paese incattivito

rivolte anti immigrati

foto premio migranti

le associazioni: paese incattivito e chiuso in se stesso

scontri a Casale San Nicola, a nord della Capitale e a Quinto (Tv) per l’arrivo di alcuni richiedenti asilo. Sami (Unhcr): “Volontà politica di sfruttare le tensioni”. L’assessore Danese: “Solidarietà con i profughi assediati nel loro traguardo verso una vita migliore”. Caritas: “Clima d’odio che non s’era mai visto”

da: Redattore Sociale

 

 “E’ vergognoso quello che sta accadendo in queste ore a Roma e Treviso. E’ chiaro che c’è una volontà politica, da parte di alcuni gruppi, di sfruttare le tensioni presenti nella società italiana, ma questa strumentalizzazione è intollerabile”. Lo sottolinea Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, in merito alle proteste anti immigrati esplose nelle due città italiane. Ieri a Quinto, in provincia di Treviso, dopo il trasferimento di circa 100 profughi, la palazzina in cui erano appena stati accolti è stata presa d’assalto. A guidare la spedizione alcuni residenti della zona e militanti di Forza nuova e Lega Nord. Scene simili si sono viste anche questa mattina a Casale San Nicola, a nord di Roma, dove un gruppo di abitanti e militanti di Casa pound ha manifestato contro l’arrivo, previsto per oggi, di un centinaio di profughi. Il sit in è ancora in corso e ci sono state anche cariche da parte della polizia.

“Queste manifestazioni di intolleranza vanno valutate per quello che sono: servono solo da un punto di vista politico e si basano sulla disinformazione– continua Sami – cioè sul far credere che chi scappa da una guerra o da una situazione di persecuzione venga accolto con maggiori privilegi rispetto a quelli che hanno gli italiani. Si fa pensare alla gente che la presenza dei rifugiati possa togliere qualcosa, mentre bisognerebbe spiegare che queste persone non solo non hanno nessun privilegio ma hanno situazioni terribili alle spalle. Inoltre, alcune volte possono anche rappresentare un’opportunità per noi: pensiamo solo ai tanti cittadini italiani impiegati nei centri di accoglienza”. La portavoce dell’Unhcr ricorda inoltre che i rifugiati e i richiedenti asilo hanno “diritto di essere accolti”. “La maggior parte di chi è soccorso dall’Italia se ne va – aggiunge – sono tanti i transitanti, queste paure non hanno ragione di esistere”.Sdegno per le proteste a Roma anche da parte dell’assessore capitolino alle Politiche sociali Francesca Danese, che esprime innanzitutto solidarietà ai rifugiati “assediati nel loro difficile cammino verso una vita migliore”. “Le immagini che arrivano da Casale San Nicola non rappresentano Roma, la nostra città è un’altra e si sta preparando a un modello di accoglienza diverso – spiega Danese – . Purtroppo, però, ci sono gruppi che strumentalizzano la situazione e intossicano la grande solidarietà che esiste nella Capitale. Non dobbiamo dimenticare – aggiunge – che i profughi sono persone che scappano da guerre e da situazioni di vita pesanti, sono quindi persone vulnerabili e non persone pericolose come si vorrebbe far passare. Si portano dietro un dolore inenarrabile, non a caso hanno bisogno di un’accoglienza e di un’assistenza a 360 gradi”. L’assessora si dice inoltre vicina alle persone che abitano a Casale San Nicola, al presidente del municipio e al poliziotto ferito durante i tafferugli di questa mattina, tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Intanto da poco i richiedenti asilo sono entrati nella struttura di Casale San Nicola.“Dopo le difficoltà riscontrate questa mattina, le forze dell’ordine sono riuscite a far entrare i cittadini stranieri all’interno della struttura a loro riservata. Al momento, quattro agenti di polizia risultano feriti a seguito dei tafferugli”, fa sapere la Questura di Roma.

