agip in vaticano: le sue preghiere valgono più di quelle dei missionari e trovano posto in … paradiso!

Agip in piazza S_Pietro
Agostino Rota Martir all’epoca dei fatti e dell’esperienza qui sotto da lui narrati era uno di quei frati saveriani  e religiosi di diversificata spiritualità che insieme a p. Alessandro Zanotelli intendevano pregare in piazza s. Pietro, ricevendone un no irremovibile … ma altre preghiere sembrano più ascoltate!
Circa due anni fà, in occasione del referendum sull’acqua bene comune, con un bel gruppo di religiosi, preti, missionari, suore e tanti laici ci ritrovammo proprio in piazza S.Pietro per un momento di preghiera, anche per sensibilizzare l’opinione pubblica e il Vaticano. Intervenne la Polizia e la Gendarmeria Vaticana per allontanarci perchè la nostra era una manifestazione “politica”, quindi lo spazio non poteva essere utilizzato. Facemmo presente che noi eravamo lì per pregare e che non potevano proibircelo..c’era anche p. Alex, poi si raggiunse un compromesso: pregare a fianco del colonnato, ma senza spiegare gli striscioni!
 
L’Agip (foto allegata), si vede che prega molto e meglio di tanti di noi..quindi ha tutte le giuste autorizzazioni: i soldi non hanno colori politici ed appartenenza religiosa!!
Ciao Ago

bimbi in pasto ai pesci!

bambini siriani

I bimbi annegati lasciati in pasto ai pesci L’Europa rinvia: se ne parla fra otto mesi

                                                           Le foto e i nomi delle decine di minori siriani morti nel barcone affondato l’11 ottobre a 60 miglia da Lampedusa. La protesta dei familiari. Che lanciano una petizione: “Recuperate i corpi e aprite un’inchiesta”. Ma i capi dei governi Ue hanno deciso di rimandare la discussione a giugno 2014

un bel servizio di Fabrizio Gatti su ‘l’Espresso’

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I bimbi annegati lasciati in pasto ai pesci 
L'Europa rinvia: se ne parla fra otto mesi 
                 
Tre fratellini scomparsi in mare nel naufragio dell’11 ottobre
                                                          L’Espresso ha raccolto le fotografie e i nomi dei bambini, dei loro genitori e degli altri profughi siriani che l’Europa ha abbandonato in pasto ai pesci. I capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, riuniti a Bruxelles il 24 e il 25 ottobre per i lavori del Consiglio europeo, non hanno dedicato nemmeno una dichiarazione al fatto che, dei 268 morti nel naufragio dell’11 ottobre a 60 miglia a Sud di Lampedusa, soltanto 26 corpi sono stati recuperati durante i soccorsi ai sopravvissuti: le altre 242 salme di padri, madri e bimbi, alcuni di pochi mesi, sono state lasciate in mare con il relitto, nella totale disperazione dei loro familiari, molti dei quali hanno la cittadinanza o la residenza nell’Ue.
Tutte le fotografie e i nomi nel blog Undercover                                                                      
Per la maggioranza dei capi di Stato e di governo europei non è urgente nemmeno la circostanza che nei primi undici giorni di ottobre in Europa siano complessivamente annegate 646 persone, tra cui una sessantina di bambini siriani e sedici bimbi eritrei. E non lo è la coincidenza che tutti loro avessero diritto di richiedere asilo in base alle convenzioni internazionali che gli Stati rappresentati a Bruxelles hanno firmato, ma non avessero trovato altro passaggio se non quello offerto dalla mafia degli scafisti. Il Consiglio europeo, chiusi i lavori del 24 e 25 ottobre, ha infatti deciso di prendere tempo. E di rinviare soltanto a giugno 2014 una “riflessione di lungo termine sulle politiche dell’immigrazione”. Cioè tra otto mesi, dopo le elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo. Una vergognosa furbizia politica per non scontentare il proprio elettorato. E sarà soltanto una riflessione di lungo termine. Non una decisione.
Al di là delle parole di rito, l’ultimo vertice europeo è stato l’ennesima dimostrazione di cinismo e indifferenza. Ola Izoli nel naufragio dell’11 ottobre ha perso il fratello di 19 anni, Mohamed Jafar. E nella sua email a l’Espresso inviata da Dubai, Ola descrive la sua disperazione: «La Croce rossa italiana mi ha detto di avere pazienza. Ma fino a quando? Se mio fratello è ancora sott’acqua, come farò a riconoscere il suo corpo dopo tutto questo tempo?». Per assistere i familiari come Ola Izoli i governi europei, l’Italia in testa, non hanno istituito nessuna unità di crisi. Nemmeno un numero telefonico dove cercare informazioni attendibili. Al contrario, le dodici famiglie sopravvissute che le operazioni di soccorso avevano separato sono ancora divise tra l’Italia e Malta. Fra di loro alcuni bambini, dai nove mesi ai tre anni. I ministeri dell’Interno e degli Esteri italiano e maltese stanno seguendo la procedura ordinaria di ricongiungimento che richiede mesi. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati sta cercando una soluzione più rapida. Sono famiglie scampate alla guerra civile in Siria. Poi all’inferno del naufragio. Ma dopo tre settimane quei bambini sono ancora in Sicilia. I loro genitori a La Valletta. Una lontananza disumana. E meno male che sia l’Italia, sia Malta fanno parte dell’Unione Europea.

Kenda Awad, 12 anni, la sorella...      
Kenda Awad, 12 anni, la sorella Marwa, 14, e il fratello Aldin, 9 anni

Gli argomenti che i governi europei dovrebbero affrontare urgentemente non mancano. A cominciare dalle ridicole regole dell’assistenza in mare, la cui applicazione nel Mediterraneo è responsabile negli anni di centinaia di morti. Basta il naufragio dell’11 ottobre a denunciarne tutta la loro pericolosità. Il primo intervento è infatti partito da Malta, ad almeno 230 chilometri di distanza. E non da Lampedusa, a 110 chilometri, circa 60 miglia, la metà del tempo necessario. Questo perché il punto in cui il peschereccio stava affondando ricade, secondo gli accordi internazionali, sotto la competenza di ricerca e soccorso di Malta, non dell’Italia. «Le navi militari sono arrivate sul posto dopo quasi due ore dalla prima chiamata di sos», racconta Racha Muhriz. Racha ha perso la sorella Taghrid, 31 anni, e la nipotina Cham, 5 anni, scomparse in mare, ma ha raccolto la testimonianza del cognato, sopravvissuto al naufragio con la figlia gemella e ora trattenuto con la piccola a Malta.

