l’eredità spirituale di N. Mandela

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la libertà

la forza della non violenza

la forza del perdono

 

in questo trittico può essere compendiato il messaggio e l’eredità spirituale di N. Mandela

mi piace dire il mio grazie personale a Mandela ricostruendo qui un collage di riflessioni (fra le tantissime, in questi giorni, uscite sui quotidiani e in internet) che bene evidenziano i valori per i quali Mandela ha sognato e ha giocato la sua vita, meravigliando il mondo e dandoci una vera e robusta direzione di vita

la prima riflessione è quella di P. Natalia su ‘l’Osservatore Romano’ odierno sulla tensione di libertà che ha mosso sempre Mandela

la seconda riflessione è quella di N. Nougayrède uscita su ‘le Monde’ odierno (in traduzione: www.finesettimana.org) sulla forza della non violenza

la terza riflessione è quella di D. Quirico che su ‘la Stampa’ del 5.12.2013 riflette sull’insegnamento che Mandela ci lascia sul perdono

La lezione di Madiba

di Pierluigi Natalia
in “L’Osservatore Romano del 7 dicembre 2013

“Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni. Niente li può
distogliere da questa meta. Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per
le terribili condizioni alle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni, in questo Paese”. E
ancora: “Non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza e come criminali di
fronte a questa corte dovrebbero essere portati i membri del Governo”. Nelson Rolihlahla Mandela
pronunciò queste parole davanti ai giudici che gli inflissero l’ergastolo nel 1963. Per Mandela non
occorre attendere “l’ardua sentenza” dei posteri. Per una volta, la verità è chiara ai contemporanei,
così come era chiara a lui in quel giorno. Ci sono persone che già in vita hanno meritato di essere
riconosciuti come pilastri della storia mondiale sul piano della statura morale e dell’impegno in
favore degli altri. È stato così per Madiba, il nome tribale affettuoso con il quale il suo popolo
chiamava Mandela, che ha speso la sua esistenza prima nella lotta contro l’apartheid e per la libertà
per il suo popolo e poi nello sforzo di costruire pace e riconciliazione, senza piegarsi mai alle
ingiustizie né alla sofferenza privata che pure non lo ha risparmiato.
Ma la sua non è stata una vicenda solo personale e neppure solo nazionale. Le decisioni giunte da
tutto il mondo, a partire dal presidente statunitense Barack Obama e dall’Unione europea, di mettere
bandiere a mezz’asta è espressione significativa di un lutto universale.
A Mandela non appartenne la scelta assoluta della non violenza, come fu per Gandhi. Mandela
passò infatti alla clandestinità dopo il massacro di Shaperville, quando in Sud Africa il potere
bianco eliminò volontariamente una settantina di esponenti dell’African National Congress (Anc), la
formazione alla quale aveva aderito nel 1944 diventandone il leader nelle campagne contro
l’apartheid. Da allora, Mandela guidò l’Anc decisa ad abolire, anche con il ricorso alle armi, quel
regime che imponeva sul piano legale e giuridico la segregazione e lasciava i neri privi di diritti.
La convinzione della giustizia di quell’azione fu tale che quando nel 1985, dopo oltre vent’anni di
carcere, l’allora presidente Pieter Willem Borha gli offrì la libertà purché rinnegasse la guerriglia,
Mandela rifiutò. Aveva infatti la certezza che quell’offerta implicasse un riconoscimento implicito di
aver condotto non una battaglia di libertà, ma una mera sovversione armata.
A spingere Botha era il tentativo di disinnescare, con un provvedimento giuridico che qualificasse
Mandela un personaggio predisposto alla violenza, l’onda d’urto contro il regime segregazionista
che si espandeva nell’opinione pubblica internazionale.
Anche in carcere, infatti, Mandela restò il simbolo e la testa pensante della ribellione, mentre la sua
immagine e la sua statura crescevano sempre più. Libero lo diventò nel 1990, senza condizioni,
quando le pressioni mondiali erano ormai tali da non lasciare alternative al regime segregazionista
ormai al tramonto. Tre anni dopo fu insignito del premio Nobel per la pace e il 27 aprile 1994 si
insediò alla presidenza del suo Paese, dopo le prime elezioni libere alla quali parteciparono i neri.
L’Africa era in quei giorni al centro dell’attenzione mondiale, nel bene e nel male. A Roma si stava
svolgendo il primo Sinodo sull’Africa, aperto il 10 aprile 1994, convocato e presieduto da Giovanni
Paolo II, che parlò di continente della speranza.
Ma in quello stesso aprile, in Burundi e soprattutto in Rwanda si scatenavano le violenze tra tutsi e
hutu che avrebbero causato il genocidio dei primi.
Assumendo il potere, Mandela era cosciente della responsabilità e lucido sui pericoli che esso
comportava. Visse il suo mandato in modo lungimirante e pragmatico, per liberare il Paese dal
giogo del razzismo culturale e istituzionale, ma anche per promuovere la pacificazione tra
popolazioni dilaniate dall’odio e dalla violenza.
La sua prima decisione fu infatti l’insediamento della Truth and Riconcilation Commission, la
Commissione per la verità e la riconciliazione, per fermare la micidiale spirale delle vendette tra
vittime e carnefici. Lasciò il potere dopo quattro anni, al compimento degli ottant’anni – era nato il 18 luglio 1918 – nella convinzione, praticamente unico caso nella storia africana segnata da
leadership a vita, che occorressero forze più giovani.
Prima di allora aveva vinto un’altra battaglia. Trentanove case farmaceutiche gli intentarono un
processo per aver promulgato nel 1997 il Medical Act, una legge che permetteva al Governo del
Sud Africa di importare e produrre medicinali per la cura dell’Aids a prezzi sostenibili, senza
sottostare ai costi imposti dai titolari dei brevetti.
Anche in questo caso, l’opinione pubblica mondiale lo sostenne in nome di una giustizia sostanziale
che spesso confligge con le regole del commercio mondiale. E le multinazionali del farmaco
dovettero desistere dal proseguire la battaglia legale.
A conclusione della sua autobiografia, Il cammino verso la libertà, si legge: “Ho percorso questo
lungo cammino verso la libertà sforzando di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via.
Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare. Adesso mi
sono fermato un istante per riposare, per volgere lo sguardo allo splendido panorama che mi
circonda, per guardare la strada che ho percorso. Ma posso riposare solo qualche attimo, perché
assieme alla libertà vengono le responsabilità, e io non oso trattenermi ancora: il mio lungo
cammino non è ancora alla fine”.
Probabilmente non lo è neppure ora, perché la strada di simili personalità si prolunga nella storia.
Né lo è il cammino di quanti lo hanno amato e rispettato e ora devono viverne e tramandarne la
lezione: i contemporanei di Mandela che da oggi sono i suoi posteri.

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L’irresistibile forza della non-violenza

di Natalie Nougayrède
in “Le Monde” del 7 dicembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

La parola “icona” viene subito in mente quando si parla della vita di Nelson Mandela. Il suo sogno,
lo ha realizzato: far cadere l’apartheid, crudele sistema di oppressione sulla maggioranza nera
sudafricana. La sua capacità di resistenza, l’ha messa a servizio di tutto un popolo. La matricola
46664 del penitenziario di Robben Island aveva rifiutato tutte le offerte di liberazione sotto
condizione. Con questa limpida formula: “La libertà non si contratta, solo un uomo libero può
negoziare”.
Da questa vita di “murato vivo” è uscito nel 1990 senza aver mai pronunciato una parola di odio o
di vendetta. Ventisette anni di prigione, da cui è emerso senza esser diventato né rabbioso né
fanatico! Al contrario, è il suo formidabile spirito di concordia che permetterà al Sudafrica di
cancellare la vergogna e di entrare nel futuro. La formula “verità e riconciliazione” è stata la
matrice di questo apprendimento collettivo nazionale – e il paese lo deve a Mandela. Ci voleva un
uomo eccezionale per cambiare il corso della Storia. Mandela è stato quell’uomo.
Il pensiero di Mandela trovava ispirazione, lo sappiamo, nel percorso di Gandhi, le cui prime lotte
avevano avuto come teatro proprio il Sudafrica. La resistenza civile è stata la base di questa lotta:
come abbattere, in maniera non-violenta, un regime iniquo. Certo, l’ANC (African National
Congress) era il suo braccio armato, ma il movimento sarebbe senza dubbio fallito se ci fosse stato
solo il ricorso alle armi e gli attentati.
Non è difficile scoprire una “eredità Mandela” in altre lotte condotte per la libertà. Da Mandela a
Sakharov e ad Havel, dalle “rivoluzioni colorate” nell’ex URSS agli inizi della “primavera araba”
nel 2011, esiste sicuramente una filiazione. “Selmiyya, selmiyya!” (“Siamo pacifici!”), gridavano i
manifestanti di piazza Tahrir, al Cairo, in quelle febbrili giornate che avrebbero rovesciato il potere
del raïs.
Il parallelo più attuale e più impressionante lo troviamo in Birmania con Aung San Suu Kyi – altra
icona, assegnata al soggiorno obbligato per anni, irriducibile resistente di fronte ad una giunta che
ha finito per costringere a fare delle concessioni. Lo troviamo anche nella lotta pacifica e
ininterrotta del dalaï-lama.
Il messaggio di Mandela gli sopravviverà. È la dimostrazione che la tenacia inflessibile di un uomo
può portare alla liberazione di un popolo. Con la non-violenta e la riconciliazione come vessilli.
“L’amore e la verità trionferanno sull’odio e sulla menzogna”, diceva il dissidente Havel che, come
Mandela, sarebbe diventato il presidente del suo paese affrancato dall’oppressione.
Ogni lotta è diversa. Ma si giunge sempre a questa constatazione: l’importanza della forza di un
capo morale capace di mantenere la rotta e di trascinare una collettività superando le linee di
frattura più dolorose. Il volto della Russia contemporanea sarebbe stato diverso se il destino avesse
prestato una lunga vita ad Andrei Sakharov, figura aggregante, morto nel 1989. Nelle rivolte arabe,
abbiamo cercato invano un simile nume tutelare. E chi può predire se un altro eroe, gettato dietro le
sbarre, il premio per la pace Liu Xiaoboo, non sarà domani il “Mandela” della Cina?
Le aspirazioni alla dignità e ai valori universali devono incarnarsi per superare i peggiori ostacoli. È
quella la potenza di ispirazione di un uomo esemplare e visionario. Noi dobbiamo molto a Nelson
Mandela.

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Nelson Mandela, il prigioniero che ha insegnato il perdono al mondo

di Domenico Quirico
in “LaStampa.it” del 5 dicembre 2013

La virtù non è insipida, e la più grande avventura umana sarà sempre la santità. Forse il santo vero è
un uomo che non si stanca di smascherarsi e di identificare sempre in se stesso le passioni dal viso
velato. Ecco, questa è la ‘’santità’’ di Mandela: il prigioniero politico che, al prezzo di 26 anni di
prigione implacabile, conquista il potere e poi lo baratta, volontariamente, con la libertà morale
necessaria per poter giudicare gli infiniti mali del mondo. Il prigioniero che perdona i suoi aguzzini,
il sinedrio e gli sgherri dell’apartheid, dell’ultimo razzismo bianco. Mandela ha perdonato e
insegnato a perdonare: cosa c’è di più scandaloso nel secolo incatenato alla Memoria, all’obbligo di
non dimenticare per spartire giusti e colpevoli?
La santità di Mandela esiste non in quanto il mondo ha cercato di cucirgliela addosso (l’icona, il
santino da comodino e da gadget, il buonista usa e getta); ma in quanto lui stesso l’ha rifiutata: ‘’Mi
si considera un santo: io non lo sono, non lo sono mai stato anche se si fa riferimento alla
definizione più concreta secondo cui un santo è un peccatore che cerca di rendersi migliore…’’.
Eppure….incontrandolo intuivi ciò che saliva in ogni istante, dal più profondo alle labbra di
quell’uomo: la confidenza, chiave del suo destino era già nelle sue labbra semiaperte, accendeva i
suoi occhi di fanciullo. Sentivi il calore di fornace di un cuore bruciante, aperto e già abbandonato.
Ansiosi di sollevare le grosse pietre della sua biografia, ci lasciamo sfuggire tra le dita la sabbia
sottile di cui è fatta la grande spiaggia della sua vita.
E’ vissuto in un secolo in cui il destino del mondo, il destino dell’Africa cambiava, in lotte titaniche
che neppure turbavano il soddisfatto silenzio del pianeta dei ricchi. Si vedevano crepacci che
tradivano il lavorio interno, la rovina della Storia e delle idee antiche. La sua biografia scorre come
una leggenda, di quelle che si raccontano al centro dei villaggio sotto il baobab, l’albero che dio,
prima che arrivassero i bianchi ha punito rovesciandolo dalla parte delle radici perché invidioso
della sua bellezza: il figlio di capi che portava, a piedi scalzi le pecore al pascolo come i re pastori
dell’Iliade; l’avvocato senza paura che sfidava i signori dell’apartheid e diventava militante; il
murato vivo di Robben Island, matricola 46664, nella tomba per i vivi da cui non c’è scampo. La
solitudine… l’ha conosciuta bene Mandela. La solitudine del prigioniero e quella dell’uomo di
successo; del marito tradito della bella Winnie che non ha saputo aspettare e aveva troppe
ambizioni; la solitudine del mito: che si mostra, di colpo, al centro della nostra vita, della nostra
giornata, della nostra sera, col suo silenzio il suo vuoto, i suoi cattivi consigli. Regna in noi, ci sfida,
noi la cui vita sembra perfetta, osannata dal mondo, la vita di Madiba, il signore dell’Africa nuova.
Nessun momento felice riesce a vincerla sul suo terreno, sa che anche al culmine della nostra gloria
non sarà meno inflessibile padrona della nostra vita. Eppure dal fondo di questa solitudine in cui
soffriva, il furore di Mandela si comunicava a tutto un continente: come fuoco.
Undici febbraio del 1990: la Storia ricomincia di lì, dalla folla che lo attende all’uscita della
prigione gridando ‘’potere al popolo!’’, mentre il marciume dell’apartheid, finalmente, cade in
pezzi. Mandela il creatore, il rivoluzionario che quel giorno ha annullato la sua creazione, che ha
chiesto ai suoi di perdonare nonostante i ricordi ancora brucino sotto una cenere mal spenta.
Dimenticare per non essere più impregnati di un veleno che rimane in noi e che non abbiamo finito
di eliminare. Perché soffrire sembra una cosa meravigliosa all’uomo che si è sentito vicino alla
morte in quel carcere e scopre improvvisamente di essere vivo E poi dopo nove anni, nel suo
destino, nel destino dell’Africa un altro strappo: la rinuncia al potere, volontaria, quasi un miracolo
nel continente dei satrapi dei presidenti dei raiss che solo la morte costringe a uscire dal Palazzo. Un
esempio: anche se le idee maturano lentamente, per successive cristallizzazioni, come Stendhal
disse che accade per l’amore. Da vecchio Mandela non ha mai perso quella passione dello spirito, quel fervore che sono una delle particolarità della giovinezza: ‘’Sono il padrone del mio destino, il
capitano della mia anima..’’. Ecco: il guazzabuglio di errori e di violenze di cui è fatta la politica del
mondo ha fatto si che lo stupore sia una facoltà di cui questa generazione ha dimenticato l’uso.
Mandela è lì, per restituircela.




il saluto dei bambini a Mandela

Ciao Madiba!

