dialogo sulla democrazia tra Scalfari e Cacciari

 

Scalfari
Scalfari e Cacciari, dialogo sulla democrazia
“Non è solo una questione di voto”

Il filosofo e il fondatore di Repubblica hanno discusso dell’Europa e della qualita della sua democrazia. L’ex sindaco di Venezia: “Dove il potere politico è debole cresce la forza della burocrazia”. Il giornalista: “Il Comune è il punto dove si realizza la partecipazione”
di GLORIA BAGNARIOL

 

 “Europa e euro: dentro o fuori?” Questo il tema scelto per la quinta edizione di Repubblica delle Idee. che fra l’inaugurazione alla Fenice di Venezia e le giornate mestrine ha visto una grande partecipazione di pubblico in teatro ed anche sui social network, su Twitter l’hashtag #rep2013ve è statto fra i trend topic del week end. La risposta che si è venuta a creare attraverso gli incontri e le tavole rotonde dei primi due giorni che hanno ospitato imprenditori e politici locali, nazionali e europei è stata chiara: dentro. Anche le condizioni sono state condivise: è necessario un salto da un’unione meramente monetaria a una politica. Ma cosa significa? La risposta è stata affidata all’incontro conclusivo della manifestazione: il dialogo tra Eugenio Scalfari e Massimo Cacciari, nel quale si è indagata la qualità democratica di cui questa Europa ha bisogno. Per concludere che “la democrazia non è solo questione di voto”.

“Pericle – spiega Eugenio Scalfari – è ancora raccontato nei libri di storia come il simbolo massimo della democrazia greca, madre di tutte le democrazie. C’era partecipazione nel popolo di Atene? Sicuramente no, e questo può bastare a dire che non c’era democrazia?”. Bisogna quindi mettersi d’accordo sul senso del termine e, come chiarisce Massimo Cacciari: “Articolare il tipo di democrazia del quale abbiamo bisogno per poterne salvare l’idea”. Partire dalla convinzione che la democrazia non si esaurisce nel voto, ma ha bisogno della partecipazione.

La storia degli Stati nazionali ha portato a una declinazione del concetto di democrazia che non può applicarsi tout court al Vecchio Continente che ha avuto un percorso evolutivo differente. Secondo Cacciari, con il quale Scalfari concorda, “L’Europa è policentrica per sua natura e non può essere ridotta a uno. Tutti coloro che ci hanno provato hanno fallito, ha fallito anche Napoleone”. Il presupposto
necessario è quindi realizzare il passaggio da confederazione a federazione: “Sganciarsi dall’idea di uno Stato centrale per poter ragionare seriamente e serenamente in termini federalistici”.

Una federazione che abbia competenze determinate per poter risolvere le sfide di una società globale alle quali gli Stati-nazione non possono trovare da soli le risposte e che garantisca a livello locale il rapporto con il cittadino, necessario a garantire quella sovranità che ora sente di aver perduto. “Il Comune – sottolinea Scalfari – il municipio nelle metropoli, è il punto in cui si realizza al meglio la partecipazione, mano mano che si sale si può avere solo una democrazia indiretta”.

Non bisogna quindi chiedersi se vogliamo l’Europa, ma quale Europa vogliamo e come poterla costruire, come la sua articolazione possa difendere quei valori che riconosciamo come fondanti. Repubblica delle idee ha scelto Venezia per parlarne proprio perché “questa terra – come ha detto il direttore Ezio Mauro – quando parla di Europa parla di se stessa”. La quinta edizione termina quindi tra gli applausi del pubblico del Teatro Toniolo e con l’invito di Ezio Mauro a partecipare alle prossime tappe: “Abbiamo scelto questa notte dove andremo nel 2014, ma devo ancora avvertire il sindaco, quindi non posso dirlo”.

diritto d’asilo e alla sicurezza

migranti

un contributo alla riflessione su un problema da troppo tempo di drammatica attualità:

Diritto all’asilo e alla sicurezza

(Tito Boeri).

 

Almeno 6.772 persone, quasi 2 al giorno, sono morte negli ultimi 10 anni nell’attraversamento del Canale di Sicilia, in cerca di asilo. È una stima per difetto perché di molti barconi e persone inghiottite dal mare non si è mai avuto notizia. Il presidente del Consiglio Letta ha annunciato, da oggi, un impegno straordinario del nostro Paese con missioni navali ed aerei per rendere il Mediterraneo il mare più sicuro possibile.

