da ‘campo nomadi’ a ‘grande contenitore di disagio’

 

«Strutture abitative per nomadi tra cimitero e campo Coni»

L’assessore regionale Allocca conferma il progetto allo studio

Controlli alle Tagliate

riproduco qui sotto l’ articolo  comparso sul sito de ‘la Nazione-Lucca’ sulla trasformazione dell’area di transito che da decenni ospita sinti e rom
può anche prendere le mosse  da un’intenzione positiva questo progetto di dotare di casette in legno il ‘campo nomadi’ o ‘campo di transito’ situato tra il cimitero urbano e il palazzetto dello sport, e in quanto tale non può che essere guardato  con favore, ma …
in più di trent’anni ho sempre costatato una cosa: si discute su di loro, si progetta su di loro, ‘per il loro bene’, ma sempre senza di loro, sempre sulle loro teste … ‘loro’ sono , evidentemente, i sinti, i rom, gli zingari, anzi pudicamente ‘i nomadi’ (che sono a Lucca da circa 30-40 anni) le cui personali esigenze, problemi, richieste poco interessano
proprio ieri ho giocato a lungo coi loro bambini e ho chiesto loro cosa ne pensassero di questo progetto: non ne hanno neanche sentito parlare
saranno contenti quando vedranno che l’area del ‘campo’  dove elaborano la loro vita coi propri gusti, criteri culturali, e coi propri stili di vita (pur con tanti disagi a motivo delle strutture igieniche fatiscenti) avrà subito una radicale trasformazione  e sarà diventata, ancorché migliorata in queste strutture, un grande contenitore, di disagio sociale, di situazioni problematiche, in un “campo di raccolta per persone immigrate da paesi del terzo e quarto mondo”?
chi ci dà il diritto di considerarli o, strumentalmente, come ‘nomadi’ (dopo aver loro precluso normativamente ogni possibilità di vita nomade, piegandoli di fatto ad una sedentarietà forzata) in modo da concludere: dunque vadano via o passiamo mandarli via; o riduttivamente e ingiuriosamente come dei ‘poveracci’ nei cui confronti progettare un assistenzialismo a prescindere da tutto ciò che in realtà sono  nei loro stili di vita, nelle loro tradizioni, cultura, bisogni, esigenze, spesso molto personali?
anche loro hanno il piacere, come ciascuno di noi, di poter dire: ‘a casa mia’ faccio le cose come voglio io, non come vogliono gli altri, fosse anche l’amministrazione pubblica e … ‘per il loro bene’

Lucca, 10 novembre 2013 

Via delle Tagliate: non chiamatelo più campo nomadi, per favore. Quell’area accanto al cimitero urbano, in futuro, potrebbe divenire un vero e proprio campo di accoglienza. Da temporaneo a definitivo: al servizio non solo dei rom, ma anche di tutti coloro che, in futuro, ne avessero bisogno. Parola dell’assessore regionale al Welfare Salvatore Allocca, che fa il punto sul futuro del più grande campo nomadi cittadino, una vera e propria fucina di problemi sociali, ma anche di ordine pubblico: basti pensare al numero delle persone agli arresti domiciliari presenti nel campo che si incastra tra il camposanto monumentale e il campo Coni. Da giorni in città monta polemica sul futuro dell’area e sul possibile progetto, finanziato con soldi dell’Unione Europea che giungerebbero attraverso la Regione, per trasformare radicalmente il campo. Da campo di transito, per quanto di transito, come detto, non lo è mai stato, a un vero e proprio insediamento abitativo permanente con casette in legno a un piano.
Pagate naturalmente con i soldi pubblici: 7-800 mila euro arriverebbero dalla Regione, via Europa; ne servissero di più, ecco che allora ci sarebbe da capire se il Comune dovrà mettere mano al portafoglio. «Il progetto, che vede un qualcosa di simile anche a Pistoia – spiega l’assessore Allocca – nasce all’interno delle linee europee di inclusione delle popolazioni rom, ma non solo di esse. Anche a Lucca stiamo provando a realizzare un campo di accoglienza che non sia destinato esclusivamente alla popolazione rom, che così com’è, ci sono stato nel giugno scorso, è davvero malmesso. Vogliamo provare a realizzare una struttura abitativa che non ghettizzi e che, come detto, non sia solo per i rom. Una struttura del genere, domani, potrà essere a disposizione di altri soggetti in difficoltà. Vanno chiariti comunque gli aspetti urbanistici». Già, il domani potrebbe riservare dunque nuovi arrivi. Per quanto, come confermato dall’assessore Vietina, il progetto, nell’immediato è destinato agli attuali abitanti del campo. Ma se questi, come del resto sta avvenendo progressivamente a causa dei punteggi elevati che raccolgono nelle graduatorie, dovessero risultare assegnatari di appartamenti di edilizia residenziale pubblica? Il loro posto verrebbe preso con ogni probabilità da altri. Questo è quello che in molti temono.
Il campo nominalmente temporaneo, a quel punto, diverrebbe formalmente definitivo, andando ad ospitare altre situazioni di disagio. Un terreno delicato, per certi versi minato. E non a caso sull’argomento anche in alcuni settori della maggioranza si registrano perplessità. Impiegare altro denaro pubblico, perché di questo si tratta a prescindere dalla sua provenienza, dopo tutto quello già impiegato, ultimi i 70 mila euro per il rifacimento delle piazzole e i contatori dell’acqua, fa storcere il naso. Senza considerare che di fatto si rende permanente una struttura che, piaccia o meno, è in qualche modo un coacervo di marginalità. Ma le obiezioni di natura politica non sono le uniche. Anche da un punto di vista urbanistico il progetto non appare dei più semplici. Siamo praticamente nella zona cimiteriale, a un passo dal fiume e nel punto di ingresso di quello che sarebbe il parco fluviale.
I vincoli non paiono così semplici da essere superati. Sicuramente servirebbero delle varianti urbanistiche. Per ora, a Palazzo Orsetti, si stanno limitando a una prima panoramica della situazione, come conferma l’assessore all’Urbanistica Serena Mammini. «Ce ne siamo interessati, al momento, solo in un incontro — spiega — per capire quali potrebbero essere le difficoltà, da un punto di vista urbanistico, derivanti dalla realizzazione di un progetto simile. Serve sicuramente un’analisi accurata».

discriminazioni istituzionali

divieto ai nomadi

succede ancora in Italia: discriminazioni che periodicamente si ripropongono

Sta facendo parecchio discutere un singolare divieto di sosta presente sul territorio comunale di Fermo. Per l’esattezza a Casabianca, in un’area comunale, a due passi dal centralissimo viale che porta al mare. Cos’è? Un divieto di sosta “ai nomadi” che rischiano, stando al messaggio che arriva dal cartello, la rimozione forzata della vettura.
Chiaramente il messaggio non è rivolto al noto gruppo pop rock che tanti successi ha mietuto nella storia musicale italiana che, anzi, se venisse a soggiornare a Fermo sarebbe certamente benvenuto. No, il messaggio è per i nomadi veri, ovvero per quelle popolazioni che vivono spostandosi da un posto all’altro. Ma attenzione: non ai pastori, ai beduini o ai berberi ma, mettiamola così, agli zingari, ecco! Nessuna multa è stata finora elevata e, a quanto risulta, nemmeno un’auto, una roulotte o un camper sono stati portati via dal carroattrezzi.
Allora a che serve quel cartello? E soprattutto: non rischia di essere discriminatorio? Se non lo è allora il sindaco di Porto Sant’Elpidio Nazareno Franchellucci può mandare una pattuglia dei suoi vigili a Fermo per apprendere le modalità in base alle quali i nomadi possono essere multati, i camperisti “normali” no. Così risolverebbe una volta per tutte l’annoso problema dell’area camper sul lungomare della sua cittadina dove d’estate arrivano, insieme ai camperisti, carovane di zingari e nessuno può dire loro niente perché altrimenti sarebbe discriminatorio. Se funziona potrebbe piazzare un cartello come quello di Casabianca e via. Problema risolto.

papa Francesco che parla di ‘lotta’ anche in senso politico

 

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

il ‘popolo’ al centro della ‘teologia’ e della ‘politica’ di papa Francesco: “Il popolo è soggetto, la chiesa è il popolo di Dio e l’insieme dei fedeli è infallibile … “

la democrazia è davvero tale se è ‘ad alta intensità’, caratterizzata da una forte partecipazione popolare volta al superamento del ‘divorzio’ tra élite politica e popolo

non teme di usare spesso una parola da noi inusuale in bocca a personalità ecclesiastiche: la parola ‘lotta’

“essere cittadini significa essere convocati per una scelta, chiamati ad una lotta … “, una lotta non solo spirituale (come in genere da noi si pensa possa dire un cardinale o un papa), ma anche sociale, culturale, politica

di seguito una bella puntualizzazione di A. M. Valli:

Quando Bergoglio parlava di lotta

di Aldo Maria Valli
in “Europa” del 9 novembre 2013

In questi primi mesi del pontificato di Francesco abbiamo visto quanto sia importante per papa Bergoglio l’idea di popolo. Partiamo dalla teologia. Ispirandosi alla teología del pueblo (corrente teologica argentina che ha avuto in Lucio Gera e Juan Carlos Scannone, maestro di Bergoglio, i principali rappresentanti), l’attuale pontefice ha messo in primo piano nella riflessione pastorale la religiosità popolare, che qui in Europa è stata invece a lungo denigrata. Nell’intervista alla Civiltà cattolica Francesco dice: «L’immagine della Chiesa che mi piace è quella del santo popolo fedele di Dio […]. L’appartenenza a un popolo ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo». E ancora: «Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori […]. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina». Consapevole di aver espresso un concetto forte, il papa, poco dopo, precisa che bisogna stare bene attenti a non pensare che questa infallibilitas di tutti i credenti sia una forma di populismo. È, piuttosto, una valorizzazione del messaggio del Concilio, ma anche del pensiero di sant’Ignazio, fondatore dei gesuiti. Fu infatti il Concilio a proporre l’idea di Chiesa come popolo, come comunità di tutti i battezzati, senza distinzioni gerarchiche, e fu Ignazio a parlare di Iglesia militante. Quando parla della santità del popolo di Dio, Francesco dice di vederla nella pazienza di tanti uomini e donne che fanno il loro dovere, che servono la vita, che si mettono a disposizione dei più svantaggiati. È stata, dice, «la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che ma ha fatto tanto bene». Ma la valorizzazione del popolo, da parte di Bergolio, oltre che sul piano teologico, e quindi pastorale, avviene anche su quello sociale e politico. Lo si vede bene leggendo Noi come cittadini. Noi come popolo, il testo del discorso che l’allora arcivescovo di Buenos Aires tenne il 16 ottobre 2010 per i duecento anni dell’indipendenza argentina e che la Jaca Book opportunamente propone in traduzione italiana (96 pagine, 9 euro) con la prefazione di monsignor Mario Toso, segretario del Pontificio consiglio della giustizia e della pace. Viene fuori qui un Bergoglio sociale la cui idea di democrazia va conosciuta. Il futuro papa si dichiara infatti a favore di una democrazia «ad alta intensità», caratterizzata da una forte partecipazione popolare, e denuncia con decisione il «divorzio», così lo chiama, tra élite politica e popolo, così come la politica che si mette al servizio di interessi particolari e non del bene comune. Il contesto, lo ripetiamo, è quello argentino, ma la riflessione di Bergoglio supera i confini del suo paese natale. Così, quando punta il dito contro la politica asservita a interessi settoriali e individuali e ridotta a strumento di gestione di posti e di spazi, senza capacità progettuale e  senza limiti e contrappesi nei confronti del capitale, è evidente che il messaggio ha una valenza molto ampia e riguarda anche noi. La riflessione sul significato della parola cittadino è particolarmente stimolante. Cittadino, spiega Bergoglio, viene dal latino citatorium. Dunque «il cittadino è il convocato, il chiamato al bene comune, convocato perché si associ in vista del bene comune». Perché ci sia comunità ognuno deve avere un munus, un compito, un obbligo, un impegno nei confronti di sé e degli altri. Sono, queste, categorie messe ormai in secondo piano o del tutto dimenticate, dice Bergoglio, nell’epoca dell’individualismo consumistico, perché oggi il cittadino è più che altro colui che chiede, critica, domanda, esige e, semmai, moraleggia, ma non è più colui che aggrega e si mette in gioco. Da dove ripartire, allora? Occorre valorizzare l’identità, e questa la si recupera con il senso di appartenenza a un popolo in cammino. In questo modo non abbiamo più, da un lato, l’individuo isolato e dall’altro il mucchio indistinto, la massa amorfa, ma abbiamo il popolo, e «popolo è la cittadinanza impegnata, riflessiva, consapevole e unita in vista di un obiettivo o un progetto comune». Contro il particolarismo e la frammentazione, grandi mali delle nostre comunità disgregate, occorre passare dall’essere semplice abitante all’essere cittadino. Nell’idea di cittadinanza c’è la dignità e la responsabilità, ma la cittadinanza deve essere “integrale”: i diritti vanno rispettati sempre. All’interno di questi ragionamenti, Bergoglio utilizza spesso una parola che non siamo abituati a trovare nel vocabolario sociale e politico di un ecclesiastico. È la parola lotta. Ecco un esempio: «Essere cittadini significa essere convocati per una scelta, chiamati a una lotta, a questa lotta di appartenenza a una società e a un popolo. Smettere di essere mucchio, di essere gente massificata, per essere persone, per essere società, per essere popolo. Questo presuppone una lotta». Il concetto ritorna più volte e fa sensazione. I vescovi, di solito, parlano semmai di lotta interiore, di lotta morale, ma la lotta alla quale si riferisce Bergoglio è non solo spirituale: è culturale, sociale e politica. «La lotta – dice Bergoglio – ha due nemici: il menefreghismo, mi lavo le mani di fronte al problema e non faccio niente, ma così non sono cittadino, e la lamentela». Ma nessuna di queste reazioni è cristiana. Il cristiano scende in campo e lotta. Lotta per i diritti umani (ben sapendo che «affermare i diritti umani comporta anche la lotta per cambiare queste strutture ingiuste»), per la giustizia sociale («Dobbiamo recuperare la missione fondamentale dello Stato, che è quella di assicurare la giustizia e un ordine sociale giusto al fine di garantire a ognuno la sua parte di beni comuni, rispettando il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà»), per «sradicare la povertà», per la «cultura dell’incontro» che salvaguardi le differenze «convergendo sui valori che garantiscono la dignità della vita umana, l’equità e la libertà». Costola argentina della teologia della liberazione, la teología del pueblo, così importante per la formazione del gesuita Bergoglio, rifiuta la lettura della società in chiave marxista e soprattutto prende le distanze dalla lotta di classe, ma la valorizzazione del ruolo storico e culturale del popolo è netta, così come il richiamo alla lotta in quanto consapevolezza della tensione agonistica che deve caratterizzare la partecipazione del cristiano alla vita sociale.

una ‘teologia della donna’? cosa dicono le donne

 

margheritissime

riuscirà papa Francesco a parlare della donna in modo soddisfacente e liberante, evangelicamente liberante, non solo per gli uomini, ma proprio anche per le donne stesse?

riuscirà a sviluppare una ‘teologia della donna’ non idilliaca, idealizzante per coprire ancora una volta una incapacità teologica di pensare la donna in modo autenticamente liberante?

le donne pongono domande, anzi sembrano contrarie ad una ‘teologia della donna’ chiedendo esplicitamente una “teologia di uomini e donne insieme” (Megan Fincher e Colleen  Dunne)

nel piccolo collage o report che segue si mettono insieme tre apporti diversi come diversificato materiale di riflessione e approfondimento di questa problematica

L. Sebastiani prende atto che nella Mulieris Dignitatem “sono ufficialmente ripudiati secoli di misoginia ecclesiastica e si parla della donna in termini  di alta positività, fin quasi al lirismo”, ma rileva che restano incertezze da superare tradite da una terminologia fatta di astrattismi e generalizzazioni (‘la donna’, il ‘servizio’, la ‘maternità’ … )

Rita Torti pone delle domande (vere e proprie sfide e proposte) sul rapporto tra uomini e donne a proposito del documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia:

