più bisognosi. Tanto più che le multe ai clienti, per tornare alla legge francese appena approvata, rischiano solo di peggiorare le condizioni di esercizio della prostituzione da parte di chi si prostituisce. Come sempre, saranno le prostitute a pagare il prezzo di una decisione che soddisfa la buona coscienza di chi sembra sempre pronto a sapere che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Indipendentemente dal punto di vista di chi è direttamente implicato.




don Farinella su Matteo Renzi segretario pd

vivere

Renzi segretario Pd:

s’ode a destra uno squillo di tromba,

a sinistra scompare il Pd

trovo nel sito di don Paolo Farinella questo originale commento alla nomina di Matteo Renzi a segretario del pd: merita una lettura …

di  | 10 dicembre 2013
Volutamente ho spento tv e radio e ogni altro strumento o grancassa per non sentire il peana di giubilo per la vittoria del Ronzino de Firenze, o se volte, la parodia di Crozza. Invece di esultare, oggi la sinistra deve fare penitenza e piangere la propria fine. Seppellito Berliguer, ri-sequestrato Moro e la loro lungimiranza, ora «tutto è compiuto». Nasce il «partito secondo Matteo». Quale sia questo partito, lo sappiamo bene e possiamo parafrasarlo poeticamente con il grande genovese Eugenio Montale che, nel 1923, mentre nasceva il fascismo, immaginava incosciamente l’ascesa di Renzi/Crozza negli indimenticabili versi di ‘Ossi di seppia’:

 «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»

Nessun mondo nuovo si apre il 9 dicembre 2013, ma solo un repulisti di una classe dirigente assassina di un partito che non meritava di morire renziano, cioè peggio che democristiano doroteo. La storta e secca sillaba come un ramo è la coscienza di un popolo tradito che, per non annegare nella melma, si è aggrappata al suo affossatore perché Renzi non è mai stato né mai sarà un uomo della «Sinistra» e non avrà mai un programma di popolo, ma è il frutto maturo del virus berlusconista che ha contagiato la ex sinistra e che ora la fagocita.

Il plebiscito in favore di Renzi/Fonzie è in verità il suo seppellimento e a tutti i miei ex amici pidini oggi questo posso dire, / ciò che non sono, ciò che non voglio né mai sarò. Lo avete voluto, godetevelo e non ne parliamo più. Il trionfo si tramuterà in sfacelo e chi lo ha votato, ancora una volta, per colpa dei vecchi marpioni, ha scelto il proprio suicidio di massa. Ora Berlusconi può respirare un po’ perché avrà buon gioco nel dire che il programma di Fonzie/Renzi è uguale al suo.

Certo nei primi tempi e pubblicamente, Renzi/Crozza farà professione di antiberlusconismo, come i torturati dall’Inquisizione che, sotto tortura,  avrebbero ammesso qualsiasi cosa, anche che Dio ha sei facce, invece di tre, ma gli allocchi vi cascheranno ancora e continueranno a morire di fame e a credere che gli asini volano. Giovani, se potete, e anche se non potete, andate via da questo paese dove la ex sinistra con un plebiscito ha ucciso il partito di Enrico Berlinguer.

Chi ha votato Renzi/Fonzie/Crozza mi deve spiegare cosa c’è di comune tra questo insulso e inetto giovane vecchio e Berlinguer; tra la sua etica di lotta di classe e il pigiamino borghese di Fonzie/Renzi/Crozza. Ditemi un solo punto di contatto tra Elena Boschi, sempre in tv e senza un pelo fuori posto, che spasima «largo ai giovani» e Nilde Iotti o Tina Anselmi, donna di Resistenza e donna che lottò contro la P2 di Gelli/Berlusconi.

Oggi abbiamo finito di resistere, inizia una nuova Repubblica, anzi un nuovo Stato che non ha nulla a che vedere con la Resistenza e l’Antifascismo. Ancora una volta, nessuno meglio di Montale Eugenio descrive questa situazione surreale, come in ‘Forse un mattino’, da cui si può agevolmente oggi togliere l’avverbio dubitativo «forse» e traformare il verso in «Il mattino tragico è arrivato»:

«Forse un mattino, andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco»

L’8 dicembre sarà scritto a caratteri cubitali nella storia politica d’Italia: il giorno della festa dell’Immacolata è scoppiato il miracolo: l’epifania del nulla che danza sul vuoto di un’assurda inconsistenza. L’«aria di vetro», cioè tersa e limpida della lotta di classe, come criterio di giustizia per la distribuzione del reddito, del valore del lavoro e della dignità della persona, diventano «terrore di ubriaco», cioè barcollante senza mèta e senza più alcun punto di riferimento, se non un lampione spento sulla buia strada. Renzi è l’incertezza totale, l’illusione eretta a sistema per la gioia dei figli borghesi di papà che, oculatamente, non hanno scelto il vecchio e debosciato, ormai decadente e decaduto Berlusconi, ma il giovincello/vecchio anticipato, Renzi/Fonzie, che li farà giocare e li farà assidere alla mensa del potere che non sapranno gestire, ma potranno corrompere, meglio e più di prima.

Onore ai compagni e alle compagne che con il loro voto disperato hanno voluto mandare a casa a calci la nomenklatura inconcludente e becera che ha logorato il Pd, da Veltroni a Bersani, passando per D’Alema, la volpe del tavoliere pugliese, Nobil’Uomo di Sua Santità (ma mi faccia il piacere!), ha affossato la candidatura di Prodi al Quirinale ed è finito per governare con Berlusconi, salvato per ben sei volte dalla morte politica certa.

Onore alle compagne e ai compagni che oggi esultano di esserci riusciti, senza rendersi conto che si sono messi in casa il frutto maturo e più riuscito di Berlusconi: Matteo Renzi, quello che pensa come Berlusconi, ma parla come un ex pidillino. Intanto si prende atto che mafiosi, carrieristi e opportunisti, voltagabbana e troiai sono saliti sul suo carro in attesa di spuntare un posto al sole o almeno uno strapuntino.

