il biblista p. Pagola commenta il vangelo della domenica

 

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commento di p. Pagola al vangelo di domani, domenica XXIX del tempo ordinario (20 ottobre 2013)

Lc 18, 1 – 8:

CONTINUIAMO A CREDERE NELLA GIUSTIZIA?

 Luca riporta nel suo vangelo una breve parabola per indicarci che Gesù la ha narrata per spiegare ai suoi discepoli come dovevano pregare sempre senza scoraggiarsi. Questo tema è molto caro all’evangelista che, in varie occasioni, ripete sempre la stessa cosa. Naturalmente, la parabola è stata letta quasi sempre come un invito a badare alla perseveranza nel rapporto tra noi e Dio e del nostro dialogo continuo con lui. Tuttavia, se osserviamo il contenuto del racconto e la conclusione a cui arriva lo stesso Gesù, ci accorgiamo che la chiave della parabola è

 la sete di giustizia. Fino a quattro volte si ripete l’espressione “fare giustizia”. più che un modello di discorso, la vedova del racconto è esempio ammirabile di lotta per la giustizia in mezzo ad una società corrotta che abusa dei più deboli.

 Il primo personaggio della parabola è un giudice che “non teme Dio e non gli importa niente degli uomini”. È l’incarnazione esatta della corruzione che viene denunciata ripetutamente dai profeti: i potenti non temono la giustizia di Dio e non rispettano la dignità e né i diritti dei poveri. Questi non sono dei casi isolati. I profeti denunciano la corruzione del sistema giudiziario in Israele e la struttura maschilista di quella società patriarcale.

 Il secondo personaggio è una vedova indifesa in mezzo ad una società ingiusta. Da un lato, vive subendo gli oltraggi di un “avversario” più potente di lei, e dall’altro, è vittima di un giudice al quale non gli importa in assoluto della sua persona e né della sua sofferenza. Così vivono milioni di donne di tutti i tempi nella maggioranza dei paesi.

 Nella conclusione della parabola, Gesù non parla del dialogo esatto da intrattenere con il Padre. Prima che niente, chiede fiducia nella giustizia di Dio: “Non farà Dio giustizia ai suoi eletti che gli gridano giorno e notte?”. Questi eletti non sono “i membri della Chiesa” bensì i poveri di tutti i paesi che vanno chiedendo giustizia. Di essi è il regno di Dio.

 Dopo, Gesù fa una domanda che è tutta una sfida per i suoi discepoli: “Quando verrà il Figlio dell’Uomo, troverà questa fede sulla terra?”. Egli non sta pensando alla fede come adesione dottrinale, bensì alla fede che è incoraggiamento per la vedova, modello di indignazione, resistenza attiva e coraggio per reclamare giustizia verso i corrotti.

 È tutto questo la fede ed il dialogo dei cristiani soddisfatti delle società del benessere? Sicuramente, ha ragione J. B. Metz quando denuncia che nella spiritualità cristiana ci sono troppi cantici e poche grida di indignazione, troppa compiacenza e poca nostalgia di un mondo più umano, troppa consolazione e poca fame di giustizia.

 José Antonio Pagola

p. Maggi commenta il vangelo della domenica

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DIO FARA’ GIUSTIZIA AI SUOI ELETTI CHE GRIDANO VERSO DI LUI 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM

XXIX domenica del tempo ordinario (20 ottobre 2013)
Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Il versetto iniziale di questo brano, Luca capitolo 18, i primi otto versetti, riferisce che Gesù diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Ebbene questo versetto può ingannare e sviare l’attenzione del lettore: non si tratta dell’insegnamento sulla preghiera – o sulla preghiera insistente – tema che Gesù ha già trattato – ma sulla realizzazione del Regno di Dio.
L’insegnamento di Gesù sulla preghiera, al capitolo 12 di questo vangelo è molto chiaro. E’ l’invito a non preoccuparsi, come fanno i pagani, ma ad essere sempre pienamente fiduciosi nell’azione d’amore del Padre. Gesù aveva detto: “E voi non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete, e non state in ansia. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo, ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno”.
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Quindi non c’è neanche da chiedere al Signore perché il Signore non viene incontro ai nostri bisogni, ma li precede addirittura. Ma quello che Gesù ha a cuore è “Cercate piuttosto il suo Regno e queste cose vi saranno date in aggiunta”.
Questo sta a cuore a Gesù, ed è questo il tema: la realizzazione del Regno di Dio. Perché? Liberati quindi da ogni preoccupazione questi discepoli sono invitati a lavorare per realizzare il Regno di Dio, cioè la società alternativa dove anziché accumulare si condivide, dove anziché comandare ci si mette a servizio degli altri, e per questo non c’è bisogno di salire in alto sopra alle altre persone, bensì di scendere. Questo è il Regno di Dio, la società alternativa che fa parte del progetto di Dio sull’umanità.
Per questo Gesù l’ha posto nell’unica preghiera che ha insegnato, il Padre Nostro, dicendo “venga il tuo regno”, che non si riferisce alla venuta di qualcosa che ancora non c’è, ma qualcosa che si allarga e si estende. Infatti, dal momento che c’è una comunità di uomini, di discepoli, di donne, che accolgono le beatitudini, il Regno c’è già.
Gesù aveva detto “Beati voi poveri”, quelli che hanno fatto questa scelta della società alternativa, “perché vostro è il Regno di Dio”. Non dice che il Regno sarà, il Regno c’è.
Quindi si tratta di ampliare, di estendere ancora gli effetti di questo Regno. Ebbene, questo Regno si deve allargare grazie all’impegno dei credenti che operano per il progetto di Dio sull’umanità, che è quello – come ha cantato Maria nel Magnificat – di disperdere i superbi, di rovesciare i potenti dai troni e di rimandare i ricchi a mani vuote.
Questo è quello che Gesù vuole e che i discepoli devono realizzare. Questo è il Regno di Dio. Per questa ragione Gesù ai farisei che gli chiedono beffardi: “Quando verrà questo Regno?” perché pensano che sia un’utopia irrealizzabile, ha risposto: “Il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, non è qualcosa di clamoroso, di sensazionale, che scende dall’alto. E nessuno dirà: ‘Eccolo lì’ oppure ‘Eccolo là’. Ecco il Regno di Dio è in mezzo a voi”.
Sono piccole comunità di credenti che hanno accolto il messaggio di Gesù e iniziano quest’opera di liberazione dell’umanità. Pertanto il brano in questione, questo capitolo 18 di Luca, i primi otto versetti, rappresenta un incoraggiamento alle comunità cristiane, le comunità del Regno,  che possono scoraggiarsi, avvilirsi vedendosi sole, fragili di fronte all’enormità dell’ingiustizia della società che le circonda, che è il loro stile.
E la preghiera è finalizzata alla realizzazione della giustizia del Regno di Dio. In questo è il significato dell’insistenza della preghiera. Gesù rassicura: Il Regno di Dio e la sua giustizia – Il termine giustizia in questo brano appare quattro volte, è questo il tema centrale – si realizzeranno.
Ma, perché questo diventi realtà, occorre da parte dei discepoli la rottura coni falsi valori della società, rottura che i discepoli ancora non hanno praticato. Per questo il brano si conclude con lo scetticismo di Gesù: “Ma il Figlio dell’Uomo quando verrà troverà la fede sulla terra?”
Gesù aveva parlato della venuta del Figlio dell’Uomo in coincidenza con la distruzione di Gerusalemme. Gesù l’aveva detto: Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’Uomo si
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manifesterà, nella rovina di Gerusalemme, nella distruzione del tempio Dio viene come liberato e quindi gli si permette di andare verso tutta l’umanità.
Ebbene i discepoli, quando Gesù si manifesterà, saranno ancora impegnati nella realizzazione del Regno di Dio? La finale del vangelo di Luca ne dubita. I discepoli non  hanno ancora rotto con i valori della società, frequentano il tempio – così finisce il vangelo di Luca – quel tempio che Gesù aveva definito un covo di ladri e di discepoli di Emmaus riconoscono ancora come “nostre autorità” gli assassini di Gesù.
Quindi tutto il brano è un invito a non scoraggiarsi per seguire colui che ha detto, in un altro vangelo, quello di Giovanni, “Coraggio io ho vinto il mondo!” Chi si impegna a favore della vita sarà sempre più forte della morte. Chi si impegna a favore della luce vincerà sulle tenebre.

