occorre cambiare politica migratoria

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la tristissima attualità impone, in Italia, ma non solo, una profonda riflessione su una radicale diversa impostazione della politica migratoria che superi il taglio negativo e difensivo nei loro confronti per una vera valorizzazione delle opportunità che le emigrazioni offrono: un bell’articolo dell’antropologo M. Agier su ‘le Monde’ ci aiuta in questo senso

Per una politica migratoria diversa
di Michel Agier
in “Le Monde” del 9 ottobre 2013

Commuoversi, certo. Più di 210 morti e circa 150 dispersi, è, per ora, il bilancio del naufragio in Mediterraneo di una imbarcazione su cui avevano osato salire dei migranti, somali ed eritrei in massima parte. Il tempo dell’emozione è ampiamente dovuto a coloro che sono già morti nel Mediterraneo in questi ultimi anni, così come è dovuto ai sopravvissuti che hanno affrontato l’orrore della traversata ma anche le condizioni deplorevoli della clandestinità in cui le amministrazioni europee hanno deciso di rinchiuderli. Perché la creazione di “clandestini” avviene per decisione di uno Stato (ed è sempre lo Stato che può decidere di “regolarizzarli”). Quanta emozione ci vorrà perché si smetta di commuoversi e che si cominci a riflettere sulle disposizioni mortifere che l’Europa ha messo in atto negli anni 90 contro i migranti per fare una selezione, escludendo gli indesiderabili (soprattutto quelli che vengono dai paesi detti “del Sud”), rigettandoli o mantenendoli in una clandestinità propizia al super-sfruttamento del loro lavoro, o in attesa nei campi di ritenzione? La caccia allo straniero è terribilmente assassina. Né “immigrati” (poiché senza arrivo), né “rifugiati” (perché non hanno potuto fare domanda d’asilo), né “clandestini” (il diritto non ha preso una decisione in merito alla loro condizione), sono morti durante la migrazione. Ed è proprio questa mobilità, che pure viene valorizzata come un segno di un mondo cosmopolita moderno e fluido quando parliamo delle nostre vite, il bersaglio delle polizie e dei governi nazionali quando parliamo delle vite degli “altri”. Le politiche pubbliche di dissuasione della migrazione sono state coordinate a livello europeo a partire dall’inizio degli anni 2000. La Francia, la Gran Bretagna, la Germania e l’Italia, con in quel momento la collaborazione dell’Alto Commissariato per i rifugiati (HCR), hanno cominciato ad immaginare i regolamenti che limitavano l’esercizio del diritto d’asilo (dichiarato nel 1948) ed un accresciuto controllo delle migrazioni e delle frontiere (creazione dell’agenzia di polizia europea Frontex nel 2005). Oltre ai provvedimenti amministrativi e la costruzione di muri e reticolati che impediscono il passaggio, lo sviluppo della propaganda contro lo straniero è stata la caratteristica della maggior parte dei governi dei paesi europei. La Francia non è da meno: l’invenzione di uno “staniero” astratto, fantomatico e repellente vi ha diffuso, a partire dall’alto, la xenofobia come ideologia di Stato, accettata e “governativamente corretta”. Le élite politiche si assumono una responsabilità considerevole quando designano quello straniero come il colpevole di una crisi economica o una minaccia per la nazione. Le morti di Lampedusa potevano essere evitate. Sono il prodotto diretto della propaganda dei governi europei contro lo straniero. Con l’effetto, da un lato, di una criminalizzazione della migrazione e dei migranti e, dall’altro, il ricorso pericoloso ai “passatori” e ad un’economia della proibizione per tutti coloro per i quali la mobilità continua ad essere, comunque, una soluzione vitale. Tuttavia, l’ostilità dei governi europei è solo una piccola parte dell’esperienza della mobilità internazionale di questi ultimi mesi. Vi sono, al massimo, poche decine di siriani che tentano di essere accolti in Francia, che trovano in risposta solo repressione poliziesca e manifestano per potersi spostare in Inghilterra: essi non rappresentano evidentemente una “invasione” di migranti. Invece, i paesi limitrofi della Siria esprimono una solidarietà incomparabile con i rifugiati siriani, come anche il Libano, che ne accoglie circa un milione (per quattro milioni di abitanti del Libano!), e la Giordania mezzo milione. Una solidarietà che fu esercitata dalla Tunisia nel 2011 nei confronti dei migranti provenienti dalla Libia. E ancora oggi i somali si dirigono principalmente verso i paesi limitrofi. Sono più di 450 000 nel campo di rifugiati di Dadaab nel nord-est del Kenya. Ciò che succede nella parte sud del Mediterraneo, in Libia, nel Medio Oriente, in Egitto, potrebbe essere l’occasione di manifestare una solidarietà internazionale. In Francia, per esempio, la questione degli stranieri, dei rifugiati e dei migranti è trattata come un affare di polizia, cosa che
viene confermata con la creazione il 2 ottobre al ministero degli interni di una Direzione generale degli stranieri in Francia. Trasferire questa Direzione generale al ministero degli affari esteri segnerebbe un impegno verso il punto di vista politico del riconoscimento. Attuare delle vie legali per l’immigrazione permetterebbe di indebolire il peso della clandestinità e i suoi rischi. Ciò si può fare partecipando attivamente al programma di reinstallazione dell’Alto Commissariato per i rifugiati siriani in Medio Oriente, per quelli subsahariani in Libia e nel Maghreb; o attivando dei regolamenti già esistenti su scala europea come lo statuto di “protezione temporanea” (2001) o di “protezione sussidiaria” (2004). Senza risolvere la questione centrale del diritto all’eguaglianza nella mobilità, questi provvedimenti sarebbero un segnale di umanità. Direbbero che non è indispensabile rischiare ancora la propria vita per sperare di salvarla. Sarebbero l’inizio di una politica migratoria diversa.
*Michel Agier, antropologo, ricercatore all’ Institut de recherche pour le développement, profesore alla Ecole des hautes études en sciences sociales.