Tante le associazioni che hanno condannato le proteste anti immigrati. “Una città che non accoglie i migranti (famiglie e ragazzi in fuga da guerre, persecuzioni e povertà) è un popolo senza memoria, un agglomerato umano che non può dirsi comunità” -sottolinea in una nota la Caritas di Roma, che aggiunge: “Così anche il tema dell’accoglienza – le procedure di emergenza, l’individuazione dei luoghi – rischia di scontrarsi con egoismi, interessi e paure. Sentimenti di cui approfittano forze politiche senza scrupoli per incrementare un clima di odio che mai si era visto a Roma e in Italia”. Dello stesso parere anche Arci che parla di un “paese incattivito e chiuso in se stesso”. “E’ passata l’idea dell’invasione, di un paese in perenne emergenza per far fronte a un’immigrazione che ha numeri più contenuti che in altri paesi – sottolinea l’associazione -. Il tutto per giustificare, politicamente e moralmente, l’incapacità di gestire qualche migliaio di persone in fuga per la sopravvivenza”. L’Asgi (associazione studi giuridici sull’immigrazione) pone l’accento sulla mancanza di norme e regole chiare sull’accoglienza come causa dei conflitti sociali. “Gruppi di dichiarata ispirazione neofascista hanno abilmente strumentalizzato le paure e il disagio della popolazione residente – spiegano in una nota – Se nessuna violenza contro persone giunte nel nostro Paese in fuga da guerre e persecuzioni può essere mai tollerata, gli episodi accaduti a Roma e Treviso, pur nella loro diversità, vanno comunque tenuti in considerazione perché mettono in luce le gravi carenze del sistema di accoglienza vigente”. Infine il centro Astalli condanna la strumentalizzazione politica e mediatica di quanto accaduto: “Roma si trova ad accogliere persone che sono state costrette a lasciare la propria casa a causa di crisi umanitarie, conflitti o regimi dittatoriali – afferma padre Camillo Ripamonti – Si tratta mediamente di persone molto giovani e tra di loro tante sono le vittime di tortura. È da condannare ogni forma di strumentalizzazione costruita ad arte per creare pericolose tensioni e inutili allarmismi tra la popolazione”.

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© Copyright Redattore Sociale

il vangelo della domenica

IL BUON PASTORE DA LA PROPRIA VITA PER LE PECORE 

commento al vangelo della quarta domenica di pasqua (26 aprile 2015) di P. Alberto Maggi:

maggi

Gv 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

L’immagine di Gesù come Buon Pastore  è indubbiamente quella più conosciuta e più amata dai cristiani, una immagine carica di tanti, tanti significati. Eppure è strano che quando Gesù si presenta come tale, come Buon Pastore, i capi giudei si arrabbiano con lui, lo ritengono un pazzo e alla fine cercheranno di lapidarlo. Siamo noi che abbiamo capito tutto di questa immagine o sono stati i giudei che hanno capito e l’hanno rifiutata?
Vediamo cosa ci dice l’evangelista Giovanni. Anzitutto Gesù si presenta rivendicando la pienezza della condizione divina. Quando nel Vangelo di Giovanni Gesù afferma “Io sono”, questo rappresenta il nome divino. Quando Mosè nel famoso episodio del roveto ardente chiese a quell’entità che si manifestava, il nome, Dio non rispose dando il nome, perché il nome delimita una realtà, ma rispose dando un’attività che lo rende riconoscibile. Rispose “Io sono colui che sono”. E la tradizione ebraica ha sempre interpretato questa espressione, questa risposta del Signore come colui che è sempre vicino al suo popolo. Al tempo di Gesù, quindi,  con l’espressione “Io sono” si indicava Dio. Allora Gesù rivendica la condizione divina.