Il saluto dei bambini

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Piangono, sorridono, portano un fiore. Si avvolgono in una sua bandiera. Sono i tantissimi bambini accorsi per l’ultimo saluto a Madiba, forse catturati dal sorriso spontaneo o dallo sguardo intenso. Lui era il “nonno” che tutti avrebbero voluto e loro guardano la sua foto, la sfiorano. E sperano che un giorno quel suo sogno affinchè tutti i bambini godano di una buona educazione, perchè sono loro il futuro del mondo, divenga realtà. 




il caos in cui versa l’Italia di oggi

caos immobile

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ha ragione da vendere A. Padellaro nel delineare, ne ‘il fatto quotidiano’ odierno la preoccupante situazione in cui versa l’Italia come di barca alla deriva che vede tutti contro tutti fino alla tensione suprema tra chi vuole andare a votare subito, senza prospettive, e chi vuole che tutto resti com’è in un ‘caos immobile’ che ha il fetore dell’acqua stagnante!
così A. Padellaro:

Tutti contro tutti. L’Italia è una barca alla deriva come forse mai nella storia repubblicana. Di drammi, di momenti difficili il nostro paese ne ha vissuti tanti, eppure perfino nei giorni bui del terrorismo si avvertiva l’esistenza di una bussola collettiva politica e morale che orientava le persone e le faceva sentire partecipi di una comunità e non un popolo allo sbando. Oggi su giornali e nei tg compaiono solo scene di battaglia. Al Brennero, dove sulle barricate del made in Italy si agita il ministro De Girolamo di lotta e di governo, magari animata dalle migliori intenzioni, ma che finisce per essere il simbolo di una grottesca confusione dei ruoli. Fino alla Sicilia, dove le truppe furiose dei Forconi annunciano: “Bloccheremo l’Italia” e si preparano a passare lo Stretto con carovane di tir per unirsi alla protesta veneta. Mentre nella Capitale non c’è categoria in rivolta che non cinga d’assedio Montecitorio, il palazzo più odiato d’Italia. La colonna sonora della nazione, del resto, sono le urla delle piazze o gli strilli che escono dai televisori, dove gli ascolti si misurano con i decibel della rabbia.

In un momento così difficile, con la sentenza sulla porcata elettorale, la Corte costituzionale ha cercato di richiamare ai propri doveri i partiti e il governo. Oltre ai rilievi in punta di diritto, la Consulta ha trasmesso alle istituzioni di ogni ordine e grado un messaggio chiarissimo: sono anni che non riuscite a mettervi d’accordo su una legge elettorale degna di questo nome, adesso non avete più scuse. Il giorno dopo questo ceffone, una classe politica e di governo degna di questo nome si sarebbe messa al lavoro. E invece la rissa divampa più di prima. Non esiste uno straccio di accordo, ma Camera e Senato trovano il modo di litigare su chi abbia la precedenza nella discussione sulla riforma che non c’è. Dal Quirinale, il presidente Napolitano rassicura sulla totale legittimità dell’attuale Parlamento e di quello precedente, che infatti lo hanno eletto per la prima e per la seconda volta. Tesi discussa e discutibile poiché si obietta che una legge costituzionalmente malata è difficile che dia risultati sani. Senza contare la guerriglia in corso tra chi vorrebbe andare a nuove elezioni subito (Berlusconi, Grillo e forse anche Renzi) e chi invece vuole conservare lo status quo (Napolitano, Letta, Alfano). E tutto resta fermo. Siamo il Paese del caos immobile.

 

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il censis fotografa la nostra realtà ‘infelice’

 siamo una società sciapa e infelice

in cerca di connettività 

Censis: Siamo società sciapa e infelice in cerca di connettività

 

non è proprio bello il quadro che il Censis oggi delinea della società italiana: senza fermento, ‘sciapa’, con crescente immoralismo e disinteresse per ciò che concerne che costruiscono la comunità

 

Una società sciapa e infelice. E’ il quadro del Paese che emerge dalle considerazioni generali del Censis sul 47esimo Rapporto sulla situazione sociale 2013, presentato oggi a Roma. “Oggi – si legge – siamo una società più ‘sciapa’: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. E siamo malcontenti, quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali”. “Si è rotto – sottolinea il Censis – il ‘grande lago della cetomedizzazione’, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti”. “Il filo rosso che può fare da nuovo motore dello sviluppo è la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi”, si legge ancora. “È vero – prosegue il Censis – che restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni. Eppure la crisi antropologica prodotta da queste propensioni sembra aver raggiunto il suo apice ed è destinata a un progressivo superamento”.

 




a che punto è il ‘questionario’

Verso il Sinodo, a passo di lumaca

Le diocesi italiane rallentano la consultazione dei fedeli

sembra percepita anche da altri la sensazione di un rallentamento che le diocesi italiane operano nei confronti del ‘questionario’ composto di 38 domande che papa rancesco vuole in mano ad ogni fedele in vista del sinodo straordinario sulla famiglia

sembra addirittura quasi confermata dal segretario generale del sinodo mons. Baldisseri che in un’intervista confessa: “il testo non è stato subito distribuito”

dopo circa due mesi ancora in alcune diocesi le parrocchie non sono state ancora informate: dalle curie delle diocesi più grandi il ‘questionario’ è stato inviato solo pochi giorni fa; la diocesi di Bologna sembra aver operato perfino una ‘censura’ o quanto meno un elenco ‘selettivo’

fa un pregevole  punto della situazione Luca Kocci in un articolo che riproduco qui sotto:

“Adista”

n. 43, 7 dicembre 2013

Luca Kocci

Che in Italia la consultazione fra i cattolici in vista del Sinodo dei vescovi del prossimo ottobre sul tema della famiglia, tramite il questionario di 38 domande (più una di carattere generale) predisposto dalla Segreteria generale (v. Adista Notizie n. 40/13) proceda a rilento ormai lo ammette anche lo stesso mons. Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo, che, intervistato dal giornalista Giovanni Panettiere per il Quotidiano nazionale (25/11), confessa: «L’invio del testo agli episcopati è recentissimo e occorre il suo tempo per diffonderlo. In Italia non è stato subito distribuito. Ma adesso non risultano lentezze».

Le tappe sono ben scandite. Nella seconda metà di ottobre dal Vaticano è partita una lettera inviata alle Conferenze episcopali di tutto il mondo contenente il documento preparatorio – reso poi noto a tutto il mondo e pubblicato sul sito internet del Vaticano il 5 novembre – per la III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi, sul tema “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, in programma dal 5 al 19 ottobre 2014.

Allegato al documento, un questionario di 38 domande che le Conferenze episcopali avrebbero inviato alle singole diocesi affinché, dopo una consultazione con la “base”, rispondessero alle domande anche su temi particolarmente spinosi, dai divorziati alle coppie omosessuali. Entro il 31 dicembre le singole diocesi dovranno inviare le riposte alle Conferenze episcopali le quali, a loro volta, entro il 31 gennaio predisporranno una sintesi da inviare alla Segreteria del Sinodo.

Le diocesi: senza fretta, in ordine sparso

Tempi strettissimi che, affinché la consultazione sia realmente capillare e partecipata, dovrebbero richiedere una particolare sollecitudine soprattutto da parte delle diocesi. Eppure le «lentezze» che, con un certo ottimismo, Baldisseri dice essere state superate continuano ad esistere in molte diocesi italiane. Il segretario generale dalla Conferenza episcopale italiana, mons. Mariano Crociata, il 23 ottobre ha inviato una lettera a tutti i vescovi delle 226 diocesi italiani per invitarli a promuovere la consultazione. Ma dal giorno dopo le diocesi si sono mosse in ordine sparso, come risulta da un “sondaggio” effettuato da Adista non sulla totalità delle curie ma su un campione ampiamente rappresentativo: una sparuta minoranza (inferiore al 10%) sì è attivata subito, sollecitando immediatamente i parroci ad avviare la consultazione; una metà delle diocesi se l’è presa con comodo, avvisando i parroci nella seconda metà del mese di novembre; ed il restante 40% è rimasto fermo, tenendo il questionario ben chiuso nei cassetti di qualche ufficio diocesano, tanto che diversi parroci interpellati da Adista hanno risposto di aver appreso dell’esistenza del questionario solo dalle notizie circolate sulla stampa.

A Milano, per esempio, diocesi guidata dal card. Angelo Scola, la lettera ai parroci è partita dalla curia il 18 novembre. A Genova, dove c’è il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco – che quindi avrebbe dovuto essere l’apripista –, solo il 20 novembre. A Roma, firmata dal vicario del papa, il card. Agostino Vallini, qualche giorno prima; così come a Firenze, dove c’è mons. Giuseppe Betori.

E poi ci sono i casi particolari. A Bologna, per esempio, il card. Carlo Caffarra ha operato una selezione “a monte”, inviando ai parroci, perché ne discutessero con i fedeli, non il questionario integrale di 38 domande predisposto dalla Segreteria del Sinodo, ma una forma brevis: censura preventiva oppure semplificazione di un questionario di cui molte domande sono scritte chiaramente pensando più agli uffici diocesani che ai fedeli?

A Venezia poi, dove c’è il ratzingeriano allievo del card. Siri, mons. Francesco Moraglia, la comunicazione ai parroci è arrivata solo il 27 novembre, pregandoli però di discutere le domande del questionario solo con un ristretto gruppo di parrocchiani.E alcuni vescovi delle Marche – dove la distribuzione è tutt’altro che omogenea – riferiscono che da fonti Cei siano arrivate indicazioni secondo le quali il questionario, e quindi la discussione, «si deve fermare ad un certo livello»: meglio non coinvolgere troppo la base e i laici, dai quali potrebbero arrivare delle sollecitazioni non perfettamente in linea con il magistero.

Gruppi di base: un’occasione da cogliere

Se la maggior parte delle diocesi frena e si mostra particolarmente prudente, molti gruppi di base – pur con qualche rilievo critico – hanno invece colto l’occasione e sono partiti con slancio appena la documentazione e il questionario sono stati pubblicati sul sito internet del Vaticano (il 5 novembre): si sono già svolti e si svolgeranno nei giorni successivi incontri informali di gruppi, associazioni e comunità per confrontarsi e in molti casi elaborare delle risposte collettive. Così come alcune riviste, ad esempio il quindicinale dei dehoniani Il Regno ha inseririto sul proprio sito internet la documentazione, sollecitando i lettori a rispondere.

Anche la nostra agenzia ha pubblicato il questionario (v. Adista Segni Nuovi n. 42/13) invitando i lettori a rispondere alle domande – singolarmente o in gruppo –, inviando poi le risposte al proprio vescovo diocesano e, chi lo desidera, ad Adista che eventualmente le pubblicherà in stralci o integralmente (e-mail: info@adista.it, fax 066865898).

Boicottaggio in atto?

«Il questionario predisposto per la consultazione del Popolo di Dio in preparazione del Sinodo sulla famiglia del prossimo ottobre è un fatto nuovo e molto positivo», scrive in comunicato del 25 novembre scorso il movimento Noi Siamo Chiesa. «Per la prima volta in modo formale e generalizzato si riconosce che queste tematiche devono essere affrontate a partire dal vissuto di tutti i credenti nell’Evangelo, donne, uomini e coppie, con le loro gioie e le loro sofferenze. La proposta di discutere di queste grandi questioni esistenziali, in particolare dei loro aspetti più difficili e controversi, apre il cuore alla speranza che finalmente non si proceda più nella Chiesa sulla vecchia strada di precetti imposti e astratti dalla realtà, ma su quella che inizia dalla volontà di ascolto».

La consultazione però, prosegue Noi Siamo Chiesa, non deve «essere ristretta agli organismi diocesani e neppure solo a quelli parrocchiali, ma coinvolgere la generalità dei credenti. Essa deve essere aperta anche ai cristiani e alle cristiane di altre Chiese nonché a donne e uomini di buona volontà, che siano sensibili alle tematiche relative alla spiritualità e interessati a offrire il loro apporto costruttivo su questioni che coinvolgono la vita e gli interrogativi etici di ogni persona. Per questo – ancora la sezione italiana di Nsc – ci sembrano saggi quei parroci che hanno deciso di mettere a disposizione nelle chiese i questionari e quei vescovi di altri Paesi che hanno chiesto risposte on-line al testo. Ci dispiace invece constatare che le strutture della Chiesa italiana si stanno muovendo con troppo ritardo e con evidenti reticenze».

«Un mese è stato perso, solo in questi giorni arrivano ai parroci indicazioni dalle Curie diocesane ed esse prevedono, a quanto ci risulta, l’intervento sul questionario al massimo degli organismi parrocchiali e, in certi casi, neanche di quelli»; il quotidiano Avvenire poi «tace completamente dall’inizio sulla consultazione mentre è ben noto come sia pronto e assillante in altre “campagne”. Tutto ciò non ci sembra casuale, indica il disorientamento di molti vescovi. I tempi sono strettissimi, l’Avvento e il periodo natalizio sono già densi di impegni di ogni tipo. Ci chiediamo, allora, se non ci si trovi di fronte a un vero e proprio strisciante boicottaggio del questionario o, nel migliore dei casi, alla convinzione che si tratti solo di un dovere burocratico, inutile o quasi, da mettere in coda a tutti gli altri, necessario solo per non dire di no apertamente al Vaticano».

«La nostra opinione – conclude il comunicato del movimento – è radicalmente diversa. Ogni sede del mondo cattolico, dalle associazioni alle riviste, ai siti internet, è buona per ricevere le risposte, per elaborarle correttamente o non elaborarle e trasmetterle direttamente alla segreteria generale del Sinodo, che è un terminale abilitato a ricevere i questionari anche dai singoli. La possibilità di inviare direttamente i questionari dovrebbe sempre essere fatta presente dai nostri vescovi. Sul questionario si pronuncino i teologi, le facoltà teologiche, gli insegnanti di religione, le comunità di religiose e di religiosi, anche i monasteri di clausura, ma soprattutto le madri e i padri di famiglia, le giovani e i giovani, gli appartenenti alle minoranze sessuali, le coppie di ogni tipo e tutti quanti vivono in prima persona le tematiche esistenziali poste dal questionario. Anche i cristiani e le cristiane delle altre Chiese offrano, in spirito ecumenico, il loro apporto.

“Noi Siamo Chiesa” per esempio «elaborerà in tempi rapidi una propria risposta al questionario, accogliendo così la richiesta di papa Francesco di una partecipazione la più ampia possibile a un’iniziativa di per sé storica».

 




anche a Lucca baby squillo

“Sesso e foto hard se mi fai una ricarica”: tredici anni, proposte choc ai compagni

 

Accade in una scuola media

La denuncia di un nonno

 Ha soltanto 13 anni. Ma si propone come una donna «esperta», facendo propria anche un’attenta strategia marketing. Dice di essere pronta a rapporti orali, di poter offrire le foto delle sue parti intime, di promettere momenti «speciali». Si fa avanti personalmente con i suoi compagni, ma li contatta anche, privatamente, sui social e per sms. Ma tutto ha un prezzo. In cambio chiede infatti qualche euro, quello che serve per una ricarica telefonica, per soddisfare gli sfizi di una ragazzina appena adolescente.

UNA STORIA choc che arriva da una scuola media lucchese. A raccontarla è un nonno che ci contatta direttamente in redazione. «Mio figlio preferisce non alzare polverone, non lo ha detto nemmeno alla preside e non ne vuol parlare con i genitori della ragazza – dice -. Ma io personalmente non mi sento di far passare del tutto sotto silenzio un fatto inquietante. Mio nipote che quest’anno frequenta la terza media è stato avvicinato con esplicite avances sessuali da una coetanea della sua scuola. Ha proposto a lui e ad altri ragazzini di fare sesso o di scattarsi foto oscene in cambio di soldi o ricariche telefoniche. E’ allucinante, sarebbe perfino incredibile se non si trattasse di mio nipote, il modo in cui si è proposta, praticamente senza limiti né inibizioni. In famiglia siamo rimasti sconvolti». Episodi simili erano venuti alla luce, ma in età decisamente più avanzate. In questo caso non solo si tratta di una minorenne, ma di una ragazzina di appena 13 anni.

«NON VOGLIO alzare il polverone nelle famiglie, né mettere in croce una scuola che per molti aspetti funziona bene e che non può certo essere responsabile di tutto ciò che avviene. Ma mi sembra doveroso – sottolinea il nostro lettore – far sapere che anche nella nostra apparentemente placida Lucca, esistono problematiche sociali drammatiche, di cui magari molti sono già a conoscenza ma fanno finta di non vedere. La sfrontatezza delle ragazzina, la mancanza assoluta di valori e di amor proprio, unite forse al volersi mettere in luce a tutti i costi, ci devono far riflettere».