piangere fa bene …

cento bare

a distanza di qualche giorno dall’immane tragedia delle centinaia di morti in mare mi fermo ancora a riflettere e sento ancora drammaticamente vera questa pagina di don Renato Sacco, e anch’io piango sentendo nell’animo come una grande spina che mi fa male, e quasi mi vergogno di queste lacrime, e però sento che nonostante tutto mi fanno bene, non so come e perché, ma così sento …

Davanti alla tragedia di oggi, 3 ottobre a Lampedusa, con centinaia di morti, ti vengono in mente le parole di Francesco, pronunciate là, a Lampedusa: “Chi ha pianto per quanti sono morti in mare?”. E ti chiedi se sei proprio tu interpellato. Con tutte le cose da fare, come ogni giorno. Cose anche serie, importanti. E non trovi lo spazio, il tempo per piangere, per sentirti umano e lasciarti andare. E devi incontrare le persone, fare delle cose con loro. Allora cerchi di guardarle con occhi diversi, quasi a voler comunicare il magone che hai dentro, e cerchi di essere più umano. E poi ti metti in macchina in un pomeriggio grigio, triste. Pensi alle storie di quelle persone, ai loro affetti, a chi sta aspettando qualche notizia per sapere se sono arrivati alla ‘terra promessa’. E cerchi di immaginarti al loro posto. Ma di loro non si saprà più nulla. Neanche i loro nomi. Solo Dio, che conosce il povero Lazzaro per nome. Noi invece conosciamo bene i nomi dei potenti, dei ricchi, di chi mette in atto una cultura di violenza e respingimento che è di morte, non di vita. I loro nomi li conosciamo. Abbiamo visto ieri il teatro-commedia in Parlamento.
E oggi la tragedia.
E, mentre sei fermo al semaforo, ti cade l’occhio sui manifesti della Lega che se la prende con chi si interessa di rom e migranti. Come fai a piangere? ‘Prima il Nord’. E ti viene la rabbia, più forte del magone. E non ce la fai a piangere. E ti senti in colpa di abitare in un Paese così, in un mondo così. Ti chiedi se non è davvero anche un po’ colpa tua, dei tuoi silenzi, della tua rassegnazione. E’ un pugno nello stomaco. E non sai se piangere o arrabbiarti. Forse ha ragione Francesco. Prima bisogna piangere. Per avere poi la forza di arrabbiarsi veramente. Di gridare con lui: “Vergogna”. La debolezza del pianto ti fa sentire un essere umano per reagire, per non essere complice di queste tragedie umane. Ormai è sera. Mi arriva un sms per dirmi che si parla di Lampedusa anche da Bruna Vespa. E da Santoro c’è pure il ministro della Difesa. No, basta. Non accendo neanche la Tv, se no la rabbia cresce a dismisura. Mi rileggo le parole di don Tonino Bello, al ritorno da Sarajevo, nel dicembre 1992: “Poi rimango solo e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere”.