E afferma: “Io sono” – non Il Buon Pastore – ma “il Pastore Buono”. Qual è la differenza? L’evangelista non sta parlando della bontà di Gesù, quando l’evangelista si deve riferire alla bontà di Gesù adopera il termine greco “agatos” (Agatos), da cui il nome Agata, che significa ‘bontà’.
Qui, invece Gesù, dichiara che lui è il Pastore, ed usa il termine greco “kalos”, da cui calligrafia, bella scrittura, che significa ‘il bello’, che significa ‘il vero’. Quindi Gesù non sta indicando la sua bontà, ma sta indicando qualcosa di diverso, qualcosa di più importante. Cosa significa il Pastore Vero? C’era stata una profezia nel Libro di Ezechiele, al cap. 34, dove il Signore rimproverava i pastori del popolo, perché, anziché prendersi cura del gregge, pensavano soltanto a loro stessi. E allora, li minaccia il Signore, “verrà un tempo in cui io stesso mi prenderò cura del mio gregge”. Quindi il Signore sarà l’unico vero pastore del popolo. Ebbene, dichiara Gesù, questo momento è arrivato. Ecco perché questo suscita le ire dei capi religiosi, perché si sentono spodestati da Gesù, che li chiama ladri, si sono impadroniti di ciò che non è loro, il gregge, e omicidi.
Allora, il Pastore, quello vero, quello ‘per eccellenza’ è identificato da Gesù nella sua persona. E qual è la caratteristica che lo rende riconoscibile come il Pastore Vero? Dice Gesù che “da la vita per le pecore”. Allora qui Gesù supera la profezia di Ezechiele. Mentre per il Profeta Ezechiele il pastore proteggeva, si prendeva cura del suo gregge, con Gesù il pastore arriva al punto di dare la vita per le sue pecore, quindi si supera.
Poi Gesù continua la figura del pastore a quello che non considera come un cattivo pastore, ma un mercenario. Chi è il mercenario? Il mercenario è colui che agisce per proprio tornaconto. L’evangelista, lo ricordiamo sempre, in queste pagine non entra in polemica con un mondo, quello ebraico, nel quale la comunità cristiana si è ormai irrimediabilmente separata, distaccata, ma è un monito per la comunità cristiana affinché non ripeta gli stessi errori. Quindi nella comunità cristiana, chi agisce esclusivamente per il proprio interesse, per il proprio tornaconto, per il proprio prestigio, Gesù non gli riconosce nessun titolo, nessuna carica, se non quella di essere il mercenario.
Questa espressione “io sono” viene ripetuta in questo Vangelo, in questo brano, per ben tre volte – il numero tre, secondo la simbologia ebraica, significava ciò che è completo. Quindi Gesù rivendica la pienezza della condizione divina e il suo essere Pastore. Perché Gesù può affermare di essere Pastore? Perché lui è l’Agnello. Solo chi è disposto a dare la vita per gli altri, questi può essere il Pastore del gregge. E, dichiara Gesù, che lui “conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui”. Qual è il significato di questa espressione? C‘è una comunicazione intima, crescente, traboccante d’amore tra Gesù e il suo gregge, cioè tra Gesù e i suoi discepoli, i credenti, che è simile – dice Gesù – a quella del Padre con lui.
“Così come il Padre conosce me, io conosco il Padre e do la mia vita per le pecore”. C’è una dinamica di un amore ricevuto da Dio, che si trasforma in amore comunicato agli altri. Più questa misura di amore ricevuto e comunicato è crescente, più si arriva a realizzare un’unica realtà di un Dio che non assorbe le energie degli uomini ma che comunica loro le sue, un Dio che si vuol fondere con l’uomo per dilatarne l’esistenza e farne l’unico vero santuario. Infatti, dichiarerà Gesù tra poco, “Le altre pecore che non provengono da questo recinto… “. Gesù è venuto a liberare le persone, cos’è il recinto? Il recinto è   qualcosa che ti da sicurezza, però ti toglie la libertà. Allora Gesù dichiara che lui è venuto a portare un processo di liberazione crescente per l’umanità che non riguarda soltanto le persone che sono rinchiuse nel recinto della religione, ma in tutti quei recinti che impediscono la libertà.
Allora afferma Gesù “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto, – lui è venuto a liberare le pecore dal recinto dell’istituzione giudaica – “anche quelle io devo guidare”. Il verbo ‘dovere’ è un verbo tecnico adoperato dagli evangelisti che indica il compimento della volontà divina. Quindi è volontà di Dio un processi di liberazione. La religione ha un fascino perché ti da sicurezza però ti toglie la libertà. Ti da sicurezza perché quando entri nell’ambito della religione devi soltanto obbedire, devi soltanto osservare, ma questo ti mantiene in una condizione infantile, di immaturità; invece Gesù vuole portare la persona alla piena maturità, alla piena crescita.
“Ascolteranno la mia voce”, la voce del Signore non si impone mai, ma si propone. Come si fa a distinguere la voce del Signore? Mentre le autorità religiose, siccome sono le prime a non credere nel loro messaggio, lo devono imporre, Gesù, che è cosciente che il suo messaggio è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro, gli basta offrirlo, e le pecore, il gregge, i credenti, questo lo capiscono.
“E diventeranno un gregge e un pastore”. In passato, per un errore proprio di traduzione, per aver confuso il termine ‘recinto’, ‘ovile’, probabilmente ad opera di S. Girolamo, la traduzione latina era “un solo ovile e un solo pastore”. Di qui la pretesa della Chiesa per secoli, per tanti e tanti secoli, fino al Concilio Vaticano II, di essere l’unico ovile nel quale c’era la salvezza. Da qui lo slogan ‘fuori dalla Chiesa non c’è salvezza’.
Gesù non è venuto a togliere le persone e le pecore dall’ovile, Israele, per rinchiuderle in un altro recinto più sacro, più bello. No! Gesù è venuto a dare la piena libertà: Un gregge, un Pastore. Cosa vuol dire Gesù? L’unico vero santuario nel quale da ora in poi si manifesterà la grandezza e lo splendore dell’amore di Dio, sarà Gesù e la sua comunità. Mentre nell’antico santuario le persone dovevano andare e molte ne erano escluse, nel nuovo santuario, è il santuario stesso che andrà in cerca degli esclusi dalla religione.