i ‘cattoconservatori’ americani e papa Francesco

 

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

no, decisamente non va giù ai ‘cattoconservatori’ americani, come del resto anche ai nostri ‘atei devoti’ cavalcati da ‘il Foglio’ di G. Ferrara, papa Francesco colpevole di cedere troppo alla ‘cultura moderna’ rinnegando la certezza della dottrina tradizionale e scivolando rapidamente verso un soggettivismo e relativismo pericolosi!

I cattoconservatori americani e papa Francesco

di Massimo Faggioli
 

Papa Francesco ha incontrato finora quasi universale approvazione, ma se c’è un paese in cui i cattolici sono divisi su Bergoglio è la chiesa a stelle e strisce. Un articolo pubblicato dal Washington Post il 15 ottobre 2013 metteva il dito nella piaga, offrendo una piattaforma giornalisticamente credibile ad una platea di cattolici che usualmente parla a se stessa e ai propri adepti, nei loro circoli, le loro riviste, i loro blog. Ma il problema è reale, ed è tipico della chiesa americana e delle sue specificità. Da un lato, vi è una questione di rapporto tra cattolici e non cattolici americani, o, se si vuole, un problema di “quote di mercato”: un papa troppo ecumenico e troppo accogliente, che rigetta il meccanismo dell’esclusione per costruire una identità religiosa, rischia, agli occhi dei cattolici identitari americani, di indebolire il “brand” cattolico. Ma c’è una questione più interessante, interna al cattolicesimo americano: la chiesa Usa è altamente polarizzata e divisa al suo interno. La chiesa cattolica negli Stati Uniti vive a stretto contatto con un ambiente democratico, e in particolare in una democrazia che non è “consensuale” come le democrazie europee basate su alleanze multi-partitiche, ma è una democrazia “concorrenziale”, cioè con due partiti politici alternativi. In questo contesto democratico-competitivo, la Chiesa cattolica ha assorbito alcuni di questi meccanismi al suo interno, anche per quanto riguarda l’ethos della partecipazione nella Chiesa. La partecipazione nella chiesa degli Stati Uniti è guidata spesso da visioni “competitive”, alternative, più che da istinti “consensuali”. Risulta così chiaro perché i “valori non negoziabili” sono diventati così importanti per il cattolicesimo americano: non solo a causa del proverbiale puritanesimo degli americani (anche cattolici), ma anche a causa della cultura politica americana. L’ethos democratico è diventato parte della cultura della Chiesa, ma nella chiesa degli Stati Uniti questo ha creato più “concorrenza” che “consenso”. Papa Francesco ha iniziato il suo pontificato riaprendo programmaticamente le porte ad una lunga serie di esclusi da una chiesa dalle tendenze neo-esclusiviste. È ovvio che i cattolici conservatori siano i più scettici riguardo i nuovi accenti del pontificato di Bergoglio. Che queste voci scettiche arrivino dagli Stati Uniti ha a che fare non solo con la cultura religiosa americana, ma anche con quella politica – quella che sta portando il paese al default, alla bancarotta: quello che papa Francesco vuole evitare per la chiesa cattolica.

‘primato della coscienza’ e ‘relativismo’

vito-mancuso

il teologo V. Mancuso ne ‘la Repubblica’ di ieri risponde in modo eccellente e lucidamente argomentato non solo all’accademico olandese Jan Buruna e alle sue convinzioni che l’invito a seguire la propria coscienza come il luogo della ricerca della verità fatta agli atei da parte di papa Francesco sia in linea perfetta con “l’estremo individualismo della nostra epoca postmoderna”, ma anche alla critica che da diverso tempo , non solo ampi settori della destra americana, ma in modo particolare da noi su ‘il Foglio’ rivolgono a papa Francesco di rinnegare la posizione ortodossa tradizionale della chiesa cattolica per adottare o scivolare verso un ‘relativismo assoluto’ della verità