UN CASO choc, piovuto a Lucca sull’onda lunga degli episodi romani, in cui le baby squillo si proponevano sul web con espliciti inviti e ammiccamenti. «Un problema che esiste, temo che infatti sia tutt’altro che circoscritto alla compagna di scuola di mio nipote. Le istituzioni, la chiesa, le associazioni e gli psicologi, devono far quadrato per affrontare questa nuova, drammatica emergenza sociale».

il quotidiano ‘la nazione’ giustamente ha voluto riflettere su questo caso certamente preoccupante e ha intervistato una psicologa che definisce grave un caso come questo ed è importante denunciarlo (di seguito l’articolo de ‘la nazione’ con l’intervista di Laura Sartini alla psicologa Lavinia Lombardi9

Baby-squillo alle scuole medie, parla la psicologa: “Casi gravi da denunciare”

“L’obiettivo e’ comprare vestiti griffati per essere accettati

 Fa discutere il caso dellaragazzina di terza media, studentessa in una scuola lucchese, disposta a concedere sesso in cambio di qualche euro. Un nonno ci aveva segnalato il fatto: suo nipote era stato avvicinato con esplicite avances dalla compagna di studi. Con il sorriso e lo sguardo malizioso gli aveva anche sommariamente descritto il «menù», che includeva anche la possibilità di riceverefoto delle sue parti intime.

Sul prezzo ci si poteva accordare (anche se fino a un certo punto). Non grandi pretese, bastava l’equivalente per una modesta ricarica telefonica. Un racconto inquietante che il nostro lettore ci ha voluto comunicare per sensibilizzare la società lucchese. «Puntare il dito sulle strutture territoriali che non funzionano, come sulla famiglia, non è la risposta — replica oggi ladottoressa Lavinia Lombardi, psicologa e consulente insieme alla dottoressa Consuelo Giuli del progetto “Area Cognitiva ” per la zona di Lucca, oltre che membro attivo dello sportello ascolto nelle scuole —. Non c’è un clichè, ogni caso è specifico. E’ chiaro che la società cerca di rispondere, ma lo è altrettanto che certi fatti, molto spesso, passano sotto traccia. I ragazzi non ne parlano in famiglia e quasi mai con noi psicologi.

IL PROBLEMA è quello dell’inconsapevolezza. E mi spiego. Qui siamo di fronte a un’inconsapevolezza delle conseguenze e non del gesto specifico. Loro hanno ben chiaro l’obiettivo: quello di comprarsi la maglia griffata, in modo di poter stare a pieno titolo nel gruppo di appartenenza. Il desiderio diventa volontà e travalica i limiti. Qui arriva appunto l’inconsapevolezza della ricaduta sulla vita sociale, sulla visione di loro stessi. Tutto questo viene al momento resettato per fare spazio all’obiettivo perseguito».

MA PER QUALI motivi, in modo quindi più aperto e diretto, i ragazzi si rivolgono allo sportello ascolto nelle scuole? «Di solito — dice la psicologa — si tratta delle problematiche di ansia legate al rendimento scolastico. C’è in molti la rincorsa alla migliore performance, secondo le rispettive ambizioni. Inoltre molti vivono il timore di essere messi da parte nel gruppo, soprattutto di essere giudicati. Anche se il motivo più specifico del nostro contributo è legato ai disturbi specifici dell’apprendimento e ai conflitti preadolescenziali ed è chiaro che i casi più complessi vengono poi raccomandati per un percorso più mirato di psicoterapia».

 

di Laura Sartini




i primi 6 capitoli della biografia di Tonino Bello

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BIOGRAFIA DEL SERVO DI DIO ANTONIO BELLO

di Sergio Magarelli

 

(l’ho trovata su fb e la pubblico volentieri, purtroppo coi limiti con cui l’ho trovata, cioè con i tanti sbagli contenuti nel primo capitolo non rivisto)

1. La croce del sud

I trattati di pace del 1919 e del 1920, all’indomani della prima guerra mondiale, avevano in qualche modo arginato i problemi causati dal grande conflitto. Una delle novità più concreteed innovative di quella fittissima rete diplomatica fu la creazione della Società delle Nazioni, una Organizzazione internazionale che doveva garantire alle popolazioni vittime della guerra il mantenimento della pace e di un nuovo assetto politico e sociale.

Le aspettative furono peròdeluse, perché una radicale trasformazione dei sistemi politici nell’Europacentro-occidentale e l’avvento di Hitler al potere (30 gennaio 1933),rappresentarono una seria minaccia alla pace. Infatti, il principale obiettivodella politica nazista era quello di assicurare alla Germania un incontrastatodominio su tutti gli altri Stati, e per raggiungere questo scopo Hitler nonrisparmiò mezzi antidemocratici, nonché brutali.

Nell’ostacolare il grave pericoloche ormai la Germania rappresentava, i Paesi europei ed extra-europei nonavevano che pochissime scelte: o costituire una coalizione contro la Germania,o allacciare con essa relazioni diplomatiche per evitare dissapori cheavrebbero potuto degenerare pericolosamente. La seconda possibilità fupreferita alla prima.

Ma le nuove relazioniinternazionali, in realtà, non fecero altro che nascondere le vere crisipolitiche e le apparenti distensioni che di lì a poco avrebbero generatol’orrore più inspiegabile che la storia ha poi partorito: la seconda guerramondiale. Erano quelli gli anni che vedevano l’Italia passare dallo Statoliberale alla dittatura fascista; erano gli anni della politica imperialistica.E mentre tutto questo accadeva, nel 1935 un’altra storia, una tutta d’amore,preparava Maria Imperato a partorire Tonino, la contropartita alla guerra, luiche della pace farà l’anelito più grande della sua vita.

Era il 18 marzo. Alessano,piccolo paese in provincia di Lecce, metteva alla luce l’ennesimo figlio, anchelui destinato a fare i conti con la povera condizione meridionale. Quella delsud è una realtà difficile da spiegare, è una “croce” ormai radicata da secoliin una avversa congiuntura storico-sociale che, accompagnata anche da pochi edinefficaci interventi di natura politica, non ha permesso di allontanare il meridionedal suo antico stato di arretratezza. Anche Alessano è coperta dall’ombra diquesta croce.

L’abitazione della famiglia Belloera sistemata in via Scipione Sangiovanni, al numero civico 17. E fu proprio lìche il piccolo Tonino aprì gli occhi al sole consegnando all’anagrafe, e allastoria, il suo nome: Antonio Giuseppe Mario Bello. Il papà, Tommaso, in passatoera già stato sposato e da quel matrimonio erano nati due figli maschi:Giacinto Antonio Carmine e Vittorio Nunzio Emilio. Rimasto poi vedovo, sposò inseconde nozze Maria Imperato dalla quale ebbe altri tre bambini. Tonino fu ilprimo a nascere, e a lui seguirono in ordine Trifone Nazzareno e MarcelloFernando.

Tommaso, che era maresciallo deicarabinieri in congedo, fece appena in tempo a mettere al mondo i suoi tre caripargoletti perché da loro, e dalla moglie Maria, dovette veramente congedarsiper sempre. La stessa sorte toccherà ai due figli del primo matrimonio.Carmine, che era radiotelegrafista sui MAS, morirà per infarto a Milano, nell’abitazionedella sua fidanzata. Vittorio, cannoniere in Marina, perderà la vita in seguitoall’affondamento della corazzata “Roma”. Era in pieno svolgimento la grandeguerra.

La croce del sud aveva cosìallungato la sua ombra, oscurando la casa e la famiglia Bello. Ma la signoraImperato con i suoi tre piccoli, messa a dura prova dal destino, non si lasciòcadere nella disperazione e nello sconforto. Anzi! Lo stesso Tonino, quandosarà vescovo, racconterà così: «Sono nato in una famiglia molto modesta, mamolto amante del Signore. Ho perduto mio padre a cinque anni. Ma mia madre nonsi è scoraggiata ed ha avuto molta fiducia nel Signore. Non era una bigotta edha condotto avanti tutta una famiglia».

Arrivarono per Tonino i tempidestinati a ricevere i primi sacramenti. Battesimo e Cresima gli furonoamministrati nella chiesa di Alessano, a volte designata come la cattedrale delpaese. Fu prorpio in questo luogo che Tonino cominciò a muovere i primi passidi un lungo cammino, imparando di certo qui il passo degli “ultimi” che loporterà alla sequela di Cristo.

I primi passi nella vita sonosempre i più difficili e non raramente si è soli in questa circostanza; Tonino,invece, ebbe attorno a sé qualcuno che intuì in lui inclinazioni particolari.Don Carlo Palese, per esempio, che era il parroco del paese, aveva già capitoche in quel ragazzo si sarebbe realizzato un grande progetto e lo seguiva conparticolare attenzione nella sua crescita spirituale. Anche la mamma, lasignora Maria, vuole la sua parte nell’aver accreditato al proprio figliolo unagiusta strada. Anzi, fu proprio lei a confidare al parroco, don Carlo, le sueintenzioni su quello che sarebbe stato di Tonino.

Infatti, quando il ragazzoterminò le elementari, i parenti non avevano alcun minimo sospetto di ciò chesarebbe accaduto. Per loro era normale pensare che Tonino frequentasse lascuola media nel proprio paese. Rimasero invece stupefatti quando vennero asapere che il ragazzo stava per essere avviato al seminario diocesano diUgento, dove avrebbe dovuto compiere gli studi ginnasiali. Questo fu decisodalla mamma, e Tonino consenziente rimase contento.

Nel paese, intanto, il piccoloTonino aveva già iniziato a conoscere la “sua” gente. Coetanei e adultidivennero subito i suoi privilegiati interlocutori. Nel tempo libero anche ilmare diventò la sua grande passione. Le lunghissime nuotate e gli interminabilituffi nel mare di Leuca lo vedevano assoluto protagonista di vere e propriegare con amici. Nel nuoto non aveva rivali, era il migliore. Anche da adultoconserverà questo entusiasmo per il mare. Quando il tempo e il lavoro gliconcedevano un po’ di tregua ne approfittava per trasferirsi nella sua terrad’origine, dove trascorreva brevi vacanze a nuotare nel mare di Santa Maria diLeuca.

Tutta l’infanzia fu da Toninovissuta nella semplicità e nell’umiltà, e in quei valori si forgiò il suo animoe la sua personalità. Era ormai pronto a realizzare quel grande progetto che sistava manifestando per volontà di sua madre. Intanto la seconda guerra mondialeera da poco finita. La miseria, la disoccupazione, le distruzioni furono anchein Italia le sue conseguenze. La gente iniziò a trovare fortuna altrove,lasciando le proprie città per recarsi in terre lontane.

Anche per Tonino giunse il giornodella partenza, il seminario di Ugento apriva le sue porte al novellinoalessanese. Ugento non dista poi tanto da Alessano, ma se pensiamo che neglianni quaranta le strade erano ancora senza asfalto, anche le distanza più brevidiventavano irraggiungibili. Basti pensare pure che l’unico mezzo di trasportodisponibile a quei tempi era il cavallo, e fu proprio uno di questi a tirare ilcalesse su cui viaggiava Tonino accompagnato dalla mamma e dal parroco donCarlo. Quel primo distacco fu veramente doloroso. Nonostante la giovane età,Tonino vide passare attorno al suo cuore una schiera di sentimenti che in luidiedero vita a qualche lacrima. Lasciava alle sue spalle Alessano, i fratelliniTrifone e Marcello, i piccoli amici del paese, ma nel cuore se li portavatutti.

Don Tito Oggioni Macagnino, cheall’epoca nel seminario di Ugento era vice prefetto di disciplina e incaricatodell’accoglienza dei novellini, racconta così il suo primo incontro con Tonino:«Ricordo le lacrime di quel ragazzino confuso e smarrito quando i parenti, lamamma soprattutto, andarono via e rimase solo con i seminaristi e i superiori.Aveva paura di non farcela e voleva tornare a casa da mamma Maria. Non so cosadissi e feci per distrarre e confortare il novellino, ma la serata andò per ilmeglio tra presentazioni, conoscenze e ricreazione improvvisata nei corridoi.Nei giorni successivi tutto si rasserenò! Venne a trovarlo anche il suoparroco. E la vita del seminario andò avanti».

Nel seminario di Ugento iniziòuna nuova vita. Gli anni di permanenza in quell’ambiente di formazioneculturale e spirituale furono cinque. Qui Tonino frequentò i tre anni dellemedie e i due del ginnasio, il suo impegno nello studio e in tutte le attivitàcomunitarie richiamarono l’attenzione dei superiori i quali, compiaciuti per ledoti di quel ragazzo, non ebbero grandi difficoltà a prevedere per lui unfuturo ricco di grandi soddisfazioni.

Erano quelli gli anni dellaadolescenza. Anni difficili per la crescita di ogni ragazzo; anche Toninoattraversò quei momenti importanti e da adulto li ricorderà con queste parole: «Ricordoi miei anni del ginnasio, un mare di dubbi. Dubitavo perfino della mia capacitàdi affrontare la vita. Che età difficile! Hai paura di non essere accettatodagli altri, della tua capacità di impatto con gli altri e non ti fai avanti. Epoi problemi di crescita, problemi di cuore».

E già, problemi di cuore! Anchese questi non mancarono, non furono mai tanto pericolosi da mettere a rischiola vocazione sacerdotale. Quest’ultima era ormai evidente, Tonino avevamaturato la sua scelta. Una scelta definitiva. Una volta, in una intervista,gli chiesero se aveva mai avuto la tentazione di tornare indietro. Quale fu larisposta? Eccola: «La tentazione del ritorno sui propri passi è una tentazionedi tutti. Sarei stato un anormale se non avessi avuto la tentazione a tornareindietro. Però ho visto che era molto bello dare una mano al Signore perannunciare il Regno di Dio in questo modo».

Terminati gli studi ginnasiali,Tonino si trasferì al seminario regionale di Molfetta per compiere i tre annidi liceo. Qui conseguì la maturità a pieni voti ma con gli occhi di tutti iprofessori puntati su di lui. Persino il vescovo di Ugento, monsignor Ruotolo,constatò di persona l’intelligenza e la cultura di Tonino e pensò ditrasferirlo a Bologna, presso il seminario ONARMO a studiare Teologia. Ilseminario ONARMO differisce dagli altri per il semplice motivo che prepara ifuturi sacerdoti ad avere contatti con il mondo operaio, una realtà, questa,delicata ed importante. In quel periodo, inoltre, arcivescovo di Bologna era ilcardinale Lercaro, un nome abbastanza conosciuto negli ambiente della Chiesacattolica; addirittura era uno tra i più papabili alla morte di papa GiovanniXXIII. Era noto a tutti l’impegno del cardinale Lercaro per la riformaliturgica, e lo stesso Tonino, che era alla “corte” dell’arcivescovo bolognese,di questa corrente condivideva i canoni.

Era contento di quella esperienzache stava vivendo, ed era altresì soddisfatto di come procedevano i suoi studi.L’esperienza vissuta nel capoluogo emiliano, durata cinque anni, fu decisiva edeterminante per la formazione sacerdotale del giovane Antonio Bello, ormaipronto ad essere consacrato al Signore.

 

 

2. Prete a ventidue anni!

 

 

Era il 1957. Tonino a Bolognaaveva terminato il quadriennio di Teologia. E dopo essere stato consacratoDiacono dallo stesso cardinale Lercaro, si accingeva a realizzare il suo piùgrande sogno. Ma per la giovanissima età, appena ventidue anni, occorreva unadispensa che autorizzasse l’Ordinazione sacerdotale. Il vescovo di Ugento –Santa Maria di Leuca, monsignor Ruotolo, che conosceva Tonino e che era giàstato informato della incredibile stima che il giovane contava, non trovòalcuna difficoltà a concedere l’autorizzazione. E fu lui stesso a presiedere ilrito di consacrazione l’8 dicembre 1957, festa dell’Immacolata, nella chiesa diAlessano. Circondato dalla presenza e dall’affetto dei suoi familiari, ilgiovane don Tonino si apprestava a percorrere una nuova e lunghissima strada.