 

gli auguri inusuali di don Ciotti

“Vi auguro di essere eretici”

l’augurio di don Luigi Ciotti per il nuovo anno

Ciotti
 “Vorrei augurarvi il coraggio di essere eretici…” E’ un augurio inusuale, vivo, aperto. Un augurio che parte quel giorno, durante l’incontro “Rischiamo il coraggio” tenuto da don Ciotti nei giorni scorsi nella comunità di Romena. Un augurio da rilanciare proprio all’inizio di un nuovo anno, in un giorno dedicato alle promesse, alle speranze, alla voglia di cambiarsi e di cambiare…
Vi auguro di essere eretici. Eresia viene dal greco e vuol dire scelta. Eretico è la persona che sceglie e, in questo senso è colui che più della verità ama la ricerca della verità. E allora io ve lo auguro di cuore questo coraggio dell’eresia. Vi auguro l’eresia dei fatti prima che delle parole, l’eresia che sta nell’etica prima che nei discorsi. Vi auguro l’eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità e dell’impegno. Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri. Chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è. Eretico è chi non si accontenta dei saperi di seconda mano, chi studia, chi approfondisce, chi si mette in gioco in quello che fa. Eretico è chi si ribella al sonno delle coscienze, chi non si rassegna alle ingiustizie. Chi non pensa che la povertà sia una fatalità. Eretico è chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza. Chi crede che solo nel noi, l’io possa trovare una realizzazione. Eretico è chi ha il coraggio di avere più coraggio.
da romenablog.wordpress.com

l vangelo del primo dell’anno

 

 

 

I PASTORI TROVARONO MARIA E GIUSEPPE E IL BAMBINO.
DOPO OTTO GIORNI GLI FU MESSO NOME GESU’

 commento al Vangelo del 1 gennaio 2015 (solennità di ‘Maria madre di Dio’) di p. José María CASTILLO

Castillo

 

Lc 2,16-21
[In quel tempo, i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino,  adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua,  custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto,  com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù,  come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

1. Il “mistero” di questa festività è più profondo di tutto quanto sicuramente possiamo immaginare noi mortali. Se Maria è la madre di Dio, la prima cosa  che logicamente ci dice la Chiesa, all’inizio del nuovo anno, è che Dio ha una madre. E l’ha perché Dio si dà a conoscere a noi e si rende presente in  Gesù. Il motivo di fondo di questa festività risiede nel fatto della “trascendenza di Dio”. Se Dio è il Trascendente, noi umani non possiamo “conoscere”  Dio. Lo possiamo “rappresentare”, ma questa non smetterebbe di essere una mera “rappresentazione” umana. Nella tradizione cristiana ci viene detto che  Dio si è rivelato a noi, si è dato a conoscere a noi in Gesù, la cui madre è stata Maria.
2. La prima cosa che impariamo quest’anno è che Dio non vuole ceti, categorie, piedistalli di gloria che separano, distinguono, dividono, allontanano e  creano persino scontri. Dio è il primo che dà l’esempio di quest’abbassamento e ci dice che il cammino per essere come Lui vuole non è divinizzarsi, ma  umanizzarsi. Perché in questo modo, mediante l’umanizzazione, si è realizzato l’incontro di Dio con gli esseri umani. Nell’essere umano che è stato Gesù  conosciamo Dio e ci mettiamo in relazione con Lui.
3. Dio in Gesù ha avuto una madre. Una semplice ed umile donna di quel villaggio che era Nazareth quando Gesù è venuto a questo mondo. Maria ha educato  Gesù come tutte le mamme educano i loro figli. Maria ha forgiato la sensibilità di Gesù, la sua bontà, la sua fermezza ed anche la sua libertà. Se Gesù  è stato così ammirevole al punto che, comunque sia, ci ha rivelato Dio, quale donna e quale madre ammirevole è stata Maria per essere stata capace di educare
in questo modo Gesù!

la nascita di Gesù bambino ‘in una grotta’: un commento appropriato

presepe innevato

 

 

 

A Natale hanno cacciato fuori Dio. Ma non è detto che a Lui dispiaccia.

un bel commento di don Cristiano Mauri:

don cristiano mauri

La grotta – o capanna che sia – ha il suo fascino, ammettiamolo. «E vieni in una grotta al freddo e al gelo»: ci piace, suona bene, ha persino il vago sapore romantico della semplicità, del “poveri ma belli” e della felicità per le piccole cose, in barba al disagio. Che tenerezza il bimbo nella mangiatoia, vero? D’altronde il Natale si nutre di buoni sentimenti e il quadretto della grotta di Betlemme ne è un serbatoio inesauribile.