Speriamo che serva almeno a contenere questa macabra contabilità. Qualche ragione per dubitarne purtroppo c’è. Molti affondamenti sono coincisi proprio con l’avvistamento di una nave o di un aereo, per via della concitazione a bordo di imbarcazioni sovraffollate. Già prima del naufragio dell’Isola dei Conigli erano state salvate, secondo i siti specializzati, circa 2.200 persone: quindi i pattugliamenti c’erano già e non hanno evitato quelle stragi. Il fatto è che il monitoraggio, per quanto accurato, non riesce a identificare piccole imbarcazioni alla deriva, specie in condizioni meteorologiche avverse. Infine, anche se il piano funzionasse davvero, rendendo il mare un po’ più sicuro c’è sempre il rischio di spingere più persone a mettersi in mare su imbarcazioni di fortuna con il risultato, alla fine, di aumentare il numero dei morti anziché ridurlo.
Bisogna quindi fare di più se vogliamo che il sentimento di vergogna per queste morti si trasformi in energia positiva. Molto spetta all’Europa, ma non deve essere un alibi perché abbiamo parecchio lavoro da fare anche da noi.
Cominciamo dall’Europa. Nelle ultime settimane, grazie anche alle pressioni del governo italiano, ci sono stati segnali di una maggiore attenzione che in passato. Bene approfittarne. Date le proporzioni del conflitto in Siria e il numero di potenziali richiedenti asilo (si parla di 2 milioni), ci sono gli estremi per richiedere un regime di protezione temporanea per gestire la crisi. Questo significa spartire l’onere di fornire asilo fra i paesi membri, alleggerendo quelli di frontiera. È un principio giusto perché è opportuno condividere non solo l’onere di protezione delle frontiere (e a tal fine bisognerebbe rifinanziare Frontex e coprire anche le missioni italiane di questi giorni), ma anche quello di accoglienza. Prendendo queste decisioni a livello europeo, è possibile sottrarle alla demagogia di politici locali che vogliano cavalcare i sentimenti anti-immigrati latenti nell’elettorato. Degno di nota il fatto che i paesi che hanno ristretto maggiormente le politiche d’asilo negli ultimi anni sono proprio quelli cui non si applicano le direttive comunitarie sull’asilo, come il Regno Unito, mentre in Norvegia il partito uscito vincente dal voto sta stringendo un accordo con l’ultradestra xenofoba attorno al restringimento delle politiche d’asilo. Per gestire la protezione temporanea bisognerebbe creare un fondo di solidarietà a livello europeo, sapendo che la concessione dell’asilo ha costi non indifferenti (si stima il costo dei 26 mila richiedenti asilo in Italia nel caso dell’emergenza Nordafrica in circa un miliardo e 400 milioni nel giro di due anni).
Ma anche il cosiddetto burden sharing (condivisione degli oneri dell’asilo) non risolve il problema delle morti nel Mediterraneo perché interviene solo
ex post, una volta che queste persone sono arrivate in qualcuno dei paesi dell’Unione, con tutti i rischi che questo viaggio della speranza comporta. Né sembra possibile organizzare esodi di massa dai paesi in conflitto, dato il numero potenzialmente incontrollato delle persone che ne potrebbero trarre vantaggio e la stessa indeterminatezza circa i paesi in conflitto (molti dei disperati arrivati a Lampedusa provenivano dall’Eritrea, non dalla Siria). Serve, invece, dare la possibilità di formulare domanda di asilo ancora prima di mettersi in viaggio verso l’Unione. Questo permetterebbe a molti di viaggiare in condizioni più sicure: oggi il viaggio in aereo viene reso impossibile non tanto dai costi (i sopravvissuti raccontano di 1.500 o 2.000 euro pagati per salire sulle navi delle morte, molto di più di quanto costerebbe un regolare biglietto d’aereo), ma dal fatto che le compagnie aree si rifiutano di accogliere a bordo chi non ha un visto per paura di incorrere in sanzioni e oneri di rimpatrio. Inutile sottolineare che, anche in questo caso, è molto probabile che ci sia un numero altissimo di domande d’asilo. Bisognerebbe perciò porre dei limiti alle domande che possono essere accolte e stabilire dei meccanismi di selezione, ad esempio in base alla gravità del conflitto, alla presenza di bambini o anziani fra i richiedenti, eccetera… Questo comporta un cambiamento non piccolo della normativa comunitaria che oggi attribuisce un diritto soggettivo all’asilo da parte di chiunque metta piede sul territorio dell’Unione fuggendo da una zona di guerra. È una normativa che era stata creata per gestire i piccoli numeri dei rifugiati politici, non i milioni di persone che hanno la sfortuna di vivere in aree in conflitto. Bene prenderne atto e porvi rimedio prima che venga del tutto annullato il diritto d’asilo per via delle reazioni dell’opinione pubblica, come avvenuto in Germania con la cancellazione di norme costituzionali dopo l’arrivo di 500 mila rifugiati bosniaci. Fondamentale anche che l’Unione aiuti i paesi ai confini delle aree in conflitto, come la Giordania, in cambio della loro cooperazione nella gestione dell’emergenza profughi.
Mentre l’Europa deve costruire le sue politiche d’asilo e dotarsi di un fondo di solidarietà per gestirle, noi dobbiamo rimettere mano alle nostre politiche dell’immigrazione economica, che portano anch’esse una responsabilità non indifferente nel cimitero Mediterraneo perché molte vite umane troncate sono di persone che non fuggivano dalla guerra ma dalla miseria. In questi giorni si parla molto di abolire la Bossi-Fini e soprattutto il reato di immigrazione clandestina. Sono scelte condivisibili, ma irrilevanti nel gestire l’emergenza umanitaria. Il reato di immigrazione clandestina non è in realtà quasi mai applicato. Ha il solo effetto, imponendo sanzioni inesigibili, di appesantire il lavoro dei nostri Tribunali. Sacrosanto toglierlo dal nostro ordinamento, ma sapendo che è un problema che ha a che fare più con la riforma della giustizia che con la riforma delle politiche dell’immigrazione. Quanto alla Bossi-Fini, credo di essere stato uno dei primi a denunciarne l’inadeguatezza e la demagogia. Ma ciò che va cambiato nelle nostre leggi di immigrazione per evitare nuove stragi in mare, ha a che vedere con norme che erano già nelle leggi antecedenti, a partire dalla Turco-Napolitano. Si tratta dell’ipocrisia secondo cui è possibile trovare un lavoro agli immigrati quando sono ancora nel paese di origine. Come se avessimo centri dell’impiego che funzionano nell’Africa sub-sahariana, quando non riusciamo a far funzionare neanche quelli di molte regioni italiane. Questa ipocrisia impone agli immigrati di arrivare illegalmente da noi, con mezzi di fortuna e ricorrendo a scafisti senza scrupoli. Bisognerebbe, invece, permettere un numero di ingressi realistico, che tenga conto delle esigenze non solo delle imprese ma anche delle famiglie italiane, e permettere alle persone che vogliono lavorare in Italia di arrivare da noi con visti temporanei, finalizzati alla ricerca di un posto di lavoro.