Le compagne e i compagni si sono lasciati incantare dalle parole (ci cascano sempre!, non c’è verso), e non hanno prestato attenzione al modo e alla logica del pensiero. Pazienza, se ne accorgeranno, ma quando capiranno, non sarà più troppo tardi; sarà impossibile perché regnerà la pace del cimitero. Requiem, Pd. Una prece (breve).

Non mi resta che aspettare gli eventi, osservando impotente le macerie di cui siamo stati tutti complici e vittime. Avvenga ciò deve, perché «tutto deve compiersi»: non c’è, infatti, rinascita, se non dalle ceneri. Un mondo vecchio sta crollando con due becchini adeguati alla bisogna: un Berlusconi patetico e pietoso con Dudù e un Berlusconino saccente e ignorante che parla sempre senza dire niente. E’ la teoria degli opposti che si toccano, anzi che coincidono. W l’Italiota! Senza di me




i problemi e le difficoltà che il papa sta trovando all’interno del Vaticano

Francesco papa

 

 papa Francesco, il suo nuovo modo di vivere da papa e i suoi difficili rapporti con il mondo vaticano (la curia, il cardinal Müller…) nella analisi  di Evelyn Finger, Christiane Florin e Patrick Schwarz (con la collaborazione di Marco Ansaldo e Wolfgang Thielmann):

il “gioioso annunciatore”

in “Die Zeit”

del 5 dicembre 2013

(traduzione: www.finesettimana.org)