Il fatto è che Gesù non nacque in una grotta. Gesù nacque fuori. Il che, di romantico e poetico ha ben poco. Ma i Vangeli non si preoccupano di far poesia e vanno al nocciolo, dichiarando con semplicità che per Lui non ci fu posto dentro la «stanza principale» di quella casa e perciò rimase fuori. Vero: la mangiatoia ci suggerisce che trovò posto nella stalla adiacente la sala principale, ma il concetto resta: rispetto al cuore pulsante della casa Gesù nacque fuori.

Non distante, per la verità, anzi vicino, vicinissimo. Però ai margini. Dell’ospitalità, della vita sociale, del mondo di relazioni familiari e non che riempiva la casa quella notte Gesù si sedette ai bordi, praticamente in uno sgabuzzino, discosto e come un po’ in disparte, senza prendere le distanze ma senza invadere il campo.

Una beffa, oltretutto. Perché non pareva esserci posto migliore: era la casa di Giuseppe, anzitutto, con tutte le garanzie che i legami di parentela possono offrire; e poi terra di Efrata, che significa terra feconda e ricca di frutti; infine a Betlemme che coi suoi molteplici significati (“casa del pane” in ebraico, “casa della carne” in arabo, “casa del dio della fertilità” nella radice etimologica più antica) suggeriva l’abbondanza come cornice sicura di quella nascita. D’altronde, da che mondo è mondo, la ricchezza è segno della benevolenza di Dio e di una sua speciale benedizione. Invece no, fuori. Non solo dai palazzi dei re, ma anche dal contesto sociale e familiare più normale e ordinario. Fuori dalla stanza apparecchiata, fuori dai riti di accoglienza, fuori dall’abbondanza di umanità: Gesù sta all’esterno. Là dove si portano i rifiuti, dove stanno i poveri, dove vivono i miserabili, dove c’è la solitudine e l’abbandono, la precarietà e la paura del futuro, dove si cerca di confinare il nemico e ogni presenza sgradita. Dentro stanno i ricchi, le cose preziose, i tesori da esibire o nascondere a seconda delle circostanze, dentro stanno gli amici e gli ospiti di riguardo, dentro c’è l’accoglienza, la fraternità, la sicurezza e la serenità.

Ma lì non ci va per “stare con i poveri”. Ci nasce. Gesù,  fuori – e non dentro – ci nasce, come ogni povero. Non si mette, cioè, semplicemente a loro fianco, bensì diviene uno di loro, povero a sua volta. Perché solo un povero può amare davvero i poveri, mentre da ricchi si finisce – anche involontariamente – con l’esercitare sempre un potere da un gradino superiore, quello della ricchezza che può fare beneficenza. Non poteva osare che in questo modo l’impresa di salvare l’uomo, ogni uomo: che ce ne saremmo fatti, del resto, di un Dio giustapposto? Come poter considerare Salvezza l’amore di Uno che semplicemente si siede accanto? Doveva prendere la carne, la mia, la nostra stessa carne per abitarne anzitutto i margini e le periferie, al di là di quella «stanza principale» che sono i tratti più nobili e presentabili di noi, quelli in cui volentieri si ospita il prossimo. In quel nascere fuori il Figlio di Dio doveva raggiungere le zone più oscure della nostra umanità, quelle di cui ci libereremmo volentieri mettendole alla porta, per il ribrezzo che abbiamo anche solo a considerarle. Così avviene: ai margini dell’abbondanza di Betlemme ogni fibra della nostra povertà umana viene abitata da Dio, il Dio che è povero fino alla fine perché nessuna nostra miseria sia mai una lontananza definitiva da Lui, il Dio che sta fuori perché è l’unico luogo in cui c’è così tanto posto da non escludere nessuno.

In quello spazio aperto, ai bordi di atmosfere casalinghe e familiari, il bambino nella mangiatoia fonda la Sacra Famiglia. Maria e Giuseppe, certo, ma soprattutto i pastori, coloro che – come gli sposi di Nazareth – hanno cercato il Figlio obbedendo alla voce del Padre. Non sono quelli della sala adiacente che già «avevano la loro ricompensa» di quel dentro ad essere chiamati dagli angeli, ma coloro che stavano fuori, ed erano abituati a starci, periferie umane, bassifondi della società. Giungono la solitudine, la fame, l’emarginazione, la pessima reputazione a fargli visita. Arrivano quelli “sbagliati”, quelli che non è bene fare entrare, dei quali è opportuno diffidare e che, se proprio devono star dentro, che almeno si diano una ripulita. Ma anche quelli a cui nessuno pensa, quelli tagliati fuori, di cui nessuno si ricorda, quelli della cui disponibilità ci si approfitta perché «non hanno una famiglia a cui badare», che non appartengono a nessuna categoria e dunque non possono accampar diritti. Attorno al Dio povero si raduna una comunità in virtù di una Parola udita, accolta, praticata. È la famiglia del Vangelo, la vera Sacra Famiglia, quella in cui si entra solo da poveri, spogli e liberi di ogni ricchezza e privilegio, persino quella dei legami di sangue. Quella Famiglia, fondata sull’obbedienza alla volontà di Dio e sulla Sua giustizia, sarà descritta da Gesù nel Suo ministero pubblico come il canale in cui scorrono la Misericordia, la Compassione, la Carità di Dio al di sopra di ogni cosa. È il dono del Dio povero ai poveri che hanno il coraggio di restare fuori, smettendo di invidiare chi sta dentro e di considerare la ricchezza come propria salvezza. È lo spazio – l’unico e il solo – in cui le miserie, mediocrità, solitudini, paure e insicurezze possono realmente essere deposte, curate, guarite senza vergogne e umiliazioni in relazioni che sono Salvezza.

