p. Maggi commenta il vangelo della domenica

 

p. Maggi

commento, molto bello, al vangelo di domani 27 ottobre, 30a del tempo ordinario: Lc18, 9-14

IL PUBBLICANO TORNO’ A CASA GIUSTIFICATO, A DIFFERENZA DEL FARISEO 

 p. Alberto Maggi

 

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

 

 

“Siate santi perché io sono santo”, questo è l’imperativo, la richiesta del Dio dell’Antico Testamento, e la santità viene intesa come la scalata verso Dio attraverso l’osservanza di regole, di precetti, di comandamenti, di pratiche religiose.

Ebbene stranamente questo invito non appare mai nella bocca di Gesù. Mai Gesù in nessuno dei vangeli chiede: “Siate santi come io sono santo”. Ma Gesù insistentemente e continuamente rivolge l’invito “Siate compassionevoli come il Padre vostro è compassionevole”. Perché tutto questo? Ce lo spiega Luca nella parabola che adesso esaminiamo, il capitolo 18, versetti 9-14, e l’evangelista ci fa vedere il differente orientamento.

Nella santità l’uomo che scala verso la santità, verso Dio – il traguardo è Dio – ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio. Ma chi desidera portare gli uomini verso Dio inevitabilmente fa sì che qualcuno rimanga indietro, altri rimangano esclusi. Ecco la novità di Gesù è stata che lui non ha voluto portare gli uomini verso Dio, la scalata della santità, ma lui ha fatto qualcosa di diverso: ha portato Dio verso gli uomini e se nella scalata verso la santità l’uomo va verso Dio grazie ai suoi meriti (ma non tutti possono o vogliono avere questi meriti), nel fatto che Gesù porti Dio agli uomini, quel che conta non è il merito delle persone, ma il dono d’amore di Dio per tutta l’umanità.

Un Dio che non ama le persone nonostante i loro peccati, ma proprio per questo li ama. Questa è la novità sconvolgente che Gesù ha portato. E Gesù la mette in scena con questa parabola conosciuta come del “Fariseo e pubblicano”, che ha una precisa indicazione iniziale. L’evangelista scrive che Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti – dove giusti significa “a posto con Dio” – e disprezzavano gli altri.

E presenta gli antipodi della società di Israele, il Santo per eccellenza, il Fariseo, la persona che, come dice il nome (Fariseo significa separato), si separa dagli altri attraverso la pratica religiosa, le osservanze, addirittura maniacali, e la persona ritenuta la più impura, la più distante da Dio, il pubblicano, un individuo che, anche se volesse, non può più cambiare quel mestiere che lo rende impuro.

Ebbene il Fariseo in questa preghiera ringrazia il Signore più per sé che per gli altri e cosa presenta al Signore? Presenta al Signore quelli che sono i suoi tentativi di arrivare a lui attraverso le pratiche religiose più degli altri. Dice il Fariseo: “Digiuno due volte alla settimana”, ma il digiuno obbligatorio era richiesto una sola volta all’anno. No, lui fa di più, lui digiuna tutte le settimane e addirittura due volte.

E poi si vanta: “Pago le decime”, le decime sono l’offerta di una decima parte del raccolto e del bestiame al tempio, al Signore, “di tutto quello che possiedo”. Non paga solo per ciò che è prescritto, ma per tutto quello che possiede.

Quindi è una persona che tenta di arrivare a Dio attraverso una pratica incessante e continua, e come vedremo straripante, di osservanze che Dio non ha mai chiesto. Perché Dio non ha mai chiesto queste cose, Dio già attraverso i profeti aveva detto: “Imparate cosa significa Misericordia voglio e non sacrifici”.

Ebbene quest’uomo che vuole andare verso Dio e ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio se ne trova escluso. Perché? Dice Gesù che da lontano c’era un pubblicano, la persona immersa nel peccato fino al collo, che pure osa rivolgere questa preghiera: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, usando la formula imperativa. Cioè gli dice: “Sii benevolo, mostrami la tua misericordia”.

Allora abbiamo da una parte la persona spirituale, ricca della sua santità, che offre i suoi meriti al Signore, dall’altra la persona che non ha nulla da presentare, se non la sua condizione di peccatore, dalla quale, ripeto, non può più venir via e mostra la sua miseria.

Da una parte il merito, dall’altra il bisogno. Ebbene la sentenza sconvolgente, sconcertante di Gesù: “Io vi dico: ‘Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato’ ”. Ricordate che all’inizio Gesù aveva detto che la parabola era per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. E aveva presentato il giusto, il Fariseo, e il disprezzato. Adesso le sorti si rovesciano.

Il pubblicano disprezzato qui diventa giusto. “Tornò a casa sua giustificato”, che significa a posto con Dio, mentre l’altro no. Quella che Gesù ha presentato è una novità che forse ancora non riusciamo a comprendere ma che ci deve spingere a questo imperativo: Il Signore non ci chiede di essere santi, perché la santità separa dagli altri, forse avvicinerà a Dio, ma inevitabilmente allontana dal resto della gente (la santità intesa come osservanza di regole, di pratiche religiose). Gesù ci chiede di essere la carezza compassionevole del Padre per ogni creatura; non amare l’altro per i suoi meriti, ma per i suoi bisogni.

Questo è l’insegnamento della buona notizia di Gesù.

 

 

 

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

M. Palagi su facebook cerca di riflettere sul caso dell ‘bimba bionda’

E ora? Intanto proviamo a capire
bimba bionda

Marcello Palagi, non dopo, a posteriori, passato e risolto positivamente il ‘caso’, ma nel pieno della montatura mediatica che come un ciclone si abbatte impietosamente e acriticamente e in modo generalizzante sul popolo rom, semplicemente riflette, prova a capire, a partire non da un’emotività sgangherata fatta di ripetitività di luoghi comuni colti dagli ambienti più gretti, ma a partire da una conoscenza precisa e puntuale della realtà rom basata su uno studio serio della cultura e vita del popolo rom e dalla sua lunga frequentazione amicale con questo popolo

così su facebook invita a ‘cercare di capire’ (in una ‘sintesi’ intelligente – nel suo significato etimologico – che quando potrà desidereremmo diventasse ‘analisi’ più puntuale e proficua):