La prima tappa del camminosacerdotale fu caratterizzata dal conseguimento della Licenza alla Facoltàteologica di Milano. A dire il vero fu sempre Lercaro a coinvolgere don Toninoin quella avventura, e lo stesso cardinale bolognese lavorava per poterlotenere con sé. Ma nel sud della Puglia c’era pure chi lavorava per garantire algiovane prete un’altra sistemazione. Infatti, il vescovo Ruotolo aveva pensatodi trasferire don Tonino (per lui sarebbe stato un gradito ritorno in un luogogià familiare) nel seminario di Ugento ad educare i ragazzi, e con tonischerzosi in una lettera indirizzata al cardinale Lercaro scriveva così: «Titieni don Tonino solo se me ne mandi due in cambio».

A soli ventidue anni, quindi, ungiovane prete era già conteso da un cardinale ed un vescovo. Non furono perògli unici a volere don Tonino. Monsignore Bnelli, allora responsabile dei pretioperai, lo considerava già un ottimo cappellano del lavoro nell’Emilia Romagna comunistaed anticlericale, o in altre zone industrializzate del nord. Anche i superioridel seminario ONARMO di Bologna lo volevano per fargli vivere esperienzepastorali di notevole considerazione. Ma alla fine prevalse la decisione dimonsignor Ruotolo. Don Tonino si trasferì ad Ugento nel 1958. Appena giunto nelseminario di Ugento, oltre ad essere incaricato della disciplina, don Tonino funominato professore di più materie scolastiche. Durante la sua permanenza,durata diciotto anni, fu prima prefetto, poi vice rettore e in ultimo dal 1974al 1976 rettore del seminario. Quegli anni risultano essere fondamentali perchémettono a nudo ulteriormente le capacità educative e pastorali di don Tonino,il suo impegno senza sosta, la sua cultura senza confronti.

Nonostante i delicati compiti dicui don Tonino fu investito e l’importanza di quel ruolo, il giovane prete non amòdistinguersi dagli altri. Don Tito Oggioni Macagnino, anch’egli educatore nelseminario, ricorda un episodio dei primi giorni: «Don Tonino era seduto arefettorio, al tavolo dei superiori, in seguito sceglierà di stare sempre con iseminaristi e di condividere in tutto i loro pasti, senza nessuna “variante”.Quella mattina si era fermato a prendere il caffè con noi, mentre i seminaristierano saliti nei corridoi per la ricreazione. A tazzina ultimata mi accorsi chesul tavolo non c’era la zuccheriera. “L’hai preso senza zucchero!” – notaimortificato – “perché non l’hai chiesto?” E lui, calmo: “Pensavo che usasteprenderlo così!” Era sempre così, si adattava ad ogni situazione, amavaperdersi nell’anonimato, essere l’ultima ruota del carro, lui che un giorno nesarebbe diventato il cocchiere».

Ancora oggi quei ragazzi che sonostati educati da lui, alcuni poi diventati preti, lo ricordano con nostalgia edimmutato affetto. Ricordano il suo spirito vivace, pronto, sempre in trinceaper sorprendere con le sue iniziative chi lo circondava. Nell’agosto del 1965,durante il seminario estivo che ogni anno si svolgeva a Tricase Porto, donTonino diede origine alla “Società dei rizzivendoli”. Antonio Andrea Ciardo,che all’epoca frequentava la prima media nel seminario di Ugento, ricorda chedon Tonino e i suoi ragazzi ogni giorno, invece di comprare i “rizzi” dairizzivendoli, all’ora del bagno e al grido di “Regina ricciorum” si tuffavanonell’acqua muniti di maschere e pinne e facevano i “rizzi” vendendoli poi almisero prezzo di cinque lire l’uno. A quell’estate appartiene un componimentodi don Tonino il quale, immedesimandosi nei panni di un riccio, così siesprimeva:

«Ti ringrazio o Signore, per leprofondità del mare, che mi hai dato come dimora. Per le valli sconfinate dialghe e di madrepore, che mi hai dato come compagne. Per la moltitudine deipesci, che mi guizzano velocemente d’intorno. Per l’incanto del paesaggio,fatto miracolosamente sbocciare dai raggi del sole. Per il misterioso silenziodegli abissi, che Tu hai creato mentre ti libravi sulle a cque. Grazie,Signore, per gli aculei pungenti che mi hai dato a difesa dagli attacchi di tuttigli abitatori del mare. Grazie, per l’onore che mi dai quando l’uomo, fatto atua immagine, violando il segreto degli abissi, mi coglie per assaporare sullasua mensa il mio profumato corallo».

Sempre Ciardo racconta che neldicembre ’64 don Tonino decise di fare il presepio tutto di pietra. Unaconseguenza di quella decisione fu che da quel giorno i muri delle campagne diUgento si abbassarono, mentre nella Cappella del seminario cresceva ilpresepio. E quando il 27 gennaio 1965 “La Gazzetta del Mezzogiorno” pubblicò lanotizia che «il nostro presepio era stato giudicato il migliore in assoluto intutta la provincia di Lecce, don Tonino trasudava felicità. Gridava la suagioia. Ci contagiò. E la sera don Tonino rientrò nello studio del seminario conla coppa levata al cielo».

Era fatto così. Semplice,spontaneo, genuino, agiva sempre con naturalezza. Ancora una volta don Toninofu protagonista ed ispiratore anche di una improvvisata. Nel seminario diUgento si aspettava la visita di un certo monsignor Panico, venuto a visitareil vescovo Ruotolo. Mentre accompagnavano l’ospite lungo i corridoi cheaccedono all’episcopio, don Tonino fermò la comitiva e pregò l’arcivescovoPanico di ascoltare una musica in suo onore. I ragazzi al cenno del loroeducatore cacciarono fuori dai loro nascondigli gli “strumenti musicali” ecominciarono ad esibirsi: pettini avvolti in plastica per clarinetti, pezzi ditubi di gomma per bassi, coperchi di pentole d’alluminio per “piatti”, altristrumenti a percussione ottenuti con posate, pezzi di ferro, cartoni… Don Titoera pronto a ricorrere ai ripari e alle scuse nei confronti dell’ospite che,invece, volle riascoltare i “musicisti” e il loro don Tonino nei panni didirettore di banda. «I complimenti andarono a me», racconterà poi don Tito,«perché come spesso accadeva, quando don Tonino sentiva odor di lodi sparivadalla circolazione o si disperdeva tra i suoi prodi».

Con i suoi ragazzi che lochiamavano ABEL (Antonio Bello), don Tonino fondò l’Antenna, un giornale che lui stesso dirigeva e che preparava contanta pazienza e meticolosità. Pure se il suo carattere e la sua personalitàdavano segnali di eccezionalità, ed era ben stimato dai ragazzi e dai superiorisuoi colleghi, don Tonino a volte lamentava la presenza di alcune “scorie” nelsuo modo di essere e di comportarsi. Ciò lo dimostra un breve componimento cherisale al 2 aprile 1932: «Sono un impasto di mansuetudine e di ira, di superbiae di modestia, di bontà e di durezza. Sono un intruglio di fervore e difrigidezza, di dissipazione e di raccoglimento, di slanci impetuosi e diapatiche immobilità. Sono un polpettone di carne e di spirito, di passioniindomite e di mistiche elevazioni, di ardimenti coraggiosi e di depressionisenza conforto. Dio mio, purificami da queste scorie in cui naviga l’anima mia;fammi più coerente, più costante. Annulla queste misture nauseanti di cui sonocomposto, perché io ti piaccia in tutto, o mio Dio».

Durante la permanenza nelseminario di Ugento, don Tonino riuscì a vivere anche una esperienzainteressante ed importante. Nel 1962 il Concilio Vaticano II, voluto da papaGiovanni XXIII, stava per iniziare e monsignor Ruotolo che doveva seguirne ilavori a Roma decise di portare con sé don Tonino, ormai lo considerava suopersonale teologo. Infatti, le tracce degli interventi che il vescovo di Ugentofece durante le sessioni conciliari furono preparate da don Tonino il qualetrovò anche il tempo di scrivere un diario su quella esperienza romana.L’ultima pagina del diario, intitolato “Appunti sul mio soggiorno romano inoccasione del Concilio Vaticano II”, nasconde il vivo desiderio di don Toninodi ritornare in seminario forse perché l’ambiente, troppo cerimonioso perquella particolare circostanza, lo metteva a disagio. «Sono così passati diecigiorni», annoterà don Tonino, «stasera riparto. Me ne torno a casa, a lavorarein diocesi, nel mio seminario, tra i miei ragazzi, nel mio umile posto divicerettore. Francamente in questi giorni ho più volte desiderato di fareritorno nel mio campo di lavoro… ».

È inutile sottolineare comel’aria di rinnovamento lanciata dal Concilio Ecumenico gli condizionerà moltola già ricca cultura pastorale che, successivamente, evidenzierà durante il suomagistero episcopale. Anche nella diocesi ugentina don Tonino si impegnò etanto per applicare gli insegnamenti che il Concilio aveva lasciato. GigiLecci, un laico impegnato pastoralmente in quegli anni, ricorda tuttora i primicorsi formativi e le settimane teologiche animati da don Tonino, quegliincontri che diventarono poi così familiari. Dirà Lecci che don Tonino «sapevaparlare ai più esigenti e farsi capire dai più semplici e che, senzasceglierlo, contribuì a promuovere e rafforzare l’unità della Chiesa (a livellolocale) tra le diverse persone, le varie associazioni e le 39 parrocchie».

Nel frattempo, il contributonotevole che don Tonino offrì al suo vescovo nel soggiorno a Roma era servito apreparare una grande sorpresa. Il vescovo Ruotolo lo fece nominare“monsignore”. A ventotto anni don Tonino era già monsignore! Naturalmente egliaccettò di buon grado quella sorpresa, ma continuò a farsi chiamare “don”Tonino, e lo farà pure dopo la sua nomina episcopale. Non dimentichiamo,inoltre, che mentre era a Roma don Tonino si iscrisse all’UniversitàLateranense, laureandosi, nel 1965, in Teologia.

Gli anni di permanenza nellacittà di Ugento avevano messo in risalto un’altra passione di don Tonino: losport. Ogni attività sportiva ed agonistica lo trovavano pronto ad impegnarsicon i suoi ragazzi fino all’estremo delle sue forze fisiche. Era riuscito,addirittura, ad ottenere il patentino di arbitro di calcio, sostenendo irelativi esami. Giocava appassionatamente a pallone, non accettava le sconfittee pur di riuscire a vincere le gare prolungava ulteriormente la regolamentaredurata delle partite. Era tifoso del Cagliari. Anche la pallavolo loentusiasmava. Anzi, egli stesso diede origine ad una squadra del seminario,riuscendo ad imporsi ed a raggiungere in quella disciplina sportiva incredibilirisultati nel campionato nazionale. Il migliore piazzamento, il secondo posto,fu ottenuto nel 1975. Ogni gara con i suoi valorosi atleti era una avventura.

Ogni cosa nella vita terrenafinisce, e quasi sempre ciò che più piace. Anche per don Tonino giunse il tempodi lasciare i suoi ragazzi e il seminario per adempiere ad un altro incarico.Questo avvenne nel 1978 quando il vescovo monsignor Mincuzzi, succeduto nelfrattempo a Ruotolo, nominò don Tonino amministratore parrocchiale del SacroCuore di Ugento. Amministratore parrocchiale vuol dire occupareprovvisoriamente il ruolo di parroco, ma assumerne tutte le responsabilità e idiritti. Appena arrivato in parrocchia don Tonino si tuffò a tempo pieno nelsuo nuovo lavoro. Ricostituì subito il Consiglio parrocchiale, dedicòparticolare attenzione al canto sacro e alla preparazione al commento delleletture della domenica. La gente ricorda ancora quando don Tonino girava incontinuazione per le strade della parrocchia. Infatti conosceva tutti, echiamava ciascuno per nome. Per tutti aveva un sorriso e una parola diincoraggiamento. Anche in questo nuovo ambiente, dunque, don Tonino lavoròmolto ed appassionatamente, conquistando immediatamente la stima e l’affettodei suoi parrocchiani a tal punto che nel 1979, quando fu eletto parroco aTricase, la gente contestò vivamente il vescovo.

Don Tonino si preparò così atrasferirsi nella nuova parrocchia di Tricase che gli era stata affidata dalvescovo Mincuzzi .

 

 

3. Il pane e la tenda

 

 

Tricase era in festa per l’arrivodel nuovo parroco. D’altronde don Tonino già conosceva molte persone di quelpiccolo paese distante appena sette chilometri dalla sua Alessano. La gente loaccolse con tanto affetto, entusiasmo e mille attenzioni, considerandolo unfiglio della propria patria. Tre anni di parroco a Tricase, nella parrocchiadella Natività di Maria, basteranno per fare capire a “qualcuno” che quelministero era soltanto una prova generale. Da quel gennaio del 1979 all’estatedel 1982, don Tonino rivoluzionò il paese con il suo impegno dinamico, conscelte nuove e rinnovatrici, sforzandosi di applicare nel suo popolo gliinsegnamenti che il Concilio Vaticano II aveva lasciato. «È necessaria un po’di follia nella Chiesa», diceva don Tonino, e di quella “follia” si servì peristituire il Consiglio pastorale parrocchiale, i corsi prematrimoniali; percreare la festa del fanciullo e una sezione dei volontari del sangue; perriordinare la questione delle confraternite e delle processioni.

I parrocchiani, la gente delpaese, tutti avevano inteso che quel prete era diverso dagli altri, e perciòdon Tonino cominciò a vedere la sua chiesa riempirsi di tantissime personeaffascinate e conquistate dalle sue omelie. Talvolta quelle prediche gliservivano per lanciare “sferzate” ai politici e agli amministratori locali iquali, pur non risparmiandosi, rispondevano con battute bagnate al veleno. Laparrocchia di cui don Tonino era il parroco diffondeva un fogliettosettimanale, “Comunità”, un ciclostilato su due facciate di carta comune, maricco di tanti spunti di riflessione oltre che di informazioni. Un piccolospazio don Tonino lo riservava a loro, gli ultimi, alla loro condizione divita, alla situazione sociale del paese. Una volta, racconta Ercole Morciano, «suun numero di “Comunità” don Tonino scrisse l’articolo “Gli ultimi e il pianoregolatore”, pochissimi righi nel suo stile, facendo rilevare che il pianoregolatore dovrebbe considerare i bisogni della popolazione e non gli interessidi pochi. Si seppe che i destinatari dell’invito snobbarono l’intervento ecircolò qualche battuta su don Tonino esperto in urbanistica».

Intanto la popolarità di donTonino cresceva. Anche i giovani di Tricase si lasciavano conquistare da lui,soprattutto i suoi alunni. Già, perché don Tonino insegnava e si incontravatutti i giorni a scuola con i giovani, vivendo l’impegno scolastico non come unlavoro ma come una missione, come un momento di espansione e di verifica delsuo ministero sacerdotale e pastorale. Questo dimostra il fatto che spessodimenticava di riscuotere il suo stipendio, e quando una volta, dirà VitoCassiano, «il segretario gli fece rilevare che giaceva presso la segreteria ilsuo onorario, don Tonino lo prese e acquistò delle riviste o fece degliabbonamenti per i giovani». Nel paese non si faceva altro che parlare di lui,di quel parroco moderno, umile, coraggioso e semplice. E forse quelle vocierano penetrate anche negli “ambienti romani”, tanto è vero che già nel 1980don Tonino dovette recarsi a Roma perché convocato dalla Congregazione deivescovi.

Qui incontrò il cardinaleSebastiano Baggio, Prefetto della Congregazione, il quale dopo un lungo colloquiogli propose la nomina a vescovo con destinazione Palmi, in Calabria. Quell’eventolo turbò, e non poco, ma alla fine decise di declinare la proposta. Non passòmolto tempo da quel primo incontro che una seconda convocazione a Roma gliprocurò la proposta di nomina a vescovo nella diocesi di Tursi, in Basilicata.Ancora una volta don Tonino non accettò l’invito, lo tormentava la sola idea dilasciare Tricase, la sua parrocchia, la sua gente che egli amava ma,soprattutto, la sua mamma ormai troppo anziana che, infatti, morirà nelnovembre del 1981.