1
In periodo natalizio, non era mai stata così poco simpatica l’atmosfera in Vaticano – in ogni caso per quei signori che fino ad ora avevano il potere e che credevano che i fasti della basilica di San Pietro servissero loro semplicemente da sfondo. Ora, il primo sabato d’Avvento, il papa sorridente ha predicato la “misericordia”. E per mostrare che per i cristiani conta solo il servizio al prossimo, si è vestito come un parroco di paese: invece degli usuali paramenti usati in Avvento, ricamati d’oro, Francesco aveva solo un semplice piviale viola, il colore previsto dal calendario liturgico per il mese di dicembre. La croce processionale era di legno. Di legno! I fan del glamour nella curia, quel gigantesco apparato amministrativo del Vaticano, erano inorriditi. Dove andremo a finire, sussurravano alcuni, se rinunciamo alle insegne del potere? Quei mormoratori sono però già un po’ abituati a papa Francesco: croci di ferro come se non ci fosse un prezioso tesoro della chiesa. La vecchia cartella nera unta e bisunta, come se il successore di Pietro fosse un semplice impiegato. Le vecchie scarpe con le stringhe, come se il rappresentante di Dio fosse semplicemente un uomo. Ancora solo un anno fa – ai vespri d’avvento sotto il predecessore Benedetto XVI – la basilica di San Pietro scintillava di brillanti, e il vecchio papa era ornato come un… ma sì, un albero di Natale. Da nove mesi è l’argentino settantaseienne Jorge Mario Bergoglio il capo spirituale dei cattolici. È il primo papa che – non succedeva da molto tempo – riesce ad irritare il mondo. Quello piccolo, all’interno delle mura del Vaticano. E quello grande fuori. Non ha conservato solo le sue vecchie scarpe. Ha concesso interviste che vengono capite anche dai laici. È andato a Lampedusa ad incontrare i rifugiati sopravvissuti alle traversate sui barconi, entrando in contatto con una delle molte urgenti realtà del nostro presente. Ha assunto esperti esterni per far luce nel buio delle finanze vaticane. Ha fatto inviare dei questionari in tutto il mondo per sapere che cosa pensano i cattolici su amore, sesso e convivenze. E ha prescritto una medicina a migliaia di persone in piazza san Pietro. Con la sua bianca figura in alto alla finestra del palazzo apostolico ha gridato all’Angelus alla folla: “Adesso vorrei consigliarvi una medicina!” Poi ha alzato una scatoletta da medicinali, con su scritto “Misericordina”. [Non era una nuova marca di medicinale, ma l’antica parola latina per “misericordia”.] Sotto, nella piazza, delle suore hanno distribuito 25 000 di queste scatole, al cui interno c’era una piccola corona del rosario. La folla ha riso e applaudito. Un papa col senso dell’umorismo. O soltanto marketing? Contro quest’ultima insinuazione parlano le 256 pagine scritte dal papa, una lettera apostolica, un nuovo “manifesto vaticano”: Evangelii Gaudium, “la gioia del vangelo”. Non è stata la competente Congregazione per la Dottrina della Fede a scrivere quel volumone, ma il papa personalmente. Invece di sparire, nel mese di agosto, a Castelgandolfo, cioè nella residenza estiva circondata da boschi sui colli sopra il lago di Albano, è rimasto nei 35 gradi della rovente Roma a scrivere, contro la certezza che una Chiesa vecchia di duemila anni non si può cambiare. Ora, non solo i credenti leggono increduli che il papa è più vicino ad “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade” piuttosto che ad “una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”. La sua Chiesa, dice Francesco, è diventata priva di gioia e d’amore – è tempo di un “rinnovamento improrogabile”. Dal comandamento fondamentale dell’amore del prossimo, il papa trae massime rivoluzionarie in campo sociale: no all’idolatria del denaro! No alla disuguaglianza sociale! No alla pigrizia del cuore! Innanzitutto però dichiara guerra alla durezza di cuore, a cominciare dalla propria casa. Qui qualche cardinale comincia a mormorare: questo papa vuol rovinare la Chiesa! Rimprovera più peccati al clero che al mondo là fuori! Orna la chiesa di sterpi e rami secchi. La vuole rafforzare con la debolezza. In Vaticano, il Cremlino cattolico, i nomi “Francesco” e “Gorbaciov” ricorrono sempre più spesso nello stesso momento. La rivoluzione comincia con la colazione nella Casa Santa Marta, dove il papa abita. Nella sala comune, non si siede sempre allo stesso tavolo, si va a prendere personalmente il suo pasto e si siede accanto agli altri. Solo per lavorare sale al palazzo apostolico, nella segreteria di Stato, dove ci sono grandi affreschi e antichi mappamondi che trasmettono l’impressione di essere molto in alto. Dominatori dell’orbe terracqueo. Lui però si interessa di quelli che stanno in basso. Molti cattolici, la cui quotidianità aveva poco a che fare con ciò che dice un vecchio a Roma, riescono appena a crederlo: finalmente un papa vuole sapere qualcosa della loro vita. Finalmente, uno con autorità dice che escludere, denunciare e incutere timore non sono virtù cristiane. Finalmente crolla il sistema delle punizioni per chi pensa diversamente e delle lodi di chi segue rigidamente le prescrizioni. Nessun divieto di insegnamento, di pensiero, di espressione. Molto è ancora solo sulla carta, non nella prassi. Ma dopo anni di nulla basta già la frase che troppi preti nelle chiese hanno una faccia da funerale, per far esplodere l’euforia nelle persone. Proprio in nome della Buona Notizia, dice, troppe persone si fermano alla lagnanza, al lamento, alla critica o al rimorso. Proprio l’uomo che sta in alto prescrive ora un riso liberatore e anarchico. Il sorriso negli occhi di Francesco è per Cesare Bella la cosa più difficile. È un artista nello Studio Mosaico, un laboratorio antichissimo proprio vicino alla Casa Santa Marta. Bella e Francesco sono vicini, ma il loro rapporto non è ancora chiaro: mentre il papa tende al futuro, Bella ha una tradizione da difendere. Il suo lavoro consiste nel fare un mosaico che rappresenti il papa, come è consuetudine da 500 anni. Il quadro è quasi finito. E Bella si chiede: piacerà a quel distruttore di tradizioni? Nello Studio Mosaico lavorano in otto. Chi lavorava lì prima di loro ha ornato le pareti della basilica di San Pietro, tutti gli angeli e i giganteschi mosaici con i santi, su fino alla cupola. Una grande trasfigurazione da minuscoli sassi. Nel laboratorio si sente il profumo della polvere delle antiche tessere conservate in infinite file di cassetti. Ogni