Da La Repubblica del 14/10/2013.

da ateo ho imparato dal card. Martini

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Giulio Giorello 

La lezione di Martini. Quello che da ateo ho imparato da un cardinale

Martini vivant! avrebbe scritto un altro più celebre ateo, Jean Paul Sartre. Scorrendo infatti le pagine commosse di questo libro non possono che venire in mente gli elogi post mortem che il filosofo dell’esistenzialismo aveva profuso ai suoi amici-avversari (Merleau Ponty o Camus giusto per fare qualche nome). Giorello marca le differenze emotive e sostanziali con il cardinal Martini, ma ne traccia un ritratto di uomo e pastore intellettualmente onesto e aperto al dialogo. Un libro che acquista un sapore nuovo in tempi in cui un papa emerito scrive a un matematico impertinente e un papa in carica risponde alle sollecitazioni del decano dei giornalisti dichiaratamente ateo. Tempi di interlocuzione e confronto, dunque. Ma ne “La lezione di Martini” c’è una pregnanza ulteriore. Finanche qualcosa da imparare, per un ateo, da un principe della Chiesa. Con un velo di ironia Giorello dichiara che taluni atei integralisti non gli perdoneranno l’ammirazione che egli nutre per Martini che chiamerà ad un certo punto “il mio arcivescovo”.

Giorello venne chiamato proprio da Martini alla “Cattedra dei non credenti” che il cardinale volle nella diocesi ambrosiana. Niente a che vedere con l’annacquato Cortile dei Gentili di ravasiana memoria, ma un luogo irripetibile di confronto tra credenti ed atei pensanti, che i successori Tettamanzi e Scola non saranno all’altezza di ripetere. Tra queste pagine vengono riportati alcuni stralci delle lezioni martiniane (in particolare l’XI sessione) alla “Cattedra” e a emergere è una figura che guarda al relativismo non come una iattura ma come atteggiamento propedeutico per la ricerca della verità, un rifiuto endemico per ogni egemonia (foss’anche in nome della verità), una rara capacità di ascolto ed interlocuzione. Lo stesso Martini dimessosi da cardinale e in ritiro a Gerusalemme per ritrovare le radici di una Chiesa che riteneva “indietro di almeno 200 anni” e per la quale negli ultimi tempi, in preda al Parkinson che lo costringerà a ritornare in Italia, non cessava di pregare, che ebbe a dire che “la solitudine è forse il carattere più drammatico della vita di ogni essere umano”.

Questa è la lezione profetica di Martini, antesignano di una Chiesa ancora di là da venire perché sono “i sognatori a tenere aperte le sorprese dello Spirito”. Un libro tenue e senza asprezze, ricco di suggestioni e dal profilo etico altissimo, dove aldilà delle latitudini fa capolino la parola “amicizia” che azzera ogni differenza.

i rom sono ladri: bifera al Parlamento Europeo

 

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il parlamentare europeo italiano, tale Morganti, di Prato, accusa i rom di essere ladri e suscita una bufera e una dura reazione di Viviane Reding, vice presidente della Commissione Europea e responsabile per la Giustizia:

 Viviane Reding: “Provo vergogna per certe parole”