3 ottobre 2013

d. Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi

d. Renato Sacco
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una mostra a Roma dei ‘senza fissa dimora’

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HOMELESS

(Wlodek Goldkorn)
 
Nel mondo i senza tetto sono cento milioni. In Italia cinquantamila. Un fotografo per anni li ha ritratti. Dappertutto. E ha colto il sacro che è in loro. Il suo lavoro in mostra a Roma

A parlare sono gli occhi, gli sguardi di coloro che ha fotografato Lee Jeffries, nella sua serie di ritratti degli homeless, dei senza casa. Sono immagini che non necessitano di molte parole: e che saranno in mostra, in anteprima mondiale, al Museo di Roma a Trastevere, a partire dal 19 ottobre (twitter.com/Lee Jeffries). Jeffries l’autore, o forse co-autore, perché i soggetti dei suoi ritratti sono partecipi all’opera, è un inglese di Manchester, ha 41 anni, ed è stato per vari anni in giro per le strade di Londra, Parigi, New York, Miami, Las Vegas e anche di Roma. Era alla«ricerca di un incontro», dice nel breve testo scritto per il catalogo della mostra.

Voleva entrare in contatto con uomini e donne che in strada vivono ogni giorno e ogni notte perché non hanno né tetto né letto; i senza fissa dimora li chiamiamo nel gergo burocratico. La sua intenzione non era tanto quella di documentare un fenomeno sociale, quanto stabilire un rapporto che durasse nel tempo, attraverso l’immagine impressa dalla camera. Ha finito per creare intimità, con le persone ritratte. Basta vedere le immagini: i protagonisti della sua opera si danno con estrema generosità; come ci si affida a un amico, fratello, amante. L’artista tuttavia non ha voluto fornire né i nomi delle persone né raccontare i luoghi e le circostanze in cui le ha fotografate. Non perché i senza casa, “i barboni”, si assomiglino tutti. Al contrario, l’ipotesi di Jeffries, un’ipotesi che ogni spettatore può verificare, è questa: i volti degli homeless sono segnati da elementi di santità. E sono i corpi non le parole a raccontare le pene patite.

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Detto così, può sembrare una teoria sentimentale, new age, da sazi signori facili a commuoversi di fronte alla sofferenza: basta sia sofferenza altrui. Verrebbe naturale muovergli l’accusa di voyeurismo: spesso ai fotografi si rimprovera questo peccato. Ad assolvere Jeffries da ogni presunta colpa e, anzi, far ammirare la sua opera, è, come si è detto, il centro della sua narrazione, gli occhi appunto (perfino gli occhi ciechi, ma espressivi del ragazzo a pagina 82). Infatti, Jeffries sembra aver capito che gli occhi servono non solo a guardare, ma anche a essere guardati, a svelare i segreti; sono gli occhi a raccontare le nostre gioie, tristezze, speranze, sogni. Si dice, a ragione, che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ma l’anima cosa è? Secondo la geniale intuizione del filosofo Franz Rosenzweig, l’anima non è altro che la luce di dio in ciascuno di noi. Ecco spiegato il tentativo di Jeffries: fotografare l’anima; cogliere la luce divina che emanano (quando ne sono capaci) gli umani. Più prosaicamente, il fotografo tenta di compiere un’operazione simile a quella che guida ogni artista: si immedesima nell’oggetto del racconto, cerca di provare le sue stesse emozioni, per dar loro una forma. Un procedimento che i grandi scrittori e narratori chiamano empatia. O se vogliamo: il fotografo si dà il compito di rubare l’anima del soggetto protagonista del suo lavoro; gli antropologi sanno che esistono popolazioni e tribù che per questo motivo rifiutano di farsi fotografare.