L’anno successivo, a metà giugno,don Tonino ricevette la terza proposta. Era indeciso, ma propenso ad accettarela nomina, e così scrisse al papa, Giovanni paolo II, questa bellissimalettera: «Beatissimo padre, le significo la mia gratitudine per la stima, lafiducia e l’onore di cui mi degna elevandomi al ministero episcopale. La miaaccettazione, oltre che carica di incertezze, è anche permeata di moltatristezza: mi fa così soffrire il pensiero di dover lasciare questo popolo cheho amato e servito per tre anni, che riterrei una grazia straordinaria delSignore poter continuare a lavorare nella mia parrocchia ancora per qualchetempo. Se non insisto per essere liberato da questo onore e da questaresponsabilità che mi spaventano, è perché temo di intralciare con i mieicalcoli i disegni di Dio. Beatissimo Padre, mi rimetto alle sue decisioni qualiche siano e chiedo sulla mia povera vita la sua paterna benedizione. Don ToninoBello».

Non trascorsero che solo alcunigiorni, e il 10 agosto 1982 don Tonino Bello fu nominato vescovo di Molfetta,Giovinazzo e Terlizzi e, successivamente, anche di Ruvo di Puglia unita alleprecedenti città “in persona episcopi” ed entrata a fr parte della nuovadiocesi il 30 settembre 1986. A Molfetta, la notizia fu data al clerointerdiocesano il sabato del 4 settembre alle ore 12 da monsignor Aldo Garzia,che nel frattempo era stato trasferito nella diocesi di Gallipoli. Due giornidopo, il 6 settembre, don Tonino conobbe di persona, nell’aula magna delseminario vescovile di Molfetta, il clero delle tre città della diocesidicendo, con tono scherzoso, di aver voluto subito incontrare la «fidanzata chela Santa Sede gli aveva trovato per corrispondenza», e cioè la Chiesa diMolfetta. Il 19 settembre, invece, in tutte le chiese della diocesi fu letto ilprimo messaggio del nuovo vescovo Antonio Bello:

«Miei cari fratelli delle Chiesedi Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, il Signore mi manda in mezzo a voi perchémi metta a camminare alla Sua sequela, cadenzando il mio passo col vostro, cheso agile e spedito. Finora ho camminato con altri fratelli nella fede, che mihanno edificato con la loro bontà e che ora lascio con tanta amarezza. Apareggiare, però, e a sopravanzare il dolore del distacco, c’è in me la gioiadi poter testimoniare in mezzo a voi la fede, la speranza e l’amore dellacomunità da cui provengo. Non è bello anche per voi vedersi raggiungere lungola strada da un altro viandante che vi dice come mille altre carovane corronodietro Gesù e Gli vogliono bene? Sulla via ci aiuteremo a vicenda. Spartiremoil pane e la tenda. Anzi, faremo in modo che la nostra tenda e il nostro panesiano disponibili per quanti, dispersi o sbandati, incontreremo nel viaggio.Saluto il vostro Pastore che vi ha guidati e sorretti con cuore generoso e conmano sicura. Saluto tutte le vostre autorità. Ancora non conosco i vostrivolti, però stringo egualmente la mano di tutti, non solo di voi credenti, maanche di coloro che, pur non condividendo le nostre speranze cristiane,sperimentano come noi la durezza della strada e si impegnano perché la lorovita e quella degli altri sia più degna dell’uomo. Ma non è già questa unasperanza cristiana? La madonna ci assista e ci accompagni nel cammino».

Iniziarono così i preparativi perla celebrazione di consacrazione episcopale, che avvenne a Tricase il 30ottobre nei pressi della chiesa di San Domenico. Una immensa folla eraconvenuta in piazza Pisanelli. Dopo alcuni giorni dalla consacrazione, donTonino dovette recarsi a Roma per prestare giuramento davanti al presidentedella repubblica, Sandro Pertini. Oggi questo rito non ha più luogo conl’entrata in vigore dell’Accordo di Villa Madama del 1984. Pertini tenne unlungo colloquio con il nuovo vescovo di Molfetta, durante il quale rimasecolpito dalla semplicità con cui il novello vescovo vestiva, e sbalordito nelvedere la croce pettorale fatta in legno, una cosa insolita per un vescovo,chiese spiegazioni in merito. Don Tonino, naturalmente, spiegando i motivi diquella sua scelta sollevò la croce dal petto e togliendola da collo la posenelle mani del Presidente facendone a lui dono.

Di ritorno da Roma, don Toninorimase qualche settimana ancora a Tricase per sistemare alcune faccende utilial suo trasferimento in Molfetta. Intanto era stato deciso che l’ingresso nellasua nuova Chiesa avvenisse il 21 novembre 1982. Gli ultimi preparativi, però,lo angosciavano, gli dispiaceva molto lasciare Tricase, la gente che amava, madovendo giustificare a chi gli chiedeva il motivo di quella sua scelta usavaqueste parole: «Ho accettato per lo stesso motivo per cui mi sono fatto prete eper le stesse ragioni per le quali, dopo venti anni spesi in seminario, sonovenuto qui a Tricase: obbedire a una chiamata che, per me credente, non èsoltanto umana. Ho accettato, perché continuare a dire no mi sarebbe parsa unaforma di egoismo camuffato di modestia. Ho accettato, perché mi sono accortoche il prezzo di questa decisione per me sarebbe stato altissimo: se itricasini non mi avessero amato, forse sarei rimasto. A qualcuno può sembrareuna logica strana, ma è la stessa logica che ha indotto Abramo a lasciare laterra, la tenda e gli amici per andare nel paese indicatogli da Dio. Se inquesta decisione è entrata un’ombra di vanagloria, ne chiedo perdono a tutti.Una cosa, comunque, oso sperare: che l’amarezza di chi resta e il dolore di chiparte non rimangano sterili».

Nessuno ormai poteva più trattenerlo, don Tonino si accingeva a guidare la Chiesa di Molfetta.

 

 

4. Una Chiesa povera

 

Dopo il lunghissimo episcopato di Achille Salvucci (1935-1978) il più lungo del novecento, e quello transitorio di Aldo Garzia (1975-19782), Molfetta si preparava ad accogliere il nuovo vescovo. L’ingresso nella diocesi avvenne il 21 novembre 1982, festa della presentazione di Maria al Tempio. Sul sagrato della Cattedrale il sindaco molfettese, Beniamino Finocchiaro, e tutte le altre autorità civili di Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi pronunciarono i discorsi di saluto e di benvenuto al nuovo Pastore. È inutile nascondere la massiccia partecipazione e la curiosità dei fedeli convenuti in chiesa per quella rara occasione. Ma la convinzione che quel nuovo vescovo avrebbe “dirottato” la Chiesa molfettese verso altre strade, si ebbe durante l’omelia che don Tonino preparò per quella solenne cerimonia. In evidente stato di imbarazzo, don Tonino esordì con queste parole: «Miei cari fratelli, Dio solo sa come in questo momento vorrei essere libero dalla preoccupazione di dovervi fare un discorso “intelligente”, uno di quei discorsi tra le cui righe ci si senta poi autorizzati a leggere orientamenti e prospettive, a spiare svolte o ristagni, a intuire speranze o involuzioni. A nessuno è lecito strumentalizzare l’incontro con la Parola di Dio. Per cui a me non è lecito, in questo momento, cedere alla debolezza di darvi, come si suol dire, una buona impressione sin dalle prime battute. E non è lecito neppure a voi indugiare su analisi estetizzanti, quasi per studiare le mie mosse, piuttosto che per convertirvi». Continua ancora don Tonino rivolgendosi al popolo: «Aiutatemi, vi prego, con la vostra comprensione e con la vostra indulgenza, perché la solennità di questo primo incontro con voi non mi carichi della suggestione di dirvi necessariamente delle cose raffinate, ma cose vere, cose semplici, cose di tutti i giorni, cose buone come il pane, cose di cui voi avete bisogno e che Lui, il Signore, mi suggerisce. Aiutatemi, soprattutto, a rispondere a quella domanda essenziale che avete nel cuore e che sulle vostre labbra stasera si traduce così: “Messaggero che vieni da lontano, quale buona notizia ci porti”?».
Un esordio semplice quello di don Tonino, che continuando l’omelia giunge ad un punto chiave di quel suo primo discorso ufficiale: «Ma se io, cari fratelli nella fede, sono stato inviato a voi a proclamare che Gesù è risorto ed è l’unico Re e Signore; se io, chiamato ad essere vostro Vescovo, sono stato incaricato di svegliare l’aurora che già vi dorme nel cuore… chi porterà questo annuncio di speranza agli “altri”, a quella porzione del popolo delle nostre diocesi che non coincide più col perimetro della Chiesa, a coloro ai quali i valori cristiani non dicono più nulla? […] Tocca a noi, allora, popolo tutto intero di battezzati, depositari della speranza cristiana, passare per le strade del mondo e proclamare insieme: Coraggio, gente, non ti deprimere…». Altro che ristagni o involuzioni! In queste poche righe è concentrato il succo di un vero e proprio programma pastorale, denso di prospettive, di svolte e di speranze. Ancora qualche pensiero, e don Tonino conclude così la sua prima omelia innanzi ad una immensa folla: «Eccomi, cari fratelli. Nel giorno della presentazione di Maria al Tempio, mi presento anch’io a questo tempio umano, fatto di pietre vive, glorioso di tradizioni di fede e di impegno, carico di Storia e di cultura. Accoglietemi come fratello e amico, oltre che come padre e Pastore. Liberatemi da tutto ciò che può ingombrare la mia povertà. Di mio non ho molte cose da darvi. Però nella mia valigia ho due cose buone. La prima me l’ha messa il Signore: ed è la sua Parola, perché la dispensi lungo la strada a voi, miei nuovi compagni di viaggio, in modo che cambi il vostro povero cuore e affretti la cadenza dei vostri passi. E poi c’è un’altra cosa. Ed è la tenerezza, la sofferenza, la fede, l’amore, la speranza indistruttibile della mia piccola stupenda Chiesa d’origine e delle mie indimenticabili comunità di Alessano, di Ugento e di Tricase».
Quelle non furono soltanto parole. L’azione seguì ben presto al pensiero. La gente imparò a conoscerlo per strada, nei locali pubblici, nel salone del barbiere. Si interessava dei problemi dei più sfortunati, impegnandosi in prima persona a risolverli. Un esempio eclatante che don Tonino riuscì a dare, a pochi mesi dalla sua elezione a vescovo, fu quando egli stesso partecipò allo sciopero che gli operai delle ferriere di Giovinazzo attuarono per la chiusura dello stabilimento. Nel suo messaggio assicurò loro «che la Chiesa ha un compito e una competenza che nessuno ci può contestare, quello di schierarci con gli ultimi. E in questo momento gli ultimi siete voi». Non è questo il solito messaggio di circostanza che nasconde il debole profumo della retorica e della demagogia, perché don Tonino riesce a spiegare, ma non solo con la parola, cosa significa stare con gli ultimi. «Stare con voi», ribadisce il vescovo molfettese, «significa anche condividere la vostra protesta. Protesta contro le latitanze, le lentezze, i ritardi, le scelte che hanno reso estremamente pesante la situazione. Protesta contro una politica che non ha salvaguardato i livelli occupazionali attraverso le necessarie riconversioni e ristrutturazioni. Protesta, dobbiamo pur dirlo, contro la leggerezza, l’assenteismo, il doppio o triplo lavoro, la mancanza di serietà…».
Per gli operai in agitazione don tonino prelevò undici milioni di lire dal fondo per la costruzione delle chiese; seguì l’intera vicenda, anche giudiziaria, tra lo stupore degli stessi operai, increduli a riconoscere quell’uomo nei panni di un vescovo. Forse perché abituati ad altre concezioni di intendere e riconoscere un vescovo. Col passare dei mesi, don Tonino intensificò ulteriormente i suoi aiuti verso coloro che versavano in condizioni pietose. Aprì le porte del suo appartamento vescovile agli sfrattati, a chi aveva bisogno di una casa, di un po’ di pane, o anche solo di un po’ di affetto. E non lo faceva per pietismo, ma soltanto perché era convinto che dai poveri poteva venire la “salvezza”. La sua era e doveva essere una Chiesa povera, una Chiesa sempre al servizio di tutti. Da qui nascerà poi l’espressione che lo stesso don tonino diede alla sua Chiesa: «Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Che sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi…».
Continua don Tonino: «La chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso. Nell’hit parade delle preferenze il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il lezionario fra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi. Con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca». Le ultime parole di questo discorso sono suggestive, sono l’invito del vescovo a “simpatizzare” il servizio: «cari fratelli, riprendiamo la strada della condiscendenza, della condivisione, del coinvolgimento in presa diretta nella vita dei poveri. Solo se avremo servito, potremo parlare e saremo creduti. Solo allora potremo riprendere le vesti sontuose del nostro prestigio sacerdotale e nessuno avrà nulla da dire».
E il suo servizio era ormai evidente a tutti. Un impegno senza sosta. Fu lui a volere e a far nascere nel 1985, nei pressi della provinciale Ruvo-Terlizzi, la C.A.S.A. (Comunità di Accoglienza e Solidarietà “Apulia”) con la collaborazione di don Nino Prudente che ne diventerà direttore. L’obiettivo di quella iniziativa era, ed è tuttora, quello di recuperare e rieducare i giovani tossicodipendenti, preparandoli attraverso il lavoro ad un nuovo inserimento nella società. Molto lavoro fu svolto da don Tonino per quella preziosa iniziativa, e don Prudente spiegherà con queste parole l’impegno del vescovo: «La comunità C.A.S.A. deve molto a don Tonino. Egli si è impegnato in prima persona anche dal punto di vista economico, facendo pazzie per una somma di oltre quattrocento milioni. Spesse volte di sera o di notte mi telefonava e andavamo a raccogliere alla stazione di Molfetta dei barboni, alcolizzati, a rischio personale. A volte mi affidava situazioni di coppie disperate, di drammi familiari. Tutto questo egli lo faceva con profonda sofferenza. Una volta mi disse: “senti, Nino, io ti devo confessare che certe volte, un po’ per tante amarezze e un po’ per la difficoltà di soluzione di tante situazioni, vorrei andarmene in missione, vorrei tornare a fare il parroco, vorrei stare in mezzo alla gente, rimboccarmi le maniche ogni giorno con loro”».
Con la collaborazione di qualche sacerdote, don Tonino istituì a Ruvo una Casa di accoglienza per extracomunitari. A Molfetta, invece, per sua iniziativa nacque la “casa per la pace”. Erano le azioni, dunque, a precedere i discorsi, che perciò diventavano credibili. Erano comunque e sempre i poveri la sua grande passione. Per loro don Tonino orientò tutto il suo magistero episcopale, e fu felice quando eletto vescovo perché capì che era giunto per lui il momento di mettersi al loro servizio: «Grazie, terra mia, piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te, ma che, proprio per questo, mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli». I molti avvenimenti tristi e seri che accaddero nei primi tempi del suo ministero episcopale gli diedero la possibilità di scrivere bellissime lettere. Dirà Donato Valli, già Presidente della “Fondazione don Tonino Bello”, che don Tonino «attraverso lo stile epistolare entra in contatto con gli uomini veri che gli sono di fronte, ma anche con gli uomini di tutti i tempi, del passato prossimo e remoto». Ma chi sono questi uomini? Semplice. Massimo il ladro, ucciso a Molfetta la notte dell’8 gennaio 1985, e sulla cui fossa don Tonino accese una lampada; Giuseppe l’avanzo di galera, alla cui libertà don Tonino ha brindato; Mario la guardia campestre, ucciso a Ruvo il 14 novembre 1986, a cui don Tonino ha auspicato la nascita di un fiore sulla viottola di campagna irrigata dal suo sangue; ogni fratello marocchino, invitato da don Tonino a fermarsi a casa sua. E poi altri ancora: Antonio il pescatore, Peppino l’ubriaco, Marta la scheda perforata, Mohamed il diverso… Tutte storie di uomini a cui don Tonino ha prestato un po’ della sua, mescolandosi con loro; anche ai lontani, a chi per diverse ragioni ha dovuto lasciare la propria terra per cercare fortuna altrove. Così si spiegano i suoi numerosi viaggi oltreoceano, alla ricerca di volti molfettesi che la storia ha voluto allontanare. E dalla sua prima esperienza in Australia, don Tonino compila un rapporto pastorale sulla emigrazione molfettese, “Sotto la croce del sud”. Un messaggio forte viene trasmesso ai molfettesi in Australia, parole che contano più di una lezione di catechesi: «Il Vangelo vale più del dollaro. L’amore vale più della macchina», dirà don Tonino, e ancora, «Non lasciatevi sedurre dal piatto di lenticchie per cui svendere i valori della vostra cultura d’origine: l’amore per la giustizia, il gusto del dialogo, la gioia di condividere».
Ben presto diventò popolare anche all’estero, mentre a Molfetta era già entrato nel cuore della gente. Tutti lo cercavano, chiedendo a lui aiuto o conforto. Era diventato pure il personaggio più corteggiato da stampa e televisione, che a turno si accontentavano di articoli o di interviste. Era ormai fuori discussione la straordinarietà del vescovo che, senza trascurare gli impegni diocesani, partecipava a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Roma, Torino, Bologna ed altre tante città d’Italia, e non solo, divennero le mete di frequenti trasferte a cui il vescovo molfettese non rinunciava. In poco più di due o tre anni era conosciuto da tutti, non si faceva altro che parlare di lui. Ma questa notorietà mise in guardia gli “ambienti romani”, che iniziarono a seguire con più interesse le sue iniziative. Del resto, non mancheranno occasioni per cui don Tonino fu chiamato a dare spiegazioni sul suo operato.