Mayar Lababidi, 6 mesi      
Mayar Lababidi, 6 mesi

Attraverso le carte nautiche del Canale di Sicilia, l’Espresso ha calcolato che il relitto con il suo carico di corpi rinchiusi nella stiva e nelle camere del ponte principale si sarebbe adagiato su un fondale tra gli 80 e i 100 metri. Una profondità accessibile ai sommozzatori: con l’impiego di una campana pressurizzata e, in superficie, di una camera iperbarica per la decompressione, secondo tecniche comunemente usate dai sub specializzati nella manutenzione delle piattaforme petrolifere, ma anche dalla Marina militare.
I familiari dei dispersi con una petizione chiedono il recupero delle salme. E che al più presto sia eseguita l’ispezione dello scafo affondato e la localizzazione dei corpi: operazione, questa, che la Marina potrebbe concludere nel giro di pochi giorni utilizzando le telecamere di “Pluto”, il robot subacqueo teleguidato acquistato dal ministero della Difesa per le attività di sminamento. Un intervento senza alcun rischio per il personale. Sarebbe invece il primo importante passo di un’inchiesta per pirateria e terrorismo: il vecchio peschereccio con almeno 480 profughi a bordo secondo la testimonianza dei sopravvissuti sarebbe colato a picco per i colpi di mitragliatrice sparati da una motovedetta di Tripoli o, sostengono altri superstiti, da una imbarcazione inviata dalle milizie libiche, forse nel tentativo di rapinare i passeggeri. A bordo c’erano molti professionisti siriani, medici, ingegneri, con le loro famiglie, i bambini e qualche scorta di denaro per l’esilio. Oltre a un centinaio di profughi sub sahariani che erano stati chiusi a chiave nella stiva perché non fossero visti dai siriani durante l’imbarco. I trafficanti libici di Al Zuwarah che avevano venduto il viaggio verso Lampedusa, avevano promesso meno passeggeri del solito. Per questo hanno nascosto gli africani nella stiva. Così ai profughi fuggiti dalla Siria hanno potuto chiedere un prezzo più alto: tremila dollari a testa, invece di milleseicento.

Joud Mustafa, 5 anni      
Joud Mustafa, 5 anni

Sempre secondo le testimonianze raccolte a Malta, il vecchio peschereccio era stato affidato a quattro scafisti, tre tunisini e un libico. Con loro anche un passatore siriano di Aleppo: l’uomo che aveva contattato le famiglie e che con la sua presenza a bordo aveva garantito sulla sicurezza. Durante la traversata, il livello dell’acqua sempre più alto nello scafo ha invece spento il motore diesel. A quel punto uno dei tre tunisini è andato a controllare ed è rimasto ustionato da un getto di vapore. Subito dopo sul ponte è scoppiata una rissa tra il passatore di Aleppo e gli scafisti. Alcuni testimoni riferiscono di una sparatoria tra di loro, mentre le famiglie ammassate con i bimbi nelle cabine e gli africani chiusi a chiave nella stiva gridavano disperati. Perché, racconta un papà che ha perso in mare la figlia e la moglie, «ormai era evidente a tutti che saremmo affondati».

la chiesa e la u’drangheta, un connubio spesso oscuro e pericoloso

 

rinnovamento

in occasione della pubblicazione del volume di N. Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e dello storico A. Nicaso in cui si raccontano luci e ombre del rapporto chiesa-mafia, una buona presentazione su l’ ‘Avvenire’ odierno di A. M. Mira:

 

Chiesa e n’drangheta, dal silenzio alla lotta

di Antonio Maria Mira

« La Chiesa deve essere una spina nel fianco della mafia», ha detto recentemente il cardinale Gianfranco Ravasi, aggiungendo che la mafia «è un fenomeno radicato e impastato: forse la comunità ecclesiale non lo ha combattuto abbastanza, anche in passato». La frase è citato nel libro, in uscita oggi da Mondadori, Acqua santissima. La Chiesa e la ’ndrangheta: storie di potere, silenzi e assoluzioni, scritto dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e dallo storico Antonio Nicaso, coppia ormai rodata (siamo al sesto libro) in tema di ’ndrangheta. Il titolo riassume già la tesi del libro, dove, in modo molto documentato – e non poteva essere che così visto che Gratteri è tra i magistrati di punta della lotta alla ’ndrangheta – si raccontano luci e ombre del rapporto chiesa-mafia, in particolare quella calabrese, sicuramente quella che anche per sua natura, tradizione, legami con la terra ha più utilizzato elementi di religiosità, o meglio pseudoreligiosità, nel mantenimento del proprio potere. Più ombre che luci, secondo gli autori che nell’introduzione parlano di «controverso rapporto tra Chiesa e ’ndrangheta. Un rapporto in cui si alternano e a volte si sovrappongono luci e ombre intorno a un gomitolo aggrovigliato del quale è sempre più urgente trovare il bandolo. Non è più il tempo delle parole, ma di fatti e comportamenti finalmente capaci di dimostrare quanto questi due mondi siano diversi e inconciliabili». Molte citazioni, sicuramente dure, di storie certo non positive di questo rapporto. Vicende ben note come i condizionamenti delle feste religiose, lo stravolgimento di matrimoni e funerali, i giuramenti col santino di San Michele Arcangelo, la convinzione dei mafiosi di essere giustificati davanti a Dio, fino al punto di chiedere alla Madonna di Polsi, il più famoso santuario calabrese, l’intercessione per poter uscire dal carcere: «Fammi la grazia a cacciami fora e la prima figghia ti la fazzo sora». Sembra solo folclore ma, purtroppo, non lo è. Come sottolinea il cardinale Ravasi, che ne ha fatto tema di una delle tappe del Cortile dei Gentili proprio in Calabria, questi elementi sono stati spesso accompagnati da colpevoli silenzi di parte del mondo ecclesiale. Gratteri e Nicaso, come abbiamo detto insistono molto su questo, citando nomi e cognomi, storie anche non strettamente giudiziarie, ma correttamente avvertono che molte non sono ancora concluse e quindi i protagonisti «sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva». Certo il negativo domina in questo libro, rispetto al positivo che pur c’è e c’è stato. Gli autori non mancano di citare nette prese di posizione della Chiesa calabrese, come una lettera pastorale del 1916 che a proposito delle feste patronali scriveva di «abusi inqualificabili»; o padre Gaetano Catanoso, beatificato nel 1987, impegnato alla fine dell’Ottocento contro le prepotenze degli ’ndranghetisti. Ma poi ripetono che queste prese di posizione sono rimaste isolate e non hanno avuto concretizzazioni durature nel tempo. Certo, più si va avanti negli anni della loro analisi, più sono gli esempi di vescovi e sacerdoti impegnati con convinzione, e soprattutto con efficacia, nel contrasto alle mafie, da don Italo Calabrò, parroco e vicario a Reggio Calabria (tra i fondatori della Caritas italiana) a don Pino Demasi, parroco di Polistena e animatore di tante iniziative nella Piana di Gioia Tauro, ma nel libro appaiono sempre come casi isolati. Un libro, dunque, da leggere con attenzione e, soprattutto, da discutere. In particolare per l’ardita tesi, ripresa da altri scrittori, che il perdono cristiano giustificherebbe gli ’ndranghetisti («Solo Dio è il vero giudice», scrivono sui muri delle celle) anche quando commettono i più gravi delitti. Forse i mafiosi lo pensano. Di certo la Chiesa no.