Questi che osano rimanere poveri insieme al Povero saranno forse quelli capaci di costruire la Chiesa povera; certo non lo saranno coloro che da ricchi si travestono da poveri per recitare la parte del buon cristiano.

Chi non teme di esser fuori forse costruirà una Chiesa dalla quale nessuno – realmente nessuno – sarà mai e in alcun modo allontanato; certo non potrà farlo chi è occupato a dettare a chi sta fuori le condizioni per entrare.

Colui che si spoglierà della propria abbondanza per ricevere in dono la Sacra Famiglia forse saprà edificare la Chiesa della Compassione; certo non lo farà chi si affanna senza posa nell’allestire lo spettacolo della carità cristiana.

Ti pare di non trovare Gesù a Natale?

Cerca fuori. Chissà mai…

 

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il problema di Dio nell’ultimo libro di Veronesi

Umberto Veronesi: “Dopo Auschwitz, il cancro è la prova che Dio non esiste”

Il suo libro: “Il mestiere di uomo”
VERONESI

 nel suo ultimo libro U. Veronesi ha suscitato un vivace dibattito circa il suo ateismo motivato a partire dall’esperienza del dolore e, per lui oncologo di fama, dal cancro vera e propria “prova della non esistenza di Dio”
di seguito alcune sue riflessioni contenute nel suo libro e un tentativo di risposta da parte di don Antonelli e del teologo V. Mancuso:
“Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”

Umberto Veronesi racconta il suo progressivo allontanamento dalla fede. Quella in Dio, non nella vita. Perché di fronte all’esperienza fisica – e non più metafisica del dolore – ogni fiducia in un essere soprannaturale viene meno, e l’uomo riscopre la sua finitezza da cui nessun ente superiore lo può salvare. Nessun Dio può riscattare l’uomo dalla sua sofferenza, nessuna verità rivelata può lenire il dolore di due genitori che perdono un figlio malato di tumore.

Dall’infanzia da “inappuntabile chierichetto” e “paggetto”, all’amicizia con padre Giovanni che gli fece capire che esiste anche una carità laica, il famoso oncologo ripercorre le tappe della sua meditazione sulla vita e sul dolore.
Umberto Veronesi, oggi direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia, nel suo libro “Il mestiere di uomo” (Einaudi, in uscita domani) racconta come nel corso degli anni sia maturato il suo agnosticismo che non perde la fede nella vita. Repubblica ne pubblica alcuni estratti.

“Non saprei dire qual è stato il mio primo giorno senza Dio. Sicuramente dopo l’esperienza della guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima. Durante il liceo fui bocciato due volte, ero un discolo in senso letterale: non andavo bene a scuola. Di fatto sono sempre stato anticonformista, ribelle ai luoghi comuni e alle convenzioni accettate acriticamente, e questa mia natura mal si conciliava con l’integralismo della dottrina cattolica che era stata il fondamento della mia educazione di bambino”.

A incrinare ulteriormente il rapporto di Veronesi con la fede fu la guerra:

A diciotto anni non volevo andare a combattere, ma finii in una retata e mi ritrovai con indosso un’uniforme che non aveva per me alcun valore e fui ben armato per uccidere altri ragazzi, in tutto e per tutto uguali a me salvo per il fatto che indossavano una divisa diversa.
Oltre alle stragi dei combattimenti, ho toccato con mano anche la follia del nazismo e non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo: “Dov’era Dio ad Auschwitz?”.
La scelta di fare il medico è profondamente legata in me alla ricerca dell’origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora più inspiegabile della guerra, il cancro”.