 

 

5. Il nome della Pace

 

Per il vescovo di Molfetta gli impegni cominciarono a moltiplicarsi sul finire del 1985, quando la nomina a presidente di Pax Christi lo vedrà protagonista di tante battaglie a difesa della pace. Fu il cardinale Ballestrero, all’epoca Presidente del consiglio permanente della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), a promuovere don Tonino Bello alla guida di quel movimento cattolico internazionale. La scelta su quella nomina non era stata del tutto facile. Basti pensare che dal 1978 al 1985 nessun vescovo aveva occupato quel ruolo lasciato libero da monsignore luigi Bettazzi. Sei anni di attesa, dunque, lasciano supporre come don Tonino Bello sia stato scelto perché ritenuto l’uomo giusto al posto giusto. Ed i fatti lo dimostreranno subito.
Nemmeno il tempo di insediarsi alla guida di Pax Christi, che don Tonino veniva coinvolto, seppure alla larga, da polemiche le cui origini si trascinavano ormai da tempo: obiezione di coscienza al servizio militare, obiezione fiscale, guerra alla guerra, erano i temi scottanti di un accesissimo confronto dialettico tra Stato ed Associazioni pacifiste. E le difese di don tonino nei confronti di monsignor Bettazzi, l’unico vero bersaglio della stampa particolarmente laica, lo indussero a scontrarsi con Indro Montanelli, famoso giornalista che allora dirigeva “Il Giornale”, il quale attraverso l’articolo di fondo apparso il 4 febbraio 1986 ridicolizzava Bettazzi. Don Tonino non accettò minimamente quella provocazione, e manifestò al noto giornalista «il più amaro disgusto per ciò che lei ha scritto del vescovo monsignor Bettazzi e che dell’articolo di fondo ha solo il fondo. Un fondo nero, limaccioso, torbido. Sarà stato un incidente sul lavoro: cosa che non le capita di rado. Ma stavolta il secchio della sua abilità letteraria, invece che attingere l’acqua pulita dell’argomentazione intelligente, è sceso a pescare nel fango. Del suo pozzo, naturalmente. Il fango di antiche sedimentazioni laiciste e di pregiudizi culturali fuori moda, che disilludono amaramente quanti pensavano che l’anticlericalismo fosse solo una malattia infantile della nostra democrazia». La lettera prosegue con parole audaci e dure, innescando così la fredda e sterile replica di Montanelli: «Nostro est giornale non quaresimale».
Furono, perciò, molte le delusioni che il vescovo molfettese collezionò a causa del suo immenso impegno pacifista. D’altronde faceva il suo dovere di vescovo, difendeva e promuoveva il nome della Pace contrapponendolo a quello della guerra, delle armi, della violenza. E può, addirittura, sembrare strano come le sue dichiarazioni scomode abbiano più volte infastidito persino le grandi personalità della Chiesa cattolica! Ciò ci viene dimostrato da una lettera che David Maria Turoldo, un altro grande profeta del novecento, scrisse a don Tonino, per manifestargli la sua solidarietà: «Caro don Tonino, appena due righe. Anche se il desiderio di un colloquio è immenso. Supplirò alla brevità col volerti ancora più bene. Mi dicono che sei stato richiamato, per le tue scelte, per i tuoi interventi, che non è bene parlare troppo contro le armi. Ebbene, non solo ti sono vicino, ma oso perfino darti un consiglio: a maggior ragione intervieni, intervieni sempre di più; e insieme dì che sei stato richiamato, dillo pubblicamente; perché di questo hanno paura. Sono anche vili, come sappiamo. Se non intervieni, se non dici pubblicamente come stanno le cose, ti andrà sempre peggio. E loro diventeranno sempre più arroganti. Appunto perché sono vili: cioè, forti con i deboli e deboli coi forti. Per amore dei poveri e della verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non scoraggiarti, caro fratello vescovo! Tanto più che di vescovi in cui confidare ce ne sono così pochi!».
L’impegno di don Tonino a difesa della pace si evidenziò anche nell’ambito locale. Infatti, una delibera del Consiglio Regionale di Puglia del 1983 concedeva l’autorizzazione per la costruzione di alcuni poligoni militari su una vasta zona della Murgia. Non è difficile immaginare la protesta e la contestazione dei contadini, proprietari delle terre che dovevano ospitare le esercitazioni militari. Don Tonino iniziò subito a prendere provvedimenti. Partecipò alla marcia organizzata per protestare contro quella decisione, animò incontri e dibattiti e, infine, prese carta e penna e scrisse un appello, nell’aprile del 1986, a tutti i componenti del Consiglio Regionale. «Cari amici», esordiva don Tonino, «dichiariamo subito il profondo rispetto per le istituzioni che rappresentate, la fiducia nel vostro impegno umano, la stima sincera per la vostra persona. Ma sentiamo pure il bisogno di dirvi che da tempo la nostra coscienza di cittadini di Puglia è turbata da inquietudini profonde e da oscuri presentimenti. […] Il destino della nostra assenza dalla storia del progresso sembra oggi capovolgersi. Ma con un protagonismo distorto. Incombe su di noi la dissolvenza in negativo del testo di Isaia che dice: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci, e non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. […] A voi, politici, di cui pure comprendiamo la sofferenza e intuiamo le perplessità, chiediamo di mostrare che la rete delle istituzioni non si è scollata dal sentire della gente. Che a voi preme ancora il bene comune. Coraggio. La revoca della delibera regionale dell’83, che assegnava gran parte della Murgia ai poligoni di tiro, significa che il sogno di Isaia è ancora possibile. Ed è certamente ancora possibile che sulla nostra terra, pur riarsa dal sole e bruciata dalla sete, il grano della pace diventi pane».
Nemmeno quella presa di posizione da parte del vescovo di Molfetta riuscì ad ostacolare le esercitazioni militari che, nel frattempo, si svolgevano sul territorio della Murgia. Don Tonino tornò alla carica. Preparò un nuovo documento, “Terra di Bari, terra di pace”, al quale aderirono i vescovi della Metropolita di Bari: Magrassi (Metropolita e arcivescovo di Bari-Bitonto), Carata (arcivescovo di Trani-Barletta-Bisceglie), Lanave (vescovo di Andria), Pisani (vescovo di Gravina-Altamura), Padovano (vescovo di Conversano-Monopoli), Cacucci (vescovo ausiliare di Bari). Quel documento rappresentò la svolta di quella delicata vicenda, tanto è vero che di lì in seguito dei poligoni di tiro sulla Murgia non si ebbe più notizia. Ma le polemiche non finirono. La notizia dell’installazione di settantadue “F16” a gioia del Colle rianimerà l’intervento di don Tonino. Ulteriori incontri, nuovi appelli, nuove marce saranno da lui organizzati per respingere quel progetto. Ma la protesta contro l’installazione degli “F16” raggiunge il suo vertice allorquando don Tonino redige un nuovo documento, anche in quella circostanza firmato dagli altri vescovi della terra di Bari. Viene spedito in tutte le segreterie dei partiti e in tutti gli ambienti “importanti” della politica nazionale. Si scatena un vero putiferio. Vale però il caso di riproporre alcuni passi del testo “Puglia, arca di pace e non arco di guerra”: «… Abbiamo appena finito di rallegrarci per i confortanti gesti di distensione internazionale, e già una nuova grave foschia sembra oscurare il nostro cielo: l’ipotesi di stazionamento di 72 cacciabombardieri americani “F16” nell’aeroporto di Gioia del Colle. Triste destino della nostra terra! Finora è stata la storia a ricacciarla indietro, in ruoli subalterni. Adesso è la geografia che la respinge ancora più indietro, affidandole compiti di un perverso protagonismo: e non su ribalte di civiltà, ma su scenari di morte. Contro questa logica eleviamo, ancora una volta, la nostra fiera e sofferta protesta! È già pesante il pedaggio che la Puglia sta pagando, in fatto di servitù, ai programmi di riassetto militare. […] L’arrivo degli “F16” a Gioia del Colle comporterà un’ondata di nuovi espropri, sia per favorire l’indispensabile ampliamento dell’aeroporto, sia per permettere l’ospitalità ad almeno cinquemila americani che vi stanzieranno in pianta stabile».
Continua ancora don Tonino: «A questo punto, sentiamo l’obbligo di precisare che il nostro fermo rifiuto della logica legata all’operazione “F16” non nasce solo da ragioni interne ai confini territoriali ento i quali noi vescovi svolgiamo la nostra particolare missione pastorale. Ma deriva anche dalla condivisione del severo giudizio che Giovanni paolo II, al n. 20 della “Sollecitudo rei socialis” ha espresso sulla politica dei blocchi: “L’esistenza e la contrapposizione dei blocchi non cessano di essere tuttora un fatto reale e preoccupante, che continua a condizionare il quadro mondiale”. Sia ben chiaro, quindi: qualsiasi altra collocazione geografica dei “falchi combattenti” non alleggerirà più che tanto le nostre preoccupazioni». Il documento conclude così: «Non ci resta che invocare il signore, “perché diriga i nostri passi sulla via della pace” e induca i governanti, più che a sfruttare strumentalmente le debolezze antiche della nostra storia o le lusinghe recenti della nostra geografia, a restituirci al ruolo che ci è congeniale: essere operatori di sintesi con le diverse civiltà. Oggi più che mai, infatti, la Puglia è chiamata, dalla storia e dalla geografia, a protendersi nel suo mare come “arca” di pace, e non a curvarsi minacciosamente come “arco” di guerra». Non riesce a non intervenire in quella circostanza il capo del Governo, allora Bettino Craxi, il quale considerando illegittima la protesta e l’interferenza di don Tonino e degli altri vescovi pugliesi nelle questioni dello Stato, ricorreva alle norme del Concordato. Don Tonino non fu turbato dall’intervento del presidente del Consiglio dei Ministri, anzi a lui ribadì che «non gli risultava che il Concordato imponesse di stracciare delle pagine del Vangelo che i vescovi non dovessero predicare». Anche quella battaglia fu vinta da don Tonino. Gli “F16” non trovarono più ospitalità sul territorio di Gioia del Colle.
Al tirocinio seguì la teoria. Fu questo il principio che caratterizzò sempre il vescovo molfettese, che darà vita anche ad una “letteratura della pace”. È vero che il suo esempio precedeva sempre la parola, ma è altrettanto vero che quella sua parola, impetuosa e travolgente, era sorgente di bellissime frasi oltre che di credibilità; per molti soltanto utopia. La pace, diceva il vescovo monsignor Bello, «non è un semplice vocabolo, ma un vocabolario». E perciò i suoi discorsi, le sue omelie, le sue preghiere erano orientate a mettere in luce i diversi significati della pace. «Sul terreno della pace», ribadiva don Tonino, «non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita: bisognerà sempre giocare ulteriori tempi supplementari». La pace era per lui un cammino, «e per giunta in salita»; era il perdono, «solo chi perdona può parlare di pace e teorizzare sulla non violenza»; la pace per don Tonino era solidarietà, «non è solo il silenzio delle armi, o l’isolamento di chi non manca di nulla. La pace è comunione»; la pace era soprattutto verità, «chi ama la pace non ha paura di dire come stanno le cose, anche quando le sue parole rovinano la digestione dei potenti».
Ma don Tonino sapeva altresì bene quale pace additare agli uomini. Era consapevole che «la pace la vogliono tutti, anche i criminali, perché nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra». Per questa ragione invitava tutti a «non scommettere sulla pace non connotata da scelte storiche concrete, perché è un bluff»; a non fidarsi della pace «che prenda le distanze dalla giustizia, perché è peggio della guerra»; a non promuovere una pace «che si proclami estranea al problema della salvaguardia del creato, perché è amputata»; a non scommettere, inoltre, sulla pace «che sorrida sulla radicalità della non violenza, perché è infida»; a non osare una pace «che non provochi sofferenza, perché è sterile»; e, infine, don Tonino affermava di non scommettere «sulla pace come “prodotto finito”, perché scoraggia».
Si può certamente ben dire che don Tonino sia stato l’annuncio totale della pace, e come ha sottolineato Gianni Novelli (dirigente nazionale di Pax Christi), «don Tonino ha riportato i temi, l’ansia, i modi concreti, le iniziative, i movimenti per la pace all’interno della Chiesa». A confermare questa asserzione è Raniero la Valle il quale, nel periodo più atroce della guerra nella ex Jugoslavia, ebbe il coraggio di annunciare che «non c’è oggi, un Tonino Bello che faccia appello alle coscienze, che cerchi di risvegliare la Chiesa, che dia coraggio agli altri vescovi perché prendano la parola; che sappia infondere la fiducia nella efficacia anche storica della pace». La sua credibilità aveva conquistato il popolo della pace. Da ogni parte d’Italia lo invitavano a tenere conferenze. Andò a Rocca di Papa, A Verona, a Prato e ad altre città ancora.