ancora sulla bambina bionda’rapita’

La vergognosa campagna anti-rom sulla “bambina rapita”

 

La vergognosa campagna anti-rom sulla “bambina rapita”

Forse ho perso qualche passaggio giornalistico, non sono abbastanza attento. L’impressione che ho riguarda una sequenza così: un paio di giorni o tre di clamore su una bambina bionda probabilmente (più che probabilmente) rapita da una coppia di rom. Foto della bambina bionda. Messaggi di migliaia di persone che hanno perso una loro bambina. Flebili (non nella voce che le diceva, ma nell’ascolto che trovava) parole di sorpresa di persone che conoscono i rom, o che sono rom, vantaggio non secondario, e dicevano che i rom sono così pieni di figli che, nonostante la leggenda, rapire figli altrui è l’ultima delle cose cui penserebbero. Scoperta dei veri genitori – cioé, i veri genitori si fanno vivi e dicono di aver dato loro la bambina, e danno delle loro spiegazioni. Titoli dimezzati, che non dicono: “Non era rapita la bambina, e non era scandinava”, eccetera, ma dicono: “Sospetti sulla bambina: forse è stata comprata”. Infine, sparizione della notizia. E’ durato poco, ma è stato bello.

L’Italia abbandona i più deboli

L'Italia abbandona più deboli

         Le donne, gli uomini, i bambini invalidi sono vittima dei tagli imposti alla spesa pubblica. Senza sussidi né servizi, restano affidati alle famiglie che spesso non hanno i mezzi per curarli adeguatamente. Ecco le loro storie                                                          

di Fabrizio Gatti

                                                 Il mio bimbo si chiama Loris, scusi se ho scritto Lollo nell’email, ma era il nome che lui diceva quando gli veniva chiesto come ti chiami», rivela il suo papà: «Sì, il mio bimbo, fino a quel giorno che vorrei cancellare e cioè il 23 aprile 2012, stava benissimo. Era un bimbo sanissimo di due anni e mezzo. Poi un’emorragia al cervelletto e il mondo cambia, la vita diventa difficile e tutti ti chiudono le porte».
Ma uno Stato può chiudere le porte e sacrificare i suoi cittadini più deboli? L’Italia, anche quella dei pregiudicati che frodano il fisco e pretendono di continuare a sedersi in Parlamento, la risposta se l’è già data. Chiara e tonda: un sì, netto e drammatico. Non siamo ancora all’eutanasia imposta alla Grecia dall’Unione Europea per non far crollare l’euro. Ma non siamo lontani: anzi, con i recenti tagli alla spesa sociale le persone non autosufficienti sono già state sacrificate. In nome del fiscal compact, il patto di bilancio europeo. Con tutte le sue conseguenze.

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                                              Basta ascoltare i racconti dei lettori che hanno partecipato a questa inchiesta dell’Espresso. E guardare il nostro Paese dagli occhi di piccoli e adulti che per vivere, studiare, lavorare hanno bisogno di aiuto. Al punto che Lollo, sopravvissuto all’emorragia, adesso non può accedere alla riabilitazione di cui ha bisogno. Mentre a Milano e in altre città ci sono bambini che frequentano la scuola dell’obbligo soltanto per 11 ore la settimana, dopo che il ministero ha ridotto le spese per gli insegnanti di sostegno.
E altri ragazzi proprio in questi giorni rischiano di dover rinunciare agli studi perché i Comuni non pagano più il trasporto e i bus di linea sono barriere architettoniche con le ruote. Oppure bisogna osservare l’Italia dalle finestre di donne e uomini invalidi che, prigionieri dei loro appartamenti, sopravvivono a fatica visto che l’Inps a ogni verifica sospende l’assegno anche per diciotto mesi.

DISABILI IN CADUTA LIBERA

O immaginarla dai letti di quelle migliaia di anziani non autosufficienti che aspettano la loro ora ingabbiati dentro istituti convenzionati a 700 euro al giorno, ingrassando i bilanci di cliniche e cooperative quando, se bene organizzata in casa, la stessa assistenza costerebbe alle casse pubbliche meno della metà. Sofferenza e affari. Se la crisi è una corrente impetuosa che erode le nostre vite e i doveri di solidarietà sanciti dalla Costituzione, i cittadini disabili e le loro famiglie sono già in caduta libera oltre la soglia della cascata. Al Nord, come al Centro e al Sud.
Un paradosso se si considera la presenza così massiccia di cattolici nella politica italiana. Come ha sottolineato Margherita Hack nella prefazione al libro-inchiesta di Roberto Gramiccia e Vittorio Bonanni “La strage degli innocenti. Anatomia di un omicidio sociale” (Ediesse): «Balza agli occhi, da un lato, l’assurda contraddizione fra la difesa della vita a tutti i costi di persone in coma da anni ridotte a vegetali, fra la proibizione di usare le cellule staminali embrionali perché l’embrione si ritiene persona in fieri», ha scritto l’astrofisica scomparsa il 29 giugno, «e, dall’altro, la scarsa e inadeguata assistenza agli anziani, soprattutto ai più deboli, senza sufficienti risorse».
Gli economisti di mezzo mondo discutono se i tagli siano conseguenza della crisi in Europa: o viceversa se le misure di austerità non abbiano annientato l’autonomia degli Stati nell’intervento a difesa dei più bisognosi. Non tutti la pensano come il presidente della Bce, Mario Draghi, che in un’intervista al “Wall Street Journal” ha dichiarato che il modello sociale europeo è ormai superato. O come Norbert Walter, l’economista di punta della Deutsche Bank che nel 2008 profetizzava: «In futuro alcuni di noi dovranno adattarsi a guadagnare uno stipendio insufficiente a sopravvivere». Ma ecco, quel futuro è già qui.