 
Per Veronesi, così come per tutti i medici impegnati nella cura dei tumori, il dolore smette di essere qualcosa di intangibile e assume una forma, un contorno, un’identità. È a quel punto che

“diventa molto difficile identificarlo come una manifestazione del volere di Dio. Ho pensato spesso che il chirurgo, e soprattutto il chirurgo oncologo, abbia in effetti un rapporto speciale con il male. Il bisturi che affonda nel corpo di un uomo o di una donna lo ritiene lontano dalla metafisica del dolore. In sala operatoria, quando il paziente si addormenta, è a te che affida la sua vita. L’ultimo sguardo di paura o di fiducia è per te. E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l’operazione, quando in pochi istanti devo decidere cosa fare, quando asportare, come fermare un’emorragia.”    

Ed è allora che l’uomo scopre di essere uomo, si rende conto che non c’è nessuna entità sovrannaturale a benedire il suo operato, che

“ci sei solo tu in quei momenti, solo con la tua capacità, la tua concentrazione, la tua lucidità, la tua esperienza, i tuoi studi, il tuo amore (o anche la tua carità come la chiamava don Giovanni) per la persona malata. Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio. Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del “non so”.

la risposta di d, parroco ad Antrosano, alle considerazioni di U. Veronesi nel suo libro: ‘il mestiere di uomo’
Don Aldo Antonelli Headshot

“siamo forse diventati bestie feroci?”

Verso i migranti “siamo forse diventati bestie feroci?”

 

migrante

di Michel Bavarel
in “www.cath.ch” dell’8 novembre 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

Ginevra: “Frontières: halte à la déshumanisation” (Frontiere, alt alla disumanizzazione), questo era il tema della giornata organizzata venerdì 7 novembre 2014 a Ginevra all’Espace solidaire Pâquis. L’evento era posto sotto il patrocinio dell’Institut romand de systématique et d’éthique, della Chiesa cattolica e di Agora, la cappellania ecumenica per i richiedenti asilo.

Di fronte al diffondersi di atteggiamenti negativi verso i migranti, il frate francescano Alain Richard, iniziatore dei “Cerchi del silenzio”, ha posto l’interrogativo: “Siamo forse diventati bestie feroci?”. È toccato a Bernard Rordorf, professore onorario della Facoltà di teologia di Ginevra, aprire la giornata. “Siamo tutti discendenti di migranti, se non addirittura migranti noi stessi”, ha subito ricordato il pastore, prima di mettere in parallelo il diritto storico di un popolo sul suo territorio e il diritto all’ospitalità. oggi in Europa l’immigrazione è trattata come una minaccia “Non si può volere la pace e rifiutare l’ospitalità. Ma oggi, in Europa, si tratta l’immigrazione come una minaccia. Ne deriva una politica securitaria per proteggersi. È nefasto. Mantiene il sogno perverso di una società omogenea, mentre c’è vita solo nello scambio. E provoca una regressione morale. Certo, l’accoglienza non è priva di problemi, ma la xenofobia ci conduce ad accettare la morte di migliaia di persone nel Mediterraneo e altrove. Perdiamo il senso del valore di una vita umana”. Cristina del Biaggio, dottoressa in geografia a Ginevra, ha poi spiegato come questa politica securitaria si materializzi sul campo. Sui 250.000 chilometri di frontiere esistenti sul pianeta, più del 10% sono chiuse da muri. “C’è una differenza tra una frontiera e un muro che nasconde l’altro lato”, sottolinea la geografa. Si sono anche create una moltitudine di “giungle”, come a Calais, dove si aspetta di passare altrove, per giorni o settimane se si ha denaro, molto più a lungo se se ne ha poco o non se ne ha. Persone in cerca di rifugio conoscono così dei “percorsi prolungati”, spesso fonte di ulteriori pericoli. le frontiere dell’Europa sono tra le più micidiali Le frontiere dell’Europa sono tra le più micidiali, ha sottolineato Cristina Del Biaggio. Infatti, si tratta di una tripla barriera. Una pre-frontiera a nord dell’Africa, la frontiera in quanto tale e i luoghi di detenzione dei migranti che sono riusciti a penetrare nello spazio Schengen e che si vuole espellere. Marie-Claire Kunz, giurista al Centre social protestant (CSP) a Ginevra, ha parlato di un ulteriore muro, quello legale e amministrativo, contro cui si scontrano i richiedenti asilo. Anche se le disposizioni in materia sono state fissate dalla Convenzione di Ginevra nel 1951, non esiste nessun tribunale per verificare la loro applicazione. Unico ricorso, gli organismi internazionali nell’ambito dei diritti umani. una cura di umanizzazione