Dice Jeffries: «La sofferenza e la spiritualità sono sinonimi. Il mio scopo è far appello al senso di fede e all’umanità degli spettatori». La stessa frase può essere detta, laicamente, così: siamo tutti vagabondi sulla Terra e l’esperienza del lasciare la casa paterna per andare a esplorare strade ignote è l’essenza di ogni narrazione; i miti in fondo di questo parlano. È un vagabondo che sfida il destino Ulisse; lo è Abramo che lascia la sua dimora in Mesopotamia per seguire la voce divina. Ed è vagabondo il folle don Chisciotte nella ricerca della gloria e del riscatto. Cervantes non raccontò solo il nobile avventuriero: dalla sua penna sono uscite narrazioni di picari veri, reietti, marginali che vagavano per le strade di Spagna. E siamo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, periodo in cui comincia a darsi forma la modernità con il suo impellente bisogno di ordine e razionalità e con il conseguente rifiuto degli esseri umani considerati superflui, disadattati al lavoro e alla quotidiana disciplina. È il periodo in cui “le corti dei miracoli”, gli assembramenti di coloro che non possiedono altro che la loro nuda vita e i loro corpi, magari deformati dalle malattie, dipinti meravigliosamente qualche anno prima (come se fossero a futura memoria) da Peter Bruegel, vengono soppressi d’autorità. Caravaggio, ancora saprà usare i volti dei marginali per dare forma ai santi (e la poetica di Jeffreis vi assomiglia). Poi su quel mondo cadrà la scure della Ragione.

Racconta lo storico polacco Bronislaw Geremek che alla vita dei vagabondi e dei marginali ha dedicato la carriera di studioso (in italiano con Laterza), come nel Seicento, a Parigi, capitale emergente del mondo della Ragione, appunto, viene sancito il divieto di accattonaggio. I senza casa sono rinchiusi negli “Ospedali dei poveri”. Sveglia all’alba, lavoro pesante, poco cibo, gli uomini separati dalle donne e chi non produce non mangia. In altre parole: con la Razionalità (Spinoza in quel periodo separa la filosofia dalla teologia e il mito dalla storia) nasce il modello qualche secolo più tardi conosciuto come Lager. È un modello che non prevede spazi per coloro che rifiutano l’equazione tra lavoro e felicità. E c’è chi vede negli “Ospedali dei poveri”, il prototipo della fabbrica industriale.

C’è un bellissimo e poco frequentato libro di Jack London, “Il popolo degli abissi” (Robin edizioni) che richiama le foto di Jeffries. E che testimonia come il regno della Razionalità, che a parole tenderebbe ad abolire la marginalità e la follia, in realtà le moltiplica. A partire dai poveri e dai senza casa, appunto. Lo scrittore americano, nel 1902, andò a vivere per qualche mese a East End a Londra; quartiere dei miserabili, dei pazzi, degli homeless. Il suo racconto è integrato da decine di foto: bambini che dormono sulle panche, poveri sotto la neve nei giardini pubblici, venditori di stracci. Aveva il dono dell’empatia London, come pochi scrittori prima e dopo di lui. Ecco, nel libro usa espresioni strane: «Ho visto cose che avrei preferito non vedere»; «una donna che non assomigliava più a un essere umano». E anche «sono cose inenarrabili». Ebbene, con 40 anni di anticipo, London adopera, come toccato da una premonizione, gli stessi termini che verranno usati di fronte alla necessità di narrare la Shoah. Il limite dell’indicibile si era spostato più in là dai tempi di London. Ma, l’intuizione è di Zygmunt Bauman, chi cerca di eliminare marginalità, non solo la moltiplica, finisce per sterminare le masse di presunti marginali.

Rimane il fatto che gli homeless vivono tra di noi. I dati globali parlano di cento milioni di persone, ma sono difficili da verificare. In Italia, secondo Istat e Caritas i senza fissa dimora sono oltre 50 mila. Sei su dieci si trovano in questa condizione perché hanno perso il lavoro. Più precisi i dati della Fondazione De Benedetti che riguardano la sola Milano. Nella metropoli del Nord i senza casa sono oltre 2.600. Il 72 per cento dorme in strada. Nove su dieci ha esperienze di lavoro. Hanno fiducia solo negli assistenti sociali e un po’ nel Comune. In altre parole: sono il risultato del crollo di quel modello che prevedeva la fabbrica come centro della vita e il lavoro come strumento della crescita personale.