Sintetizzo quello che avrei in mente di scrivere sull’argomento e che avevo anticipato nel post scriptum di ieri.
I rom biondi esistono, anche se ovviamente sono minoranza come lo sono tra i non zingari italiani. I rom non rubano i bambini, anche se questa è una leggenda metropolitana difficile da eliminare.
Le famiglie Rom hanno caratteristiche diverse dalle nostre. Ad esempio, quando una donna ha finito di allevare i propri figli e non è più  in grado di farne, in genere si fa dare da una delle figlie, ormai maritate e con figli, o da una nuora,una bambina (mai un maschio) da allevare. Così alleggerisce il peso dell’allevamento dei numerosi bambini a una delle proprie figlie o nuora contemporaneamente si prepara ad avere un aiuto per la vecchiaia da questa nipote.
Nel caso in questione della bambina individuata in Grecia, si può ipotizzare, stando alle cronache dei giornali, che sia stata affidata dalla madre naturale che viene data per bulgara, a dei rom greci, in modo che possano ricevere, per lei, i sussidi dallo stato. Se fosse figurata come bulgara non glieli avrebbero dati. Le difficoltà e reticenze dei due affidatari greci, possono spiegarsi in questo modo, avendo truffato lo stato greco. La cosa non è tipica solo dei rom.
I bambini a Carrara venivano, un tempo, oggi meno, definiti con l’appellativo di “bastardi”, “bastardotti”.  Da dove deriva questa definizione? Dal fatto che le istituzioni, nell’ottocento davano in affido, i bambini orfani o in istituto, a privati che venivano scelti tra i più bisognosi, ad esempio a famiglie di cavatori rimasti infortunati e non più in grado di lavorare, corrispondendo loro una determinata cifra per il mantenimento dei piccoli. Una famiglia cercava di averne in affido il più possibile, per ricavare dal cumulo dei sussidi, anche il proprio mantenimento. Si può immaginare quanto gli affidatari fossero preparati e attenti all’educazione di questi bambini. Lasciati liberi di andare in giro, senza nessun controllo e senza che nessuno se ne preoccupasse veramente, diventavano fastidiosi, indisciplinati e casinisti. Di qui la denominazione negativa di “bastardi”, perchè non avevano genitori noti e spesso erano illegittimi.
Il fenomeno dei bambini di famiglie povere affidati ad estranei che li portavano in giro per chiedere l’elemosina era diffuso dovunque. Basta ricordare, di Dickens, Oliver Twist. Mazzini scrive, indignato, nella sua autobiografia di aver trovato a Londra dei bambini italiani che chiedevano l’elemosina ed erano stati portati in Inghilterra da reclutatori di questo tipo di manodopera. Erano i genitori poveri che, dietro compenso e tanto di contratto, spesso scritto, glieli affidavano per anni. Alla fine dell’Ottocento erano famosi e diffusi anche in America, i bambini “suonatori d’arpa” che partivano anche dalle nostre zone, imparavano, più o meno, a suonare qualcosa e andavano alle dipendenze di un appaltatore a mendicare.
Anche Fenoglio e Nuto Revelli, descrivono fenomeni analoghi di bambini affidati ad altri, e portati in giro a lavorare o a elemosinare, in tempi relativamente recenti (prima metà del ‘900). Io ho avuto un collega, un po’ più anziano di me, che nel dopoguerra ha fatto questa vita. Le famiglie del paese affidavano i loro figli a una donna che li portava  nella campagne, in genere verso Parma a elemosinare cibo. Stavano via settimane, dormivano dove trovavano. In questo caso, non venivano maltrattati, costituivano una specie di cooperativa di fatto, che poi si divideva quanto veniva raccolto. 
Tra i rom è emerso, una quarantina di anni fa, il fenomeno degli “argati”, bambini appaltati in Kosovo, da famiglie rom senza reddito, e portati in Italia o altre nazioni europee, da “affidatari”, non necessariamente rom, a chiedere l’elemosina  (Kusturica gli ha dedicato il film “Il tempo dei gitani”). Oggi, dopo la caduta del muro e il dissolvimento del mondo comunista, è probabile che il posto dei kosovari, sia stato occupato dai bambini più poveri, dai bulgari, dai montenegrini, o chissà chi.
Credo che argomenti come questo vadano compresi, senza fanatismi e in modo laico, ricorrendo alla ragione e alle conoscenze, e non a quello che si è sentito dire.
Chi è povero, emarginato, senza reddito e lavoro, si inventa continuamente metodi per sopravvivere. Non è che si debbano approvare necessariamente, ma cercare di inquadrarli e capirli  nel contesto in cui si manifestano, sì.
I rom non sono dei criminale che rubano bambini, ma uomini e donne che hanno difficoltà a sopravvivere in questa società e in questo periodo di crisi generalizzata  e si ingegnano come possono. Del resto, nei periodi di crisi, la devianza e quindi i crimini aumentano, anche tra i non rom, segno che sono la povertà e il bisogno a determinarli.
Va anche tenuto conto che in Grecia, in questo momento, c’è una diffusa mobilitazione antirom, come risposta alla crisi, come ricerca cioè di capri espiatori su cui scaricare tensioni, frustrazioni e responsabilità che non sono loro. Probabile che se questo caso della bambina bionda fosse emerso qualche anno fa, non avrebbe avuto l’impatto emotivo che ha oggi e non ne avremmo saputo niente in Italia. Come dubito che siano molti quelli che hanno avuto notizia o sappiano qualcosa degli argati, fenomeno che si è verificato in Italia, come ho detto, qualche decennio fa.
Per quanto riguarda il rapimento dei bambini, bisogna avere chiaro che i rom  non rapiscono i bambini. Si tratta di una leggenda metropolitana. Mentre è vero il contrario che moltissimi bambini rom vengono sottratti alle loro famiglie, dai servizi sociali, anche nostri, locali. I rom hanno anche troppi figli, e non si capisce perché dovrebbero procurarsene altri, rapendoli. Nel sito della polizia italiana si leggeva fino a qualche tempo fa, che negli ultimi cinquant’anni non  risultavano bambini rapiti dagli “zingari”. La cosa viene confermata da due importanti ricerche  scientifiche che sono state condotte, su iniziativa delle Migrantes, nell’ambito dell’Università di Verona, ma il loro impulso è venuto da una preoccupata discussione in casa mia, perché avevamo constatato, tra persone che hanno rapporti di amicizia o di vita con i rom, che, anche considerando solo la nostra zona, da La Spezia a Pisa, ai rom erano stati portati via, nell’arco di un anno, molti  bambini dai servizi sociali, anche con pretesti inconsistenti. Le due ricerche sono poi state programmate e organizzate, in modo del tutto autonomo rispetto a noi.  La prima, di Sabrina Tosi Cambini, “La zingara rapitrice” ed. Cisu, analizza i racconti, le denunce e le sentenze relativa ai bambini rapiti dagli zingari, come appaiono sulla stampa, tra il 1986 e il 2007. La seconda di Carlotta Saletti Salza, “Dalla tutela al genocidio”, 2 voll, ed. Cisu, chiarisce, ricorrendo all’esame delle sentenze di molti  tribunali dei minori e delle relazioni dei servizi sociali relativi, come e perché, nello stesso periodo (1986 – 2006), alcune centinaia di bambini rom, nel nostro paese, siano stati tolti alle loro famiglie e dati in adozione, sulla base dei pregiudizi correnti, da cui non sono affatto esenti servizi sociali e giudici. Ulteriore conferma, per chi ne avesse voglia, viene dallo studio di Gabriella Petti, “Il male minore. La tutela dei minori stranieri come esclusione”, ed Ombre corte, dove vengono messi sotto accusa impietosa la cultura le ideologie e i pregiudizi dell’assistenza sociale e dei tribunali dei minori, su questa materia, in Italia.

l’ennesimo flop del pregiudizio ‘zingaro ruba bambini’

bimba bionda

Grecia, ritrovata la madre di Maria: “regalata perché non potevo mantenerla”

sono bastati pochi giorni (come del resto anche tutte le altre volte che si è voluto cavalcare) per vedere smontato e miseramente smascherato il pregiudizio del ‘rom ruba bambini: nel frattempo però la m…a messa nel frullatore ha sporcato ancora di più l’immagine che da sempre sporchiamo, permettendoci nei loro confronti le ingiurie più fantasiose, e chi chiederà loro mai scusa in modo minimamente credibile? chi restituirà loro un briciolo di una ‘stima sociale’ (si fa per dire!) perduta da sempre?