“Ho davvero provato vergogna di essere presente e aver ascoltato certe parole”. Cosi’ Viviane Reding, vicepresidente della Commissione europea e responsabile per la Giustizia, ha reagito agli attacchi ai Rom fatti da alcuni eurodeputati euroscettici, tra i quali il pratese Claudio Morganti (ex Lega Nord), l’indipendentista fiammingo Philip Claeys (Vlaams Belang), il bulgaro di estrema destra Dimitar Stoyanov ed il britannico Paul Nuttall dell’Ukip, durante il dibattito in aula. “I Rom sono esseri umani – ha aggiunto Reding – Dobbiamo smetterla di stigmatizzare alcuni nostri concittadini a causa della loro origine etnica”. Negli interventi degli euroscettici e della destra i Rom sono stati additati come dediti al furto e all’accattonaggio. Morganti ha affermato che a una comunita’ Rom di Pisa “sono state regalate, con soldi nostri, villette con tutti i confort”, e che esse sarebbero state “usate come base operativa per il saccheggio delle nostre case, tanto che vi sono stati trovati oggetti rubati per un valore di 300.000 euro”. Ha inoltre parlato di una ragazza “maltrattata e seviziata per costringerla a sposare un Rom”.

il grido di Gad Lerner, il grido di ciascuno di noi

Non perdete tempo: ci vogliono i traghetti, ci vuole pietà

Immigrazione: barcone in difficoltà, persone in mare

Continuano a morire in mezzo al mare, dopo essersi spogliati di ogni loro avere per pagare cifre assurde agli scafisti che organizzano il viaggio. Ieri notte altri 50 annegati al largo di Malta, e fra loro 10 bambini. Vero è che stavolta l’intervento è stato tempestivo, consentendo il salvataggio di circa 250 migranti. Ma è chiaro che il pattugliamento da solo non basta, svolge una funzione meramente contenitiva, del tutto inadeguata. Ci vogliono i traghetti per far viaggiare le persone al sicuro. Traghetti e voli charter. Istituendo postazioni dell’Onu e dell’Ue nei principali porti di partenza in Libia, Egitto e Tunisia, per identificare e dotare di documenti provvisori i profughi, Non si può perdere altro tempo, se abbiamo un minimo di pietà.

 

le epurazioni di radio maria

 

cammino

i rischi di una papolatria in certi ambienti cattolici sembrano continuare anche dopo i segnali forti di papa Francesco in direzione del superamento di posizioni che rasentano l’eresia e l’idolatria (però Radio Maria si è coltivata in seno fino ad ora da un po’ di tempo questi giornalisti e scrittori, che fino a pochi mesi fa andavano benissimo con altri pontificati, veicolando impunemente impostazioni conservatrici e perfino negatrici del Vaticano “° … )

Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro criticano Papa Francesco su Il Foglio  E Radio Maria li epura

Epurati da Radio Maria dopo dieci anni di lavoro per aver scritto, sulle colonne de Il Foglio, un articolo dal titolo “Questo Papa non ci piace”. È successo a due giornalisti – Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro – che sul Foglio oggi in edicola pubblicano una lettera in cui esprimono tutta la loro amarezza di fronte a un epilogo che considerano ingiusto.

Dopo l’articolo in questione – scrivono i due giornalisti – “siamo stati esautorati dalla conduzione delle trasmissioni che abbiamo condotto per dieci anni su Radio Maria […]. Ci è stato comunicato con una garbatissima telefonata del direttore, padre Livio Fanzaga”. Padre Livio – continuano i due – “ritiene che non si possa essere conduttori di Radio Maria e, contemporaneamente, esprimere critiche sul Papa”.

“Pur non condividendo questa linea editoriale – proseguono Gnocchi e Palmaro – ne prendiamo atto rimarcando comunque che le nostre critiche a Papa Francesco non contengono una sola riga che non si attenga alla dottrina cattolica e non sono state espresse dai microfoni della Radio. L’atto compiuto nei nostri confronti risulta dunque abbastanza raro nell’uso giornalistico sia nella sostanza sia nel metodo colpendo delle opinioni, discutibili certo ma legittime, espresse su un’altra testata”.

Il Foglio – che negli ultimi tempi ha aperto un confronto di opinioni “pro” e “contro” il “Papa venuto dalla fine del mondo” – ospita insieme alla lettera anche due commenti, uno che sostiene le tesi di Gnocchi e Palmaro (“Francesco sta fondando una nuova religione opposta al Magistero cattolico”) e uno che invita i cattolici fedeli a metabolizzare il “disagio” provocato dai gesti e dagli atteggiamenti più rivoluzionari di Bergoglio (“Capisco il disagio, ma nella chiesa si cammina col Papa o si va verso lo scisma”). Viene da chiedersi cosa ne pensa Francesco dell’epurazione dei due conduttori. Chi lo critica, su una testata non del Vaticano, deve essere punito?

rischio cinismo e disumanità

M5S

reato di clandestinità

anche questo bell’articolo di Concita De Gregorio, pubblicato sul ‘la Repubblica’ di oggi,, va utilmente aggiunto alle tante opportunità di riflessione che in questi giorni , nonostante tutto, sono emerse sui mass media in risposta all’ ‘assoluta vergogna’ del naufragio di Lampedusa:

IL CINISMO A CINQUESTELLE

(Concita De Gregorio)
 

 

È la legge del mare. È la legge di Dio. È la legge degli uomini da prima che ogni legge sia mai stata scritta. Salvare un uomo in mare. Non c’è nemmeno da spiegarlo, mancano le parole. Provate solo ad immaginare che succeda a voi. Siete in barca, vedete qualcuno che sta annegando e che vi chiede aiuto. Un ragazzo, una donna che annega a pochi metri da voi. Sareste capaci di lasciarlo morire sotto i vostri occhi? Gli chiedereste – di qualunque religione, partito politico, di qualunque razza voi siate – da dove viene e a fare che cosa o gli gettereste prima un salvagente? Vi buttereste voi stessi, quasi certamente. Non è una regola, è istinto. È ineludibile afflato di umanità. È quel che distingue gli essere umani dalle bestie, e non sempre perché spesso la lezione arriva dagli animali.