Le donne sono contrarie ad una teologia della donna

di Megan Fincher e Colleen Dunne
in “ncronline.org” del 4 novembre 2013

Papa Francesco ha invitato ad una teologia delle donne, ma le donne nella Chiesa sono contrarie, e propense invece ad una teologia dei laici. “Vorrei parlare di una teologia di uomini e donne insieme”, scrive, in una mail a NCR, Helen Alvare, avvocata e teologa. Alvare è stata la portavoce in un recente simposio vaticano in occasione del 25° anniversario della lettera apostolica del 1988 di papa Giovanni Paolo II Mulieris Dignitatem (“sulla dignità e vocazione delle donne”). La Sezione femminile del Pontificio Consiglio per i Laici ha ospitato il simposio nel periodo tra il 10 e il 12 ottobre scorso. Circa 100 donne da 25 paesi, rappresentanti di movimenti laicali e di associazioni ecclesiali, hanno analizzato e discusso la Mulieris Dignitatem. Nel giorno conclusivo, Francesco ha incontrato le partecipanti e le loro famiglie. E ha detto loro: “Mi piace pensare che si dica non “il” chiesa, ma “la” chiesa, al femminile. La chiesa è donna! La chiesa è madre! E questo è bello, eh? Dobbiamo riflettere profondamente su questo”. Ha poi aggiunto: “Da qui, dobbiamo riprendere quel lavoro di approfondimento e promozione (delle donne) per il quale ho espresso più volte la speranza. Anche nella Chiesa è importante chiedersi: quale presenza ha la donna?” Nell’intervista apparsa sulle riviste gesuite in settembre, Francesco diceva: “È necessario ampliare le opportunità per una più forte presenza di donne nella chiesa” e “Dobbiamo lavorare più duramente per sviluppare una profonda teologia della donna”. Al seminario del consiglio pontificio, Francesco ha detto: “Soffro – lo dico sinceramente – quando vedo nella chiesa o in alcune organizzazioni ecclesiali che il ruolo di servizio – che noi tutti abbiamo e dovremmo avere – che il ruolo di servizio delle donne viene ridotto a servitù”. Tuttavia, Francesco ha anche detto: “Sull’ordinazione delle donne, la chiesa ha parlato e ha detto no. Giovanni Paolo II, in una formulazione definitiva, ha detto che la porta è chiusa”. La lettera apostolica Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II è una delle “formulazioni” citate tra quelle che chiudono la porta all’ordinazione delle donne. In quella lettera, Giovanni Paolo scriveva: “Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in modo del tutto libero e sovrano. Ciò ha fatto con la stessa libertà con cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo la dignità e la vocazione della donna, senza conformarsi al costume prevalente e alla tradizione sancita anche dalla legislazione del tempo”. La lettera sostiene anche un complementarianismo cristiano di generi, che era stato accolto criticamente in alcuni ambienti della Chiesa a quel tempo. Le parole di Francesco, quindi, hanno lasciato molte donne che lavorano in  ruoli diversi a servizio della Chiesa con la curiosità di sapere ciò che egli intenda. “Continuiamo a parlare delle donne come se fossero appena state inventate”, ha detto l’americana Vicki Thorn, che partecipava al seminario. “Se leggete la storia sembra che le donne non abbiano fatto un accidente. Le donne nella chiesa sono state educatrici, hanno diretto ospedali, hanno consigliato papi, ecc.” Thorn è la fondatrice del Ministry Project Rachel post-aborto. Ha espresso la sua opposizione ad una teologia che riguardasse solo le donne, proprio come anche altre hanno detto a NCR. “Personalmente, non capisco perché ci debba essere una teologia delle donne, che comunque non deve certamente essere una teologia scritta da uomini”, ha comunicato per mail Marti Jewell della School of Ministry dell’università di Dallas. “Di una teologia degli uomini non si parla. Siamo tutti discepoli in virtù del battesimo”. Francesco ha elogiato la Mulieris Dignitatem per la sua “riflessione organica profonda, con una solida base antropologica illuminata dalla rivelazione”, e ha detto che il documento era un punto di partenza per ulteriori studi e sforzi di “promozione” delle donne.
Alvare ha detto: “Forse [Francesco] vuol richiamare l’attenzione su un tema che è emerso più volte nel seminario sulla Mulieris Dignitatem – la necessità di considerare che cosa le donne e gli uomini potrebbero fare insieme fuori casa in maniera complementare”. E ha proseguito affermando che è ora di superare la sfiducia relativa al genere, pensando a quanto viene creato in più, non solo in famiglia, ma ovunque, quando uomini e donne collaborano”. Ana Cristina Villa Betancourt, capo della Sezione femminile del Pontificio Consiglio per i Laici, dice che Francesco ha detto al seminario che “Mulieris Dignitatem è un punto di partenza”. Aggiunge che alcuni teologi non hanno preso la lettera di Giovanni Paolo abbastanza seriamente e ha suggerito: “Forse dovremmo tutti cominciare con il rileggerla senza pregiudizi”. La maternità è un argomento chiave di Mulieris Dignitatem, e Francesco ha riaffermato questa vocazione parlando alle partecipanti al seminario. “Molte cose possono cambiare ed essere cambiate nella nostra evoluzione culturale e sociale”, ha detto Francesco, secondo Radio vaticana. “Ma rimane il fatto che è la donna che rimane incinta, che porta nell’utero e partorisce i figli degli uomini”. Riferendosi a questa citazione, Villa Betancourt ha detto: “Penso che le donne che lo dimenticano o che tentano di accantonare questo fatto come non significativo, finiscono per non sostenere pienamente la causa delle donne”. “Quando papa Francesco mette in rilievo la maternità come una chiave per la comprensione della vocazione delle donne, non pensa solo a madri che danno la vita fisicamente”, ha spiegato. “Pensa ad una espressione più profonda di vocazione femminile… che è presente in donne consacrate, religiose, single, sposate anche senza figli, in ogni donna!” Thorn esprime il suo accordo dicendo: “Guardate Madre Teresa – era una madre spirituale. Posso dare la vita essendo insegnante, infermiera, lavoratrice sociale”. Zeni Fox, professoressa di teologia all’università Seton Hall a South Orange, N.J., è cauta nel definire le donne solo attraverso il ruolo di madre. “Penso che la maternità debba certo essere debitamente lodata”, ha detto Fox, che è membro della commissione direttiva di NCR. “Ma penso che sia solo una parte di ciò che noi facciamo come donne, specialmente tenendo conto del fatto che ci sono molte donne che non sono mai state sposate e che non hanno figli. La maternità è solo una parte della femminilità”. Jewell ha espresso la speranza che Francesco non sottovaluti ciò che le donne possono offrire alla chiesa al di là dei ruoli vocazionali tradizionali. “Starei attenta a non esagerare nell’equazione dei doni femminili tanto nella maternità quanto nella verginità”, ha scritto Jewell in una mail a NCR. Indicando entrambi i doni come bellissime condizioni di vita, ha detto di sperare “che l’analisi prosegua, tuttavia, nella ricerca di doni intellettuali, spirituali e pastorali che le donne possono ugualmente offrire”. Ha anche ricordato che Francesco ha invitato “sia uomini che donne a considerare qualsiasi cosa condizioni le loro attese sul ruolo delle donne nel ministero e nella leadership, e trovare modi in cui possiamo aprirci all’invito dello Spirito per animare i doni di tutti i battezzati”. Quella di Mulieris Dignitatem “è una teologia che accentua il ruolo della donna come moglie e madre, ma a me sembra, quando leggo le osservazioni di Francesco del 12 ottobre, che lui stia realmente aprendo la porta per andare oltre questo”, ha detto Sheila Garcia, precedente direttore associato del Segretariato Laici, Matrimonio, Vita di Famiglia e Giovani per la conferenza episcopale cattolica USA. “Quei ruoli sono importanti, ma abbiamo davvero bisogno di guardare alle donne in maniera più olistica. Le donne hanno altri doni e talenti grazie ai quali possono offrire il loro contributo”. Villa Betancourt ha detto che pensa che Francesco “voglia seriamente contare sulle donne ed è anche convinto di poterlo fare con donne che non sono un’imitazione di uomini; lo intende piuttosto come una collaborazione”. Alvare è d’accordo: “La mia impressione maggiore relativamente alle osservazioni di Francesco è che voglia vedere le donne in posizioni di reale leadership nella chiesa o in effettiva collaborazione con gli uomini”. “Penso che la chiesa potrebbe ottenere maggior beneficio non solo dalla crescente competenza e know-how delle donne…  ma anche nell’acquisire entrambe le prospettive, quella maschile e quella
femminile… lì dove ora non ci sono donne, o ce ne sono poche”, ha detto Alvare. Garcia ha detto di sperare che Francesco “si impegni veramente nel considerare come le donne possano esercitare un’autorità decisionale nella chiesa”. “Occorre fare dei passi intermedi per portare le donne ad una partecipazione nella chiesa, e non si può cominciare con l’ottenere l’ordinazione”, ha spiegato. “Personalmente, penso che abbiamo bisogno di analizzare ciò che possiamo fare ora e non perdere opportunità che stanno proprio davanti a noi”. Esprimendo l’accordo sul fatto che cambiamenti importanti avranno bisogno di tempo, Fox ha detto: “Dobbiamo costruire adagio e non perderci di coraggio”.

bel giglio

 

Due papi e “la” donna

di Lilia Sebastiani
in “Rocca” del 1 novembre 2013

Sabato 12 ottobre i partecipanti al Seminario di studio promosso dal Consiglio pontificio per i Laici sul tema «Dio affida l’essere umano alla donna» (nel XXV anniversario della Lettera apostolica Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II) sono stati ricevuti in udienza da papa Francesco nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico. Un’udienza, come ha rilevato scherzosamente lo stesso papa, «contro il regolamento, perché non era previsto questo incontro». Anche in questo si può ritrovare dunque la simpatica informalità che dell’attuale papa costituisce senza dubbio uno degli aspetti non solo più gradevoli, ma anche più promettenti e profetici; e nello stesso tempo la volontà di ribadire la sua visione del femminile su cui si è già espresso più volte nei primi sei mesi del suo ministero, sia pure con accenni rapidi e occasionali come in questo caso: l’allocuzione è stata breve, di tono molto spontaneo e anche, sembra, condotta almeno per gran parte ‘a braccio’.

alla donna attraverso la Madonna

La Mulieris Dignitatem fu pubblicata da Giovanni Paolo II il 15 agosto 1988, e si inquadra molto esplicitamente nel contesto del precedente anno mariano 1987 e all’enciclica Redemptoris Mater. Presenta dunque un’intenzionale fisionomia mariana e mariologica, che a suo tempo venne letta da alcuni commentatori come una ricchezza, da altri piuttosto come un vincolo, ma costituisce in ogni caso un’indispensabile chiave di lettura per la comprensione del documento. Come ha sottolineato anche papa Francesco nella sua allocuzione, si tratta del primo documento magisteriale interamente dedicato alla donna e alla sua missione. In effetti è fondamentale perché per la prima volta sono ufficialmente ripudiati secoli di misoginia ecclesiastica e si parla della donna in termini di alta positività, fin quasi al lirismo in certi punti. Inoltre è particolarmente apprezzabile la parte biblica, in cui sono riprese anche intuizioni avanzate dalla ricerca teologica delle donne (peraltro mai nominata), e in genere l’ideale della reciprocità, della relazionalità mutua nel rapporto donna-uomo, in cui si riflette la stessa relazionalità di Dio. Su Maria vertono in particolare i nn. 2-5 della Mulieris Dignitatem, anche se i richiami a lei sono innumerevoli in tutto il resto. L’idea teologica di fondo nell’enciclica è infatti che la donna – anzi, la Donna – si trova al centro dell’evento di salvezza. «L’invio (del) Figlio, consostanziale al padre, come uomo ‘nato da donna’, costituisce il culminante e definitivo punto dell’autorivelazione di Dio all’umanità. Questa auto-rivelazione possiede un carattere salvifico (…). La donna si trova al cuore di questo evento salvifico» (n. 3) e la pienezza del tempo manifesta la straordinaria dignità, anzi costituisce «l’archetipo della personale dignità della donna» (n. 5). In questo caso, certo, la donna rappresenta tutto intero il genere umano, formato da uomini e donne. «D’altra parte, però», aggiungeva Giovanni Paolo II, «l’evento di Nazareth mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo che può appartenere solo alla ‘donna’, Maria: l’unione tra madre e figlio» (n. 4). Viene anche avanzata un’osservazione rilevante su Maria come soggetto nell’evento, dunque sul ruolo della soggettualità femminile nella stessa opera di salvezza. L’enciclica sembra accentuare di preferenza la tradizionale lettura ancillare di Maria rispetto a quella discepolare, a causa delle sue valenze simboliche. Proprio l’espressione «serva del Signore» consente di stabilire un parallelo con Gesù ‘venuto per servire’ e quindi sottolinea l’unione della Madre con il Figlio. Questo, che consente di riaffermare la centralità del servizio nella vocazione dell’uomo e della donna, è però uno dei nodi problematici dell’enciclica: la tendenza almeno implicita a porre in parallelo il rapporto uomo-donna e quello Cristo-Maria. E vi è un altro limite che vorremmo sottolineare, perché non estraneo neanche a papa Francesco, almeno come uso linguistico: l’uso di parlare ancora de «la donna» (che non esiste, è solo un’astrazione simbolica su cui gli uomini proiettano il meglio e il peggio delle loro fantasie!) anziché delle donne, storiche e concrete e tutte diverse l’una dall’altra.