Maria risulta non essere la figlia biologica dei genitori rom che la tenevano in casa

È una donna bulgara di 35 anni il genitore biologico della bambina bionda che viveva con i rom 

Rintracciata la vera madre della piccola Maria, la bambina di circa cinque anni bionda e con gli occhi verdi ritrovata la settimana scorsa in un campo rom nella Grecia centrale e risultata non essere figlia biologica dei coniugi che la tenevano in casa insieme con un’altra dozzina di ragazzini. Lo riferisce l’edizione online del quotidiano Kathimerini citando fonti giornalistiche bulgare. La madre biologica di Maria sarebbe Sasha Ruseva, 35 anni, di nazionalità bulgara.  

 

«Abbiamo lasciato la piccola Maria in Grecia perché non avevamo da mangiare, non avevamo lavoro e non potevamo curarci anche di lei. L’abbiamo regalata, l’abbiamo lasciata senza prendere un soldo». Così Sashka Russev, la mamma di Maria -la bimba ritrovata in un campo rom in Grecia, racconta all’agenzia bulgara Bgnes perché ha dovuto abbandonare sua figlia, dopo essere scoppiata in lacrime davanti alle immagini della bimba in televisione. «Avevo intenzione di tornare e di portare via con me la bambina, ma nel frattempo ho avuto altri due figli e quindi non ho potuto farlo», ha raccontato la donna all’emittente televisiva.  

 

Ha inoltre insistito molto sul fatto di non essere stata pagata dalle persone che hanno accolto la neonata in Grecia. La polizia della Bulgaria non ha voluto commentare la notizia.La famiglia Russev ha dieci bambini dei quali cinque sono albini e, secondo il cronista di Bgnes, assomigliano molto alla piccola Maria. Sashka e il marito Atanas sono stati interrogati dalla polizia di Nikolaevo. 

 vedi anche i due link qui sotto:

+ Grecia, una coppia rom incriminata per il rapimento della piccola Maria 

+ Maria, nei guai gli impiegati che hanno rilasciato il certificato di nascita

 

immigrati: retorica della solidarità e terzomondialismo o necessità?

lampedusa

a partire da un saggio di L. Manconi e V. Brinis sull’immigrazione – ‘accogliamoli tutti. una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati, il saggiatore –  condotto tutto al di là del ‘buonismo’, due articoli interessanti su questo problema, il primo di G. Lerner su ‘la Repubblica’, il secondo di A. Coppola su ‘il Corriere della Sera’, ambedue convergenti sul superamento della repressione che vede come prima finalità del governo il presidio delle frontiere, il respingimento o l’espulsione degli irregolari, e nell’accettare come necessaria la convivenza interetnica, ancorché faticosa, talora dolorosa, comunque la sola via per evitare il conflitto razziale indicato da tutti gli scienziati sociali (qui sotto i due articoli):

Immigrazione: barcone in difficoltà, persone in mare

Porte aperte L’Italia si salverà solo con gli stranieri

di Gad Lerner

in “la Repubblica” del 24 ottobre 2013

Accogliamoli tutti, gli immigrati. Ma siamo matti? Il titolo del pamphlet di Luigi Manconi e Valentina Brinis a prima vista sembrerebbe un’astuzia dell’editore, escogitato per turbare i benpensanti: Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati (il Saggiatore, pagg. 115, euro 13). Gli autori stessi, però, ci invitano a non cadere nella trappola. Accogliamoli tutti, con le dovute precauzioni, va preso alla lettera. La loro è tutt’altro che una provocazione estremista: si tratta di governare un flusso epocale, altrimenti lacerante. Tanto meno è un richiamo ai buoni sentimenti. Anzi. Se una precauzione innerva il saggio di Manconi e Brinis, non è certo quella di solleticare l’ostilità dei prevenuti, ma semmai di non figurare predicatori di bontà o, peggio, “buonisti”: l’orrendo neologismo abusato da anni nel dibattito pubblico sull’immigrazione, funestato dalla diffidenza e dal rancore. Manconi e Brinis enumerano le cifre avvilenti di una demografia che sembra destinare inevitabilmente l’Italia a trasformarsi in «una comunità sfilacciata e depressa, bolsa e senescente, incapace di innovazione e di invenzione». Fanno impressione, queste cifre: il censimento del 2011 registra circa 15.000 persone che si trovano nella fascia d’età 100-105 anni. Sono più di mezzo milione gli ultranovantenni. Complessivamente, gli italiani con più di 65 anni rasentano i 13 milioni. Invece i nostri vicini di casa, le popolazioni che abitano la sponda Sud del Mediterraneo, sono composte per quasi la metà di giovani al di sotto dei 25 anni. Prescindere da tale contrasto oggettivo sarebbe solo un’ingenua rimozione: qualsiasi modello di società futura implica un governo razionale dei flussi migratori, finalizzato, per quanto ciò sia possibile, a una loro ordinata integrazione. Nessuna “mielosa retorica” dell’accoglienza, dunque. Anche perché gli immigrati «non mostrano alcuna voglia di correre in nostro soccorso». Gli ostacoli frapposti in Italia all’instaurazione di contratti di lavoro regolari, ai ricongiungimenti familiari e alla continuità dei permessi di soggiorno, perpetuano una condizione servile e ne scoraggiano la stabilizzazione. Li abbiamo incoraggiati a sentirsi estranei. Più realisticamente, si tratta quindi di disinnescare il cortocircuito tra lo stato di marginalità in cui sono ridotti troppi immigrati; e la reazione deviante, irregolare, talora criminale che questa loro marginalità provoca. La ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, che firma l’introduzione del pamphlet, trae la conseguenza politica di questo ragionamento: «Ai fini della sicurezza, fanno più i diritti della repressione». In altre parole, come scrivono Manconi e Brinis, «un’accoglienza dignitosa riduce significativamente insidie e minacce». Dunque è a fini utilitaristici — per il “nostro” bene — e non sulla base di un impulso di generica solidarietà, che va radicalmente capovolta la politica fin qui seguita in materia di immigrazione. Assumere come prima finalità dell’esecutivo il presidio delle frontiere, il respingimento o l’espulsione degli irregolari, è risultato miope oltre che velleitario. Ormai lo sappiamo. L’Italia, d’intesa con l’Unione Europea, deve pianificare con lungimiranza quegli ingressi che finora si è limitata a subire. Da sei mesi Manconi è presidente della Commissione diritti umani del Senato, ma gli argomenti proposti sotto la voce Accogliamoli tutti sono di natura empirica, piuttosto che giuridica. Comunque mai ideologici. Qui si esprime il sociologo da vent’anni impegnato nella rilevazione dei comportamenti delle comunità locali costrette a fare i conti con l’immigrazione. Siamo un paese che già oggi non potrebbe fare a meno dei suoi quasi 5 milioni di stranieri residenti, l’8% della popolazione. Basti pensare che vengono dall’estero il 77,3% dei (delle) badanti. Più della metà degli addetti alle pulizie. Più di un quarto dei lavoratori edili. Quasi un terzo dei braccianti agricoli. Se dunque possiamo considerare paradossali, retoriche, le domande poste da Manconi e Brinis — ci conviene espellerli? E se andassero via tutti? E se non venissero più? — ben più concreta appare