volta che viene eletto un nuovo papa viene posta sul cavalletto una pesante lastra di pietra rotonda di 136 centimetri di diametro. Innanzitutto uno degli artisti applica lo sfondo dorato. Poi si dedica all’abito papale con la mantellina rossa. Alla fine uno dei maestri comincia a fare il volto. Per la pelle di Francesco, Bella ha usato delle tessere da mosaico opache, vecchie di 100 anni, e con quasi 1000 ombreggiature. E solo per le pupille ha usato 70 colori. E per fare questo aveva solo una foto un po’ sfuocata come modello. Perché questo papa – che non vuole alcun culto della personalità e che proprio per questo viene apprezzato – si lascia fotografare solo controvoglia. Ha concesso al fotografo del Vaticano solo due appuntamenti. E ogni volta, dopo un paio di minuti, ha detto: “Adesso però basta”. Nello Studio Mosaico dicono che a loro piace il loro nuovo vicino. Per il buonumore che diffonde. Perché saluta le guardie svizzere stringendo loro la mano, chiacchiera con i gendarmi e non si fa portare il caffè, ma se lo prende da solo alla macchinetta. Questa settimana il papa vedrà il suo ritratto, prima che venga sistemato in San Paolo, alla fine della lunga serie dei suoi 265 predecessori. Un fregio di teste di sostituti di Dio! Una galleria che sale dal passato fino al presente. Che cosa interessa veramente a questo papa dagli occhi sorridenti? Se lo chiede anche il cardinale Gerhard Ludwig Müller e lui non sorride pensando a questo. Il bavarese viene dalla diocesi di Ratisbona, è il secondo più potente personaggio della Chiesa cattolica – e il più tenace oppositore di Francesco. Intorno alle 12 di un giorno della settimana scorsa la macchina del papa passa sulla piazza della Città Leonina accanto al colonnato della basilica di san Pietro davanti all’abitazione privata di Müller. Poco dopo, Francesco è seduto alla tavola da pranzo a casa di Müller, le suore Huberta e Helgardis servono cotoletta e patate lesse. Al momento del caffè, l’argentino Jorge Mario Bergoglio dice in perfetto bavarese: “I ko nimma”. In onore del suo anfitrione, si era fatto insegnare da Huberta e Helgardis qualche parola di bavarese. Quest’uomo, sembra, vuole accontentare perfino il suo più ostinato oppositore. Amate i vostri nemici. Francesco e Müller. Il papa e il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. I due non si
distinguono solo per la lunghezza del loro titolo. Raramente il più alto custode di antiche dottrine di fede, cioè Müller, è stato in così cattivi rapporti con l’annunciatore della suddetta fede. Dal punto di vista del tedesco un latinoamericano bonariamente e spensieratamente demolisce un antichissimo edificio. Quanto disordine e insicurezza ha portato questo Francesco nel mondo ordinato della dogmatica romano-cattolica! Nessuna deferenza, nemmeno un po’ di rispetto mostra per il Sant’Uffizio, la base del potere di Müller, un tempo l’autorità dell’Inquisizione, alla quale ancora sotto papa Giovanni Paolo II hanno dovuto comparire i “deviazionisti” di tutte le parti del mondo, per difendersi, in una lotta senza speranza, affinché non venisse loro ritirato il permesso di insegnare. Francesco è contro? Recentemente ha consigliato a visitatori che venivano dalla sua patria, di non preoccuparsi eccessivamente in caso ricevessero un ammonimento da Roma. Leggere, mettere da parte, e continuare sulla propria strada, è stato il suo consiglio scherzoso. Se Francesco vuole una Chiesa povera, Müller si augura una Chiesa sfarzosa. Dove Francesco vede alleati, ad esempio tra i protestanti, Müller vede dei rivali o dei rinnegati. Dove Francesco predica comprensione, di fronte ai divorziati-risposati o agli omosessuali, Müller insiste con i divieti. E mentre Francesco ha prescritto al prodigo vescovo tedesco Tebartz-van Elst un periodo di sospensione, Müller tuona contro i media che massacrano un dignitario onesto. Ma il capo e il capo- ideologo non sono lontani l’uno dall’altro quanto nel loro modo di guardare i milioni e milioni di cattolici in tutto il mondo. Per Müller la chiesa governa sul popolo di Dio, gli dice ciò che è bene e ciò che è male, ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare. Quanto diversamente si pone invece il papa. Per lui la Chiesa comincia dal basso, e in alto deve dare buona prova di sé – prima il popolo, poi i prìncipi. Non il contrario. Continuamente Müller è insorto, ha impiegato il resto di autorità che gli rimaneva come prefetto tardivamente chiamato, nominato dal papa bavarese al suo tramonto. Quante cose ha tentato Müller a partire dal Conclave: prima l’abbraccio, poi l’arroganza, alla fine l’intrigo. Così ha riconosciuto a Francesco, dall’alto in basso, il suo talento “pastorale” – il che significa qualcosa come: l’uomo nuovo è un bravo pastore, ma contro i lupi di questo mondo, lasciate che mi metta io all’opera. Ma l’uomo che viene da Buenos Aires, più coraggioso di quanto ci si aspettasse, non vuole lasciarsi avvelenare il mondo da qualcuno che fiuta intorno soltanto nemici. E così continuano a scontrarsi, da una parte il “papa del tango e del cinema”, e dall’altra il guardiano della fede della scuderia di Ratzinger, un osso duro dalla stretta di mano molle. Il protetto di Ratzinger insiste quasi disperatamente per l’osservanza delle regole. Se appena Francesco lascia trapelare che la misericordia verso i divorziati-risposati è un suo desiderio, Müller risponde sparando un suo intervento sull’Osservatore Romano, la Pravda del Vaticano: è assolutamente escluso che i divorziati-risposati possano mai ricevere la comunione. Roma locuta, causa finita: una volta che Roma ha parlato, il caso è stato regolato. In anni precedenti un tale anatema avrebbe troncato ogni protesta. Ora invece la protesta arriva dall’alto. E alcuni cardinali, che si situano appena sotto a colui che sta sopra, mettono in dubbio il potere di Müller. Il primo a reagire è stato il cardinale di Monaco Reinhard Marx. Nessuna misericordia per i divorziati-risposati? “Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede non può metter fine al dibattito”. Poco dopo hanno osato farsi avanti alcuni luminari un po’ più piccoli, come ad esempio il vescovo di Treviri, con dichiarazioni simili. In questa perestroika della Chiesa non è del tutto chiaro chi è solo un eloquente voltagabbana e chi dice ora liberamente ciò di cui era convinto da anni. Quel che è chiaro è che così vanno le cose quando un regno va in rovina.