 Il primato della coscienza

di Vito Mancuso

 L’accademico olandese Ian Buruma affermava martedì su questo giornale che il pensiero di papa Francesco sul primato della coscienza “ben si accorda con l’estremo individualismo della nostra epoca” e, dichiarato il suo sconcerto al riguardo, presentava quale icona-simbolo della posizione papale niente di meno che Edward Snowden, l’uomo che per seguire la propria coscienza è giunto a svelare i segreti dello spionaggio statunitense. Ma che cosa ha a che fare questo estremo individualismo con la posizione papale? Ben poco, probabilmente nulla. Quando si parla di etica si tratta in primo luogo di rispondere a questa domanda: esiste il bene, il bene come qualcosa di universale e di oggettivo che vale per tutti senza dipendere dalle circostanze, oppure tutto dipende dalle circostanze e non esiste il bene ma solo il conveniente? Questa è la domanda numero uno della teologia morale. La domanda numero due consegue logicamente: ammesso che questo bene universale esista, qual è, come si riconosce, chi lo può riconoscere? La risposta del cattolicesimo, riprodotta alla perfezione nella lettera del Papa a Scalfari oggetto della polemica di Buruma e soprattutto di alcuni cattolici tradizionalisti, è semplice e chiara: 1) esiste un bene comune a tutti gli uomini, universale, oggettivo, che non dipende dalle circostanze o dai sentimenti o dalle emozioni, ma che si sostanzia nella natura delle cose; 2) tale bene consiste in ciò che favorisce la vita e come tale ogni uomo può riconoscerlo mediante la luce della propria coscienza. La capacità di conoscere il bene oggettivo mediante la coscienza soggettiva viene espressa dal cattolicesimo con il concetto classico di sinderesi, definito dal Catechismo “la percezione dei principi della moralità” (art. 1780; cf. anche Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 79, a. 12). Il termine viene dal latino synderesis, che riproduce il greco syneidesis, cioè appunto “coscienza”. La sinderesi esprime la capacità luminosa di ogni coscienza umana di riconoscere il bene anche a prescindere dal proprio interesse e dalle diverse circostanze storiche e geografiche, la capacità di sapere se si sta facendo il bene oppure no, fondando così ciò che Hans Jonas ha chiamato “il principio-responsabilità”, ovvero la capacità di giudizio responsabile, a sua volta fondato sulla realtà della libertà. Solitamente ci si riferisce a questa dimensione dicendo “luce della coscienza”, o anche “voce della coscienza”. È netta la differenza rispetto all’individualismo estremo che Ian Buruma attribuisce al Papa: l’individualismo definisce il bene a partire da sé, a suo uso e consumo, papa Francesco invece dice che il bene è oggettivo ma si può riconoscere e praticare solo passando attraverso la coscienza e che per questo “obbedire a essa significa decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male”. Il primato della coscienza (non ontologico, ma gnoseologico) è un concetto peculiare del cattolicesimo che papa Francesco non ha fatto altro che ripresentare, e il fatto che suoni tanto nuovo dovrebbe portare a seri interrogativi sulla qualità di un certo cattolicesimo di corte predominante negli ultimi decenni, smanioso di apparire ortodosso ma in realtà spesso amante del potere e tale da tradire lo spirito interiore più autentico del cattolicesimo. Esattamente in linea con quanto affermato dal Papa rispondendo a Scalfari, si muove un documento della Commissione Teologica Internazionale (organismo di nomina pontificia composto da una trentina di eminenti teologi) del 6 dicembre 2008 intitolato “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”. Dopo aver introdotto il principio della sinderesi, il documento magisteriale afferma che il bene morale “rende testimonianza a se stesso ed è compreso a partire da se stesso” (n° 56). In precedenza le diverse religioni erano presentate come “testimoni dell’esistenza di un patrimonio morale largamente comune”, il quale “esplicita un messaggio etico universale immanente alla natura delle cose e che gli uomini sono in grado di decifrare” (n° 11). Sono parole potentissime che indicano che per la vita morale non sono indispensabili leggi, codici, esteriorità,
autorità: esiste un messaggio etico “immanente” nella natura delle cose, e gli uomini, credenti o no, con la loro coscienza, sulla base della sinderesi, “sono in grado di decifrarlo”. Ne viene che ognuno con la sua ragione può essere in grado di stabilire cosa è giusto fare e cosa evitare, basta che sia onesto con se stesso. Naturalmente ciò non è per nulla facile, e per questo sono di aiuto le leggi, i codici e tutti gli apparati esteriori promossi dall’autorità, i quali però devono venire ultimamente vagliati, e per così dire autorizzati, dalla luce della coscienza. La tradizione cattolica è chiara al riguardo. Così la Bibbia: “La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare” (Siracide 37,14). Così san Paolo: “Tutto ciò che non viene dalla coscienza è peccato” (Romani 14,23). Così Gesù: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Luca 12,57). Tra le numerose auctoritates ecco il cardinale John Henry Newman: “Certamente se dovessi coinvolgere la religione in un brindisi al termine di una cena berrei alla salute del Papa, se vi farà piacere; ma prima alla coscienza, e poi al Papa”; ecco il Vaticano II: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria… nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali” (Gaudium et spes16); ecco il giovane Joseph Ratzinger: “Al di sopra del Papa come espressione del diritto vincolante dell’autorità ecclesiastica, sta ancora la coscienza individuale, alla quale prima di tutto bisogna ubbidire, in caso di necessità anche contro l’ingiunzione dell’autorità ecclesiastica” (citato da Hans Küng nel primo volume della sue Memorie); ecco il Catechismo attuale: “L’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza” (art. 1800). Ed ecco la Commissione Teologica al paragrafo 59 del documento citato: “Soltanto la coscienza del soggetto, il giudizio della sua ragione pratica, può formulare la norma immediata dell’azione”; e subito di seguito: “La legge morale non può essere presentata come l’insieme di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione”. Questo è il nucleo della più genuina tradizione cattolica: il processo della decisione è eminentemente personale. Nessun individualismo quindi, semmai personalismo, che è ben altra cosa. Possono perciò stare tutti tranquilli: papa Francesco è perfettamente cattolico! Ma proprio per questo egli riproduce il paradosso già avutosi con il cardinal Martini, di riuscire a essere veramente universale e a toccare il cuore di molti, non credenti compresi.