donne servizio e … servidumbre

Papa Francesco appare consapevole dell’emarginazione strumentalizzante che troppo spesso è stata attuata nei confronti delle donne, nella/nelle società e nella chiesa, anche attraverso un uso perverso dell’ideale del servizio. Allora è tornato a sottolineare due cose, forse non per tutti ovvie, delle quali gli siamo riconoscenti. La prima è che al servizio siamo chiamati tutti, uomini e donne. La seconda, che il servizio non dev’essere confuso con la ‘servitù’, nelle sue varie forme. Parlando a braccio, il Papa non ha trovato qui la parola italiana giusta e ha usato quella spagnola: servidumbre. «Anche nella Chiesa è importante chiedersi: quale presenza ha la donna? Io soffro – dico la verità – quando vedo nella Chiesa o in alcune organizzazioni ecclesiali che il ruolo di servizio – che tutti noi abbiamo e dobbiamo avere – che il ruolo di servizio della donna scivola verso un ruolo di servidumbre. Non so se si dice così in italiano. Mi capite? Servizio. Quando io vedo donne che fanno cose di servidumbre, è che non si capisce bene quello che deve fare una donna». Sì, il servizio è l’agire più alto in una prospettiva davvero umana e cristiana, ma richiede persone almeno tendenzialmente libere, intere, e al servizio non si può pervenire se non ci si affranca dalla servitù. Da ogni servitù: e servitù nella vita di una donna può essere anche l’errata priorità conferita a servizi e doveri che, quantunque spesso dettati dall’amore, impediscono di evolversi, di pensare, di studiare, di sviluppare i propri talenti per porli al servizio della comunità umana; servitù è ogni forma di appartenenza cieca (a un uomo, a un gruppo familiare, perfino a un gruppo ecclesiale totalizzante…) che toglie libertà e autonomia; servitù è ogni forma di dipendenza passiva dalla parola e dalle direttive degli uomini di chiesa. Servitù, infine (e qui ci riconnettiamo a un’osservazione avanzata da papa Francesco nel passaggio che riguarda la maternità) potrebbe essere perfino l’ansia di affermarsi a qualsiasi costo, in contesti che ancora sono prevalentemente occupati e diretti da uomini, rinunciando al proprio modo di essere e assumendo i tratti peggiori del maschile…, quelli che in verità anche ogni uomo intelligente e libero e pienamente ‘umano’ dovrebbe evitare a ogni costo  la donna chiamata alla maternità Papa Francesco legge dunque l’affidamento privilegiato del genere umano alla donna di cui si parla al n. 30 dell’enciclica (e su cui verteva il Seminario di approfondimento organizzato dal Consiglio per i Laici) come chiamata fondamentale, ontologica alla maternità – idea che nella Mulieris Dignitatem era forse presente, ma non asserita a chiare lettere. «Avete approfondito in particolare quel punto dove si dice che Dio affida in un modo speciale l’uomo, l’essere umano, alla donna… Che cosa significa questo «speciale affidamento», speciale affidamento dell’essere umano alla donna? Mi pare evidente che il mio Predecessore si riferisca alla maternità. Tante cose possono cambiare e sono cambiate nell’evoluzione culturale e sociale, ma rimane il fatto che è la donna che concepisce, porta in grembo e partorisce i figli degli uomini. E questo non è semplicemente un dato biologico, ma comporta una ricchezza di implicazioni sia per la donna stessa, per il suo modo di essere, sia per le sue relazioni, per il modo di porsi rispetto alla vita umana e alla vita in genere. Chiamando la donna alla maternità, Dio le ha affidato in una maniera del tutto speciale l’essere umano». È senza dubbio la frase centrale nell’allocuzione del papa. Questa idea della chiamata alla maternità come specifico femminile può essere rischiosissima, evidentemente, anche al di là o al contrario delle intenzioni di chi parla. Perché la maternità in senso stretto è una `funzione’: certo essenziale e nobilissima, legata alle scelte più intime e personali, ma funzione comunque; e non sembra di poter definire una persona, nell’infinito del suo mistero e nell’infinita varietà delle sue scelte possibili, a partire da una funzione. Non tutte le donne la vivono nel concreto dell’esistenza – alcune per scelta, alcune no -, e diventa quasi inevitabile, nell’orizzonte di questa visione, che non vivere anche concretamente, fisicamente la maternità significhi essere meno pienamente realizzate. Se d’altra parte ci si riferisce alla maternità in senso spirituale, o se esaltando la maternità ci si riferisce a valori e atteggiamenti quali il ‘prendersi cura’, la tenerezza e la misericordia, tanto cari a papa Francesco (il quale infatti poco oltre dice anche: «Vorrei sottolineare come la donna abbia una sensibilità particolare per le ‘cose di Dio’, soprattutto nell’aiutarci a comprendere la misericordia, la  tenerezza e l’amore che Dio ha per noi»), diventa riduttivo riferirli in modo privilegiato alla metà femminile del genere umano: rappresentano il vertice di ogni esistenza vissuta e donata secondo una logica di amore, e dunque riguardano gli uomini allo stesso modo delle donne. Ancora papa Francesco ha sottolineato due estremi opposti che mortificano la donna e la sua vocazione: il primo, quello di ridurre la maternità a un molo sociale che impedisce alla donna di collaborare veramente alla costruzione della comunità, il secondo quello di realizzare un’emancipazione che tolga alla donna i tratti preziosi del femminile.

la chiesa è donna?

E qui papa Francesco, nella spontaneità del suo discorso, ha fatto anche un’aggiunta sorprendente, in cui desume la ‘femminilità’ della Chiesa dal genere grammaticale del nome: «A me piace anche pensare che la Chiesa non è ‘il’ Chiesa, è ‘la’ Chiesa. La Chiesa è donna, è madre, e questo è bello. Dovete pensare e approfondire su questo». L’idea non è nuova: riflette il simbolismo della Chiesa- Sposa che lo stesso Paolo introduce, ma non ‘inventa’, poiché è un’applicazione alla nuova realtà dell’immagine veterotestamentaria del Signore come Sposo del suo popolo. E in questa chiesa simbolicamente più femminile che maschile, le donne di fatto che ruolo hanno? Rispondiamo noi: un ruolo limitato, troppo limitato, anche se predominano nell”utenza’ ecclesiale (fatto che semmai rende più esplosiva la contraddizione). Il Papa ha detto che bisogna valutare attentamente il ruolo attuale della donna nella Chiesa, per valorizzarlo di più. E propone di ripartire dal solido fondamento antropologico offerto dalla Mulieris Dignitatem per portare avanti questa riflessione. Servizio! Siamo d’accordo. Il servizio è il vertice dell’esistenza cristiana – anzi dell’esistenza umana, in una logica redenta. Può diventare una trappola spirituale grave (e tante esistenze femminili ne sono state rovinate, spietatamente represse nel loro genio, e nei loro più nobili sogni che non hanno mai potuto farsi progetto, e negli aspetti più alti e originali della loro vita di fede) quando viene riferito unilateralmente alle donne, magari usando a questo proposito `ingredienti’ mistico- mariologici. Servizio: il servizio è anche ministero. Non è più possibile cambiar discorso quando si arriva al nocciolo ineliminabile del problema. Finché persisterà il problema dell’esclusione delle donne, solo in base al loro sesso, dai ministeri ordinati e quindi, inevitabilmente, da ogni funzione di governo e di magistero nella chiesa, le donne nella chiesa saranno discriminate e pochissimo influenti anche quando sono ‘importanti’ per qualche ragione. Saranno ignorabili. Non temiamo di affermare che il persistere dell’esclusione delle donne – per la sua natura di indice di autenticità, che non è affatto un problema teorico, e perché un numero crescente di donne, in molti casi delle migliori fra loro, si sta allontanando – può influire negativamente sul futuro della chiesa cattolica, e in misura assai maggiore di quanto possa sembrare a prima vista: non si tratta di un problema circoscritto. Finché sussisterà questa contraddizione di fondo, ‘scandalosa’ oggi (nel senso etimologico) come certo non era in altre epoche, i pur positivi e convinti, ma generici e indolori riconoscimenti che si trovano nella Mulieris Dignitatem e altrove in ordine alla pari dignità, al genio e alla missione della donna non possono che suonare evasivi. Quello che riguarda il ruolo ecclesiale delle donne è stato un limite notevole degli ultimi due pontificati: vorremmo con tutto il cuore che non lo fosse per questo. Perché tutti i cristiani cattolici che hanno sofferto in questi anni, amando la Chiesa, e sentendosi Chiesa, e volendola più trasparente e fedele all’esempio del suo Fondatore, guardano oggi a papa Francesco non solo con grande simpatia, ma anche con grande speranza. Con una speranza esigente.