Ecco. Si fa moltissima fatica a dare un giudizio politico della censura di Beppe Grillo e dell’ideologo Casaleggio ai parlamentari cinque stelle che al Senato hanno proposto e poi votato un emendamento che dice questo: chi trova una persona in mezzo al mare può soccorrerla senza rischiare di commettere reato. «Non li lasceremo più morire. Più sicurezza e umanità», hanno scritto Maurizio Buccarella e Andrea Cioffi, i senatori cinque stelle poi sconfessati con durezza dal Capo. Si fa fatica a dare un giudizio politico su chi pensa ai suoi elettori – al suo consenso attuale ed eventuale – prima che ai morti. «Se avessimo proposto di abolire il reato di clandestinità avremmo ottenuto dei risultati elettorali da prefisso telefonico», si legge nella risoluzione pomeridiana del blog sovrano, la voce del Padrone. Non ci sarebbe convenuto, non ci conviene.

Quindi ora scusate se ai cinici sembrerà demagogia ma provate a pensare ai trecento morti in fondo al mare di Lampedusa, al morto «numero 11, maschio, forse anni 3», che se fosse stato vivo sarebbe stato clandestino anche lui, e perseguibile chi avesse salvato quel bambino di tre anni dal mare. Provate a dire se vi sembra degna di un essere umano una legge che sanziona chi soccorre un bimbo in mare, chiunque quel bambino sia perché questo e solo questo è: un bambino. Provate adesso a dare un giudizio politico a due leader politici che pretendono di rinnovare la politica e il Paese e intanto dicono questo: soccorrere uomini e donne in mare «è un invito ai clandestini di Africa e Medio Oriente ad imbarcarsi, ma qui un italiano su otto non ha i soldi per mangiare». Quindi non vengano, o se vengono affoghino. Servirà da lezione agli altri.

La Lega ha applaudito Grillo con osceno entusiasmo. Il Pdl, in una sua buona parte, si è accodato. L’emendamento è passato coi voti di altri Pdl, di Scelta civica di Sel e del Pd, oltre che dei quattro senatori cinque stelle in commissione. Niente affatto pentiti, questi ultimi. Immediata assemblea del gruppo, questa volta stranamente non in streaming. Giornalisti e militanti fuori dai piedi. Il tema immigrati non era nel programma, è l’argomento del fedelissimi al capo: gli eletti devono attenersi al mandato e non prendere iniziative personali. Ma, domandiamoci, ci sarà una ragione se non c’era una parola, neanche una, sul tema dell’immigrazione e delle leggi sui clandestini nel programma di Grillo, molto netto invece nel proporre – per esempio– un referendum sull’uscita dall’euro.

Poco a poco si delinea un profilo politico che pure era chiaro, ma che ha confuso una buona parte dell’elettorato di sinistra attratto dai temi sacrosanti del rinnovamento e dello strapotere corrotto della casta. Questa roba con un’Italia migliore non c’entra. È un calcolo, una strategia di marketing elettorale di ambigua origine e di sempre più nitido approdo. Ma di nuovo: dare un giudizio politico, in un caso come questo, è troppo onore. «Non li lasceremo più morire», non è una posizione politica, è ladeclinazione di un essere umano. Chi preferisce che anneghino faccia i conti con se stesso e certo poi, se crede, anche col suo elettorato.

questo papa!

Francesco papa

papa Francesco nell’occhio del ciclone osservato da angoli visuali opposti: per esempio, piace molto a ‘la Repubblica’, specie, comprensibilmente al suo fondatore e al suo direttore, non piace affatto al ‘Foglio’ di Ferrara, che pur ‘devoto’, ancorché ‘ateo’,
non riesce proprio a digerirlo

di seguito un’esemplificazione di questa polarizzazione attraverso l’articolo odierno del direttore di Repubblica, E. Mauro (che presenta ufficialmente la corrispondenza tra papa Francesco , Scalfari e la Repubblica) e un articolo comparso sul Foglio di ieri dal titolo significativo: ‘questo papa non ci piace’ a firma di A. Gnocchi e M. Palmaro che accusano addirittura il papa di considerare Cristo come “un’opzione tra le altre”, oltre che di relativismo proprio là dove Mauro vede un’autentica testimonianza evangelica come “vero atto di fede nell’uomo”