acido contro un bimbo rom

bel giglio

 Napoli, quel gesto disumano dell’acido contro un bimbo rom

Piangeva, gridava, teneva le manine sugli occhi mentre sul giubbino comparivano fori enormi a contatto con quel liquido, quasi sicuramente dell’acido

 La testimonianza è di una passante che ieri mattina si trovava in via Andrea Doria, Napoli, quartiere di Fuorigrotta. Le “manine” erano quelle di un bambino rom. Le teneva sugli occhi perché qualcuno da un balcone del palazzo al civico 22 gli aveva gettato addosso dell’acido, probabilmente muriatico. Anche la mamma, che era accanto a lui, è rimasta ustionata al volto. Continue reading

voglio confutare il papa Francesco

Ognuno ha “la sua idea di bene”?

 da liberale, dico no a Bergoglio

 Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

così Umberto Minopoli, ‘ateo devoto’ come lui stesso si definisce, in una lettera al direttore de ‘il Foglio’, Giuliano Ferrara, delineando nelle posizioni di papa Francesco, specie in riferimento alle riflessioni sulla ‘coscienza individuale’ il rischio di ‘individualismo ‘ addirittura ‘radicale’

il rischio è, ovviamente solo immaginato dalla ‘paura’ tipica di chi fa di un tradizionalismo (non della tradizione) ,di linguaggio e di sostanza, qualche cosa di essenziale e insuperabilmente immodificabile nella sua rigidità

è interessante notare che il testo sembra scritto quasi da un teologo della liberazione, la cui teologia fa comodo a ‘il Foglio’ e all’autore della lettera pur di non compromettere un’impostazione e un linguaggio (anche solo questo!) consacrati da un rigido tradizionalismo premoderno