fiorito

 

Documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia: qualche domanda sul rapporto tra uomini e donne

di Rita Torti
in “www.teologhe.org” del 8 novembre 2013

Sulle caratteristiche e sulle importanti implicazioni del Documento preparatorio alla III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, reso pubblico in questi giorni, molto è già stato scritto. Tuttavia alcuni aspetti rimasti per il momento in ombra suscitano interrogativi che credo valga la pena di condividere, raccogliendo così anche l’invito contenuto nell’ultima domanda del Questionario allegato al testo introduttivo: “Ci sono altre sfide e proposte riguardo ai temi trattati in questo questionario, avvertite come urgenti o utili da parte dei destinatari?”. 1) Un primo dato che balza agli occhi è che nell’elenco delle “numerose nuove situazioni che richiedono l’attenzione e l’impegno pastorale della Chiesa” sono contemplati fenomeni di vario tipo – dai matrimoni misti alle famiglie monoparentali, dai fenomeni migratori ai messaggi dei mass media, dalle legislazioni civili alle madri surrogate –; a dire il vero alcuni di essi non rientrano propriamente nella categoria della “novità” (ad esempio la poligamia o i matrimoni combinati – questi ultimi abbondantemente conosciuti anche dalle società europee). Manca però qualunque accenno, nel testo e nel Questionario, a un fenomeno drammatico, documentato e diffuso in modo trasversale nei diversi contesti geografici, culturali e sociali: quello della violenza di genere (fisica, sessuale, economica…) all’interno delle famiglie. La domanda che ci si può porre è allora questa: come mai a parere degli estensori del documento la violenza maschile nei confronti delle donne non è un problema da mettere in luce, da indagare e da evangelizzare? E’ improbabile che in un testo così ufficiale e importante l’assenza sia casuale. Tuttavia sarà utile ricordare che questa mancanza può aggravare la situazione di milioni di donne – spose, ma anche figlie – di ogni parte del mondo, che a questo punto non solo subiscono violenze all’interno della famiglia, ma si trovano ad essere anche invisibili agli occhi dei pastori della Chiesa. 2) Il silenzio su questa ferita endemica delle relazioni familiari è rafforzato, sempre nell’elenco delle situazioni che richiedono “attenzione e impegno pastorale”, da un’altra scelta: quella di segnalare esplicitamente la presenza di “forme di femminismo ostile alla Chiesa”, e di ignorare invece la presenza – certamente più concreta, diffusa e radicata, anche in contesti cattolici – di mentalità e prassi maschiliste. Anche in questo caso, in molte donne – e auspicabilmente in altrettanti uomini – può sorgere una domanda: davvero il maschilismo nelle sue varie declinazioni non è un problema per le relazioni familiari, e per le donne e gli uomini che ne sperimentano gli effetti? Davvero è un fatto che non suscita alcun interesse nei pastori della Chiesa, e su cui essi non ritengono quindi di dover sollecitare esplicitamente la riflessione delle comunità cristiane?. 3) Passando alla parte del Documento in cui si illustra “la buona novella dell’amore divino” che “va proclamata a quanti vivono questa fondamentale esperienza umana personale, di coppia e di comunione aperta al dono dei figli, che è la comunità familiare”, un altro interrogativo sorge nel seguire quelli che il testo definisce “riferimenti essenziali” delle fonti bibliche su matrimonio e famiglia. Dopo alcuni rimandi a passi della Scrittura che mostrano l’importanza attribuita al matrimonio, all’amore e all’indissolubilità del legame coniugale, il paragrafo intitolato “L’insegnamento della Chiesa sulla famiglia” si apre con questa enunciazione: “Anche nella comunità cristiana primitiva la famiglia apparve come la ‘Chiesa domestica’ (cf. CCC,1655). Nei cosiddetti “codici familiari” delle Lettere apostoliche neotestamentarie, la grande famiglia del mondo antico è identificata come il luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti, tra genitori e figli, tra ricchi e poveri”. Che gli autori delle Lettere apostoliche considerassero con tanta ammirazione la “famiglia del mondo antico” è affermazione che probabilmente la maggior parte dei biblisti non sottoscriverebbe, anche volendo mettere tra parentesi le notevoli differenze che correvano tra il mondo greco e il  mondo romano in questo ambito del vivere. Ma più immediata e alla portata di tutti è un’altra riflessione: in che senso si può definire “luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti” la realtà che il Documento preparatorio illustra ad esempio con il rimando alla Prima lettera a Timoteo (2,8-15), che ordina fra l’altro: “La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”?. Quindi, l’ultima domanda: in che modo questo e gli altri testi a cui il Documento rimanda (appunto, i famosi/famigerati codici domestici) possono comunicare la buona novella alle famiglie di oggi? Sarà veramente opportuno portare come esempio di famiglia evangelica brani che per secoli sono stati usati dalla teologia, dalla predicazione e dagli uomini comuni per rafforzare con il sigillo divino quella che era considerata la legge naturale della superiorità maschile e inferiorità femminile?1 Davvero siamo sicuri che nessuno se ne approfitterà per legittimarsi padrone, e davvero siamo sicuri che nessuna penserà che allora subire è cosa buona e giusta? Le esperienze che si registrano in ogni parte del mondo – e che gli estensori del Documento certo non ignorano – sembrano dirci che no, non possiamo essere sicuri.

p. Maggi commente il vangelo della domenica

 

p. Maggi

“Dio non è dei morti ma dei viventi”

 Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

domenica 10 novembre  2013 (32a del tempo ordinario)
Lc 20,27-38

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

I sadducei hanno congegnato bene la trappola in cui far cadere Gesù. Non osano affrontarlo sul piano dottrinale e politico perché sanno che potrebbero avere la peggio. Gesù infatti ha già zittito con le sue risposte i sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani, ed è riuscito a lasciare senza parole anche i pur agguerriti farisei.
Scrive l’evangelista che “Costoro”, i farisei, “meravigliati della sua risposta, tacquero”. D’altro canto Gesù non possono eliminarlo perché Gesù ha un gran seguito tra la gente, ne farebbero un martire. E così i sadducei decidono di attirarlo in un terreno scivoloso da dove, una volta caduto, l’aspirante messia avrebbe avuto difficoltà a rialzarsi, il ridicolo e il discredito.
L’aristocratica casta sacerdotale dei sadducei, il cui nome deriva da sadoc, il sacerdote che consacrò come re Salomone, il figlio dell’amante di Davide e Betsabea, al posto del legittimo re 1
Adonia. Questa casta sacerdotale dei sadducei deteneva non soltanto il potere politico, ma anche il potere economico, erano molto ricchi.
Loro accettavano come parola di Dio soltanto i primi cinque libri della Bibbia e rifiutavano i libri dei profeti. Per quale motivo? Perché nei profeti è costante la denuncia di Dio contro l’ingiustizia che crea grandi ricchezze, ma anche tanta povertà. Quindi loro lo rifiutavano perché per loro andava bene la situazione così com’era.
Si rivolgono a Gesù con un titolo ossequioso, Maestro, ma in realtà non vanno a prendere da lui, vogliono soltanto screditarlo. E si rifanno a una questione che ha le sue basi nella legge di Mosè, nel libro del Levitico, dove Mosè prescrive: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello.
Qual è il significato di questa legge? La legge del levirato prevedeva che il cognato di una donna rimasta vedova e senza figli avesse l’obbligo di metterla incinta, perché era importante che il nome del marito continuasse. Era una maniera per diventare eterni, per perpetuare il proprio nome; ogni figlio portava il nome del padre.
Quindi quando una donna rimaneva vedova e, senza aver avuto un figlio maschio, il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta e il bambino nato avrebbe portato il nome del defunto. La legge prescrive: In modo da assicurargli la perpetuità, come c’è scritto nel libro del Deuteronomio: Perché il nome di questi non si estingua da Israele.
Secondo la cultura dell’epoca – e questo va compreso per una migliore comprensione del brano – il matrimonio aveva il solo scopo di assicurare una discendenza all’uomo, la donna serviva unicamente per mettere al mondo figli, figli maschi.
Quindi qui non si tratta di uno scrupolo sull’amore, ma su una realtà del figlio maschio. Allora, ispirandosi alla popolare storia di Sara, la sfortunata sposa alla quale morirono ben sette mariti la sera stessa delle nozze, i sadducei spacciano – come se fosse vera – la macabra vicenda di questi sette fratelli tutti morti senza essere riusciti ad avere un figlio da quella che è stata la moglie di tutti e sette.
Della donna ai sadducei non interessa nulla, non desiderano conoscere la sorte della donna, desiderano solo sapere a quale dei defunti, una volta risuscitati, spetterà poi averla per immortalare con un figlio maschio il proprio nome. Quindi non si tratta di un problema affettivo (di chi sarà la moglie?), ma chi da questa donna riuscirà ad avere un figlio maschio.
Quindi i sadducei cercano di ridicolizzare Gesù e di burlarsi di lui. Ebbene nella sua risposta Gesù si distanzia dall’interpretazione popolare della risurrezione, intesa come un ritorno alla vita fisica dei morti, e Gesù risponde che la vita dei risorti non dipende dalla procreazione, dal rapporto tra marito e moglie, ma proviene direttamente dalla potenza di Dio.
E Gesù cita gli angeli? Perché Gesù cita gli angeli? Perché i sadducei non credevano all’esistenza degli angeli. Come gli angeli ricevono la vita non certo dal padre e dalla madre, ma direttamente da Dio, così con la risurrezione la vita rimane eterna perché proviene da Dio.
2
Ai sadducei, che si sono fatti forza dell’autorità di Mosè per opporsi a Gesù, Gesù ribatte a sua volta, riconducendosi proprio a Mosè, a quello che ha scritto, mostrando quanto sia miope e limitata la loro lettura della scrittura e si rifà alla risposta che Dio diede a Mosè nel famoso episodio del roveto ardente, quando disse: “Il Signore è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”.
Quando si dice che il Signore è il Dio di … non si intende tanto il Dio creduto da … Abramo, Isacco o Giacobbe, ma il Dio che protegge Abramo, Isacco e Giacobbe. E come protegge? Protegge con la sua vita, tenendoli lontani dalla morte.
Quindi essere sotto la protezione di Dio significa avere la sua stessa vita e il Dio fedele non permette che muoiano quelli che lui ha amato. E il perché ce lo dice la frase più importante di tutto questo brano, che getta nuova luce sull’immagine della vita, della morte e delle risurrezione, “Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché vivono tutti per lui”.
Il Dio di Gesù non risuscita i morti, ma comunica ai vivi, ai viventi, la sua stessa vita, una vita di una qualità tale che è capace di superare la morte.