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Papa Francesco-Eugenio Scalfari: il dialogo tra chi crede e chi non crede

di Ezio Mauro
in “la Repubblica” del 10 ottobre 2013

L’interesse per l’uomo è il cuore del lungo dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Più ancora ne è la ragione, l’inquietudine. Il non credente legge l’enciclica e pone un interrogativo di fondo al nuovo pontefice: chi non ha fede sarà perdonato alla fine dei tempi? Se ricerca verità relative, non credendo nell’assoluto, ciò sarà considerato un errore o un peccato? Qual è dunque lo status del non credente per il Papa di Roma, che ruolo assegna al libero pensiero, alla sua ricerca autonoma e indipendente, e in quale misura si sente interpellato da tutto questo? La decisione di rispondere da parte di Jorge Bergoglio è già in sé una manifestazione di interesse e di attenzione senza precedenti. Non c’era mai stata una lettera di un Papa a un giornale. Scegliendo di scriverla, Francesco sceglie anche di interloquire con una platea più vasta ed anomala rispetto all’uditorio costituito dei fedeli: è come se decidesse di passare dal popolo cristiano alla pubblica opinione, un soggetto distinto, autonomo, moderno, soggetto attivo e protagonista delle democrazie occidentali. La decisione di dialogare, dunque, è un messaggio in sé, è portatrice di significato, fa il giro del mondo. Scalfari è scelto dal nuovo Papa come il rappresentante di un universo esterno alla Chiesa, ma un universo che lo interessa, che lo raggiunge, di cui si sente in qualche modo responsabile. E qui c’è la seconda sorpresa, che è il secondo messaggio. Perché il Papa sceglie la strada del dialogo, dichiara subito che intende avviare un percorso di confronto per tentativi, tappe, incontri. Qualcosa di impegnativo, fuori dai canoni, dall’ufficialità, dalla meccanica curiale. Il Papa si sente investito dalle domande, dall’interlocutore, dall’occasione. Pensa che insieme si possa andare avanti a cercare, a scambiare porzioni di verità, forse a capire. Insieme. E qui, si arriva al contenuto, che è il terzo messaggio ed è ancora una sorpresa. Leggendo la lettera, quel pomeriggio in cui è arrivata a Scalfari, ho avuto la sensazione che il Papa fosse pervaso da un fortissimo interesse spirituale ma soprattutto intellettuale per la discussione che si stava avviando, quasi spinto dall’urgenza degli argomenti da mettere in campo, guidato dal desiderio autentico di quella ricerca comune. Il centro del suo discorso, l’urgenza che lo domina, è Gesù Cristo, Dio fatto uomo e poi risorto. Ma di fronte al non credente — e quasi insieme con lui — il Papa ripete la domanda del Vangelo quando Gesù ha calmato il mare fermando i venti e la tempesta: «Chi è costui?» E la risposta di Francesco spiega da sola le ragioni del dialogo. Perché l’autorità di Gesù non vuole esercitare un potere sugli altri, ma vuole servirli, dice il Papa, e dare loro libertà e pienezza di vita. Chi sono questi altri? Sono forse i credenti soltanto? Con ogni evidenza sono gli uomini, con i loro limiti e i loro errori, la loro incompiutezza e la tensione verso la bellezza, con la loro speciale (diversa per ognuno, ma intima e autentica) concezione del bene e del male, insomma con la loro speciale “umanità”. Ecco perché il Papa dà non soltanto ascolto, ma pari dignità al non credente e alla sua ricerca di significato per il mondo che ognuno di noi attraversa durante la sua esistenza. È il riconoscimento implicito che anche senza il legame con il trascendente — che per Francesco è ovviamente centrale e domina la sua vita — l’esperienza terrena può trovare un suo senso e la sua dignità più alta, quella appunto che sta nei limiti e nell’eccezionalità dell’“umano”. Il Papa compie qui quello che a me sembra un vero atto di fede nell’uomo. Dice infatti a Scalfari, sciogliendo il nodo di fondo di questo dialogo, che la vera questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza, perché il peccato, anche per chi non ha fede, si compie quando si va contro la coscienza. La coscienza può dunque essere la guida dell’uomo e la sua misura, la risorsa e il riferimento. È un riconoscimento senza precedenti, da parte di un Papa, della possibilità di autonomia morale e spirituale del libero pensiero laico, che troppi relegano in una posizione di minorità sostenendo che senza il legame col trascendente non sarebbe in grado di garantire i presupposti che afferma. Nell’intervista che prosegue e sistematizza il confronto, il Papa si muoverà invece ancora su questa nuova strada, ricordando che non esiste un Dio cattolico, esiste Dio, e «tutta la luce sarà in tutte le anime». E aggiunge che la grazia non fa parte della coscienza ma la precede,
perché non è sapienza o ragione, ma «la quantità di luce che abbiamo nell’anima ». Tutti, compresi i non credenti. Il dialogo che raccogliamo qui, nello scambio di lettere, nel testo dell’intervista, nei commenti di intellettuali laici, uomini di Chiesa, teologi — è avviato, partendo da posizioni distinte, che restano ferme e nette. Ma dopo questa testimonianza di fiducia nell’uomo da parte di Francesco si può camminare insieme

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Questo Papa non ci piace

Le sue interviste e i suoi gesti sono un campionario di relativismo morale e religioso, l’attenzione del circuito mediatico-ecclesiale va alla persona di Bergoglio e non a Pietro. Il passato è rovesciato

Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di cui Papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il Papa, che abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto.

Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché, questa volta, il Papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella laica a dire che, adesso sì, la chiesa si mette al passo con i tempi. Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in fretta il giornale e domani si vedrà.

Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto quanto Papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a Civiltà Cattolica.

Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero stati i “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è cambiato. E’ tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che travisano a bella posta il Papa, il quale direbbe solo in modo diverso le stesse verità insegnate dai predecessori.

Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità”, chiede per esempio Scalfari nella sua intervista, “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”. “Ciascuno di noi”, risponde il Papa, “ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. “Lei, Santità”, incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero, “l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto”, ribadisce il Papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.

A Vaticano II già concluso e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della “Veritatis splendor”, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero moderno”, che “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile conciliare il Bergoglio 2013 con il Wojtyla 1993.

Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di Papa Francesco in evidente contrasto con ciò che i papi e la chiesa hanno sempre insegnato e le trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”, che dice sempre e ovunque quello che pensa l’Osservatore Romano, tira in ballo il contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia della chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”, difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se un Papa dice in un’intervista “io credo in Dio, non in un Dio cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel 1713, Clemente XI pubblica la costituzione “Unigenitus Dei Filius” in cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864, Pio IX pubblica nel “Sillabo” un elenco di proposizioni erronee. Nel 1907, San Pio X allega alla “Pascendi dominici gregis” 65 frasi incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al “Denzinger” non farebbe male.

Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio, Papa Francesco dice a Scalfari che “il proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane. Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica, quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende il lavoro fatto dalla chiesa per convertire le anime al cattolicesimo.

Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto nell’intervista alla Civiltà Cattolica. “Il Vaticano II”, spiega il Papa, “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini.

Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di una nuova chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a Civiltà Cattolica dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il loro mestiere. “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito”, dice sempre il Papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a sottolineare l’inabilità della chiesa di rispondere. Un passaggio sconcertante se si pensa che la chiesa soddisfa da duemila anni tale quesito con una regola che permette l’assoluzione del peccatore, a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di Papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema non c’era, ma per averlo inventato.

L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono la percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che la mia chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita personale”.

Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico e l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di Papa Francesco hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è innegabile che questo viene fatto con grande talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che è diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra credenti e non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e spontanea.

Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata mondiale della gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente alla loro interpretazione.

Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale. Il meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni Ottanta da Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal godibilissimo titolo “Il linguaggio televisivo. O la folle anadiplosi”. L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale contenuto nella frase precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla sostanza” diceva “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura retorica, e a dimenticare la parte sostanziale”.

Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza alla verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche della sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una parte per tutto. La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione impone di trascurare l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per dare una lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.

Da questo punto di vista, sembra che Papa Francesco sia stato fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura del Papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine sacrale tramandata nei secoli per restituirne una completamente nuova e mondana: il Papa, il nuovo Papa, è tutto in quel particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro, la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più terreno si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al Papato.

Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo successivo consiste nell’identificare la persona del Papa con il Papato: una parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato, trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte dei cattolici è convinta che quanto dice il Papa sia solo e sempre infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi pronunciamento solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.

Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma anche quando si parla della croce pettorale, dell’anello, dell’altare, delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla del materiale con cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia informe ha avuto il sopravvento sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il Papa porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani chissà.
E’ l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.

Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale visione del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le tante. Almeno per il suo vicario.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

(Giornalista e studioso di letteratura il primo, canonista e docente di Bioetica il secondo, gli autori sono espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico).

poveri ragazzi!

abbraccio

poveri ragazzi: prima ‘bamboccioni’, poi ‘choosy’, poi ‘sfigati’ … ora anche ‘poco occupabili’e questo per non prendere atto di politiche miopi ed inefficaci sull’occupazione
su questo si legge, come sempre molto gradevolmente la riflessione che Gramellini fa su ‘la Stampa’ odierna:

Gli inoccupabili
(Massimo Gramellini).

Dopo «bamboccioni» «choosy» e «sfigati», ieri è toccato al nuovo ministro di un’attività in via di estinzione (il Lavoro), definire «poco occupabili» gli italiani, a commento di uno studio dell’Ocse che colloca i nostri giovani all’ultimo posto in Europa per alfabetismo e al penultimo per conoscenze matematiche.

Poiché a nessuno risulta che negli ultimi vent’anni in Italia ci sia stata un’epidemia di cretinismo nei reparti d’ostetricia, si deve supporre che l’impreparazione dei ragazzi non derivi da tare mentali o caratteriali, e nemmeno soltanto dal lassismo complice dei genitori, ma da scelte strategiche incompatibili con la parola futuro. Quella classe dirigente uscita dalle assemblee del Sessantotto, che oggi irride e disprezza i suoi figli, è la stessa che ha tolto risorse all’istruzione, alla ricerca e alla formazione. Che si è rifiutata di indirizzare le scelte di politica economica verso la cultura, il turismo e l’innovazione tecnologica. Che ha ammazzato il merito, praticando in prima persona l’appartenenza a qualche cordata: per quale ragione i ragazzi dovrebbero credere in un sistema che non privilegia i più bravi, ma i più ammanicati? Gli investitori stranieri si tengono alla larga dall’Italia non perché considerano i nostri figli dei caproni, ma perché si rifiutano di allungare una bustarella ai loro padri o, in alternativa, di aspettare tre anni per avere un bollo che altrove ottengono in tre ore. Altro che poco occupabili: il problema italiano è che in questi anni qualcuno si è occupato, e ha occupato, fin troppo.