2
Mentre l’inquisitore Müller ancora lotta per la sua influenza sull’indirizzo della Chiesa, Francesco ha da tempo creato un “governo supplementare”, anzi un “governissimo”. È formato da diverse commissioni appena formate. Regolarmente riunisce otto cardinali provenienti da tutti i continenti, un G8 cattolico, appena un po’ meno internazionale dell’incontro al vertice di capi di governo di tutto il mondo. Questa settimana appunto c’è la seconda riunione, il cardinal Marx, unico tedesco del gruppo, ha dovuto rinfrescare a tempo di record il suo rudimentale italiano. Non c’è nessun traduttore simultaneo e neanche un segretario attorno al tavolo con i cardinali, gli argomenti affrontati sono troppo esplosivi. Lo scenario ha l’aspetto di una congiura, solo che ne fa parte anche il capo. In qualche posto in Vaticano c’è un tavolo, attorno al quale siedono gli ospiti e il padrone di casa. Nove teste, sembra che non serva altro per governare un miliardo di cattolici. Ciò che era impensabile nel quartier generale del governo vaticano con tutti i suoi dicasteri, eminenze, eccellenze, prelati con titoli onorari e protonotari, qui avviene facilmente. La costituzione assolutistica dello Stato della Chiesa – con il papa come potere legislativo, esecutivo e giudiziario riuniti in una sola persona – è sempre stata considerata l’incarnazione della negazione del progresso: un nuovo inizio nell’assolutismo può essere enormemente corroborante e semplice. L’arcivescovo Müller – è quasi superfluo dirlo – non fa parte del gruppo. Mentre il papa pianifica la sua rivolta, a Müller rimane solo la passeggiata lungo Via della Conciliazione giù verso l’hotel Columbus. Questa via è una pista aperta nella città, che porta da piazza san Pietro giù fino al Tevere, per 500 metri, un’immagine resa famosa dalle riprese televisive. Camminando, Müller cerca di convincere dei giornalisti fidati della propria visione delle cose e della sua ostinazione. In nessun altro luogo al mondo si possono trovare amici e nemici in lotta per il potere in una organizzazione mondiale, riuniti in così pochi metri quadrati. È questo che rende la cosa così appassionante per gli spettatori. E così pericolosa per i combattenti. Le poltrone del palazzo apostolico hanno ancora spalliere e braccioli dorati, e alle pareti fa sfoggio damasco rosso. Ma l’uomo che riceve qui parla di una vita che lo divide in due. Georg Gänswein conduce un’esistenza che era per lui inimmaginabile fino al ritiro di papa Benedetto, e che oggi gli appare lacerante. Durante il giorno serve il nuovo papa, alla sera quello vecchio, e sono due padroni così diversi che un servitore non riuscirebbe ad immaginarseli. Per lui, il ritiro di Benedetto è stata come una amputazione, dice. E anche in altre descrizioni scorre sangue, quando Georg Gänswein descrive come la sua vita sia cambiata da quando il suo capo precedente è andato in pensione. Per otto anni, Georg Gänswein è stato il Monsignore più famoso del palazzo apostolico. In quanto segretario del papa, regolava personalmente l’accesso delle persone a Benedetto e i suoi affari. Ammiratori e schernitori lo chiamavano “il George Clooney del Vaticano”. La combinazione di tratti maschili attorno al mento e lo sguardo birichino negli occhi gli è valsa una copertina sull’edizione italiana di Vanity Fair. Innanzitutto, però, Gänswein era l’intendente dell’ensemble- Benedetto. Joseph Ratzinger doveva, con l’aiuto di Gänswein, portare il papato ad una nuova fioritura intellettuale ed estetica – proprio all’opposto di egualitarismo e relativismo. Dal 2005 al 2013 Gänswein ha dato tutto – e ricevuto molto: “Ich habe acht Jahre Blut gelassen und auch Blut geleckt, manchmal”. In vita et in morte: Georg Gänswein ha giurato fedeltà a Ratzinger in vita e in morte. Ora dice: “Ho l’impressione di vivere in due mondi, devo essere sincero con me stesso: è veramente doloroso adattarsi al nuovo ruolo”. Il nuovo ruolo: si tratta anche di questioni problematiche. Gli oppositori di Georg Gänswein dicono
che il segretario stesso abbia indebolito al massimo Benedetto, andando al di là di quelle che erano le sue competenze, ed abbia deciso “secondo il pensiero del papa”, senza aspettare la sua approvazione formale. Quale assurdità: le cose andavano già nel modo più caotico in Vaticano quando ancora veniva guidato con fermezza. Protezionismo, intrighi, lotte di potere culminarono in un tale disordine da privare Benedetto delle sue ultime forze. E, col suo ritiro, ha segnalato: anche un papa può capitolare. Forse in questo modo ha aperto la porta al cambiamento. Poco tempo prima di ritirarsi, Benedetto ha promosso il suo monsignor Georg Gänswein ad arcivescovo e prefetto della casa pontificia. Francesco lo ha pregato di proseguire nella sua funzione relativa al cerimoniale, il che gli dà la possibilità di apparire accanto al papa. “Se questa è la sua volontà, io accetto in obbedienza”, ha risposto Georg Gänswein. Ora occupa due funzioni, però non ha più una situazione stabile. Nessun titolo può illuderlo né consolarlo per la perdita della posizione al centro del regno mondiale romano-cattolico. La sua vita “non è più costantemente in sintonia col battito del suo cuore”. “Quello nuovo” ora a capo della casa fa soprattutto molte cose nuove. A Gänswein non può piacere. Forse più ancora di quanto lo fosse il suo padrone, il segretario era il sommo sacerdote della tradizione, vedeva in essa non un’imposizione formale, ma un condensato di saggezza ecclesiale. Che Francesco a tutti i costi non voglia lasciare la pensione per il palazzo apostolico, perché vuole vivere “tra la gente” e perché l’oscuro corridoio che porta alle stanze pontificie gli fa venire la malinconia, tutto questo ha molto irritato Gänswein. Non vi ha visto solo una rottura della tradizione, ma anche un affronto al predecessore, a tutti i predecessori. Forse Benedetto non era un uomo modesto? Non ha rivendicato l’appartamento papale per egoismo, è solo che esso esprime la posizione del Santo Padre nella Chiesa. Ma ora la controversia è risolta, dice Georg Gänswein, talvolta il nuovo papa e l’ex segretario scherzano sui motivi psichici che Francesco ha addotto per evitare di occupare il palazzo. Un po’ di inquietudine domina però ancora il rapporto tra i due. “Mi aspetto ogni giorno dal nuovo (papa) qualcosa di diverso, e mi chiedo che cosa ci sarà di diverso quel giorno”, dice Georg Gänswein. Il segretario si sente legato alla sua antica promessa: sta dalla parte di Benedetto. Dopo le 21, Gänswein si occupa di lui, della posta, delle cose inevase, è lì per quell’uomo anziano che Gänswein continua a chiamare “Santo Padre”. “C’è un solo papa”, dice Gänswein. È un’affermazione che suona come un richiamo all’ordine che fa a se stesso. Anche Pietro Zander, il capo archeologo della “fabbrica del duomo” ha un ricordo positivo del papa emerito. Davanti ai giornalisti non vuole esprimere stime precise del recente, notevole aumento di visitatori alle udienze generali in piazza san Pietro. Ma in questo momento le folle sono il più grosso problema di Zander. I fedeli invadono la casa al nuovo papa! Prima piazza san Pietro era mezza piena, oggi la gente si affolla anche indietro, fino in Via della Conciliazione. La via è una specie di scolmatore per persone più o meno religiose che vogliono dare uno sguardo al papa. Arrivano perfino davanti alla casa dell’arcivescovo Müller. Stando così gli voltano le spalle. L’udienza generale ha luogo sempre di mercoledì. I dipendenti di Zander bloccano l’accesso delle auto già al martedì sera, e le transenne sulla piazza non le tolgono neppure più. Quando Zander parla di “fondamenta scosse” intende proprio pietre, e non “certezze”. La sua preoccupazione si riferisce alle masse che dopo le udienze si affollano in san Pietro. La basilica sopporta al massimo 30 000 persone al giorno. Già il loro respiro è una “catastrofe per la conservazione”, dice Zander. Però non può chiudere il portale della Chiesa sopra la tomba di Pietro. Una basilica sprangata sarebbe un segnale fatale. Che fare allora? Zander sorride. Avevano preso in considerazione l’idea di spostare le udienze generali in un altro luogo, magari in uno stadio, ma avevano rinunciato presto all’idea. Invece, introdurranno una seconda udienza, di sabato. Probabilmente pregano già che questo basti. Il popolo della chiesa ama Francesco, e lui lo ricambia. Da quando ha deciso si interrogare i suoi fedeli, proprio su matrimonio, famiglia e morale sessuale, il suo zelo riformatore è giunto fino al più piccolo villaggio. Un desiderio del popolo della Chiesa promosso dall’alto – non c’è mai