la teologia e gli animali, una relazione stravagante?

 

nidiata

no! non si tratta di una stravaganza perché fanno parte dell’unico mondo di Dio e dell’unica realtà vivente cui noi stessi facciamo parte

anzi sono il nostro ‘prossimo’ nei cui confronti abbiamo un obbligo di rispetto e di cura e sono destinati a far parte del regno della pienezza di vita che Dio prepara per i suoi figli

qui sotto un bell’articolo di A. M. Valli che riflette opportunamente su questo:

La teologia degli animali non è una stravaganza

di Aldo Maria Valli

Paolo De Benedetti, teologo e biblista, classe 1927, parla volentieri degli animali e li fa anche vedere. A volte, quando tiene conferenze, mostra alle persone alcune foto con animali, per dimostrare quanta dignità e dolcezza c’è in questi amici che vivono accanto a noi. Per lui tutto il creato, e in particolare il creato vivente, è il prossimo, è il mio prossimo. Quindi l’indifferenza e la trascuratezza verso i viventi sono letteralmente blasfemi, perché costituiscono la negazione e il disprezzo del bisogno stesso di Dio di avere un prossimo. Nella Genesi, secondo De Benedetti, questo progetto si vede bene, quindi “una teologia degli animali” non è una stravaganza né un lusso, ma può essere uno strumento di conversione verso il rispetto di ogni vita. “Animale” vuol dire “che ha l’anima”. Lo si dice anche in ebraico. L’avere un’anima accomuna, secondo il teologo, accomuna quindi tutti i viventi e tutti li avvicina a Dio creatore. Sono le tesi che De Benedetti sostiene da tempo e che di nuovo ribadisce in un libro prezioso, In paradiso ad attenderci (Edizioni Sonda, 144 pagine, 14 euro) nel quale ricorda le parole di Sergio Quinzio: «Guardate gli occhi di un cane che muore e vergognatevi della vostra presuntuosa filosofia». Il problema non è se gli animali possono ragionare, ma se possono soffrire. Nell’Odissea nel canto XVII si racconta del vecchio cane Argo, che giaceva là trascurato, pieno di zecche, ma
che, resosi conto del ritorno di Ulisse, mosse la coda e drizzò le orecchie, anche se non poteva alzarsi sulle zampe. Argo così poté morire, contento di aver rivisto il padrone. Una pagina che De Benedetti definisce sublime e che andrebbe meditata anche da un punto di vista religioso. Lo dovrebbe fare soprattutto la Chiesa cattolica che, con pochissime eccezioni (la più grande, san Francesco) ha sempre colpevolmente trascurato gli animali, in base a un «delirio antropocentrico» (espressione di Karl Barth) che ha legittimato inenarrabili violenze e crudeltà verso gli animali. Il dominio dell’uomo sugli animali, di cui si parla nella Bibbia, non è violento. È lo stesso dominio con cui Dio domina l’uomo: un dominio buono verso la creatura. Ecco perché la violenza e la sofferenza procurate agli animali costituiscono un problema teologico. Al quale va dato risposta. Una risposta che, secondo De Benedetti, sta nella certezza che tutto ciò che ha avuto vita risorgerà. Tutto, anche gli animali. Se gli animali non risorgessero, vorrebbe dire che la morte, nel loro caso, ha avuto il sopravvento, ma Dio questo non lo può consentire. La tesi, come si può immaginare, fa discutere. Risorgeranno anche pulci e zanzare? Quando glielo chiedono, De Benedetti risponde così: «Se la vedrà Dio». Ma, al di là dei particolari “tecnici”, quando De Benedetti chiede che l’uomo guardi agli animali come Dio guarda agli uomini, lancia un messaggio sul quale vale la pena di meditare. Come scrive Vito Mancuso nella prefazione al libro, interrogarsi sull’anima degli animali fa bene. Infatti «Noi non abbiamo l’anima. L’anima non è una cosa che si possiede, o che viene da fuori. Noi, semmai, ed è questa l’espressione giusta, siamo un’anima».

terribile dialogo tra madre e figlia

 

“STUDI DUE ORE E TI PROSTITUISCI DOPO, ALTRIMENTI VIA DA SCUOLA”

Prostituzione

SCANDALO BABY PROSTITUTE A ROMA

INTERCETTAZIONI TRA MADRE E FIGLIA.

“Allora rifletti bene su questo aspetto della scuola per cortesia… perché se no è inutile che… io ti ritiro”. La risposta: “Non mi puoi ritirare mamma non c’ho (ancora, ndr) 16 anni, non lo puoi fare”. Fanno venire i brividi quelle conversazioni tra madre e figlia finite agli atti dell’inchiesta sulle due minorenni che in una stanza dei Parioli incontravano i loro clienti. Chi parla al telefono è Emanuela (nome di fantasia), di appena 15 anni. Dall’altra parte della cornetta, la madre arrestata perché, secondo l’accusa, avrebbe indotto la figlia a prostituirsi.

I magistrati romani che indagano sul caso infatti sono convinti che la donna non poteva non sapere, anche se la figlia – sentita dai pm lo scorso 28 ottobre – l’ha sempre difesa: “Mamma non chiedeva, ma io cercavo di aiutarla. Quando le davo i soldi li prendeva anche se pensava non fosse giusto”. Ma è dalle intercettazioni che si capisce il ruolo della madre. La conversazione è dell’11 ottobre.

Madre: Allora… mi ha chiamato la tua professoressa di latino (…) voleva sapere perché non stai andando… Gli ho detto: guardi che non si sente bene. (…) Ha detto no, a noi interessa che la ragazza venga a scuola perché con il programma andiamo avanti, vorrei parlare con lei… e risiamo alle solite… Mi ha detto: pensa che domani verrà a scuola? Allora tu che cosa hai intenzione di fare? Dimmelo perché se no andiamo lì… ci prendiamo in giro … andiamo dagli insegnanti e glielo diciamo. Figlia: Ma io voglio andarci a scuola… è solo che non c’ho tempo per fare i compiti. M: Vabbè, il tempo si trova per fare i compiti. F: Ma quando si trova mamma? M: Quando esci da scuola torni a casa… due ore studi… tre ore… F: Non ce la faccio se studio prima. M: Allora non sai studià (…) Io studiavo la sera, qual è il problema? Devi trovare un modo per organizzarti. F: Non ce la faccio perché dopo che ho studiato sono stanca. M: Allora devi fare una scelta… puoi alternare i giorni… Qui una soluzione bisogna trovarla perché non è che… allora rifletti bene su questo aspetto della scuola per cortesia. Perché se no è inutile che… io ti ritiro e… F: Non mi puoi ritirare mamma non c’ho 16 anni, non lo puoi fare. M: Apposto, allora ce devi andà fino a che non… F: Mamma ci voglio andare, però non voglio andarci senza aver fatto i compiti. Poi la madre si sarebbe proposta di aiutare la figlia a studiare per due ore al giorno, per poi andare al “lavoro”. Altra conversazione finita agli atti, risale al 7 ottobre scorso. Madre: Senti un po’… ma tu che fai? Non te movi oggi? Figlia: No ma’ perché sto male. M: E come facciamo? Perché io… F: Certificato medico. M: Eh, lo so me… l’ho chiamata. F: I compiti… eh, appunto. M: E come facciamo perché io sto a corto? Dobbiamo recuperà. F: Eh, domani vedo che posso fà… comunque pure se… comincio tardi, cioè oggi ma’, veramente sto male. M: no no, bè che c’entra.. certo, ma che sta a scherzà? Assolutamente… F: Domani dopo scuola si vede. M: Ma ce la facciamo a recuperarla sta settimana? F: Ma come no, avoja.