 Da ateo (un po’ devoto), materialista e liberale vorrei provare a confutare il Papa. E a difendere l’idea laica e liberale di “bene” dalle insidie del soggettivismo del gesuita Bergoglio. Scalfari ha sbagliato a non confutare l’affermazione relativistica di Bergoglio: “Ognuno ha la sua idea di bene”, che matura e si forma nella “coscienza individuale”, unico vero tribunale e autorità del concetto di bene. Questa tesi è errata. Da un punto di vista cristiano. Ma, anche e soprattutto, da un punto di vista laico e liberale. Anzi è una regressione, una degradazione, una distorsione di un fondamentale assunto della modernità, della laicità e del liberalismo. Per questi ultimi, mi permetto di obiettare, il vero concetto valevole di edificazione a “valore” specificamente umano e fondativo di civilizzazione non è affatto l’astratta “idea di bene” autoedificata da ognuno nel suo foro interiore che, così declinata, conduce al massimo di “relativismo” radicale. Il “valore” liberale autentico non è il Bene ma il “bene comune”. Cioè un’idea relazionale, altruista, sociale che distingue e segna la soluzione di continuità tra “regno animale” e specificità “umana”. Strano che un Papa abbia steccato su questo. Il tratto distintivo che fa dell’uomo un valore e della “vita umana” un valore non contendibile per un cristiano dovrebbe essere non il fatto che l’uomo ha una “coscienza individuale” come sostiene Bergoglio, ma il fatto che possiede, unico tra i viventi, una tendenza “altruista”: un’idea naturale a strutturare comunità e a valorizzare il bene collettivo, la solidarietà, il comportamento sociale come valore superiore a ogni idea puramente individuale di bene. Il concetto di “persona” che il cristianesimo ha trasferito nelle costituzioni liberali è irriducibile a un individualismo radicale. “Persona” è in sé un valore relazionale: esiste e si giustifica solo in un contesto di socialità e di convivenza strutturata intorno a un’idea di bene non individuale (a ogni vivente e persino a una pianta si potrebbe attribuire un comportamento orientato opportunisticamente a un bene individuale) ma “comune” e collettivo. L’assunto “ama il prossimo tuo come te stesso” è la più potente e dirompente delle prescrizioni cristiane ma anche il meno elusivo dei valori che il cristianesimo veicola nelle compassionevoli e solidaristiche “costituzioni” che il liberalismo occidentale consegna alla storia del progresso umano e della civilizzazione. Ecco il “pizzico” di devotismo, di rispetto e di gratitudine che ogni autentico liberale dovrebbe concedere alla “cultura” cristiana.

Materialisticamente la moderna biologia, quella che si è dedicata alla decrittazione e traduzione dell’informazione contenuta nel genoma umano, sostiene, a ragione, che l’idea di “bene comune” e di comportamento altruistico orientato a strutturare comunità è la vera e unica specificità che distingue l’alfabeto genetico umano da quello di ogni altro vivente. Nella costruzione sociale umana le “comunità” ecco il punto, non sono entità ristrette, puramente naturali, istintive, limitate a cerchie parentali e fondate su un puro comportamento di autodifesa dal resto dei viventi, come funziona invece nel regno animale. Ma sono comunità allargate perché finalizzate, attraverso la divisione del lavoro e la specializzazione delle attività, alla valorizzazione del “bene comune” come condotta che produce il miglioramento della specie. Le grandi sintesi culturali dell’occidente – cristianesimo, illuminismo, liberalismo – hanno cercato di strutturare un corredo di valori e di concetti che fungessero da driver e meccanismi di protezione del funzionamento della comunità umana strutturata sul concetto di “bene comune”. La “società” è in occidente un prodotto culturale che funziona solo in un’accezione di “coscienza collettiva” irriducibile all’idea di “bene” come prodotto della coscienza individuale. Azzarderei a dire, come sostiene un grande libro migliorista – “L’ottimista razionale” di Matt Ridley – che l’individuo è il tratto che accomuna la geografia e l’alfabeto genetico dei viventi. E’ invece il sociale – “cervello sociale”, “cultura” tecnologica, divisione del lavoro, altruismo – il tratto che distingue l’umano da ogni altra versione del vivente. Ciò che lega insieme questa specificità umana è, insomma, il “bene collettivo” come comportamento migliorativo e più pagante per l’individuo rispetto al “bene” come astratta costruzione individuale. Ma come, insorgono i soggettivisti e gli individualisti radicali, dove va a finire con questa idea sociale e collettiva di bene il tribunale interiore, il foro individuale, la costruzione liberale dell’individuo come massimo dei valori fondativi della libertà liberale? L’idea di libertà liberale non è affatto soggettivistica.