6. Sul passo degli ultimi

L’impegno per la pace, seppure sia stato il lato forte del ministero episcopale, non ha però messo in ombra altri aspetti determinanti di don Tonino. Il suo lavoro di vescovo nella Chiesa locale, per esempio, merita di essere analizzato per quanto ha saputo condensare nei suoi progetti pastorali e non solo. Il documento più importante che racchiude l’esigenza del vescovo molfettese di “riordinare” la diocesi, è: “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. Sono tre le ragioni di questo progetto pastorale, e che don Tonino definisce “luci di posizione”: evangelizzazione, spiritualità, scelta degli ultimi. Occorreva innanzitutto privilegiare l’evangelizzazione, e questo per migliorare la qualità della vita cristiana. «Per le nostre Chiese locali», affermava, «si tratterrà di un trapasso difficile, perché accompagnato dal rimpianto per qualche cosa che dovremo pure avere il coraggio di lasciare». Ristabilire il primato della spiritualità era il secondo obiettivo, perché «non è difficile percepire che essa è la grande assente nelle nostre comunità». E, infine, era necessario che ogni azione partisse dagli ultimi. Scriverà don Tonino che «i poveri sono il punto di partenza di ogni servizio da rendere all’uomo», e per questo bisogna «mettersi in corpo l’occhio del povero […] per condividere con gli ultimi la nostra ricchezza e la loro povertà»; e per lottare con loro «non basta il buon cuore, occorre il buon cervello»; ed è anche necessario «stimolare una formazione politica seria per il nostro popolo, senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale».
Da qui si può dedurre con facilità come il progetto sui poveri sia già un progetto di pace. Risale, inoltre, al novembre del 1986 la pubblicazione “linee programmatiche d’impegno pastorale per l’anno 1986-87”, dal titolo: “Insieme per camminare”. Lo scopo principale di questo scritto pastorale fu quello di sollecitare l’intera Chiesa locale a sbloccare «la situazione preoccupante di stallo pastorale». Don Tonino non si risparmia dal fornire “qualche spina nel fianco” e offre alla riflessione di tutti i fedeli alcune tracce essenziali contenute nelle sue domande: «Quali sono le “scomuniche” più scandalose che oggi vive la nostra Chiesa locale? Dov’è che sanguina la ferita? Che fare per cicatrizzarla? Quali sono i venti che ci hanno dispersi? E quali sono i venti che ci possono radunare?». E poi ancora: «Le nostre assemblee sono luoghi di educazione alla pace? Dove si visibilizzano i frutti della violenza? Dove spuntano i segni di morte? E su queste aree, qual è il nostro annuncio? Siamo, come credenti, capaci di perdono?».
Per l’anno pastorale 1988-89, don Tonino proporrà nuovamente altre linee programmatiche di natura tecnica e spirituale, offrendo “segni nuovi e stimoli di comunione”. Il programma pastorale del 1989-90 si sofferma, invece, all’attenzione del ruolo dei laici all’interno della Chiesa diocesana, ispirandosi alla Esortazione Apostolica “Christifideles laici” di Giovanni Paolo II. L’ultimo scritto pastorale del vescovo molfettese risale al settembre del 1992. Anche in questo caso don tonino si sofferma su alcuni valori fondamentali della pastorale. Parla della “Comunione” come «un dono che occorre chiedere dall’alto», ma anche come «bene che dobbiamo costruire dal basso»; sottolinea l’importanza della “Comunità” che «fiorisce attorno a Cristo», e «che si sente permeata di carità missionaria»; conclude soffermandosi sul valore della “Comunicazione” che «non è solo trasmissione di notizie», ma è soprattutto «ministero della misericordia».
Durante l’intero episcopato don Tonino si recò due volte a Roma dal papa, per la visita “ad limina”. Tale appuntamento ha luogo, per tutti i vescovi, ogni cinque anni, un incontro che vuol essere una vera e propria verifica della situazione generale della diocesi. La prima volta che don Tonino incontrò Giovanni Paolo II fu nel dicembre del 1986: «Mi ha chiesto se in diocesi ci sono molti poveri», dirà don Tonino, «se le mie città sono violente. Se la speranza vi è di casa. Se i sacerdoti sono generosi fino alla follia. Se i laici vivono con autenticità i valori del Vangelo…». La seconda visita “ad limina” avvenne il 14 gennaio 1992, quando don Tonino era già malato. «Sono stato con lui, nel suo studio privato, per un quarto d’ora che lì per lì mi è parso un minuto», racconterà don Tonino. E ancora: «Mi ha domandato di voi, della vostra coerenza cristiana, delle difficoltà più grosse che incontrate in questa comune fatica del vivere. Si è interessato dei giovani, e mi ha chiesto che quota di speranza si portano nel cuore. Mi ha incaricato di far giungere ai poveri e ai sofferenti la sua solidarietà, e, mentre diceva queste cose, mi accorgevo che non c’era nulla di rituale nelle sue parole, che mi rigavano l’anima come la penna di un sismografo. Durante il colloquio privato mi sono permesso di dirgli che tutti i credenti della nostra diocesi gli vogliono bene, pregano incessantemente per lui, e gli promettono di seguire di più i suoi insegnamenti. Ho fatto bene? ».
Il lavoro di vescovo nella diocesi di Molfetta fu caratterizzato anche dalle visite pastorali. Don Tonino frequentò tutte le parrocchie delle quattro città sostando una settimana in ciascuna di esse. La visita pastorale offre l’occasione al vescovo di verificare il lavoro e le attività che si svolgono nell’ambito di una parrocchia. Dà, inoltre, la possibilità di conoscere il quartiere con i relativi problemi sociali. Ebbene, don Tonino entrò in un rapporto diretto con i diversi gruppi associativi delle parrocchie diocesane, verificandone così lo stato di salute; frequentò le diverse categorie di lavoro dei parrocchiani; i professionisti, gli artigiani, i contadini; si recò nelle scuole, negli asili e nei circoli culturali; visitò gli ammalati e gli ospedali, e per tutti elargiva parole di conforto e di speranza. Le visite pastorali gli avevano dato pure la possibilità di intraprendere un dialogo epistolare con le diverse comunità incontrate, e attraverso il settimanale diocesano “Luce e Vita” don Tonino scriveva bellissime lettere che rappresentavano un po’ il bilancio delle sue verifiche. Così anche preferì lo stile epistolare per comunicare ai catechisti della diocesi i suoi messaggi. Nel periodo quaresimale, ogni mercoledì sera, prese la consuetudine di incontrarsi con i giovani in Cattedrale. E furono quegli incontri a far sì che gli stessi giovani s’innamorassero della sua travolgente parola, del suo fresco ed originale linguaggio, nonché della sua credibile testimonianza. Uno sguardo panoramico agli “atti del vescovo” pubblicati puntualmente nella rivista “Luce e Vita documentazione”, ci permette di constatare la copiosa mole di lavoro di don Tonino nella Chiesa locale. Ricordiamo alcuni decreti: il 2 febbraio 1984 viene decretata l’entrata in vigore dello Statuto-Regolamento del Consiglio Presbiterale Interdiocesano; il 20 febbraio 1985 viene ufficializzato l’Ordinamento delle processioni nella diocesi di Molfetta; nel corso del 1985, don Tonino decreta l’istituzione dell’Archivio Diocesano di Giovinazzo e l’Archivio Diocesano di Terlizzi e, il 23 ottobre dello stesso anno, l’Istituto Interdiocesano per il sostentamento del Clero; il 2 febbraio 1986 don Tonino firma il decreto per l’Erezione Canonica della Pia Unione Oblate di S. Benedetto Giuseppe Labre; l’8 dicembre 1988 il vescovo istituisce il Centro Diocesano Volontari della Sofferenza e, qualche anno dopo, il Movimento Apostolico Sordi. Durante il suo episcopato, inoltre, si insedia il Tribunale Diocesano per la Casa di Canonizzazione del servo di Dio Ambrogio Grittani.
Ma chi ha conosciuto don Tonino Bello, può certamente ricordare come la sua vita non l’abbia trascorsa soltanto a firmare decreti, preparare discorsi seri, omelie ben oculate, a partecipare a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Ci sono stati anche tantissimi momenti in cui il vescovo molfettese ha dato prova di estrema naturalezza, quella naturalezza che è riscontrabile in qualsiasi uomo. E perciò si divertiva a suonare la fisarmonica nei momenti di fraternità con amici, con i giovani, e con quanti gli rendevano visita nel suo appartamento vescovile. A calcio, con i ragazzi del seminario, avrebbe voluto giocare, ma lo frenava la paura di farsi male e poter così arrestare il suo impegno pastorale. Improvvisava divertenti giochi di gruppo con i bambini quando andava a trovarli negli asili. Si recava nelle palestre o sui campi da gioco per incoraggiare gli atleti, insegnando loro a comportarsi da veri sportivi. E per questa sua spontaneità, normalità e naturalezza, don Tonino riuscì a conquistare tantissima gente, fuorché una categoria di uomini, quelli a cui si attribuisce il termine “politico”.

© Luce e Vita – Molfetta

6. Sul passo degli ultimi</p><br /><br /><br /><br />
<p>L’impegno per la pace, seppure sia stato il lato forte del ministero episcopale, non ha però messo in ombra altri aspetti determinanti di don Tonino. Il suo lavoro di vescovo nella Chiesa locale, per esempio, merita di essere analizzato per quanto ha saputo condensare nei suoi progetti pastorali e non solo. Il documento più importante che racchiude l’esigenza del vescovo molfettese di “riordinare” la diocesi, è: “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. Sono tre le ragioni di questo progetto pastorale, e che don Tonino definisce “luci di posizione”: evangelizzazione, spiritualità, scelta degli ultimi. Occorreva innanzitutto privilegiare l’evangelizzazione, e questo per migliorare la qualità della vita cristiana. «Per le nostre Chiese locali», affermava, «si tratterrà di un trapasso difficile, perché accompagnato dal rimpianto per qualche cosa che dovremo pure avere il coraggio di lasciare». Ristabilire il primato della spiritualità era il secondo obiettivo, perché «non è difficile percepire che essa è la grande assente nelle nostre comunità». E, infine, era necessario che ogni azione partisse dagli ultimi. Scriverà don Tonino che «i poveri sono il punto di partenza di ogni servizio da rendere all’uomo», e per questo bisogna «mettersi in corpo l’occhio del povero […] per condividere con gli ultimi la nostra ricchezza e la loro povertà»; e per lottare con loro «non basta il buon cuore, occorre il buon cervello»; ed è anche necessario «stimolare una formazione politica seria per il nostro popolo, senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale».<br /><br /><br /><br /><br />
Da qui si può dedurre con facilità come il progetto sui poveri sia già un progetto di pace. Risale, inoltre, al novembre del 1986 la pubblicazione “linee programmatiche d’impegno pastorale per l’anno 1986-87”, dal titolo: “Insieme per camminare”. Lo scopo principale di questo scritto pastorale fu quello di sollecitare l’intera Chiesa locale a sbloccare «la situazione preoccupante di stallo pastorale». Don Tonino non si risparmia dal fornire “qualche spina nel fianco” e offre alla riflessione di tutti i fedeli alcune tracce essenziali contenute nelle sue domande: «Quali sono le “scomuniche” più scandalose che oggi vive la nostra Chiesa locale? Dov’è che sanguina la ferita? Che fare per cicatrizzarla? Quali sono i venti che ci hanno dispersi? E quali sono i venti che ci possono radunare?». E poi ancora: «Le nostre assemblee sono luoghi di educazione alla pace? Dove si visibilizzano i frutti della violenza? Dove spuntano i segni di morte? E su queste aree, qual è il nostro annuncio? Siamo, come credenti, capaci di perdono?».<br /><br /><br /><br /><br />
Per l’anno pastorale 1988-89, don Tonino proporrà nuovamente altre linee programmatiche di natura tecnica e spirituale, offrendo “segni nuovi e stimoli di comunione”. Il programma pastorale del 1989-90 si sofferma, invece, all’attenzione del ruolo dei laici all’interno della Chiesa diocesana, ispirandosi alla Esortazione Apostolica “Christifideles laici” di Giovanni Paolo II. L’ultimo scritto pastorale del vescovo molfettese risale al settembre del 1992. Anche in questo caso don tonino si sofferma su alcuni valori fondamentali della pastorale. Parla della “Comunione” come «un dono che occorre chiedere dall’alto», ma anche come «bene che dobbiamo costruire dal basso»; sottolinea l’importanza della “Comunità” che «fiorisce attorno a Cristo», e «che si sente permeata di carità missionaria»; conclude soffermandosi sul valore della “Comunicazione” che «non è solo trasmissione di notizie», ma è soprattutto «ministero della misericordia».<br /><br /><br /><br /><br />
Durante l’intero episcopato don Tonino si recò due volte a Roma dal papa, per la visita “ad limina”. Tale appuntamento ha luogo, per tutti i vescovi, ogni cinque anni, un incontro che vuol essere una vera e propria verifica della situazione generale della diocesi. La prima volta che don Tonino incontrò Giovanni Paolo II fu nel dicembre del 1986: «Mi ha chiesto se in diocesi ci sono molti poveri», dirà don Tonino, «se le mie città sono violente. Se la speranza vi è di casa. Se i sacerdoti sono generosi fino alla follia. Se i laici vivono con autenticità i valori del Vangelo…». La seconda visita “ad limina” avvenne il 14 gennaio 1992, quando don Tonino era già malato. «Sono stato con lui, nel suo studio privato, per un quarto d’ora che lì per lì mi è parso un minuto», racconterà don Tonino. E ancora: «Mi ha domandato di voi, della vostra coerenza cristiana, delle difficoltà più grosse che incontrate in questa comune fatica del vivere. Si è interessato dei giovani, e mi ha chiesto che quota di speranza si portano nel cuore. Mi ha incaricato di far giungere ai poveri e ai sofferenti la sua solidarietà, e, mentre diceva queste cose, mi accorgevo che non c’era nulla di rituale nelle sue parole, che mi rigavano l’anima come la penna di un sismografo. Durante il colloquio privato mi sono permesso di dirgli che tutti i credenti della nostra diocesi gli vogliono bene, pregano incessantemente per lui, e gli promettono di seguire di più i suoi insegnamenti. Ho fatto bene? ».<br /><br /><br /><br /><br />
Il lavoro di vescovo nella diocesi di Molfetta fu caratterizzato anche dalle visite pastorali. Don Tonino frequentò tutte le parrocchie delle quattro città sostando una settimana in ciascuna di esse. La visita pastorale offre l’occasione al vescovo di verificare il lavoro e le attività che si svolgono nell’ambito di una parrocchia. Dà, inoltre, la possibilità di conoscere il quartiere con i relativi problemi sociali. Ebbene, don Tonino entrò in un rapporto diretto con i diversi gruppi associativi delle parrocchie diocesane, verificandone così lo stato di salute; frequentò le diverse categorie di lavoro dei parrocchiani; i professionisti, gli artigiani, i contadini; si recò nelle scuole, negli asili e nei circoli culturali; visitò gli ammalati e gli ospedali, e per tutti elargiva parole di conforto e di speranza. Le visite pastorali gli avevano dato pure la possibilità di intraprendere un dialogo epistolare con le diverse comunità incontrate, e attraverso il settimanale diocesano “Luce e Vita” don Tonino scriveva bellissime lettere che rappresentavano un po’ il bilancio delle sue verifiche. Così anche preferì lo stile epistolare per comunicare ai catechisti della diocesi i suoi messaggi. Nel periodo quaresimale, ogni mercoledì sera, prese la consuetudine di incontrarsi con i giovani in Cattedrale. E furono quegli incontri a far sì che gli stessi giovani s’innamorassero della sua travolgente parola, del suo fresco ed originale linguaggio, nonché della sua credibile testimonianza. Uno sguardo panoramico agli “atti del vescovo” pubblicati puntualmente nella rivista “Luce e Vita documentazione”, ci permette di constatare la copiosa mole di lavoro di don Tonino nella Chiesa locale. Ricordiamo alcuni decreti: il 2 febbraio 1984 viene decretata l’entrata in vigore dello Statuto-Regolamento del Consiglio Presbiterale Interdiocesano; il 20 febbraio 1985 viene ufficializzato l’Ordinamento delle processioni nella diocesi di Molfetta; nel corso del 1985, don Tonino decreta l’istituzione dell’Archivio Diocesano di Giovinazzo e l’Archivio Diocesano di Terlizzi e, il 23 ottobre dello stesso anno, l’Istituto Interdiocesano per il sostentamento del Clero; il 2 febbraio 1986 don Tonino firma il decreto per l’Erezione Canonica della Pia Unione Oblate di S. Benedetto Giuseppe Labre; l’8 dicembre 1988 il vescovo istituisce il Centro Diocesano Volontari della Sofferenza e, qualche anno dopo, il Movimento Apostolico Sordi. Durante il suo episcopato, inoltre, si insedia il Tribunale Diocesano per la Casa di Canonizzazione del servo di Dio Ambrogio Grittani.<br /><br /><br /><br /><br />
Ma chi ha conosciuto don Tonino Bello, può certamente ricordare come la sua vita non l’abbia trascorsa soltanto a firmare decreti, preparare discorsi seri, omelie ben oculate, a partecipare a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Ci sono stati anche tantissimi momenti in cui il vescovo molfettese ha dato prova di estrema naturalezza, quella naturalezza che è riscontrabile in qualsiasi uomo. E perciò si divertiva a suonare la fisarmonica nei momenti di fraternità con amici, con i giovani, e con quanti gli rendevano visita nel suo appartamento vescovile. A calcio, con i ragazzi del seminario, avrebbe voluto giocare, ma lo frenava la paura di farsi male e poter così arrestare il suo impegno pastorale. Improvvisava divertenti giochi di gruppo con i bambini quando andava a trovarli negli asili. Si recava nelle palestre o sui campi da gioco per incoraggiare gli atleti, insegnando loro a comportarsi da veri sportivi. E per questa sua spontaneità, normalità e naturalezza, don Tonino riuscì a conquistare tantissima gente, fuorché una categoria di uomini, quelli a cui si attribuisce il termine “politico”.</p><br /><br /><br /><br />
<p>© Luce e Vita - Molfetta