stato un plebiscito così. Il papa vuole sapere, ad esempio, che cosa si aspettano dalla chiesa i fedeli in situazioni familiari difficili, quale attenzione pastorale potrebbe essere possibile per le persone dello stesso sesso conviventi, se qualcuno si sente “ferito” dalla Chiesa. Sulle risposte alle domande di Francesco, discuteranno diverse centinaia di uomini casti nell’autunno del prossimo anno in un sinodo dei vescovi. Negli ordinariati vescovili tedeschi i superiori si lamentano già, dato che l’idea procura al papa, certo, titoli di prima pagina, ma alle diocesi soltanto lavoro. Chi presenterà, e da quale luogo della Chiesa, e quali opinioni? Chi deve suddividere e rielaborare le risposte? Come può la conferenza episcopale giungere ad un risultato unitario? La maggior parte delle diocesi tedesche ha messo in internet, senza entusiasmo, ciò che si richiedeva da Roma. Il termine per le risposte è già fissato per questa o per la prossima settimana. Quando è permesso fare sesso, con chi e a quale scopo, la Chiesa cattolica lo regolamenta finora con molta precisione. I più alti componenti della gerarchia, papi e prefetti si sono dati un gran daffare sul basso ventre del loro popolo. Ma tutto questo non è servito a niente: dai sondaggi risulta che in Germania il 90% dei cattolici vive in modo diverso da quanto permesso dal Vaticano. Rappresentanti di quel 10% che ammette di attenersi alle regole vengono invitati ai talkshow come fenomeni da baraccone. Anche il papa si è imposto la castità, ma manifestamente dubita che uomini che vivono da continenti siano i migliori consiglieri per tutte le situazioni esistenziali, in particolare in faccende amorose. Che Francesco allinei conseguentemente la sua dottrina ai risultati del questionario, è improbabile – il che nasconde un potenziale di delusione a dimensione-Obama. Un papa non è qualcuno che presta servizi, e il cristianesimo non è un menù che ci si può comporre da soli. Ma l’inchiesta di Francesco mostra che tiene in alta considerazione il popolo e poco l’alto clero. Una volta ha definito “lebra” la curia. Nei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede compaiono raramente le persone in carne ed ossa. Invece Francesco nelle sue prediche loda le persone semplici del popolo. Raramente dimentica di citare la sua nonna Rosa. Se parla di misericordia, racconta di persone misericordiose che ha incontrato personalmente. Di solito si tratta di madri. Quest’uomo non ha solo una carriera ecclesiastica, ha anche una biografia. E non ha paura delle donne, nemmeno di quelle giovani e carine. La sua invenzione più rivoluzionaria è un gruppo di consiglieri, composto da sette laici e da un prete, che lavora costantemente con lui – e anche la cerchia di cardinali riformatori del G8 preoccupa. I consiglieri lontani dal clero sono quelli che devono riordinare le finanze del Vaticano e ristabilire la credibilità dopo lo scandalo Vati-leaks. Mancanza di trasparenza e lotte di potere avevano provocato lo scandalo che alla fine aveva condotto al ritiro del vecchio papa. Documenti segreti erano stati rubati direttamente dalla scrivania di Benedetto. Ora è necessario rendere tutto trasparente. Chi comincia ad occuparsi di questo lavoro, finisce per trovarsi di fronte delle questioni di potere: innanzitutto nel decidere se la Chiesa debba essere ricca o povera, se deve ricevere o dare. E inoltre, è lecito fare del bene con denaro sporco? Le origini della ricchezza cattolica sono talvolta poco chiare. La conduzione degli affari della banca vaticana è tutto fuorché santa. Del gruppo di esperti finanziari di Francesco fanno parte un revisore dei conti spagnolo, un esperto di assicurazioni tedesco, un manager francese, un ex ministro degli esteri di Singapore ed una giovane donna: l’italiana Francesca Immacolata Chaouqui, specialista di comunicazione, prestata dall’azienda di consulenza aziendale Ernst&Young. Che perfino nella gerarchia della Chiesa non si sappia esattamente che cosa stia cercando Francesca nei bilanci dello Stato della Chiesa, e che inoltre essa abbia un aspetto seducente, ha suscitato in internet e sulla stampa interventi denigratori di ogni specie. Prima, le donne che avvicinavano il papa erano nella migliore delle ipotesi delle cuoche o delle segretarie. Chaouqui, 30 anni, è una giurista laureata e ha responsabilità direttive nel governo ombra del papa. Il suo compito, come quello degli altri laici, è chiarire al papa il capitalismo delle sue istituzioni. Francesca è sicuramente competente in questo ambito. Durante la crisi finanziaria è stata
consulente, come esperta di comunicazione dell’azienda di consulenze Orrick, Herrington & Sutcliffe, della banca Lehman Brothers. Un tempo, per far carriera in Vaticano, servivano meno le competenze quanto un’obbedienza cieca. Ora dei laici che si qualificano per la loro competenza controllano gli antichi potenti. I suoi progetti rivoluzionari, Francesco li ha esposti già in conclave. Per questo è stato eletto. Inquieti, i suoi sostenitori si chiedono ora: quanto tempo rimane a questo papa? Francesco ha un solo polmone, prima di Natale compirà 77 anni. Ci sono alcuni personaggi nei loro inoperosi uffici in Vaticano che aspettano solo che gli manchi il fiato. I tradizionalisti lo scherniscono per il fatto che a Lampedusa abbia trasformato in altare una vecchia barca – ma al contempo lo temono. Ha criticato il loro cattolicesimo da dorature. Ora gli amanti di pompa e gloria aspettano nelle loro nicchie che arrivi la loro ora. Da subito sono circolate a Roma voci che affermano che Francesco vive pericolosamente. Rischia molto, si dice, se cura di più gruppi di base di sinistra che circoli destrorsi a Roma. Ed è davvero un temerario se vuole far pulizia nella banca del Vaticano. Lo si troverà un giorno avvelenato nella Casa Santa Marta? O morto nel Tevere? Della possibile fine non naturale del papa si parla sorprendentemente spesso in questi giorni in Vaticano – anche se per lo più in forma negativa: “Non dico che domani qualcuno possa mettergli qualcosa nel te…”, dice un religioso di alto rango, per parlare successivamente a lungo dei numerosi oppositori che si sono sentiti trascurati o messi in secondo piano. E non irrompono anche paralleli con Giovanni Paolo I? Anche quel pontefice non dogmatico, seguito al rigido Paolo VI, era stato chiamato “il papa sorridente”. Anche Giovanni Paolo I – appena eletto, ma senza una presenza mediatica e totalmente indifeso – si era accinto a far pulizia nella curia e nella banca del Vaticano, quando tutto è finito improvvisamente. 33 giorni dopo la sua entrata in carica il nuovo papa era morto. 35 anni dopo, di nuovo un papa con l’innocenza del sonnambulo si muove attraverso questo apparato di corte. Tuttavia, un “insider” del Vaticano dice: “L’avvelenamento non è più necessario. Dopo il ritiro di Benedetto, ad un papa si può anche raccomandare il ritiro…” Francesco emana ancora l’energia del “nuovo inizio”, nessuna traccia di stanchezza da funzione. Tuttavia finora non ha potuto creare nulla di durevole. Il papa ha instaurato un legame di tenerezza con il suo popolo di chiesa, ma in tempi di impazienza tale atteggiamento gentile potrebbe presto essere sospettato di pura apparenza. Presto non gli basterà più porre domande, dovrà dare delle risposte, imporre delle innovazioni. Basta con la discriminazione delle donne, degli omosessuali e dei protestanti! Se non osa nulla in questa direzione, un grande sentimento si riduce velocemente a ben poco. Alcuni progetti pratici, il papa li ha già fatti partire. Ad esempio, crea un fondo di solidarietà per le vittime di catastrofi, si chiamerà “Misericordia”. Francesco vuole che la Chiesa sia non l’ultimo, ma il primo rifugio per i poveri. Le chiese e i conventi devono aprire le loro porte ai rifugiati, concedere la loro protezione – anche davanti al diritto d’asilo europeo. E per un uomo chiamato Konrad Krajewski, il papa si è inventato un compito. Krajewski è il nuovo elemosiniere papale, un alto funzionario. Il suo ufficio è all’ombra della basilica di san Pietro. I predecessori di Krajewski hanno assegnato fondi per persone bisognose stando seduti alla loro scrivania. Ora invece, il cinquantenne polacco non dovrà aspettare dentro, perché la vita sta fuori, la povertà sta fuori. Di notte i senzatetto di Roma dormono sotto al colonnato recentemente restaurato che circonda piazza san Pietro. Alla sera, così vuole il papa, Krajewski gira per la città con una piccola Fiat bianca per raggiungere poveri e senzatetto, accompagnato da quattro guardie svizzere, che parlano quattro lingue. Distribuisce il denaro del papa. E poiché Roma è troppo grande per percorrerla con un’unica auto ora ogni settimana spedisce più di cento assegni di, al massimo, mille euro ai parroci della città, affinché anche loro aiutino i poveri. “Il papa vuole che noi non stiamo ad aspettare le persone, ma che noi andiamo da loro”, racconta Krajewski. “Mi ha detto che il mio conto corrente è a posto quando è vuoto”. Francesco vuole rendere la Chiesa nuovamente credibile. Il conto vuoto – per il papa questo è il suo
capitale.