NIENTE FISIOTERAPIA

Savino Ferrara, 42 anni, il papà di Lollo, per assistere il suo piccolo ha dovuto chiudere la sua impresa. «Prima che succedesse la mia fine del mondo», racconta, «ero un artigiano edile». I Ferrara abitano a Seregno, provincia di Monza e Brianza, una ventina di chilometri da Milano, una zona ricca, ma non per tutti.
Savino ora fa l’operaio in una ditta di costruzioni. «Ho chiuso perché non avrei più il tempo che avevo da dedicare all’impresa. Mia moglie», aggiunge, «non lavora perché deve accudire il piccolo di giorno e soprattutto la notte. Ho altri due figli, una di 20 anni, uno di 18. La prima ha lasciato le superiori all’ultimo anno perché dopo che Lollo è tornato a casa dal lungo ricovero, il bisogno di un aiuto era più importante dello studio. Attualmente il nostro piccolo con l’assistenza domiciliare integrata della Asl fa tre sedute settimanali della durata di 45 minuti di fisioterapia. Io ne integro privatamente altre due alla settimana. Poi quattro sedute di logopedia per la deglutizione a settimana e io ne integro altre due. Non siamo assistiti da nessun centro neuropsichiatrico infantile. Tutto viene svolto a casa. Perché il Don Gnocchi, il centro privato convenzionato che c’è qui, ci avrebbe dato solo tre sedute di fisioterapia e una di logopedia che sono uguali a niente».
Savino racconta che ogni otto mesi può richiedere una seduta intensiva in un altro centro convenzionato dove ci sono medici, neurologi, fisiatri e quant’altro: «Ma ogni otto mesi è davvero troppo poco. Per poterlo rimettere in piedi, un bimbo con tetraparesi spastica avrebbe bisogno di almeno due ore al giorno di fisioterapia e se dobbiamo anche insegnargli a deglutire e a svezzarlo con le pappe, avrebbe bisogno di almeno sei incontri al giorno di logopedia». Poi ci sono le spese: «Mille euro al mese non rimborsabili.
Li spendo per colliri e alcuni farmaci che il servizio sanitario non passa e tutto l’occorrente per le medicazioni, la tracheotomia, il sondino per il nutrimento. Ci sentiamo in balia delle onde», confessa il papà di Lollo e spera nell’aiuto economico di qualche associazione privata. Sa che con il suo stipendio da operaio da solo non può farcela. Arriva quel momento che prima o poi tutti i genitori nella sua situazione devono affrontare: la consapevolezza di non riuscire a fare il necessario per salvare il proprio bimbo. Prima dell’avvento del liberismo finanziario e del disastro che sta provocando, era compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che tolgono il sonno a milioni di italiani. Ora rimangono i gesti di buona volontà. Nella regione del senatore Formigoni che in pochi anni si è mangiata 89 milioni in tangenti sulla sanità, i soldi per aiutare Lollo li raccolgono i clienti di un bar. Con spiccioli e mance.

SCUOLA PUBBLICA, SOSTEGNO PRIVATO

Anche M., 7 anni, seconda elementare a Milano, è una bambina sacrificata dallo Stato. Per lei, come per molti altri alunni, l’Ufficio scolastico ministeriale ha concesso 11 ore di insegnante di sostegno su 40 di presenza settimanale a scuola. Nelle altre 29 ore la piccola, che soffre di encefalopatia post natale, aveva due alternative: rimanere parcheggiata in aula o tornare a casa. La piccola M. però può dirsi fortunata.
La soluzione l’ha trovata la mamma, 41 anni, impiegata. Paga lei l’educatrice in classe per le ore non coperte: 1.400 euro al mese. «Se ne va tutto il mio stipendio, unica entrata della famiglia», dice: «Ma posso permettermelo grazie all’aiuto dei miei genitori». Per tutti gli altri bambini che non possono contare sui nonni, la scuola dell’obbligo a Milano dura soltanto 11 ore alla settimana. Laura, 16 anni, anche lei milanese, con una grave sindrome autistica, non si è potuta iscrivere alle superiori: «Nei casi più gravi come quello di nostra figlia», spiega la mamma, 49 anni, «gli istituti non sono in grado di accogliere questi ragazzi con le necessarie modalità educative. E in questi ultimi anni le ore di sostegno sono state ridotte all’osso: sei o massimo nove alla settimana. Tanto che quest’anno ci siamo trovati nella condizione di dover rinunciare a iscriverla alla scuola superiore. Dove peraltro abbiamo trovato gentili ma fermi rifiuti alla sua iscrizione per l’inadeguatezza di strutture e la mancanza di personale qualificato. I dirigenti puntano sul fatto che l’obbligo scolastico finisce a 16 anni. Mentre la legge sull’integrazione scolastica prevede un insegnante di sostegno su tutte le ore per ogni studente con il 100 per cento di invalidità, fino alla quinta».
In alternativa Laura e altri ragazzi nelle sue condizioni frequentano un centro di riabilitazione privato. Sono 900 euro al mese di retta. Li copre in parte il Comune, dopo una lunga trattativa con i genitori. Il trasporto, 25 euro al giorno, è tutto a carico delle famiglie. Fanno 500 euro al mese: praticamente l’intera indennità mensile di accompagnamento di 499 euro che Laura riceve dall’Inps. E che un invalido dovrebbe far bastare anche per i farmaci che il servizio sanitario non passa, gli integratori, le vitamine, le ore in più di riabilitazione e mille altri imprevisti. Tutto questo nella stessa città in cui la Regione spende milioni di euro in buoni scuola. Un modo per aggirare la Costituzione, articolo 33, e finanziare le scuole private.
«Non si ha idea dello sconvolgimento, dell’impegno che riguarda tutta la famiglia ad affrontare l’assistenza», commenta Susanna Ligato, 48 anni, impiegata part-time per seguire il figlio autistico, 17 anni, il maggiore di due ragazzi, terza liceo artistico che frequenta a orario ridotto, un mutuo da 550 euro al mese, il centro di riabilitazione da pagare perché non è convenzionato: «Mi aiutano i miei genitori, 77 e 70 anni. L’angoscia più grande è pensare a cosa succederà quando non ci sarò più io». Chi può permettersi l’avvocato fa ricorso al Tar per ottenere più ore di sostegno. E di solito vince. Ma la scuola non aggiunge mai insegnanti. Per rispettare la sentenza, l’ufficio scolastico regionale si limita a togliere ore ad altri bambini o ragazzi disabili dello stesso istituto. Così i genitori che hanno vinto il ricorso finiscono con il sentirsi in colpa. Perché alla fine, altri alunni perdono l’insegnante di sostegno. Oppure scoppiano discussioni per accapparrarsi un’ora in più. Nessun preside ha la forza di opporsi alla follia di queste soluzioni. Obbediscono alla cieca. Da quando la loro carica dipende da un contratto triennale, chi protesta mette a repentaglio la sua qualifica.