V. Pacelli, da Il Fatto Quotidiano del 08/11/2013.

la ‘rivoluzione’ di papa Francesco

anemoni

Tutti parlano di ‘rivoluzione’ nella chiesa di papa Francesco, molti con entusiasmo, alcuni con perplessità o paura

mi piace, come anche in altro momento ho fatto in riferimento ad affermazioni o pronunciamenti del papa, mettere qui a confronto due posizioni a proposito del ‘questionario’ che papa Francesco ha mandato ai vescovi per interpellare tutti i cristiani: una consultazione globale, un mini concilio on-line che mette rinnovato entusiasmo ai più e fa storcere il naso a molti fuori e dentro il Vaticano

di seguito, a confronto, l’articolo di M. Politi (apparso su ‘il Fatto quotidiano’ del 6.11.2013)e di M. Matzuzzi (apparso su ‘il Foglio’ del 6.11.2013):

La rivoluzione è nelle domande

di Marco Politi

 Trentotto domande su famiglia, unioni di fatto, contraccezione, legami omosessuali… rivolte al basso, alle famiglie, al popolo dei credenti. La rivoluzione di Francesco compie un altro passo in avanti. Semplice come l’uovo di Colombo, audace come il passaggio dalla monarchia assolutista a un governo in cui il “capo” ascolta il suo popolo.
Da 50 anni, da quando Paolo VI tolse al Concilio la facoltà di occuparsi della contraccezione e volle risolverlo con l’enciclica Humanae Vitae (persino contro il parere della maggioranza delle commissione da lui creata, che riteneva possibile l’uso dei contraccettivi in certi casi), la Chiesa gerarchica dei celibi ha sempre spiegato dall’alto qual è la “verità”, quali sono i dettami della “natura”, qual è il “giusto” modo di rapportarsi sul piano sessuale senza mai attingere al- l’esperienza delle centinaia di milioni di uomini e donne che vivono questi legami. Per secoli il popolo dei credenti è stato trattato da gregge specialmente in questo campo, ora Francesco gli restituisce la parola. Lo fa senza mettere in discussione la dottrina, ma ponendosi come un prete che vuole confrontarsi con l’esistenza dei suoi fedeli, i loro problemi, i loro interrogativi e bisogni. Il tenore delle domande – che il Vaticano ha pubblicato ieri – è di una disarmante concretezza e rende visibile l’approccio strategico così ben descritto da Francesco nella sua intervista-manifesto alla rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica: “Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla ‘sicurezza’ dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante”. Ed ecco che le domande sono una sincera richiesta ai vescovi e al popolo credente di esprimere la realtà così com’è. Perché non ha senso decidere in base a schemi e dettami astratti. Ad esempio, come si pongono le Chiese locali “nei confronti della gente coinvolta in unioni dello stesso sesso? Qual è l’attenzione pastorale rivolta a queste persone?”. E – ancora più importante – nel caso che una coppia gay “abbia adottato figli, cosa è possibile fare pastoralmente alla luce della trasmissione della fede?”. E ancora “…i genitori (delle coppie omosessuali) come si rapportano alla Chiesa?”. Di colpo intere categorie trattate in passato come lebbrosi e in tempi recenti come i samaritani al tempo di Gesù (quelli condannati per un modo di vivere sbagliato, non come i giusti farisei!) diventano persone a cui rivolgersi con attenzione umana inscindibile da quella pastorale. Alla Chiesa wojtyliana e ratzingeriana che già sapeva cosa dire ai divorziati risposati “no” secco alla richiesta di poter fare la comunione – Francesco contrappone la semplicità del questionario: “Che domande pongono i divorziati risposati alla Chiesa riguardo ai sacramenti dell’eucaristia e della riconciliazione? Tra quelle persone, che si trovano in questa situazione, quanti chiedono questi sacramenti? Una semplificazione dei procedimenti canonici nel riconoscere la dichiarazione di nullità del legame matrimoniale potrebbe favorire un contributo positivo alla soluzione dei problemi delle persone coinvolte?”. La prima lezione che si trae da questo evento è che per la prima volta un papa vuole ascoltare ciò che le Chiese locali dicono dal basso, in ogni parte del mondo. Ma c’è un secondo aspetto significativo che riguarda le difficoltà che la rivoluzione di Bergoglio incontra e incontrerà. Il questionario è stato mandato alle conferenze episcopali tempo addietro. Soltanto i vescovi d’Inghilterra e del Galles hanno colto lo spirito della svolta di Francesco e hanno messo immediatamente in Internet il questionario, chiedendo esplicitamente ai fedeli di rispondere. Con una trasparenza totale, stimolando gli interlocutori nella loro precisa esperienza di vita. A uno a uno: laici, genitori, catechisti, membri di associazioni, preti, cappellani ecc. La maggioranza degli episcopati, dall’Italia agli Stati Uniti, si è tenuta invece per sé il questionario:
nell’ottica tradizionale di elaborare dall’alto – o con prudenti consultazioni ben guidate – le risposte da mandare al papa (formalmente alla segreteria del Sinodo dei vescovi), che le chiede entro tre mesi. È stato per questo che Francesco ha dato l’ordine di rendere pubblico al mondo intero il contenuto del questionario. E in questa linea il segretario del Sinodo, mons. Lorenzo Baldisseri, ha comunicato alla stampa che ciascun fedele può mandare direttamente le sue risposte in Vaticano. Francesco può pure incontrarsi regolarmente con il pontefice emerito Benedetto e intrattenere con lui rapporti cordiali di stima e di affetto sincero. Ma niente come l’iniziativa del questionario caratterizza meglio il rovesciamento di prospettiva e di azione del governo di Bergoglio rispetto ai metodi del pontificato di Wojtyla e di Ratzinger. La Chiesa sta vivendo una rivoluzione. “Purtroppo”, pensano molti prelati.

cropped-rosa-molto-bella.jpg

 

Dalle convivenze ai figli delle coppie gay, 39 domande spigolose ai vescovi

di Matteo Matzuzzi

 Il Sinodo è dei vescovi e non dei laici, precisa subito monsignor Lorenzo Baldisseri a margine della conferenza stampa sulla preparazione della Terza assemblea generale straordinaria del Sinodo, in programma dal 5 al 19 ottobre 2014. Certo, poiché il tema è ampio e delicato (“Le sfide della famiglia nel contesto della nuova evangelizzazione” è il titolo scelto), tutti avranno la possibilità di far sentire la propria voce, a cominciare dalle donne, attese in gran numero in qualità di uditore. Baldisseri, da poco più di un mese segretario di quell’organismo che Papa Francesco vuole più dinamico e flessibile, spiega che l’intenzione è di trasformare il Sinodo in “un vero ed efficace strumento di comunione attraverso il quale si esprima e si realizzi la collegialità auspicata dal Concilio”. Al centro dell’incontro, l’illustrazione del questionario inviato alle chiese particolari chiamate a far sentire la propria voce entro fine gennaio, in modo da poter definire l’instrumentum laboris in vista dell’appuntamento di ottobre. Trentanove domande che indicano quanto “urgente e necessaria” sia l’attenzione dell’episcopato mondiale alle “problematiche inedite fino a pochi anni fa” che riguardano la famiglia. Nel documento preparatorio si cita la diffusione delle coppie di fatto, che “non accedono al matrimonio e a volte ne escludono l’idea”, alle unioni fra persone dello stesso sesso, “cui non di rado è consentita l’adozione di figli”. Ed è su queste sfide che viene chiesto alla chiesa universale di far sentire la propria voce. Le domande sono specifiche e dettagliate. A proposito delle unioni di fatto senza riconoscimento né religioso né civile, il Relatore generale del Sinodo, il cardinale ungherese Péter Erdö , ha sottolineato che “questo è uno dei problemi più importanti in molti paesi”, e viene chiesto alle diocesi di chiarire se ci siano iniziative pastorali riguardo alle persone che vivono in situazioni matrimoniali difficili. Il documento, poi, tocca il tema dell’apertura “degli sposi alla vita”, indagando come e se questi si rapportino alla dottrina dell’Humanae Vitae. Nulla viene tralasciato od omesso, neppure i problemi derivanti dalle unioni tra persone dello stesso sesso: “Quale attenzione pastorale è possibile avere nei confronti delle persone che hanno scelto di vivere secondo questo tipo di unioni? Nel caso di unioni di persone dello stesso sesso che abbiano adottato bambini, come comportarsi pastoralmente in vista della trasmissione della fede?”. Sono solo due dei quesiti posti dalla Segreteria generale del Sinodo alla realtà delle parrocchie e dei decanati sparsi nel mondo. L’insistenza, ha detto monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti- Vasto e segretario speciale della Terza assemblea del Sinodo, “è sulla misericordia divina e la tenerezza nei confronti delle persone ferite, nelle periferie geografiche ed esistenziali”. Diventa “vitale”, ha aggiunto, “coniugare l’impegno quotidiano in famiglia a condizioni che la sostengano tanto nell’ambito della società civile, quanto nella comunità ecclesiale, motivando concretamente la bellezza e la fecondità della fede nella sacramentalità del matrimonio e nel potere terapeutico della penitenza sacramentale”. A ogni modo, ha voluto chiarire il cardinale Erdo, “nessuno vuole riaprire il dibattito sul cambiamento della dottrina cattolica”, anche perché, come ha spiegato, “la base del Sinodo deve essere la dottrina del Magistero della chiesa”.

stampa e pregiudizi: come si rafforzano

 

Rom ladri di bambini: così la stampa rafforza gli stereotipi

una richiesta dell’Associazione 21 luglio alla stampa

 

Una donna in un "campo rom" di Roma

un “campo rom” di Roma

 

Nei giorni del ritrovamento, in un campo rom in Grecia, di una bimba i cui tratti somatici non convincevano la polizia, parte della stampa italiana ha parlato dell’accaduto additando subito gli “zingari” come “ladri di bambini”.