Il “foro individuale” non è, per i liberali, il perimetro irriducibile del castello della libertà. E’ un valore difensivo: dalle invasioni, prevaricazioni e deformazioni del funzionamento sociale, delle istituzioni comunitarie, delle strutture della convivenza altruistica che non devono mai debordare  dall’equazione di  base della socialità liberale: l’individuo è orientato dal “bene comune” e il “bene comune” è la forma che realizza, nelle società liberali, il miglioramento della qualità della vita dell’individuo. Per me questo sarebbe, al fondo, un concetto cristiano. Stupisce non trovarlo nelle ruggenti affermazioni di Francesco.

Gnocchi e Palmaro Orgoglioso lamento cattolico – Ferrara La coscienza di due cristiani liberi

di Umberto Minopoli

espulsa ragazza rom mentre era in gita scolastica

ragazza rom espulsa

sempre più frequenti le forme di intolleranza che il governo francese, soprattutto nella persona del suo ministro dell’interno, esprime nei confronti del popolo rom

Francia, espulsione di ragazza rom fa tremare il governo socialista

L’espulsione di Leonarda e della sua famiglia dalla Francia fa tremare la Gauche al potere. Oggi questa ragazza rom di 15 anni si trova in un appartamento di due stanze a Mitrovica, nel nord del Kosovo, paese di origine di suo padre. Ma né lei né i suoi fratelli conoscono una parola in albanese.

Il 9 ottobre, la polizia l’ha prelevata durante una gita scolastica per portarla in aereoporto, dove già l’attendevano i suoi famigliari.

Leonarda Dibrani: “Sono stata male, mi vergognavo di fronte ai miei compagni. Alcuni mi chiedevano: Perché la polizia ti sta cercando? Chi hai ucciso? E io non ho capito più niente, non sapevo cosa dire, mi sono messa a piangere”.

Nel mirino è finito Manuel Valls, il ministro dell’Interno di cui ora anche alcuni esponenti socialisti chiedono apertamente le dimissioni. “Quando una richiesta di asilo viene respinta e non ci sono più ragioni per rimanere sul suolo francese – si difende il ministro – la legge va applicata. E la legge prevede l’espulsione”.

Oltre a Valls, che da mesi predica fermezza su rom e migranti in generale, la scossa ha investito tutto il governo. Il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, è stato costretto a promettere che “se sono stati commessi errori, il provvedimento sarà annullato e la famiglia tornerà in Francia affinché il caso sia riesaminato”.

Un’indagine amminsitrativa è in corso e i primi risultati dovrebbero arrivare in meno di 48 ore. La legge francese non prevede che i minori possano essere fermati dalla polizia mentre sono a scuola o durante una gita di istituto.

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riflessioni a margine del funerale di Priebke: cos’è più grave?

funerali

meravigliose parole, secche e giustamente indignate, di M. Serra nella ‘amaca’ odierna a margine della morte e del funerale di Priebke:

Bisogna essere grati alla piccola comunità lefebrvriana per il suo farsi carico (anche prima del caso Priebke) di un incommensurabile scandalo, così bene esposto dal loro portavoce: è più grave – dice – avere dato la comunione a Luxuria che celebrare i funerali di Priebke. E dunque un transessuale è più colpevole di un assassino; trasgredire la morale tradizionale è più grave che ordinare un eccidio di innocenti; fornicare è più grave che uccidere; accettare la libertà sessuale è più destabilizzante che accettare il genocidio, e dunque sul secondo si può anche chiudere un occhio, sulla prima bisogna essere inflessibili. Rovesciando il vecchio slogan: “Fate le guerra, non l’amore”. Su questo – ripeto – incommensurabile scandalo si regge, se non tutto, buona parte del dolore, del sangue e dell’odio che affliggono l’umanità. Il terrore del sesso è il motore primo di questa visione della vita, e della società, totalmente paranoica, e ancora bene attiva sebbene parecchio incrinata, negli ultimi due secoli, dalla potenza della libertà. Sono sicuro che non solamente il manipolo di catto-fascisti lefebrvriani (tal quali i talebani) ma anche molti insospettabili benpensanti provano più disagio di fronte a un “frocio” che di fronte a un nazista

gli italiani non vogliono né l’indulto né l’amnistia

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO
Indulto e amnistia contrari sette italiani su dieci