l’incognita che pende sul nostro futuro: è proprio inevitabile che a pagare il prezzo della faticosa integrazione degli stranieri debbano essere sempre e comunque i più poveri fra gli italiani? Benché il libro sia disseminato di numerosi esempi di integrazione riuscita nelle comunità locali, avvenuta spontaneamente o più di rado guidata da amministratori capaci, non c’è dubbio che il non governo del flusso migratorio ha alimentato un contrasto fra svantaggiati. Risultato peraltro conveniente ai soliti ben noti attori politici. Né la legge Turco-Napolitano del1998, né tanto meno la Bossi-Fini del 2002 hanno consentito la pianificazione armonica dei flussi d’ingresso, orientandoli nella ricerca di lavoro regolare e di soluzioni abitative razionali. Per questo Accogliamoli tutti si conclude proponendo non solo l’abrogazione del reato di clandestinità, ma anche l’introduzione del visto d’ingresso per ricerca di occupazione; in luogo dell’irrealistica pretesa della normativa vigente, secondo cui l’incontro fra domanda e offerta di lavoro dovrebbe realizzarsi (chissà come) nei paesi d’origine. Nessuna faciloneria. Nessuna celebrazione delle virtù del multiculturalismo. Il libro prende in esame anche i nodi più difficili da sciogliere in materia giuridica, come la poligamia e la mutilazione genitale femminile. Fenomeni certo ultraminoritari che necessitano di una gestione coerente con il nostro diritto, ma al tempo stesso finalizzata alla riduzione del danno. Per esempio la Coop ha risolto il problema della macellazione rituale della carne halal dopo un confronto con la Lega italiana antivivisezione: d’intesa con le comunità islamiche, si procede allo stordimento elettrico preventivo dell’animale da macellare, garantendo così la “convivenza dei valori”. Con la buona volontà, le mediazioni si trovano. Purché si riconosca che stiamo costruendo un nuovo modello sociale di cui l’immigrazione sarà componente vitale, non marginale. Lo Stato moderno europeo costruì quattro secoli fa il suo apparato repressivo nella lotta al vagabondaggio e nel contenimento dei pericoli sociali della miseria. Ma la distinzione fondata allora fra i “nostri” poveri da segregare e/o proteggere, mentre i poveri “forestieri” erano semplicemente da cacciare, non regge più le dinamiche della geopolitica e della demografia. Ne consegue, come scrive la Kyenge, che l’immigrazione deve farsi «progetto»; perché senza di essa non c’è ripresa né «risorgimento». Accogliamoli tutti è proposta che sgomenterà una classe politica sprovvista di visione storica, sballottata negli anni scorsi nell’oscillazione fra la pietà e lo spavento delle emozioni popolari. Temo che non sia pronta a discutere queste ragionevoli proposte per salvare gli italiani e gli immigrati. Perfino dopo la tragedia di Lampedusa abbiamo sentito ministri riproporsi portavoce di una funzione di mero contenimento; fingendo di ignorare che, mentre loro facevano la faccia feroce, in Italia si estendevano aree di irregolarità e marginalità. Inutili sentinelle di guardia a un bidone.

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO

Manconi: perché conviene accogliere i migranti

di Alessandra Coppola

in “Corriere della Sera” del 24 ottobre 2013

Il tempismo è perfetto. A tre settimane dal più spaventoso dei naufragi nel Mediterraneo, nel pieno della discussione sul reato di clandestinità e sulla legge Bossi-Fini, esce per il Saggiatore un pamphlet dal titolo dirompente: «Accogliamoli tutti» (120 pagine, 13 euro). Spiazzante poi nel sottotitolo: «Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati». A firmarlo sono in due: il parlamentare del Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato, e la sociologa Valentina Brinis, direttrice del sito italiarazzismo.it . Lui presidente lei ricercatrice della Onlus «A Buon Diritto». Una provocazione? «No, non è quello l’intento. Direi che è un libro licenzioso e saggio», sorride il senatore. All’apparenza «audacissimo», nel suo sviluppo «si affida interamente a dati demografici, economici e sociali». Una scossa a un dibattito imbrigliato dalle ideologie, dalle reazioni di pancia e dai buonismi, sulla scorta di un’analisi saldamente fondata sulle leggi, sulle ricerche scientifiche, sui numeri. Gli autori la materia la conoscono. Luigi Manconi da tempo. Nel testo fissa una data autobiografica: Sassari, autunno del 1988, l’incontro con un venditore africano dal barista ribattezzato col cognome locale «Carboni», in un tentativo spontaneo d’integrazione. «La società italiana ha risposto all’immigrazione con una inesausta capacità di adattamento intelligente e razionale — riflette —. Ma ciò che ora serve, e che finora è stata debolissima, è la politica: quella centrale e quella locale. Una politica che abbandoni definitivamente l’idea dell’immigrato o del richiedente asilo come un nemico o una minaccia sociale». Governare il fenomeno con una visione di più ampio orizzonte, allora. E da subito, indicano gli autori, abrogare il reato di clandestinità, superare le barriere dei flussi con l’introduzione del visto d’ingresso per ricerca di occupazione. La solita bontà della sinistra? Per nulla: «Noi non vogliamo affatto bene agli immigrati», scrivono Manconi e Brinis, di nuovo sul filo della provocazione. «Nessuna retorica della solidarietà, nessun terzomondialismo — spiega il senatore —. La convivenza interetnica è necessaria, sempre faticosa, talvolta dolorosa, ma è la sola via. L’alternativa è il conflitto razziale». Lo indicano le cifre, lo confermano gli scienziati sociali: «Favorire la regolarizzazione degli immigrati, garantire loro i diritti di cittadinanza, incentivare l’integrazione è la condizione necessaria perché ci siano più sicurezza e più benessere per tutti, anche in tempo di crisi». Sono sempre gli studi a certificarlo: quando hanno i documenti e una condizione stabile, gli stranieri delinquono meno degli autoctoni. I demografi aggiungono che gli italiani invecchiano (12 milioni gli over 65enni nel Paese): una trasfusione costante di energie diventa indispensabile. E a leggere i testi di economia si scopre che, se la disoccupazione italiana cresce più di quella straniera, è perché il nostro sistema produttivo è vecchio, inadeguato, e ha ancora bisogno di lavoratori sottopagati, poco qualificati, spesso sfruttati. Come sono i migranti. Quel titolo così provocatorio, allora, «intende ribaltare stereotipi e luoghi comuni — conclude Manconi —. E vuole evidenziare il senso di una proposta politica e culturale che, in apparenza, è radicale ma che, nei fatti, si rivela assai equilibrata. E corrisponde alle esigenze del nostro sistema economico e sociale, ai problemi posti dal calo demografico e dal bisogno di nuova forza lavoro che manifestano importanti settori produttivi». Accogliamoli tutti, in sostanza, perché ci conviene.