La deindustrializzazione ha finito per far tornare nelle nostre strade i vagabondi, le Madri Coraggio, descritte nel Seicento in Germania da Grimmelshausen da cui Brecht ha tratto il suo celebre dramma; donne disposte a tutto perché hanno perso tutto. Ma poi, guardiamo le foto di Jeffries. Forse ha ragione lui; forse la sofferenza va insieme con la spiritualità, e basti pensare all’emozione che suscita anche in non credenti il corpo nudo di Cristo sulla croce (e Gesù era un vagabondo) o i corpi dei santoni indiani sulle rive del Gange a Benares; oppure basta ascoltare quel poeta che alla stazione Santa Maria Novella di Firenze la sera recita versi bellissimi, mescolati con terribili improperi in spagnolo.

la burocrazia del mare che uccide

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è giustamente arrabbiatissimo A. Padellaro, direttore de ‘il fatto quotidiano’ nei confronti della burocrazia marina (ma non solo) che in nome di protocolli e formalità astratte permette non solo la morte di tante persone non soccorse in tempo utile, ma impedisce a volontari di farlo, pena l’accusa di favoreggiamento dell’emigrazione illegale …

Lampedusa, il protocollo dell’Isola dei Conigli

di Antonio Padellaro 

Ma quali imperdonabili colpe hanno i poveri morti di Lampedusa abbandonati, bruciati, annegati e adesso usati, maneggiati, falsificati ed esibiti come una qualunque, dozzinale merce politica e televisiva? Che dire del ministro Alfano che “unendosi alla vergogna del Papa” ne tradisce il pensiero e lesto se ne appropria avendo, al contrario, Francesco rivolto il grido sdegnato anche e soprattutto a quegli uomini di governo che potevano fare e non hanno fatto. E che poco hanno intenzione di fare visto che Angelino mette le mani avanti e ci comunica che “forse non sarà l’ultima tragedia” come se gli oltre 6mila migranti, che in un decennio hanno concluso la loro traversata in fondo al mare morto siciliano, fossero la conseguenza di una fatalità imperscrutabile e inevitabile. Cosa dunque dobbiamo pensare quando la presidente della Camera Boldrini ci dice che “nulla dovrà essere più come prima”, visto che “prima” c’era lei che per conto dell’Onu si occupava a tempo pieno di quei rifugiati di cui ora non risulta che si occupi più nessuno? E quel tutto che deve cambiare perché nulla sia più come prima come potrà farlo in presenza di leggi infami e imbecilli come quella Bossi-Fini che prevede l’accusa di favoreggiamento anche per chi soccorre in mare persone stremate che stanno per morire? (Senza contare il reato di immigrazione clandestina che sarà contestato ai superstiti, colpevoli forse, di essere rimasti vivi). Come può cambiare la burocrazia vigliacca del nulla impastato col niente che, mentre le barche dei pescatori affondavano stracolme di corpi disperati, avrebbe risposto alla richiesta di trasbordarli sulle motovedette, “non possiamo, dobbiamo aspettare il protocollo”.

Frase talmente abietta che l’unica cosa da augurarsi è che non sia mai stata pronunciata. E se il premio Nobel per la Pace andrebbe giustamente assegnato alla nobile gente di Lampedusa, per il senso profondo che hanno dato alle parole accoglienza e soccorso, quale solenne menzione di biasimo si dovrebbe appuntare sul petto di chi doveva intercettare il barcone con il dispositivo Frontex o per lo meno, avvistarlo con i radar e che avrà per sempre sulla coscienza quella moltitudine implorante e sommersa a poche centinaia di metri dalla costa? Vicino a quell’Isola dei Conigli, dalla notte del 2 ottobre luogo geografico della disperazione e dell’ignavia. Che hanno fatto di male i poveri corpi di Lampedusa per essere esposti infine nei talk show della sera, vittime che i consueti ospiti urlanti si sono rinfacciate nel solito pollaio tra finta commozione e autentica oscenità? Potrebbe non essere l’ultima pena riservata a questi eritrei e somali colpevoli di essere fuggiti dalla fame se, come si teme, il minuto di silenzio loro tributato negli stadi dovesse essere interrotto dai fischi e cori razzisti. Sarebbe la degna marcia funebre per un Paese che è naufragato molto tempo fa.