O IL TAXI O LA VITA

I tagli non risparmiano nemmeno il diritto al lavoro. A Torino il Comune ha diminuito la spesa per i buoni taxi. Un punto di eccellenza che garantiva alle persone con disabilità motoria la possibilità di andare a scuola, in ufficio, a fare visite mediche. La copertura è stata ridotta a un massimo di 4 euro a corsa. Con il traffico delle ore di punta, significa un minimo contributo su un totale di 25 – 30 euro al giorno. «È un balzo indietro di una trentina d’anni», osserva Andrea Ginestri, 47 anni: «La cosa più grave è che alcuni disabili abbiano preso in considerazione l’ipotesi di licenziarsi. Chi ha un impiego part-time, riterrebbe più conveniente licenziarsi perché gran parte del suo compenso verrebbe spesa in taxi». A Torino come nel resto d’Italia le barriere architettoniche sono fuori legge. Ma spesso al taxi non ci sono alternative.

MANCANO LE STRUTTURE

Il trasporto è ugualmente un dramma per Concetta Drago, 46 anni, insegnante, che quest’anno scolastico appena cominciato non sa come far arrivare in classe la figlia colpita da osteogenesi imperfetta, 16 anni, terza liceo linguistico: «Abitiamo in un piccolo paese della Sicilia e», racconta, «la scuola di mia figlia è a 40 chilometri, a Sant’Agata Militello. Ci hanno spiegato che con la prevista abolizione delle province, quella di Messina non ha rifatto il bando per l’appalto del trasporto. Tutti i paesi di qui sono nella stessa situazione. Intanto abbiamo cominciato a portarla noi ogni giorno. Mi sta aiutando mia madre, ma ha settant’anni e non potrà farlo sempre. Mia figlia è ben inserita, completamente dedita allo studio. Si muove su una carrozzina e no, è impossibile servirsi dei pullman di linea. Li dovrebbe vedere».
A Cerignola, provincia di Foggia, la cooperativa che trasporta i disabili al centro diurno di Andria, 92 chilometri tra andata e ritorno, vanta un credito di 11 mesi di arretrati da parte del Comune e 14 mesi da parte della Asl. Pochi giorni fa si è trovata una copertura temporanea delle spese e soltanto per questo il servizio non è stato sospeso. «Per le luminarie della festa patronale però il Comune i soldi li ha trovati, per questo ci siamo arrabbiati», protestano i disabili di Cerignola e dintorni. La lista dei paesi italiani nelle stesse condizioni è lunga. Un altro esempio è Catania: il Comune ha ridotto il contributo per il trasporto scolastico degli alunni disabili dai 6,69 euro al giorno del 2006 ai 2,28 del 2012. Il resto della spesa lo devono aggiungere i genitori. Oppure Ginosa Marina, provincia di Taranto, dove Biagio, 27 anni, è bloccato a casa senza poter svolgere alcuna attività: «Utile quanto meno ad avere un lieve miglioramento nel linguaggio e nel fisico. I genitori impegnati ad accudire Biagio 24 ore su 24», racconta una parente: «sono sempre stati troppo poveri per agire privatamente e le strutture sono quasi inesistenti. A scuola non è mai stato seguito seriamente. La struttura per disabili più vicina è a 25 chilometri. Il papà, manovale saltuario, ha chiesto di poter usufruire di un servizio navetta. Ma da quel “le faremo sapere” è trascorso tanto tempo e il telefono non squilla mai».
«Come risultato ai tagli», racconta Maria Simona Bellini, 56 anni, di Roma, «si è attivato un meccanismo perverso attraverso il quale ci viene consigliato di rinchiudere i nostri cari in istituto. Cioè per non sostenere i mille euro al mese di assistenza domiciliare, gli enti preferiscono spendere 700 euro al giorno in istituti privati per non autosufficienti. Dietro alla lobby delle cliniche e delle cooperative c’è un forte bacino di interessi e di voti. Il meccanismo delle cooperative è diabolico. Per mia figlia il Comune di Roma spendeva 1.500 euro al mese per 12 ore settimanali di assistenza a casa. Ora che ci occupiamo noi dei contratti, 20 ore a settimana costano al Comune 700 euro al mese. È una forma di assistenza prevista dalla legge. Ma viene concessa solo se si minacciano denunce e ricorsi. Gli uffici preferiscono far passare tutto attraverso i loro appalti con le cooperative. Immaginate voi il perché».