Papa Francesco ai detenuti: “Ingiustizie per i più deboli, i pesci grossi sono in libertà

 

 

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

“Dio è un carcerato dei nostri sistemi”, ha detto il Pontefice ai cappellani delle carceri italiane, invocando una “giustizia di speranza e di porte aperte”.

Anche Dio è un carcerato, non rimane fuori dalla cella”. Papa Francesco affronta il tema dell’emergenza carceri. Prima dell’udienza generale in piazza San Pietro, il Pontefice parla a braccio davanti ai circa 200 partecipanti al Convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane promosso a Sacrofano, nei pressi di Roma, sul tema “Giustizia: pena o riconciliazione. Liberi per liberare”. Anche Dio “è un carcerato – ribadisce Francesco – dei nostri egoismi, dei nostri sistemi, delle tante ingiustizie che è facile” applicare “per punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano liberamente nelle acque”.

E’ probabile che nella data del 14 novembre il Papa salirà al Colle per incontrare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel messaggio alle Camere ha ribadito la necessità di amnistia e indulto per far fronte al sovraffollamento delle carceri. L’incontro, fanno sapere in Vaticano, è “molto probabile” che avvenga per quella data. Il capo dello Stato aveva reso visita ufficiale al Papa l’8 giugno, poche settimane dopo l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio. Tradizionalmente i papi non hanno mai mancato di andare in visita al Quirinale nei mesi successivi all’elezione.

Il Papa ha rivolto un messaggio ai carcerati. “Per favore – ha detto Bergoglio ai cappellani- dite che prego per loro: li ho a cuore. Prego il Signore e la Madonna che possano superare positivamente questo periodo difficile della loro vita. Che non si scoraggino, non si chiudano”. Il Papa Francesco si augura una “giustizia di speranza e di porte aperte”.  ”Non è una utopia”, ha detto Bergoglio. “Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, – ha commentato – si può fare, non è facile perché le nostre debolezze ci sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, le tentazioni, ma si deve tentare, vi auguro che il Signore sia con voi e la Madonna vi custodisca, la madre di tutti voi e di tutti loro in carcere”.

“Quando telefono a detenuti mi chiedo ‘Perché non io?’, racconta il Papa ai cappellani. “Qua, ogni volta chiamo qualcuno di quelli di Buenos Aires che conosco, che sono in carcere, la domenica, e faccio una chiacchiera. Poi, quando finisco, penso: ‘Perché lui è lì e non io, che ho tanti e più meriti di lui per stare lì?’. E quello mi fa bene, eh? Perché lui è caduto e non sono caduto io? Perché le debolezze che abbiamo, sono le stesse e per me è un mistero che mi fa pregare e mi fa avvicinare a loro”. Così il Pontefice ai cappellani delle carceri italiane, durante l’incontro di questa mattina.

La sedicenne di Modena che ci svela il nostro abisso

nel bicchiere

un bel commento di Concita De Gregorio sulla violenza di gruppo su una sedicenne da parte dei suoi amici  avvenuto a Modena in un contesto di festa di gente ‘bene’:

Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco, non è nemmeno un gioco

di CONCITA DE GREGORIO

Ce l’avete, ce l’avete avuta una figlia di sedici anni? Che si veste e si trucca come la sua cantante preferita, che sta chiusa in camera ore e a tavola risponde a monosillabi, che quando la vedete uscire con il nero tutto attorno agli occhi pensate mamma mia com’è diventata, ma lo sapete, voi lo sapete che è solo una bambina mascherata da donna e vi si stringe il cuore a vederla uscire fintamente spavalda. Dove va, a fare cosa, con chi. Ve li ricordate, i vostri sedici anni? Quando Facebook non c’era e passavate pomeriggi al telefono fisso a dire no, sì, ma dai…, e poi quando vostro padre vi diceva ora basta, libera quel telefono vi chiudevate in camera, anche voi, a scrivere a penna su quaderno ché il computer non c’era, e se c’era era uno solo, enorme, sempre spento, inaccessibile. Ecco, fate lo sforzo di ricordare perché una ragazza di sedici anni è quella cosa lì, da sempre e per sempre anche se cambiano i modi e le mode, i vestiti e le canzoni, i modi di parlarsi perché con la chat si fa più in fretta ma è uguale, in fondo.
È come stare pomeriggi interi al telefono, a canzonare il tempo a prenderlo in contropiede e ingannarlo. Una ragazza di sedici anni è una persona a cui la vita deve ancora succedere e non lo sa, e ha un po’ paura e un po’ fretta, e molto desiderio che passi veloce il momento e che arrivi quello, alla meta dei diciotto, in cui “nessuno mi può obbligare, ora”.
Io non lo so, nessuno lo sa tranne lei e quelli che erano lì, cosa è successo alla ragazzina di Modena che  –  dicono gli investigatori, i parenti, ora anche gli adulti che rivestono incarichi pubblici – una sera d’estate a una festa di compagni di scuola è stata violentata da cinque, sei, non è sicuro quanti amici. Amici, attenzione. Nessun livido, nessun graffio, nessun segno di violenza che segnali la sopraffazione fisica in senso proprio. Erano compagni di scuola. Alcuni maggiorenni da poco, varcata l’agognata meta dei diciotto, altri, almeno uno, no. Aveva bevuto lei, avevano bevuto probabilmente tutti perché come sa chi si guarda intorno gli adolescenti, oggi, bevono. Superalcolici, moltissimo. Costano meno delle droghe, spesso si trovano nelle case già disponibili all’uso. Shortini, alla mescita. Pochi euro a bicchiere, nessuno chiede la carta d’identità. Bevono i quindicenni come i trentenni, uguale.
Io non lo so com’è andata, quella sera, in una casa della più rassicurante delle città emiliane, la Modena delle scuole modello degli imprenditori che non si arrendono al terremoto, delle donne imprenditrici che vendono figurine nel mondo, dei ristoranti celebrati oltreoceano. Uno faceva il palo, scrivono gli agenti di polizia, gli altri a turno nella stanza “avevano rapporti sessuali completi” con la ragazzina. Non c’è niente di più algido di una relazione, niente di meno adatto a descrivere il tumulto, il disordine, lo sgomento, la resa. Lei cosa pensava, come stava, cosa voleva, cosa diceva? Non si sa, nessuna relazione può raccontarlo.
Dicono, i verbali, che erano tutti ragazzi “incensurati e di buona famiglia”. Aggiungono, le cronache, che sono passati quasi due mesi dall’evento e che nessuno  –  nessuno  –  ha fatto un gesto o ha detto qualcosa, né a scuola né in famiglia, nelle molte famiglie coinvolte, che somigliasse alla presa d’atto di un reato, o quanto meno di una vergogna, di una colpa, di un dispiacere. Niente, silenzio. Il sindaco ieri ha detto che “inquieta che questi ragazzi non distinguano il bene dal male”. Inquieta, certo. Pone il problema della responsabilità. È loro, che geneticamente, naturalmente non sanno distinguere o è della generazione che li ha cresciuti, e non gli ha fornito i ferri essenziali per l’opera di elementare distinzione? È dei figli o dei padri, la colpa?
Anni fa, a Niscemi, Caltanissetta, un gruppo di minorenni massacrò di botte, strangolò con un cavo di antenna e gettò in una vasca di irrigazione una coetanea, Lorena Cultraro, 14 anni. Era incinta, rivelò l’autopsia. Uno degli assassini, quindicenne, chiese al giudice, dopo aver confessato l’omicidio: “Ora che le ho detto cosa è successo posso tornare a casa?”. A vedere la tv, a giocare alla play. Tornare a casa. Era il 2008, cinque anni fa. Si scrissero articoli sgomenti, intervennero psicologi di fama, dissero che certo in quelle zone del Paese, al Sud, è tutto più difficile. Zone d’ombra, povertà di mezzi e di sapere, l’adolescenza sempre un enigma. Ora, cinque anni dopo, siamo a Modena. Emilia culla di bandiera di democratica civiltà e di sapere. Certo questa ragazzina non è morta, per sua fortuna. Forse non ha nemmeno lottato per evitare quel barbaro rituale che chissà, magari era proprio quello che l’avrebbe fatta diventare grande, finalmente. Forse per qualche tempo ha pensato: è stato quello che doveva essere.
Però arriverà, deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole senza essere per questo canzonato e dal coro irriso dica no, non è quello che deve, non è questo che devi accettare per essere accettata. Non devi fare silenzio. Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco. Non è nemmeno un gioco.
Verrà il giorno in cui capiremo l’abisso in cui siamo precipitati pensando che fosse l’anticamera del privé del Billionaire, che fortuna essere ammessi all’harem, e sapremo di nuovo dire, come i nostri nonni ci dicevano: è una trappola, bambina. Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l’auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.