Per Silvio Berlusconi spunta l’ipotesi di uno sconto a metà

Gli italiani non vogliono né l’indulto né l’amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l’elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell’elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di “salvacondotto ” non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4.

Se su amnistia e indulto nel Paese le idee sono piuttosto chiare, in Parlamento sembra meno. Nel Palazzo si discute ma il nodo è sempre e solo uno: Silvio Berlusconi. Il punto di domanda è: deve il Cav rientrare tra i beneficiari di un’eventuale decisione?
Come scrive Giovanni Bianconi su il Corriere tutto dipenderà da come sarà scritta la legge. Un testo c’è, è Il ddl Manconi Compagna che prevede espressamente che Berlusconi venga escluso sia dall’amnistia che dall’indulto. Perché la frode fiscale non è compresa nei reati cancellati e perché la riduzione della pena viene esclusa per coloro che hanno usufruito di quella sancita con la legge del 2006.

Certo è che un disegno del genere non piacerebbe per nulla al Pdl e difficilmente passerebbe visto che per votare una legge del genere ci vogliono i voti dei due terzi del parlamento. Anche su questo – scrive sempre Bianconi – una soluzione potrebbe arrivare dagli indulti varati in passato, nei quali era stabilito che chi avesse già goduto di un provvedimento precedente potesse accedere a uno sconto pari alla metà di quello previsto dalla nuova legge. Nel caso del Cav – conclude Roncone – se l’indulto fosse due anni a lui verrebbe applicato per uno e ciò basterebbe a cancellare anche la pena residua.

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la vergogna delle nostre carceri

nel bicchiere

le nostre carceri fanno vergogna, ci fanno vergogna, sono condannate anche dalla comunità europea: cosa fare, come evitare solo riforme epidermiche e affrontare una vera riforma strutturale è diventato un dibattito ormai pubblico, cavalcato politicamente soprattutto da chi è sempre stato sordo a queste problematiche e soprattutto ai problemi e alle sofferenze dei poveri diavoli

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO

uno stimolo alla corretta riflessione è contenuto ne l’ ‘amaca’ odierna di M. Serra:

Nel dibattito molto emotivo sulla condizione carceraria non si capisce perché siano usati l’uno contro l’altro due argomenti ugualmente inoppugnabili come la certezza della pena e l’utilità/umanità della stessa. Un Paese che apre le sue carceri perché non è in grado di averne a misura di Costituzione, e si vergogna delle decrepite galere dove stipa i detenuti, non è un Paese serio. Indulto e amnistia, quand’anche servano (e servono) a far scendere la febbre delle carceri, e ad alleviare sofferenze, hanno il difetto “politico” di sembrare un espediente tanto quanto i giustamente detestati condoni edilizi e fiscali. In questo senso credo abbia ragione Matteo Renzi quando eccepisce sull’indulto. Lo avrà anche fatto per ragioni elettorali, ma il problema c’è e non vederlo vale a credere che basti, ogni tanto, un breve sussulto di unanime pietismo per affrontare una piaga strutturale, e considerata con giusta severità dall’Europa. All’orribile colpa di mantenere reclusi anche imputati non ancora passati in giudizio definitivo, o poveri cristi ingabbiati per reati minori, lo Stato somma quella, non meno grave, di non provvedere alla salute, alla dignità, ai diritti di chi sta in carcere anche per giusta pena. È facile commuoversi per gli innocenti in carcere, il problema vero è che bisogna commuoversi per i colpevoli.

Da La Repubblica del 15/10/2013.

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