INDENNITÀ BLOCCATE

Maria Simona ha ottenuto un contratto di telelavoro per stare accanto alla figlia di 25 anni e al marito, 57 anni, invalido dal 2007 dopo un aneurisma. «La vita non smette mai di metterti alla prova», dice lei: «Mio marito è prigioniero in casa. Ha una pensione di invalidità civile, 270 euro con cui dovrebbe vivere. L’hanno fatto rivedibile ogni due anni. A gennaio ha passato la visita. Ma a febbraio, alla scadenza, l’Inps gli ha bloccato l’indennità. Succede a tutti, giovani e anziani. Ogni due anni. Riprendono a erogartela dopo sei, sette mesi. Per qualcuno anche diciotto. Una vessazione. Per fortuna ci aiutano i suoi genitori anziani. Altrimenti non saprei come fare». Parafrasando “Germania anni Dieci”, l’ultimo libro del grande giornalista tedesco Günter Wallraff (L’Orma), sono i più anziani la stampella di questa Italia anni Dieci. Ma quanto può durare?

in solidarietà alle ‘ragazze al volante’

ragazze al volante

un piccolo grande gesto, una sfida delle ‘ragazze al volante’ ad un regime autoritario e oscurantista, destinato a dare frutti molto più ampi

così la bella riflessione di M. Serra (congiunta ad un bel video) ne l’ ‘amaca’ odierna:

Mette allegria, mette energia la coraggiosa ribellione delle saudite al volante. Siamo così immersi nella nostra piccola palude nazionale da dimenticarci che a pochissima distanza da noi, praticamente appena fuori dall’uscio, c’è un luogo chiamato “mondo”. E nel mondo succedono tante cose formidabili e importanti. Per esempio questa sfida a una delle tante amputazioni che le femmine non vogliono più subire. Non è un dettaglio, se pensate che la libertà di movimento determina la felicità degli umani quanto la libertà di parlare, di lavorare, di amare chi si preferisce amare, di scegliere il proprio destino. Il comunismo sovietico è caduto, prima ancora che per la sua penuria di beni, e di libertà individuali, per l’odioso divieto di viaggiare, muoversi, cambiare città, paese, vita. La potenza simbolica della caduta del Muro dipendeva dalla fine, tanto attesa, di quella assurda gabbia.
Festeggiamo dunque quelle ragazze (di ogni età) al volante. Sentiamole nostre sorelle. Rischiano qualcosa, forse rischiano molto, ma hanno da perdere, come si dice classicamente, soltanto le loro catene. E non perdetevi l’eccellente video satirico (di un maschio saudita, l’artista Hisham Fageeg) No woman no drive (clicca qui) , che sta facendo il giro del mondo. È un piccolo capolavoro.

Aung San Suu Kyi: “ la mia rivoluzione della gentilezza”

La nobel che ha sconfitto la paura

“Aiutateci a essere liberi” : l’appello di Aung San Suu Kyi la Nobel che ha sconfitto la paura

La pasionaria birmana a Roma: gelati e l’abbraccio con Baggio. Il colloquio.

le riflessioni di Concita de Gregorio:

«Bello. È tutto rimasto intatto». Quarant’anni dopo Aung San Suu Kyi torna ad affacciarsi su Roma di notte. I Fori, il mercato di Traiano. Era una studentessa ad Oxford, allora. Una ragazza. Oggi è premio Nobel per la Pace, vent’anni quasi ininterrotti di arresti domiciliari, le vessazioni e gli attentati di un regime che ha cercato di eliminarla senza riuscire a farlo, senza poterlo fare. La vita che le è scivolata di mano mentre la teneva salda sulla rotta di un’idea, di un compito arrivato in dote dalla famiglia e dalla coscienza e dalla storia, il marito morto lontano senza che potesse salutarlo, i figli bambini e poi ragazzi via da lei altrove. La cupola di San Pietro, a sinistra il Gianicolo. «Mi ricordo i gelati, buonissimi, che compravo per strada. Sono ancora buoni i gelati? ». Sorride. Le dicono che per anni — durante la prigionia in Birmania — la sua foto, il suo volto è stato uno stendardo sulla facciata del Campidoglio. Sorride più forte, inclinando la testa adorna di rare roselline gialle. Significa grazie. Ma no, dice: «Non ho fatto sacrifici».