 

     

 


 

 

L’ecocidio? Un crimine. L’iniziativa dei cittadini europei

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La distruzione ambientale deve diventare un crimine per il quale le persone colpevoli devono essere ritenute responsabili. Per chiedere che l’ecocidio venga reso penalmente perseguibile in Europa, è stata lanciata dai cittadini europei la campagna “End Ecocide Europe”. L’obiettivo è quello di raggiungere un milione di firme.

La distruzione ambientale deve diventare un crimine per il quale le persone colpevoli devono essere ritenute responsabili. Questo crimine ha il nome di ecocidio, che sta ad indicare quei danni ambientali che stanno distruggendo il nostro pianeta e mettendo a rischio gli esseri umani, gli animali, gli ecosistemi.

Per far sì che l’ecocidio venga riconosciuto come crimine anche dalla normativa nazionale e comunitaria è stata lanciata la campagna “End Ecocide Europe”. Si tratta di un’iniziativa promossa dai cittadini europei per chiedere che venga reso penalmente perseguibile l’ecocidio in Europa, ovvero:

  • che sul territorio europeo sarà illegale commettere ecocidio;
  • che saranno illegali attività commesse da compagnie o cittadini europei anche al di fuori dell’Unione Europea;
  • che le compagnie non europee che commettono ecocidio non potranno vendere i loro prodotti nell’Unione Europea.

Attraverso questa iniziativa si invita dunque la Commissione Europea ad approvare una legislazione che proibisca, prevenga ed ostacoli l’ecocidio, ossia il danneggiamento estensivo, la distruzione o la perdita dell’ecosistema di un determinato territorio.

Potenziali casi di ecocidio possono essere ad esempio le sabbie bituminose di Alberta, la fratturazione idraulica (fracking), lo spianamento delle montagne o lo spopolamento degli alveari.

A sostegno di tali richieste servono un milione di firme. La Commissione Europea sarà a quel punto legalmente obbligata a considerare la proposta di legge di conversione dell’ecocidio in crimine.

È possibile firmare fino a gennaio 2014 sul sito www.endecocide.eu.