 

 




giornalismo scorretto: a proposito del funerale del rom Luca Braidic

rom

Lettera al corriere della sera a proposito di un funerale Rom

un ‘normale’ funerale come quello celebrato da don Mario Riboldi e da padre Luigi Peraboni dell’U.N.P.R. e S. (Ufficio Nazionale per la Pastorale tra i rom e i Sinti) qualche giorno fa, alla presenza oltre che di molti rom anche di rappresentanti di istituzioni religiose e laiche, compreso il sindaco, è stata l’occasione per l’ennesimo articolo denigratorio nei confronti dei rom

G. Bezzecchi, ‘attivista rom da trenta anni’, presente al funerale, stigmatizza in modo fermo la distorsione, offensiva nei confronti dei rom, rappresentata dall’articolo del giornalista del ‘Corriere della sera’

qui di seguito la sua severa lettera al giornale:

 

Signor Galli,

Sono un attivista Rom che da 30 anni condivide la realtà quotidiana dei Rom e Sinti. Ho riflettuto prima di scriverle per l’antica abitudine a sopportare il pregiudizio e la discriminazione, ma alla fine sento il bisogno di rispondere al suo articolo scritto sul “Corriere della Sera” apparso martedì 26 novembre 2013 a pagina 3 della cronaca di Milano a proposito dei funerali di Luca Braidic. Lei parla di “Funerali……….con più poliziotti che familiari”; “celebrati il più in fretta possibile”; e soprattutto di “funerali da boss di mafia…”.

Io ho partecipato ai funerali di Luca Braidic celebrati da Monsignor Mario Riboldi, con Padre Luigi Peraboni (da 60 anni tra i Rom e Sinti) con don Massimo Mapelli della Caritas ambrosiana, i Padri Somaschi e esponenti di altre associazioni anche loro impegnati da molti anni con i Rom e Sinti, da lei neppure considerati evidentemente per non essersi degnato di venire a vedere o di informarsi compiutamente.

Premesso che i poliziotti erano 6 con 3 auto e parlavano tranquillamente tra loro sulla piazzetta antistante la chiesa, mentre le famiglie Rom hanno riempito la chiesa con la presenza del Sindaco con partecipazione seria secondo la nostra tradizione; che se per fretta s’intende percorrere i circa 2 chilometri dalla chiesa alla cascina per la sosta per l’ultimo saluto all’abitazione del defunto con fuochi, musica pianti fino all’imbrunire per poi percorrere un altro chilometro fino al cimitero con la cassa portata a spalla, la banda, le decine di corone, di fiori sparsi senza parsimonia (almeno l’ultima strada…. è fiorita anche per lui), certo i bersaglieri invidieranno la nostra velocità; ma la cosa che più mi ha colpito è stato definire da parte sua questi come “Funerali da boss di mafia”, un insulto gravissimo per la cultura dei Rom e Sinti.