“Ci hanno sempre detto che fossero fandonie. Che le zingare non rapiscono i bambini. Che ce lo inventavamo per attaccare i poveri zingari innocenti. Come, altre baggianate, erano, secondo i buonisti di sempre, le accuse di essere ladri d’appartamento e scippatori. Tiè! Ecco la prova provata”, si leggeva sul blog de Il Giornale.it lo scorso 20 ottobre.

Alcuni giorni dopo i genitori naturali della bimba dichiarano di averla affidata alla coppia con la quale è stata ritrovata, e un caso analogo in Irlanda si conclude con un test del DNA che conferma che la bimba in questione, seppur bionda con gli occhi azzurri, è figlia della coppia con la quale viveva. A fronte di questi acceratementi questo il commento del Secolo d’Italia del 24 ottobre: “Ciò conferma che pure le tribù rom, come loro stesse sostengono, possono dare alla luce bambini biondi con occhi azzurri o verdi, ma ciò non giustifica affatto la gravità del reato di rapimento da parte degli stessi nomadi, come purtroppo troppo spesso accade”.

In base a tali fatti, le associazioni Naga e Associazione 21 Luglio chiedono che la stampa agisca in modo consapevole, vista la grande responsabilità che ha nella creazione di stereotipi e pregiudizi. Un’informazione corretta deve sempre ricordare, soprattutto a se stessa, che per qualsiasi reato la responsabilità penale è individuale, mai di un “gruppo” o di un’etnia.

E non deve dimenticare che, come dimostrato anche da un’importante ricerca dell’Università di Verona, di tutte le notizie di fantomatici rapimenti che vedevano coinvolti cittadini rom tra il 1986 e il 2007, in nessun caso l’esito è stato una condanna per questo reato.

Proponiamo quindi ai singoli giornalisti, all’Ordine dei giornalisti, alla Federazione Nazionale della Stampa e agli editori di: ·         rispettare e applicare le Linee guida per l’applicazione della Carta di Roma; ·         dare voce ai cittadini rom e sinti, raccogliere le loro parole, interpellarli e ascoltarli come fonti.

Naga e Associazione 21 Luglio continueranno a monitorare i media e a fare pressione affinché la stampa si faccia portatrice di una rappresentazione diversa dei cittadini rom e sinti e di tutte le persone discriminate.

i vescovi francesi stanno imparando da papa Francesco, quando quelli italiani?

rinnovamento

fino a pochi mesi fa il presidente dimissionario dei vescovi francesi, il card. Vengt-Troi, benediceva i cortei anti-matrimoni- gay, in questi giorni il neo presidente della conferenza episcopale, moms. Pontier, nel discorso di apertura  della sua presidenza delinea un modello di chiesa ‘ospedale da campo’ che sappia davvero “proclamare la speranza non solo nelle cattedrali … ma anche all’interno delle prigioni” e vivere il discernimento spirituale come Cristo “a partire dai più poveri, dai piccoli, dagli afflitti. Guardare il mondo a partire da loro … umanizza” (da notare la grande attenzione ai rom calorosamente sottolineata  nel discorso)

così viene ricostruita la nuova linea ‘secondo papa Francesco’ da Philippe Clanché in Themoignage chrétien del 5 novembre 2013:

 A Lourdes, Mons. Pontier fa soffiare il nuovo vento di Roma

 Vi è stata una grande riservatezza da parte di mons. Pontier, dopo la sua elezione alla presidenza dell’episcopato (francese). Rompendo il silenzio in occasione del discorso di apertura della sessione autunnale della Conferenza l’arcivescovo di Marsiglia si è fatto davvero sentire, facendo dimenticare la pioggia battente che si abbatteva su Lourdes. L’anno scorso in un simile frangente, il cardinal Vingt-Trois benediceva non troppo apertamente i cortei anti matrimonio gay. Questo martedì 5 novembre il suo successore non ha pronunciato la parola “matrimonio”. Si mette deliberatamente nel solco di papa Francesco, riprendendo le sue iniziative – «quale felicità  proclamare questa speranza non solo nelle nostre cattedrali, ma anche nelle cappelle di ospedale, nelle celebrazioni all’interno delle prigioni» – o, citando la metafora ospedaliera della Chiesa «ospedale da campo»: «Dopo una battaglia è inutile domandare a un ferito grave se ha il colesterolo alto o un tasso di zuccheri eccessivo! Dobbiamo curare le ferite. In seguito potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite» (1). Certamente, tra i feriti, Georges Pontier pensava agli omosessuali o ai divorziati-risposati. «Siamo stimolati, per vivere il nostro ministero vicino a tutti, stando, quando è necessario, in testa al gregge, talvolta dietro o in mezzo, spesso in ginocchio per ascoltare». Discernimento spirituale Evocando il discernimento spirituale, «l’atto del nostro ministero più importante e delicato», il capo dei vescovi propone di viverlo come Cristo «a partire dai più poveri, dai piccoli, dagli afflitti. Guardare il mondo a partire da loro, dai loro bisogni, dalle loro grida, umanizza, invita a delle scelte che privilegiano la fraternità, la giustizia e la solidarietà». Siamo lontani dagli argomenti teologici- antropologici che hanno prevalso durante i dibattiti dello scorso anno, facilitando affermazioni dolorose per alcuni. Per il giro di orizzonte sull’attualità, passaggio obbligato in questi frangenti, l’arcivescovo di Marsiglia ha scelto l’ambito sociale. Non ci si sarà sorpresi di trovarvi una grande attenzione ai rom, che ha difeso con foga nella propria diocesi. I politici sono stati fatti oggetto di severa attenzione: «non vediamo delinearsi altra politica se non quella di rifiutare ai Rom un’accoglienza realizzabile, desiderata dalla maggior parte di loro. È più urgente distruggere (una bidonville) che abbandonare senza prospettive, a un nuovo vagabondaggio, coloro che vi avevano costruito un rifugio familiare provvisorio?». E più avanti si arrabbia: «Che dire delle  affermazioni piene di odio nei loro confronti, pronunciate senza alcun ritegno? Che dire delle violenze che subiscono?» E conclude questo capitolo fustigando la rincorsa al peggio nel vocabolario dei politici locali e nazionali». Nel suo discorso non omette di salutare i cristiani che, con altri, fanno la scelta della prossimità ai Rom. crisi economica Mons. Pontier dedica un paragrafo importante alla crisi economica e denuncia il fossato che si sta scavando tra i ricchi e i poveri: «L’accecamento è grave. È un’ingiuria rivolta a coloro che hanno minori mezzi. Quando ritroveremo un minimo di senso di fraternità e solidarietà reali?» Incoraggia coloro che «si impegnano a trovare le vie per una società più giusta: uomini politici, eletti, quadri di impresa, responsabili sindacali, diversi membri della vita associativa, cittadini consapevoli e solidali». «E il matrimonio gay in tutto questo?» avranno pensato alcuni prelati che ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia. Mons. Pontier dirà due parole su questo, dopo quelle sui cristiani del vicino e
medio Oriente: «Nella primavera scorsa, molti hanno manifestato a favore della difesa della famiglia e dei diritti dei bambini. Come cristiani, ci sentiamo chiamati ad ascoltare le grida di coloro che vivono ogni sorta di sofferenze nella società e a dare anche una testimonianza lieta di una vita famigliare, aperta all’accoglienza dei figli, di tutti i figli, in cui l’amore sa attraversare le prove e dare loro senso in una fedeltà feconda e sempre rinnovata». Il vento di Roma Il messaggio è chiaro. Non sono le grida di uccisione della famiglia tradizionale, lanciate dalle Associazioni famigliari cattoliche e dagli apostoli della “Manif pour tous”, che il nuovo presidente dell’episcopato francese mette al primo posto. È da sottolineare l’accento posto sull’accoglienza di «tutti i figli», qualunque sia la natura della loro famiglia. Questo per il contenuto. Anche la forma cambia con l’appello ai cattolici a «non andare mai al di là di ciò che potrebbe turbare la vita pubblica o esprimere una volontà di egemonia». E « nei confronti di coloro che potrebbero avere dei dubbi» – ce ne saranno anche tra i confratelli vescovi? – Georges Pontier si fa perentorio: «Credenti in Cristo, siamo cittadini che amano il loro paese. Cerchiamo senza sosta ciò che è il meglio per tutti. La nostra fede cristiana ce lo rende un obbligo». Un’ ultima frecciata per gli zelanti della decadenza nazionale. Questi ultimi potranno consolarsi con la riaffermazione dell’impegno cattolico «senza ombre nel confronti delle persone in fase terminale» e una difesa della legge Leonetti minacciata. È il vento di Roma che Mons. Pontier vuol far soffiare su questo autunno episcopale. La maggioranza che lo ha eletto nell’aprile scorso apprezza sicuramente. Altri, malauguratamente, continueranno a percorrere il loro cammino identitario, preferendo l’enunciato della dottrina alla umiltà benevola di mons. Pontier
(1) intervista di papa Francesco alle riviste dei gesuiti, nell’ottobre 2013

 

 

image_pdfimage_print