«NON ho mai pensato né penso a me stessa come ad una persona che si sia sacrificata. In verità non ho fatto niente di particolare, solo una cosa semplice: ho scelto una strada e l’ho seguita, tutto qui. Il coraggio non c’entra. È stata una decisione». Tranquillissima, elegante nella camicia di seta crema abbottonata fino al collo, diritta come se fosse intelaiata su fil di ferro, gentile. Solo — di unico — quella fermezza nello sguardo, una specie di durezza inflessibile, implacabile, inevitabile. Anche lei intatta, identica alle sue foto di dieci venti trent’anni fa divenute simboli ai quattro angoli del globo: una piccola donna fatta solo di muscoli e ossa, i capelli ancora corvini adornati di fiori che lei stessa intreccia ogni mattina, un’odissea trovare stamani proprio quelle roselline gialle e crema, a Roma. La gonna tradizionale lunga fino ai piedi, color caffè. La pelle tesa, lo sguardo fermo. Non mi sono sacrificata, ho scelto. La cena in suo onore, sulla terrazza del Campidoglio, è l’epilogo della celebrazione in cui il sindaco Ignazio Marino le consegna la cittadinanza onoraria che le fu attribuita da Rutelli, il premio Roma per la pace che le fu assegnato da Veltroni negli anni della sua carcerazione. Tutti presenti, gli ex sindaci, per sovrapprezzo anche Carraro. Tutti sugli scranni tranne Alemanno che non è venuto. C’è Emma Bonino che le è amica, la bacia, oggi la riceve alla Farnesina. C’è Baggio il calciatore che su indicazione di Aung San Suu Kyi ritirò i premi per lei quando lei non poteva e che la incontra ora per la prima volta, emozionatissimo, le da del tu, le consegna i video girati in questi anni e lei chiede, proprio come una fan: ma i suoi gol ci sono? Perché io vorrei vedere i suoi gol. Poi, sembra una ragazzina, si rivolge alle autorità — il rabbino alla sua sinistra, il ministro, i sindaci ed ex sindaci — e dice: quando mi avete assegnato la cittadinanza e il premio ho pensato a Baggio, perché nel mio paese Roberto Baggio è l’italiano più amato fra i giovani, tutti lo conoscono, e io non lo conoscevo ma mi son fatta raccontare da loro, dai giovani, chi fosse e perché lo amassero e così l’ho amato anche io. Si baciano, corre una lacrima, parlano del Dalai Lama. I giovani, le donne. «Il futuro del mio paese, ma forse di tutti i paesi, è soprattutto nelle mani delle donne e dei ragazzi». Parla veloce, dice che i diritti sono ancora molto lontani da venire, che certo la battaglia per i diritti delle donne «è fondamentale, perché le donne hanno nel corpo e nella memoria la forza delle cose, ma anche gli uomini, anche degli uomini abbiamo a cuore i diritti, e vogliamo che sappiano che quando avremo conquistato i nostri saremo gentili con loro, non devono avere paura di noi». Sorride ancora di quel sorriso antico dovuto e inflessibile. Dice che ogni gesto è importante, «ogni persona, ogni singolo gesto di ogni singola persona, anche quello minuscolo come un granello di sabbia». Adesso il suo lavoro è per cambiare la Costituzione, in Birmania. «La costituzione più difficile al mondo da cambiare, ci vorrà il voto anche dei militari, ma con la consapevolezza dell’opinione pubblica e con la pressione del mondo intero ce la faremo. Usate la vostra libertà che è immensa per aiutare la nostra, che è giovane e fragile». Poi dice una cosa enorme, che parla davvero a ciascuno di noi, noi che godiamo di una libertà immensa. Dice «lottare contro la paura e l’odio non basta, bisogna comprendere le ragioni di chi odia e di chi ha paura. Nessuno può giudicare nessun altro con superiorità. Nessuno può dubitare della dignità delle idee diverse dalla propria. Bisogna ascoltarle, capirle, discuterle. Bisogna lavorare insieme per una meta comune, non contro qualcuno per imporre una visione propria». A Ignazio Marino ha portato in dono una piccola scatola d’argento che custodisce incensi e oli profumati. Per strada, lungo la visita ai Fori, si ferma a respirare il profumo di tre rose. Si avvicina a Baggio per vedere dappresso la luce del suo orecchino, vorrebbe toccarlo. Al rabbino che cena con un suo diverso menù chiede di assaggiare dal piatto le pietanze. Le piccolissime cose, come un filo di acciaio invisibile teso nella storia e nel tempo. Al cospetto di Marco Aurelio un apprezzamento femminile, compiaciuto: «È più bello di Costantino, effettivamente». Ma è un attimo. Ancora nei Musei riprende la perorazione per la causa del policlinico di Rangoon, l’ospedale più importante del suo paese. «Vorrei che mandaste medici, giovani ricercatori, vorrei che ci aiutaste a farlo crescere». Marino, medico prima che sindaco, si impegna in pubblico. Qualcuno, sulla terrazza, le chiede cosa sia cambiato col Nobel. «Per me personalmente non saprei dirlo, né d’altra parte credo sia rilevante. Di me, della mia persona, cosa può importare? Cambia il senso che si dà alla libertà, al diritto di avere diritti, alla storia dei popoli». E di suo padre, oppositore al regime ucciso quando lei aveva due anni, sente di portare l’eredità? «Non sento il peso del passato, sento quello del futuro. Mio padre è mio padre, ma è del mio popolo che sento di essere figlia. Della mia gente. È per loro che sono qui a Roma oggi, cittadina romana cioè del mondo intero. Per chi verrà, per i neonati di Rangoon e delle mie campagne. Per chi ha la vita davanti, non per chi è già stato».

Da La Repubblica del 28/10/2013.

tragedia lavoro

Allarme lavoro:

6 milioni  a casa disoccupati e sfiduciati

Le persone potenzialmente impiegabili nel processo produttivo sono oltre 6 milioni, se ai 3,07 milioni di disoccupati si sommano i 2,99 milioni di persone che non cercano ma sono disponibili a lavorare (gli scoraggiati sono tra questi), oppure cercano lavoro ma non sono subito disponibili. E’ questa la fotografia scattata dall’Istat nelle tabelle sul II trimestre 2013.

Nel secondo trimestre 2013 – secondo la tabella sulle ‘forze lavoro potenziali’ – c’erano 2.899.000 persone tra i 15 e i 74 anni che pur non cercando attivamente lavoro sarebbero state disponibili a lavorare (con una percentuale dell’11,4% più che tripla rispetto alla media europea pari al 3,6% nel secondo trimestre 2013). A queste si aggiungono circa 99.000 persone che pur cercando non erano disponibili immediatamente a lavorare.

Nel primo gruppo, ovvero gli inattivi che non cercano pur essendo disponibili a lavorare, ci sono quasi 1,3 milioni di persone ‘scoraggiate’, ovvero che non si sono attivate nella ricerca di un lavoro pensando di non poter trovare impiego.

Trovare un lavoro resta una chimera soprattutto al Sud e tra i giovani: su 3.075.000 disoccupati segnati nel secondo trimestre 2013 quasi la metà sono al Sud (1.458.000) mentre oltre la metà sono giovani (1.538.000 tra i 15 e i 34 anni, 935.000 se si considera la fascia 25-34 anni). Se si guarda alle forze lavoro potenziali il Sud fa la parte del leone con 1.888.000 persone sui 2.998.000 inattivi potenzialmente occupabili.

Se si guarda alla fascia dei più giovani sono potenzialmente occupabili nel complesso (ma inattivi) 538.000 persone tra i 15 e i 24 anni e 720.000 tra i 25 e i 34 anni con una grandissima prevalenza di coloro che non cercano pur essendo disponibili a lavorare. L’Istat infine individua nell’area della ”sotto-occupazione” nel secondo trimestre 2013 circa 650.000 persone mentre oltre 2,5 milioni di persone sono occupati con un ‘part time involontario’, in crescita di oltre 200.000 unita’ rispetto allo stesso periodo del 2012.

“rom ‘biondo’ di carnagione chiara”: parla un rohttp://www.padreluciano.it/wp-admin/plugins.phpm abruzzase dopo il caso della ‘bimba bionda’

bimba bionda

si è fatto un gran parlare nei giorni scorsi a proposito del ‘caso’ della ‘bimba bionda’ non figlia ‘biologica’ dei ‘genitori’ subito definiti ‘rapinatori’, soprattutto un gran sparlare conseguente ad assoluta non conoscenza della realtà rom e soprattutto a quasi compiaciuta ripetitività dei peggiori pregiudizi che ogni volta infangano in modo sempre più irrecuperabile l’immagine del popolo rom, anche dopo le prevedibili, rituali e scontate correzioni di tiro dei mezzi di comunicazione a breve distanza temporale dal lancio di notizie incontrollate.

di seguito le parole di un rom abruzzese, Nazzareno Guarnieri, che si autodefinisce ‘rom di carnagione chiara’, gestore del sito: www.fondazioneromani.it e lui stesso testimone, all’interno della sua stessa famiglia, di qualcosa di simile a quanto vissuto dalla ‘bimba bionda’