 




il ‘Gesù ribelle’ di un musulmano

croce

 
é un musulmano Reza Aslam ma si è appassionato alla figura di Gesù, essendo cresciuto, tra l’altro’ alla scuola dei gesuiti
è appassionato più al Gesù storico più che al Gesù ‘religioso’ e racconta nel suo libro che sta diventando un vero best seller in America ( in Italia esce coi tipi della Rizzoli e col titolo: Gesù il ribelle)” un Cristo attento soprattutto ai poveri, alla loro liberazione, alla loro salvezza”
per Reza Gesù e “la persona più importante degli ultimi 2000 anni ed è alla base della civiltà occidentale
qui sotto Reza Aslan risponde ad alcune domande:

L’altro Gesù

intervista a Reza Aslan

a cura di Massimo Vincenzi
in “la Repubblica” del 3 dicembre 2013

Fine luglio, studi di Fox News: Lauren Green uno dei volti più noti della televisione incalza un uomo dall’aria disarmata e dalla voce tranquilla. Lei chiede: «Perché un musulmano scrive un libro su Gesù?». Lui, un po’ stupito: «È il mio lavoro, sono un professore, uno studioso di religioni». Ma lei ancora, senza ascoltarlo, come un disco rotto: «Sì, ok, ma perché ti sei interessato al fondatore del cristianesimo? ». Così per dieci, infiniti, minuti che sono il manifesto perfetto di una frattura culturale, della totale incapacità di comunicare. Il video “dell’intervista peggiore mai vista”, come viene subito definita, diventa virale su Internet, spopola nei talk show e sui giornali. Lui si chiama Reza Aslan, 41 anni, insegna all’Università della California, scrittore e giornalista nato in Iran, arriva in America con la famiglia dopo la rivoluzione di Khomeini. Il libro sul banco degli imputati esce ora in Italia con il titolo Gesù il ribelle (Rizzoli) e negli Usa domina per mesi le classifiche dei bestseller, a partire da quella del New York Times, che si schiera in difesa dell’autore. L’idea è quella di raccontare la figura di Cristo separando la verità storica dal mito successivo.
Un’operazione, ampiamente sfruttata da altri in passato, ma avvincente, con una narrazione che scorre fluida, senza mai urtare la sensibilità del lettore, anche quello più religioso. Non c’è provocazione, non c’è sarcasmo: ma solo voglia di capire. Come spiega lui a Repubblica (con, alla fine, una postilla personale).
Immagino che lei sia stufo, ma bisogna per forza partire dall’intervista cult alla Fox News.
Come è andata?
«È anche colpa mia, me lo dovevo aspettare: quella rete tv ha costruito il suo successo su posizioni molto conservative e radicali: la paura dell’Islam è uno dei loro marchi di fabbrica. Ma quello che mi ha colpito è stata la maniera inesorabile con cui sono stato attaccato. La conduttrice non passa mai a parlare del libro, non riesco mai ad esporre le mie tesi: non le interessano, lei vuole solo mettermi in difficoltà, rendermi ridicolo. Ed è lo stesso modo con cui vengo colpito sui social network: nessuno entra mai nel merito delle mie idee: solo insulti basati su stereotipi».
L’America ha vissuto l’Undici settembre, da allora per i musulmani tutto è stato più
complicato. Com’è la situazione adesso? C’è ancora molta intolleranza?
«Non penso che il problema derivi dagli attentati alle Torri Gemelle: quelli sono un fatto, era persino naturale ci fosse risentimento e diffidenza. Il peggio è venuto dopo, intorno al 2004-2005, quando uomini politici, imprenditori, scrittori, predicatori hanno iniziato a finanziare l’industria dell’islamofobia perché hanno scoperto che paga in termini di popolarità. È più facile parlare alle paure della gente che alla loro intelligenza, poi però ricostruire la convivenza diventa complicato ».
Perché, da studioso, ha scelto di occuparsi di Gesù Cristo, sul quale c’è già una sterminata produzione letteraria?
«È la persona più importante degli ultimi duemila anni, è alla base della civiltà occidentale. Io volevo separare la sua realtà storica dal mito religioso, che è successivo. Volevo spiegare come un contadino povero e analfabeta fosse riuscito a fondare un movimento rivoluzionario in difesa dei diseredati e degli emarginati, arrivando a sfidare in maniera diretta il potere romano e delle gerarchie ebraiche. Mi interessava immergere Cristo nella sua epoca, vedere le sue azioni collegate agli eventi di quel periodo: azioni e reazioni. Perché se pensiamo alla sua dimensione religiosa è ovvio che non esiste il tempo, le sue parole e le sue azioni sono eterne, valgono sempre e per sempre. Io volevo raccontare l’uomo, non Dio».
Come ha lavorato?
«Ho iniziato le ricerche vent’anni fa: prima da studente e poi da professore. Ho usato tutte le fonti dirette dell’epoca, ho tradotto le versioni originali del Nuovo Testamento: mi sono mosso secondo i criteri scientifici che usiamo di solito all’università per qualsiasi ricerca. Poi ho messo tutto quello che ho trovato nel racconto, cercando di affascinare il lettore, di portarlo dentro la fantastica vita di Gesù. Ma ogni riga che ho scritto è documentata».
Che rapporto ha con la religione?
«La studio da sempre, è la mia vita. Credo in Dio, lo scopo delle religioni è fornire un linguaggio per aiutare le persone a definire la propria fede. Dopo essere stato educato al cristianesimo, adesso mi sento più vicino all’Islam. Io non penso che sia più giusto o che annunci verità più forti, semplicemente sento i suoi miti, le sue metafore più consone al mio mondo ».
Lei è nato in Iran, come è stato crescere negli Stati Uniti?
«Sono arrivato nel pieno dello scontro con Teheran: l’epoca degli ostaggi, delle tensioni e qui c’erano tantissime persone ostili agli iraniani. Io, come è ovvio, come fanno tutti i bambini, ho cercato di integrarmi il più possibile nel nuovo ambiente, volevo essere americano al cento per cento e così mi sono dimenticato delle mie origini: a scuola fingevo di essere messicano per venire accettato dai compagni di classe. Poi dopo il college ho iniziato a riscoprire la mia cultura e ho recuperato il passato».
Cosa pensa dell’accordo sul nucleare?
«È una novità bellissima, penso sia il primo passo verso una svolta molto importante. Se si riesce a portarlo avanti potrebbe aprire una nuova era nei rapporti tra gli Usa e l’Iran e portare così finalmente un po’ di pace in Medio Oriente».
Segue l’azione di Papa Francesco?
«Certo, ne sono entusiasta. Io sono stato cresciuto dai gesuiti e il metodo che mi hanno insegnato mi ha portato ad appassionarmi al Gesù storico, prima ancora che a quello religioso. Il mio libro è in linea con la loro formazione: racconta un Cristo attento soprattutto ai poveri, alla loro liberazione, alla loro salvezza. Se il Papa riesce, come sta riuscendo, a rimanere fedele alle sue origini porterà nella chiesa una trasformazione mai vista prima. È il ritorno ad una vita nel segno della vocazione, lontano dalla burocrazia del potere: il suo esempio sarà rivoluzionario. Ne sono sicuro».
Sta già lavorando ad un nuovo libro?
«Vorrei scrivere sulle origini di Dio, su come si è evoluta la sua figura nel corso della storia dell’umanità, come è cambiata la concezione che hanno gli uomini di lui».
Andrà alla Fox a presentarlo?
«Di sicuro. Secondo lei mi invitano?».
È passata quasi un’ora. Ma, prima dei saluti, come per rispondere ad una domanda mai fatta aggiunge: «Mia mamma è cristiana, così come mia moglie e mio fratello. A 15 anni, dopo essermi imbattuto in Gesù ascoltando la sua storia in un campo estivo, ne sono rimasto talmente rapito che andavo in giro per le strade fermando gli sconosciuti narrando loro la buona novella: tipo giovane predicatore. Mi prendevano per matto, i miei genitori si preoccupavano. Io non avrei mai potuto scrivere un libro contro i miei valori, contro le persone che amo e in cui credo. Volevo solo capire.
Solo capire».




papa francesco liberal o conservatore?

rosellina

 

è decisamente sorprendente papa Francesco con le sue dichiarazioni e prese di posizioni  per tanti aspeti ‘non religiosamente corrette’: sorprende positivamente i ‘liberal’ americani pur con dei distiguo, sorprende negativamente i tradizionalisti e i conservatori per le sue posizioni anticapitalistiche … e se fosse in senso evangelico ‘segno di contraddizione’?

 

Il fulcro della missione di papa Francesco

di E. J. Dionne Jr.
in “www.washingtonpost.com” del 2 dicembre 2013

Il cristianesimo è stato usato per secoli per supportare i potenti. Ma, fin dalle origini, il messaggio
cristiano è stato sovversivo rispetto a certi sistemi politici, severo verso chi stava in alto ed esigente
per tutti coloro che lo prendevano sul serio.
Papa Francesco sorprende il mondo perché accoglie i cristiani che invitano a destabilizzare e a
sfidare. Come primo capo della Chiesa cattolica proveniente dall’emisfero sud, è soprattutto
consapevole dei modi in cui il capitalismo senza regole ha estromesso i poveri e li ha lasciati “in
attesa”.
La sua esortazione apostolica, “Evangelii Gaudium” sta ottenendo una vasta e meritata attenzione
per la sua denuncia dell’economia “trickle-down” [ndr.: l’economia che, con effetto a cascata,
procurerebbe vantaggi per tutti] come sistema che “esprime una fiducia grossolana e ingenua nella
bontà di coloro che detengono il potere economico”. È un’opinione “che non è mai stata confermata
dai fatti” e ha creato “una globalizzazione dell’indifferenza”. Quei cattolici conservatori che hanno a
lungo sostenuto la riduzione delle tasse ai ricchi riconosceranno il problema morale che Francesco
ha posto davanti a loro?
Ma gli americani, sia liberal che conservatori, potrebbero essere frustrati dalla riprovazione del papa
“dell’individualismo della nostra epoca postmoderna e globalizzata”, dato che ognuna delle due
parti difende le proprie forme preferite di individualismo. Francesco deplora “un vuoto lasciato dal
razionalismo secolarista”, espressione non facilmente accettabile da tutti a sinistra.
E alla luce dello shopping ossessivo del Cyber Monday [ndr.: giornata dedicata agli sconti sui
prodotti tecnologici] e del Black Friday [ndr.: il primo venerdì dopo il giorno del ringraziamento,
che corrisponde tradizionalmente all’inizio dello shopping natalizio], ecco un papa che dipinge il
consumismo nella tonalità più cupa. “Perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non
abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci
sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo”.
Tuttavia questo critico della nostra epoca rifiuta la tristezza, rimproverando “i pessimisti scontenti e
disincantati”, che definisce “persone dalla faccia scura”. Mi piace un papa che prende posizione
contro i musoni.
Francesco fa andare in estasi molti liberal, anche se lui non è un liberal in senso tradizionale. Ha
anche diviso i conservatori americani tra coloro che cercano di restargli fedeli e coloro che lo
ritengono, dal loro punto di vista, una persona che sta combinando qualche cosa di pericoloso.
Entrambe le parti capiscono dove sta l’energia del pontificato di Francesco. Non è il primo papa che
denuncia il nostro sistema economico ingiusto. Papa Giovanni Paolo II denunciava regolarmente il
“monopolio imperialista” e “l’egoismo del lusso”. Papa Benedetto XVI condannava “corruzione e
illegalità” nel “comportamento della classe economica e politica in paesi ricchi” e parlava a favore
della “ridistribuzione della ricchezza”.
La differenza è che la preoccupazione per i poveri e la condanna dell’ingiustizia economica sono
proprio al cuore della missione di Francesco. “In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine
di accrescere i benefici”, scrive, “qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa
rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta”. Potete immaginare un
liberal americano che osa dire tali cose?
I cattolici americani conservatori hanno subito fatto notare che verso la fine di “Evangelii
Gaudium”, Francesco afferma con forza l’opposizione della Chiesa all’aborto. Questo è effettivamente uno degli aspetti per cui non si può dire che sia un liberal in senso tradizionale. Parla
di “bambini nascituri” come dei “più indifesi ed innocenti di tutti”. Insiste sul fatto che la posizione
della Chiesa non è “qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore”, ma piuttosto “legata alla
difesa di qualsiasi diritto umano”.
Tuttavia quasi subito dopo aggiunge: “È anche vero che abbiamo fatto poco per accompagnare
adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure” e velocemente torna alla sua più
generale posizione a sostegno di “altri esseri fragili e indifesi, che molte volte rimangono alla mercé
degli interessi economici o di un uso indiscriminato”.
È certo che i liberal che amano Francesco devono scendere a patti con gli aspetti del suo pensiero
meno congeniali con le loro convinzioni. Ma l’assoluta priorità che lui ha dato alla lotta contro lo
sfruttamento economico, la sua enfasi su “istruzione, assistenza sanitaria, e soprattutto un lavoro
degno”, i suoi ammonimenti contro coloro che “sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile
cattolico proprio del passato” e il suo scontento per l’ascesa di ultra ortodossi – rimprovera quei
“giudici oscuri che si compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione” – mettono a dura
prova i conservatori ancor più dei liberal.
Alla luce di un recente passato in cui il conservatorismo aveva la meglio nella Chiesa cattolica
USA, i progressisti hanno ragione di essere entusiasti. I cattolici conservatori lo sanno. Questo è il
motivo per cui sono combattuti tra l’esprimere lealtà al papa che ha catturato l’immaginazione
popolare e il preoccuparsi del fatto che stia trasformando la chiesa ad una velocità che pochi
ritenevano possibile.




vicesindaco pd sequestra gli spiccioli dei mendicanti!

Guerra ai mendicanti

sequestrate le elemosine

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come già a Venezia, ora anche a Bressanone:l’amministrazione di sinistra impedisce a mendicanti di raccogliere offerte fuori da chiese e cimiteri, anzi sequestra loro le monetine ricevute

meno male che la caritas locale ne prende criticamente le distanze ricordando a queste amministrazioni che “occorre combattere la povertà non i poveri”

iVietato l’accattonaggio davanti alle chiese ed ai cimiteri. Ancora più vietato, poi, se i mendicanti sono troppi ed eccessivamente aggressivi, come dicono i cittadini. Per questo motivo le autorità di Bressanone sono passate alla linea dura e hanno sequestrato le elemosine. Secondo il vicesindaco Gianlorenzo Pedron (Pd), “l’iniziativa si è resa necessaria per evitare le molestie che i mendicanti arrecano, specie alle persone anziane”. Spiega Pedron: “Vi sono anziane che non hanno più il coraggio di andare al cimitero per ricordare i loro defunti perché davanti all’ingresso c’è chi chiede soldi anche per riempire un annaffiatoio”. Al momento, sono state una decina le confische dell’elemosina. In passato a una simile contromisura aveva fatto ricorso anche il Comune di Venezia, ma era stato poi bocciato dal Consiglio di Stato. Molte però le critiche e le proteste ricevute, soprattutto da parte della Caritas, che sottolinea anche l’ingiustificato sequestro delle monete elemosinate”: occorre combattere la povertà, non i poveri”. “Non intendiamo fare gli sceriffi, ma solo far rispettare la legge”, ribate il vicesindaco Pedron.