Da La Stampa del 10/10/2013.

togliere il reato di clandestinità

 

«Contro il naufragio delle coscienze è ora di cambiare la Bossi-Fini»

reato di clandestinità

 «I morti di Lampedusa sono figli del naufragio delle coscienze», tuona don Luigi Ciotti. Il salone della Fabbrica delle «E», in corso Trapani, è gremito, seicento persone almeno, ma l’ eco delle parole del fondatore del Gruppo Abele rimbomba per alcuni minuti. «Perché un prete fa questo?», si chiede retoricamente. «Questo» sta per la manifestazione di sabato a Roma «Costituzione, la via maestra», l’ inizio di un percorso più che un evento. «Perché – spiega Ciotti – come cittadino italiano non credo alla cittadinanza a intermittenza. Ci si accorge sempre troppo tardi dei drammi. Solo dopo che corpi esanimi vengono deposti su una spiaggia. La memoria è corta in questo Paese ed è in atto un furto di parole. Tutti parlano di giustizia, legalità e dignità poi ne snaturano il senso. Non basta commuoversi, bisogna muoversi». Scandisce le parole don Luigi. È un lunedì sera in una Torino piovosa e autunnale. Lo spettro di Lampedusa, nonostante le centinaia di chilometri di distanza, non è lontano. Si aggira per la sala. E torna in altri interventi. Come in quello del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, altro peso massimo seduto al tavolo dell’ assemblea in vista della manifestazione, promossa dai due torinesi insieme a Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare e Maurizio Landini. «Nel Paese delle ipocrisie si invoca sempre una nuova legge. Tutti ripetono in coro “fa schifo” riferendosi a quella attuale. Dalla legge elettorale in giù. Si parlava, per esempio, di una legge sulla corruzione, ne avete vista una nuova? E quella sui partiti? Ora, dopo Lampedusa, si parla di migranti. Secondo voi faranno qualcosa? Quanti morti bisognerà ancora aspettare, non ne bastava uno? Ma alla fine non la cambieranno, perché al governo c’ è qualcuno che l’ ha voluta». Il riferimento è alla Bossi-Fini che don Ciotti chiede a gran voce di scaraventare «fuori dai piedi». A moderare Ciotti e Zagrebelsky, oltre agli interventi di associazioni e personalità torinesi del mondo della sinistra, è toccato non a caso a Federico Bellono, segretario torinese di quella Fiom che è una delle impalcature del 12 ottobre: «Per noi – ha precisato Bellono – è un fatto naturale essere tra i promotori. La Costituzione in questi anni è stata il nostro alleato migliore, vedi la vertenza Fiat a Mirafiori». Per don Ciotti «è il momento di fare scelte, imparare il coraggio. La nostra Costituzione rischia di essere snaturata, noi invece dobbiamo chiedere che venga applicata. Non basta indignarsi, dobbiamo prenderci cura di lei, rendendo degno il lavoro e la democrazia». Poi, cita don Tonino Bello: «Ricordiamoci che delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini. Ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio». Zagrebelsky conclude la serata, con parole forti: «Sta accadendo qualcosa di poco chiaro in Italia, noi andiamo a Roma dicendo che abbiamo capito. Quando sul rapporto Jp Morgan si è letto che la nostra è una Costituzione infida, non si è levata nessuna voce, né dal governo né più in alto. È grave. Il nostro è un Paese ipocrita. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, ma spesso quando lo fanno è perché non la si attui e perché la si cambi. Brunetta voleva addirittura modificarne il primo articolo, scrivendo solo “l’ Italia si fonda sulla libertà”, ma senza lavoro la libertà è solo di chi se la può permettere». Altra ipocrisia: «È far credere che possa esistere un risanamento economico senza equità, si parla di Stato come di un’ azienda. E, a differenza di un tempo, il valore prodotto dalle aziende viene investito nella finanza senza creare lavoro. Un furto ai cittadini. La trita formula “ce lo chiedono i mercati” sta facendo morire la politica, perché è la finanza che ci governa. E noi viviamo un congelamento politico, come nelle larghe intese dove nulla si muove. Con tutto rispetto, la conferma di Napolitano alla presidenza della Repubblica è emblematica del blocco. Noi vogliamo recuperare la politica, perché è un diritto dei cittadini, contro il piduismo strisciante che invade l’ Italia. E ai miei amici che hanno contribuito al lavoro preparatorio sulle riforme dico: non siete piduisti come altri, ma rischiate di contribuire a quella cultura».

Articolo di Mauro Ravarino pubblicato su Il Manifesto | 09/10/2013

 

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