Rom “”biondo” di carnagione chiara

Una bambina rom “BIONDA”, di carnagione chiara, è la protagonista del claim della campagna contro il pregiudizio della Fondazione romanì Italia.  (link: http://www.fondazioneromani.it/it/campagna­3r ).
Nelle ultime settimane è scattata la caccia ai bambini rom “biondi” e “carnagione chiara”, presunte vittime di rapimento da parte di famiglie rom. Il pregiudizio falso più antico del mondo  negli ultimi giorni ha ripreso quota: i rom rubano i bambini.
Nelle ultime settimane in tutto il mondo si è parlato di una bambina “bionda” rubata da una famiglia rom in Grecia e l’esame del dna ha accertato che NON erano i genitori biologici. Subito è scattata la psicosi dei bambini “biondi” che non possono essere rom.
In Irlanda la polizia ha individuato la presenza di una bambina rom “bionda” in una famiglia rom, è scattato il pregiudiziale allarme, l’esame del dna ha accertato che la bambina era figlia naturale della coppia rom.
La notizia greca della bambina bionda rubata da una coppia rom ha fatto il giro del mondo e dopo qualche giorno la polizia greca, con una ricerca internazionale, ha trovato i genitori naturali, si tratta di un’altra famiglia rom.  La coppia di rom greci incriminata per rapimento della bimba ha sempre negato l’accusa, sostenendo che la bambina le era stata affidata volontariamente dalla madre che non poteva prendersi cura di lei, e che la richiesta di registrazione presso il comune greco era stata rifiutata.
Chi conosce la realtà rom scopre che a volte,  per diverse motivazioni,  un  bambino  rom    di una determinata famiglia ROM, vive consensualmente e stabilmente in un’altra famiglia ROM, NON per un questione di interessi, ma solo ed esclusivamente per una questione affettiva.
Non è possibile in poche righe spiegare ed illustrare questo dato che sarebbe importante conoscere.   Non è un caso che la Fondazione romanì Italia nell’azione di sistema TRE ERRE abbiamo costruito il progetto ADOZIONE IN VICINANZA, che sarà avviato nell’autunno dell’anno 2014.
Per essere chiaro presento il caso della mia famiglia. Uno dei miei 9 fratelli dopo pochi mesi dalla nascita ha avuto diversi problemi clinici ed è stato costretto alle cure dei sanitari con continui ricoveri in ospedale fino all’età di 4 anni periodo in cui ha iniziato a muovere i primi passi. In tutto questo periodo di malattia mio fratello è stato accudito da due donne rom della mia famiglia allargata che giorno e notte si sono presi cura del suo benessere unitamente ai  miei genitori. Mio fratello con il consenso dei miei genitori ha vissuto con loro per sempre.  I miei genitori non hanno mai abbandonato o venduto il proprio figlio, ma hanno permesso ad altre persone della propria comunità rom di dare ulteriore affetto ed opportunità al proprio figlio. Oggi mio fratello è una persona serena, felice e realizzata.
Le cronache di questi giorni dimostrano quando poco e mal conosciuta sia la realtà romanì a tutti i livelli per l’assenza di una partecipazione attiva e qualificata della popolazione romanì.
Dr. Nazzareno Guarnieri

il biblista p. Pagola commenta il vangelo della domenica

anemoni

CHI SONO IO PER GIUDICARE?

domenica 27 ottobre, 3oa domenica del tempo ordinario
vangelo: Lc 18, 9-14 : il fariseo e il pubblicano
La parabola del fariseo ed il pubblicano normalmente sveglia non in pochi cristiani un rifiuto grande verso il fariseo che  si presenta davanti a Dio arrogante e sicuro di sé, ed una simpatia spontanea verso il pubblicano che riconosce   umilmente il suo peccato. Paradossalmente, il racconto può svegliare in noi questo sentimento: “Io ti ringrazio, perché non sono come questo fariseo.”   Per comprendere correttamente il messaggio della parabola, dobbiamo pensare che Gesù non la racconta per criticare i settori farisei, bensì per scuotere la coscienza di “alcuni che, ritenendosi giusti, si sentivano sicuri di se stessi e disprezzavano gli altri”. Tra questi ritroviamo, certamente, non pochi cattolici dei nostri giorni.   … Il discorso del fariseo ci rivela il suo atteggiamento interiore: “Oh Dio! Ti ringrazio perché non sono come quell’altro”. Che razza di discorso è questo di credersi migliore degli altri?
Un fariseo, fedele alla legge e puntuale nelle sue cose, può vivere in un atteggiamento pervertito. Questo uomo si sente giusto davanti a Dio e, proprio per questo motivo, si trasforma in giudice che disprezza e condanna quelli che non sono come lui. Il pubblicano al contrario, riesce solamente a dire: “Oh Dio! Abbi compassione di questo peccatore”. Questo uomo riconosce umilmente il suo peccato. Non può glorificarsi della sua vita. Si raccomanda alla compassione di Dio. Non si confronta con nessuno. Non giudica gli altri. Vive in realtà davanti a sé stesso e davanti a Dio.   La parabola è una penetrante critica che smaschera un atteggiamento religioso ingannevole che ci permette di vivere davanti al Signore sicuri della nostra innocenza, mentre condanniamo dalla nostra presupposta superiorità morale chiunque non pensa o agisce come noi.   Circostanze storiche e correnti trionfalistiche lontane dal vangelo ci hanno resi specialmente  noi cattolici deboli verso questa tentazione. Per questo motivo, dobbiamo leggere la parabola ognuno di noi in atteggiamento autocritico: Perché ci crediamo migliori degli agnostici? Perché ci sentiamo più vicini a Dio noi che coloro che non si interessano al Signore? Che cosa c’è in fondo a certi discorsi che si fanno in merito alla conversione dei peccatori? Che cosa significa per noi riguardo a come si deve porre riparo ai propri peccati senza vivere convertendosi a Dio?   Recentemente, davanti alla domanda di un giornalista, Papa Francesco fece questa affermazione: “Chi sono io per giudicare un gay?”. le Sue parole hanno sorpreso quasi tutti. Nessuno si aspettava una risposta tanto semplice ed evangelica di un Papa cattolico. Tuttavia, questo è l’atteggiamento di chi vive in realtà d’innanzi al Signore.
José Antonio Pagola
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