Tutto il suo articolo è pervaso, oltre che dall’ignoranza delle tradizioni di un popolo antico che avrebbe da insegnare qualcosa anche a lei, da affermazioni approssimative e infamanti (“…persone sopra i 14 anni tutte con precedenti”) e quando parla di faida da una vera e totale ignoranza di quello che è veramente successo nelle comunità di via Idro e di via Chiesa Rossa e di quello che ha portato a questo tragico epilogo. Ma tanto siamo “zingari” con i quali lei certo – e per fortuna, aggiungo io – non è in grado di parlare… e per questo lei che fa il giornalista – non ho detto che lo è – dovrebbe almeno avere il dovere non dico di cercare la verità, ma almeno di non sputarci addosso.

Saluti

Milano, 05/12/2013
Rag. Giorgio Bezzecchi
Presidente Museo del viaggio Fabrizio De Andrè




riforma della chiesa a caro prezzo

Bianchi

 

mentre esultiamo per la determinazione che papa Francesco esprime nella direzione di una ‘rivoluzione’ spirituale dentro la chiesa che sia più evangelica e sappia dialogare davvero col mondo contemporaneo sentiamo che tutto ciò non sarà facile

si rende espressione di questo nostro comune timore e delle oggettive difficoltà che inevitabilmente papa Francesco troverà l’articolo di p. Enzo Bianchi uscito su ‘Jesus’ di questo mese:

La riforma della Chiesa sarà a caro prezzo, prepariamoci!

di Enzo Bianchi
in “Jesus” del dicembre 2013

Non posso dimenticare che uno dei miei primi interventi pubblici con una certa risonanza avvenne
durante un convegno organizzato da p. Balducci e p. Turoldo a Firenze, nel primo post-concilio, e
divenne poi un articolo pubblicato su Rocca. Era la stagione dell’entusiasmo dovuto alla primavera
inaugurata da papa Giovanni e dal Vaticano II: stagione della “vittoria” di un nuovo modo di vivere
la chiesa e di edificarla da parte di tutti i cristiani; stagione di “riforma” contrassegnata da
un’atmosfera di fervore e di impazienza; stagione sulla quale io avvertivo però tanta presunzione,
circa gli sviluppi possibili di quella straordinaria svolta.
Sorprendendo non poco gli amici con i quali si dialogava intensamente di riforma liturgica, allora
ancora allo studio, di vita ecclesiale in stato di conversione per una conformità più profonda alla
chiesa come il Signore l’aveva voluta e di dialogo nella mitezza e nella povertà dei mezzi con
l’umanità contemporanea, io misi in guardia da un facile ottimismo. Se davvero si fosse imboccata
la strada della riforma evangelica della chiesa e del suo ordinamento (papato, episcopato, laicato) –
dissi –, si sarebbe andati incontro a un tempo in cui ogni trionfalismo sarebbe stato contrastato da
fatica, da sofferenza e finanche da lacerazioni, perché c’è una necessitas passionis della chiesa che è
dovuta alla necessitas passionis vissuta dal suo Signore Gesù Cristo. Sarebbe avvenuto per la chiesa
come per Gesù: le potenze messe al muro dalla “logica della croce” (1Cor 1,18) si sarebbero
scatenate e ci sarebbe stato un “urto” anche con il mondo, sicché nella vita ecclesiale molti
avrebbero dovuto soffrire (sì, occorre dirlo, patire!). Se infatti la conversione personale richiede
rinuncia, fatica, distacchi e quindi sofferenza, tanto più la conversione delle comunità e delle chiese.
Si sarebbe soprattutto vissuta una duplice tentazione. O arrendersi al mondo, mondanizzandosi, non
mostrando più la differenza cristiana, svuotando la croce, annacquando il Vangelo, piegandosi alle
richieste del mondo; oppure affrontare il mondo con intransigenza e munirsi delle sue stesse armi:
presenza gridata, volontà di contare e di contarsi, atteggiamento da gruppo di pressione, assunzione
di compiti non assegnati dal Signore. In ogni caso, restava più difficile la via di “una chiesa povera
e di poveri”, di una chiesa che contasse solo sul Signore e non sui “potenti di questo mondo” (1Cor
2,6.8; cf. Mt 20,25), di una chiesa dialogante con gli uomini nella mitezza e nella libertà, senza
paura e senza l’ossessione di doversi difendere e vivere come cittadella assediata.
Le chiese sono diverse e si può dire che tutte queste scelte sono state imboccate, ora qui ora là, e in
modo diverso nelle diverse chiese. Sappiamo bene cosa abbia scelto la chiesa italiana, dimenticando
che la sua libertà non può essere vissuta al pari delle altre libertà di cui parla il mondo, perché la
chiesa non è mai tanto libera come quando il mondo la contraddice e la umilia. Sì, per la chiesa c’è
una pace che è più malefica di ogni guerra, “pax gravior omni bello”!
Oggi è nuovamente in atto per la chiesa una primavera, inaugurata da papa Francesco. L’entusiasmo
è molto: non voglio certo spegnerlo, ma ancora una volta sento il dovere di mettere in guardia me
stesso e i miei fratelli e sorelle nella fede. Siamo disposti a bere il calice che Gesù ha bevuto (cf. Mc
10,38; Mt 20,22)? Ogni riforma della chiesa, se è evangelica, è a caro prezzo: per tutti e anche per il
successore di Pietro che non potrà attendersi, almeno dall’interno della chiesa, dai suoi, dalla sua
casa, facile riconoscimento e facile obbedienza. Sarà più facile che lo ascoltino – come è avvenuto
per il Battista e per Gesù – “pubblicani e prostitute” (cf. Mt 21,2; Lc 7,34; 15,1), “samaritani e
stranieri” (cf. Lc 17,38; Gv 4,39-40).
Queste ipotesi turbano e non vorremmo sentirle; eppure, se è accaduto a Gesù, al Signore, c’è forse
un discepolo che è più grande del maestro (cf. Mt 10,24; Lc 6,40; Gv 15,20)? O un un successore di
Pietro che non conosca la passione e la tentazione di sfuggirla rinnegando il Signore e il Vangelo? Èora più che mai di pregare per Pietro, non per una gloria mondana che non può essere sua, ma
perché, consolato dal suo Signore, resti saldo e possa confermare noi suoi fratelli (cf. Lc 22,31-32)
nel faticoso cammino verso il Regno.