Da ilcambiamento.it

‘depaganizzazione’ del papato

Boff
una bella riflessione, questa, di L. Boff che sottolinea che la configurazione che il papato ha assunto storicamente  ha avuto come riferimenti e ispirazione meno il vangelo che contingenze storiche, soprattutto impostazioni imperiali e assolutistiche, del tutto dimentiche del “tra voi non sia così!”
urgentissima quindi una purificazione di questa immagine dai connotati, per tanti aspetti, paganeggianti!
 Papa Francesco e la depaganizzazione del papato
Le innovazioni nelle abitudini e nei discorsi di Papa Francesco hanno aperto una crisi acuta nei gruppi conservatori che seguivano rigorosamente le linee guida dei due Papi precedenti. Per loro è stato particolarmente intollerabile che il Papa avesse ricevuto in udienza privata uno dei promotori della “condannata” Teologia della Liberazione, il peruviano Gustavo Gutierrez. Sono storditi dalla sincerità del Papa, che riconosce gli errori nella Chiesa e allo stesso tempo, denuncia l’arrivismo di molti prelati, qualificando di “lebbra” lo spirito cortigiano ed adulatore di molti al potere, i cosiddetti “vaticanocentrici”.
Quello che veramente li ha scioccati è l’inversione che fa, mettendo al primo posto l’amore, la misericordia, la tenerezza, il dialogo, assieme alla modernità e alla tolleranza con le persone, anche con quelle divorziate ed omosessuali, e solo dopo le dottrine e discipline ecclesiastiche.
Si sentono già le voci più radicali che, con riferimento a Papa Francesco, chiedono per “il bene della Chiesa” (la loro, ovviamente) preghiere di questo tipo: “Signore, illuminalo o eliminalo”. La rimozione di papi scomodi non è una rarità nella lunga storia del papato. C’è stata un’epoca compresa tra 900 e 1000, quella chiamata “era pornocrática” del papato, in cui quasi tutti i papi sono stati avvelenati o uccisi.
Le critiche più frequenti che circolano nelle reti sociali di questi gruppi, storicamente superati e arretrati, accusano il papa corrente di dissacrare la figura del papato, secolarizzandola e rendendola banale. In realtà, essi ignorano la storia e sono ostaggi di una tradizione secolare che ha poco a che fare con il Gesù storico e con lo stile di vita degli Apostoli, ma ha molto a che fare con il lento paganesimo e con la mondanità della Chiesa, col seguire lo stile degli imperatori romani pagani e dei principi rinascimentali.
Le porte a questo processo sono state aperte nell’epoca di Costantino (274-337), che riconobbe il Cristianesimo, e da Teodosio (379-395), che lo impose come l’unica religione dell’Impero. Con il declino dell’Impero Romano, si sono create le condizioni perché i vescovi, in particolare quello di Roma, assumessero le funzioni di ordine e controllo. Questo è accaduto chiaramente con il Papa Leone I, il Grande (440-461), che fu proclamato prefetto di Roma per affrontare l’invasione degli Unni. Egli fu il primo anche ad usare il nome del Papa, una volta riservato solo agli imperatori. Ha acquisito maggiore forza con il Papa Gregorio Magno (540-604), proclamato anche lui prefetto di Roma, culminando poi con Gregorio VII (1021-1085) che si arrogò il potere assoluto religioso e laico: forse la più grande rivoluzione nel campo della ecclesiologia.
Le attuali abitudini imperiali, principesche e cortigiane di tutta la gerarchia, dei cardinali e dei papi si devono riferire soprattutto a papa Silvestro (334-335). Nella sua epoca era stata creata una falsificazione, la “Donazione di Costantino”, con l’obiettivo di rinforzare il potere papale. Secondo questa falsificazione, l’imperatore Costantino avrebbe donato al Papa la città di Roma e la parte occidentale dell’Impero. Con questa “donazione”, dimostrata come falsa dal Cardinale Nicola Cusano (1400-1460), erano inclusi l’uso delle insegne e dell’abbigliamento imperiali (porpura), il titolo di Papa, il pastorale d’oro, la mozetta sulle spalle adornata di ermellino e orlata di seta, la formazione della corte e la residenza nei palazzi.
Questa è l’origine delle attuali abitudini principesche e cortigiane della Curia Romana, della gerarchia ecclesiastica e dei cardinali, in particolare del Papa. Prende inspirazione dello stile degli imperatori romani pagani e dalla sontuosità dei principi rinascimentali. Quindi, è stato un processo di paganesimo e di mondanità della Chiesa come istituzione gerarchica.
Coloro che vogliono tornare alla tradizione rituale che circonda la figura del Papa non sono nemmeno consapevoli di questo processo storicamente chiuso e condizionato. Essi insistono su qualcosa che non passa attraverso il setaccio dei valori evangelici e per la pratica di Gesù.
Che cosa sta facendo il Papa Francesco? Sta restituendo al papato e all’intera gerarchia il suo vero stile, legato alla Tradizione di Gesù e degli Apostoli. In realtà, sta ritornando alla tradizione più antica, e realizzando una depaganizzazione del papato nello spirito del Vangelo, vissuto emblematicamente dal suo ispiratore San Francesco d’Assisi .
L’ autentica tradizione è dalla parte di papa Francesco. I tradizionalisti sono solo tradizionalisti e non tradizionali. Essi sono più vicini al palazzo di Erode e di Cesare Augusto che alla grotta di Betlemme e all’artigiano di Nazareth. Contro di loro c’è la pratica di Gesù e le sue parole sullo spogliamento, la semplicità, l’umiltà e sul potere come servizio e non come fanno i principi pagani e i grandi che soggiogano e dominano: “Ma tra di voi non deve esser così; anzi, il più grande fra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). Papa Francesco parla a partire da questa originaria e più antica Tradizione, quella di Gesù e degli Apostoli. Perciò destabilizza i conservatori che sono rimasti a corto di argomenti.
Leonardo Boff è autore di Chiesa: carisma e potere, Record, Rio

Ratzinger “inedito”, il racconto del segretario del Papa

Ratzinger "inedito", il racconto del segretario del Papa
Il papa emerito Joseph Ratzinger 

Monsignor Xuereb, rimasto con Bergoglio, ha tratteggiato un ritratto per certi versi “privato” di Benedetto XVI. Dalla “scelta difficile ed eroica” delle dimissioni all’amore per gli animali e la natura, dalla “sensibilità rara se non unica” alla capacità di mettere a proprio agio l’interlocutore