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Dopo aver ascoltato parole di migranti, commosse e commoventi, i partecipanti a questa giornata hanno ascoltato una specialista dell’argomento, la politologa e sociologa francese Catherine Withol de Wenden. All’inizio del XX secolo, era difficile per la gente comune uscire dal proprio paese, ma facile per l’élite entrare senza passaporto, un po’ ovunque. Oggi, è facile uscire, ma, per gran parte della popolazione, difficile entrare in altri paesi, se mancano i visti. Ciò non toglie che i migranti circolino in tutti i sensi, sia da Sud a Sud, che da Nord a Nord, o da Sud a Nord e da Nord a Sud. Vi sono pensionati che vanno a cercare un’esistenza gradevole e poco costosa in paesi caldi, o giovani in cerca di lavoro. Esiste una contraddizione tra la facilità con cui
circolano le merci e i capitali, e gli ostacoli che vengono messi agli spostamenti delle persone più povere. Tale “proibizione” genera un’economia illegale molto diffusa, cioè quella dei passatori. la xenofobia mette in pericolo la nostra umanità Di fronte al modo in cui sono trattate le persone che non possiedono un documento di soggiorno, “abbiamo bisogno di una cura di umanizzazione, perché la xenofobia mette in pericolo la nostra umanità”, ha avvertito Alain Richard. “Siamo forse diventati bestie feroci? Così come si allenano sportivi o musicisti, noi dobbiamo allenarci a fare atti di umanità, a manifestare il nostro rispetto agli stranieri”, ha insistito. “Se li considero come se fossero cose, degrado anche me stesso”. Per questo, si tratta di aver fiducia nella non-violenza. È la filosofia alla base dei “Cerchi del silenzio”, iniziati dal francescano che, dopo aver fatto il primo “cerchio” a Ginevra nel gennaio 2011 , è tornato per il ventesimo, sabato 8 novembre. È stato contento di vedere che il movimento continua, ma, con tutta la forza di convinzione dei suoi 90 anni, ha chiesto alle persone riunite sul sagrato della chiesa del Sacro Cuore “di intensificare la loro azione facendo crescere l’umanità in loro”. Ricordiamo che i “Cerchi del Silenzio” fondati nel 2007, sono riunioni di persone che denunciano le condizioni di detenzione delle persone senza documenti di soggiorno. In sette anni, i “Cerchi del silenzio”, si sono diffusi in diverse città francesi e in Europa (Spagna, Italia, Svizzera, Inghilterra, ecc.).

l’inno all’amore di s. Paolo

amore

se anche …

Se anche parlassi le lingue degli angeli e degli uomini
ma non avessi l’amore,
sono come un bronzo che risuona
o un cembalo che tintinna.
E se avessi il dono della profezia
e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza,
e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne,
ma non avessi l’amore,
non sarei nulla.
E se anche distribuissi tutte le mie sostanze
e dessi il mio corpo per esser bruciato,

ma non avessi l’amore,

niente mi gioverebbe.

L’amore è paziente,

è benigno l’amore,

non è invidioso l’amore,

non si vanta,

non si gonfia,

non manca di rispetto,

non cerca il suo interesse,

non si adira,

non tiene conto del male ricevuto,

non gode dell’ingiustizia,

ma si compiace della verità.

Tutto copre,

tutto crede,

tutto spera,

tutto sopporta.

L’amore non avrà mai fine.

M. Gramellini e la scelta di Brittany

GramelliniDignità

massimo gramellini

Per il Vaticano la scelta della malata terminale californiana Brittany Maynard di anticipare di qualche settimana una fine dolorosa e scontata è da considerarsi «priva di dignità». La Chiesa ha ovviamente tutto il diritto di fare la Chiesa e di interpretare i dettami della divinità a beneficio di coloro che le riconoscono la funzione di intermediaria. Ma definire indegna la decisione di una donna colpita da un tumore devastante al cervello significa non sapere più dove stia di casa la parola «umanità». Nelle astrazioni della dottrina si possono anche costruire scintillanti cattedrali di ghiaccio. Ma la vita, per chi la conosce e la ama, è un’altra storia e ci racconta che qualsiasi strada percorsa con coraggio conduce a destinazione. Una persona che combatte fino all’ultimo contro il dolore e l’umiliazione della malattia ha la stessa dignità di chi preferisce sottrarre il suo corpo e i propri cari a un simile strazio. Nessun condannato a morte si avvia volentieri al patibolo, a meno che sia un martire invasato: categoria di cui da sempre abbondano soprattutto le religioni. Se sceglie di anticipare l’esecuzione, è solo perché vuole andarsene con consapevolezza. C’è molta più dignità nelle lacrime di congedo della vitalissima Brittany che in chi, ancora una volta, ha deciso di salire sull’onda di un caso mediatico per zavorrare di aggettivi infamanti la libera e drammatica scelta di un essere umano.

 

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