di ORAZIO LA ROCCA

“Una scelta difficile ed eroica, ma presa con grande serenità”. E’ la “scelta” di lasciare il papato fatta da Benedetto XVI il 28 febbraio scorso, per la prima volta raccontata da monsignor Alfred Xuereb, attuale segretario di papa Francesco. Invitato a Pordenone a presentare il libro Per una ecologia dell’uomo sui discorsi di Ratzinger, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, monsignor Xuereb, maltese, è stato un testimone privilegiato delle storiche dimissioni di Benedetto XVI seguite dall’avvento di Bergoglio, essendo stato uno dei segretari di Ratzinger accanto al segretario “titolare”, il vescovo tedesco George Gaenswaen. Nel corso della conferenza di Pordenone e, successivamente, in una intervista alla Radio Vaticana, il fido collaboratore di papa Francesco ha raccontato episodi ed aneddoti della sua esperienza al servizio di Benedetto XVI presentandolo in una luce nuove ed inedita, poco conosciuta al grande pubblico. “L’ho voluto fare – ha specificato all’emittente pontificia nell’intervista esclusiva concessa a Luca Collodi – perché soffro troppo quando leggo giudizi errati e superficiali sulla  figura e l’opera di Joseph Ratzinger”.   Le dimissioni. Sull’abbandono del pontificato, monsignor Xueber si è detto “convinto che la scelta tanto difficile quanto eroica di Benedetto XVI di rinunciare al ministero petrino, non poteva non essere condivisa col fratello Georg con il quale c’è sempre stata da parte di papa Benedetto una splendida, singolare intesa”. “Con raffinata delicatezza mi informò, qualche tempo prima, della sua decisione e per confortarmi mi ha ripetuto per ben due volte: lei andrà col papa nuovo. E per questo lo ringraziai di cuore dicendogli che gli sarei stato grato per sempre”. Le visite di George Ratzinger al fratello papa per Xueber erano “un dolce spettacolo di un amore fraterno molto speciale. Benedetto lo prendeva sotto braccio, lo accompagnava, lo aspettava volentieri al pianoforte, gli spiegava con pazienza il significato di alcuni vocaboli italiani che non capiva”.
Continuità con i Papi precedenti. Nell’intervista, il segretario sostiene anche che tra gli ultimi papi, compresi Francesco e Benedetto XVI, c’è profonda continuità sia nei confronti della dottrina che in materia di difesa della natura ed amore verso gli animali. ”Voglio ricordare – ha spiegato – la sensibilità verso la natura che aveva Giovanni XXIII, che tra poco grazie a Dio verrà canonizzato. Lui, che era figlio di contadini, come non poteva avere sensibilità nei confronti del Creato?”. Sensibilità mostrata da Giovanni XXIII ”con i giardinieri” con i quali si incontrava spesso e volentieri durante le passeggiate. Come pure da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, del quale ha ricordato ”le uscite a respirare l’aria delle montagne”. Quella dei Papi, per Xueber ”è una storia, perché, appunto, fatta da Pontificati diversi ma connessi l’uno con l’altro. Altrimenti sarebbe solo un libro con vari episodi chiusi. Invece, sono dei capitoli”.
L’amore per gli animali. ”Papa Benedetto non ha amore solo per i gatti, ma per tutti gli animali”, ha rivelato mosnignor Xuerebe. ”La prima immagine che mi viene in mente – ha confidato – è che Papa Benedetto si scioglieva davanti agli animali, alla natura, gli piaceva stare fuori, quando uscivamo, per fare una scampagnata, anche quando veniva suo fratello dalla Germania. Ricordando, forse, i momenti in cui, in Germania, da ragazzo, andavano a fare gite nella natura”. ”Nei confronti degli uccellini – ha aggiunto il prelato maltese – posso raccontare un aneddoto. Qualche anno fa, in inverno, durante una passeggiata nei Giardini vaticani recitando il Rosario, notavamo spesso un merlo bianco. Alla fine del rosario mi chiedeva se si era fatto vedere, suggerendomi poi di andare a fare qualche foto del merlo. Con l’aiuto dei nostri fotografi, che hanno macchine migliori della mia, sono andato ed ho scattato alcune foto. Quando le ha viste, l’espressione era di meraviglia. Mi disse che erano foto da pubblicare. E qualche giorno dopo, le foto sono finite sull’Osservatore Romano”. ”Ancora: alla fine di un’udienza generale – ha raccontato don Alfred – alcuni, dalle parrocchie, portano statue raffiguranti Santi. Ricordo che dissi al Papa che un Santo da lui benedetto in una circostanza, aveva il cane accanto a sé. Mi rispose: ‘Alfred, non solo questi Santi sono simpatici, ma diventano più umani’. Una battuta che rivela la sua attenzione per la presenza del mondo animale accanto a questi uomini che diventano così Santi più vicini alla nostra vita quotidiana, potendo rivolgerci loro in confidenza. E’ molto bello questo”.
La sofferenza per gli errori su Ratzinger. “Devo dire che – ha detto il segretario papale – sento dentro di me, da un certo tempo, un impulso: quello di dare un contributo, piccolo quanto sia, a rivelare la vera identità di papa Benedetto. Soffro, quando sento commenti che sono lontani dal rappresentare il vero papa Benedetto. Io, che ho avuto la fortuna, la grazia, di conoscerlo da vicino vorrei raccontare la persona che ho conosciuto e se oggi parlo di lui, ricordando alcuni episodi della mia esperienza, lo faccio con la speranza di farlo conoscere meglio”.
Amore filiale. “Lo sto amando come può amarlo un figlio”, si è quindi lasciato andare monsignor Xueber. “Quand’ero con Papa Benedetto e qualcuno mi rivolgeva una domanda su di lui, ripetevo sempre: finché sono segretario dell’attuale pontefice, io non rispondo a nessuna domanda su di lui. Lo ripeto anche qui: finché sono con papa Francesco non dirò mai niente su di lui. Non conoscevo Benedetto e lo ho amato come un padre, più di un padre. Non conoscevo papa Francesco e lo sto amando come un figlio”. “Avendo avuto il privilegio di vivere per cinque anni e mezzo, giorno dopo giorno nel palazzo apostolico con papa Benedetto sento quasi un impulso dentro di me per correggere un po l’identità che è stata trasmessa di Benedetto XVI, in particolare negli anni del suo pontificato”. E ancora: “Posso dire che è una persona straordinaria da cui sono rimasto fortemente affascinato. Da un lato è un uomo di elevatissima cultura, un gigante per profondità e lucidità intellettuale, dall’altro presenta una disarmante semplicità e una sensibilità rara se non
unica. Sa costruire dei rapporti senza mai mettere a disagio il suo interlocutore, anzi l’aiuta a farsi sentire accolto ed apprezzato. E’ un uomo che ha l’arte di relazionarsi con gli altri stabilendo un approccio di naturalezza e di franchezza”. Entrando, infine, nel merito del volume che tratteggia il rapporto di Benedetto con il Creato, monsignor Xuereb ha sottolineato come la persona umana sia per Ratzinger “il coronamento dell’intera creazione perché immagine

“Leonarda può tornare, ma da sola”, “mai! crudele!”

leonarda

PARIGI  “Se vorrà proseguire la scuola in Francia, potrà farlo. Ma dovrà venire da sola”. Il presidente della Repubblica francese, Francois Hollande, rompe il silenzio sul caso Leonarda Dibrani, la quindicenne rom fermata dalla polizia mentre era in gita scolastica. Immediata la risposta della ragazza: “Non tornerei mai in Francia da sola, non abbandonerò la mia famiglia”.

Fino ad oggi il presidente non si era ancora espresso. Lo fa poco dopo la pubblicazione del rapporto d’inchiesta che ha definito “conforme alle regole” l’espulsione. Secondo l’Ispettorato che ha valutato il caso, la ragazza è stata espulsa con la sua famiglia perchè la richiesta di asilo era stata rifiutata. I Dibrani erano dunque irregolari, per questo Hollande ha precisato che Leonarda, se vorrà, dovrà tornare da sola: “Le garantiremo accoglienza”, ha assicurato il presidente. “È senza cuore”, ha detto la ragazza. “Non sono la sola a dover andare a scuola – ha fatto notare -, ci sono anche i miei fratelli e le mie sorelle”.

Nel rapporto che conferma la liceità dell’espulsione, viene allo stesso tempo criticata l’azione della polizia. “Non hanno dato prova del discernimento necessario”, dice il rapporto, che raccomanda di “evitare le espulsioni in ambito scolastico”. In effetti, è stato proprio questo il punto più controverso della vicenda. Il 46% dei francesi intervistati per un sondaggio, si è detto shoccato per la modalità in cui la polizia ha effettuato il fermo. Allo stesso tempo però, i francesi si dicono contrari ad un rientro della quindicenne e la sua famiglia.

protesta

Nei giorni scorsi migliaia di studenti si erano mobilitati contro la politica di espulsione messa in atto dal ministro dell’ Interno, Manuel Valls. Il risultato è stato il riesame della procedura di espulsione verso il Kosovo di Leonarda e della sua famiglia, su cui stasera probabilmente si pronuncerà lo stesso ministro.

Valls è finito al centro delle polemiche, attaccato da molti colleghi del partito socialista.

Ma stando a quanto riportano i sondaggi, la sua popolarità è in crescita. Il 74% dei francesi appoggiano il comportamento del ministro, già visto da molti come il successore del debole Hollande. Sempre secondo il sondaggio, condotto dal quotidiano Le Parisien, due francesi su tre non partecipano all’ondata di sdegno e di proteste.

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