Il Fatto Quotidiano, 6 Ottobre 2013

“chi è il nostro prossimo?” secondo A. Sofri

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“Perché sono loro il nostro prossimo”

di Adriano Sofri

un bellissimo articolo di Sofri che risponde ai più riottosi ad un’accoglienza dei migranti invitandoli a mettersi di fronte all’immediatezza della situazione al di là di posizioni precostituite che in quanto tali sono astratte:

in “la Repubblica” del 4 ottobre 2013

Ci si può commuovere tutti i giorni, o c’è bisogno di una pausa, di una tregua – non so, una settimana, almeno un paio di giorni – fra una tragedia e l’altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante? Quando ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c’è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all’ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un’auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l’Isola dei famosi, la sera, e capiranno tutto. Dunque si è quasi offesi, da una giornata simile: centinaia di morti, l’ennesima, più lunga fila di sacchi da monnezza, non si può pretendere che ci commuoviamo ogni giorno che Dio manda, perbacco, e all’indomani di un allegro rilancio del governo, che prima era di necessità e ora è d’amore e d’accordo. Che c’entra il governo con la strage della barcaccia? Niente, appunto. Niente e nessuno, c’entra. È stata una disgrazia. Cioè: il cinismo degli scafisti, l’imprudenza dei passeggeri, il panico di tutti. I superstiti non presentavano problemi molto gravi, ha detto un bravissimo medico, qualcuno aveva bevuto, con l’acqua salata, parecchia nafta. Non c’entra nessuno, accusare, inventarsi dei colpevoli, è un lusso da salotto. (I leghisti sanno di chi è la colpa: di due signore). Però il papa ha detto: è una vergogna. Allora bisogna che qualcuno si vergogni, o che ci vergogniamo tutti. Di che cosa? Di tutto: della guerra civile in Siria, del mattatoio somalo, della violenza nigeriana che ricaccia indietro i ghanesi. Ah, va bene, campa cavallo! Vediamo più da vicino, allora. Controllare meglio quel tratto di mare? Ci sono occhi meccanici cui non sfugge un branco di sardine. Chi se ne intende dice che il lavoro che fanno la nostra capitaneria, la marina militare, la guardia di finanza, e anche i mezzi mercantili e da diporto è ammirevole, che i radar non bastano a vedere tutto, soprattutto con imbarcazioni piccole e mare mosso e sottocosta. Bene: eppure qualcosa occorre fare. Perché ieri non eravamo solo commossi fino alle lacrime, ma anche esasperati e furiosi. Perché anche piangendo, si pensa. Si pensa che in Giordania, in Libano, in Turchia, in Iraq, ci sono oggi un paio di milioni di profughi siriani, e da noi ne sono arrivati due o tremila; cui vanno sottratti – 250, 300? – quelli di ieri. Si pensa che due giorni fa sono state pubblicate le nuove cifre sugli immigrati in Italia, e quattro su dieci si propongono di tornare a casa o andare altrove, e molti l’hanno già fatto. Si pensa che in Grecia, tanto più povera di noi, e tanto sorella nostra – “stessa faccia, stessa razza” – gli immigrati dall’Europa orientale e dall’Asia e dall’Africa entrano per terra e per mare in numero assai superiore ai nostri, e poi ci restano chiusi, in omaggio a Dublino, in balia dei nazisti di Alba Dorata. E poi, si pensa alle obiezioni di chi, anche in mezzo a tutti questi morti – “una marea di cadaveri”, ha detto ieri un soccorritore, promuovendoli involontariamente a creature marine, quei viaggiatori che non sapevano nuotare – tiene a restare, secondo lui, freddo e lucido. “Non possiamo mica accogliere tutti i fuggiaschi del mondo”. No, infatti, non possiamo. Ma non stanno arrivando tutti i fuggiaschi del mondo. È ragionevole prevedere che ne arriveranno molti di più. Siccome ci si compiace a credere che l’alternativa sia fra buonismo e cattivismo, e chi non è né buonista né cattivista possa solo raccomandare l’anima e il corpo altrui a Dio, proverò a rispondere. Ammettiamo pure il caso più ottuso: che siate rigorosamente contrari all’immigrazione, che ve ne fottiate di tutte le avvertenze (“ma i nostri nonni, e il padre del papa Francesco, sono emigrati…”; e
“gli immigrati oggi coprono il 10 per cento del Pil italiano”, e così via). Bene. E ammettiamo ora che voi, i del tutto contrari, stiate bordeggiando sotto l’isola dei Conigli, e avvistiate una disgraziata che viene da Aleppo o da Samaria e che agita le braccia e annaspa: o la soccorrete, o no. Se non la soccorrete, siete davvero coerenti con la vostra convinzione, e il diavolo vi porti: l’avete meritato. Se la soccorrete, com’è infinitamente più probabile, non avrete affatto ripudiato la vostra convinzione, avrete saputo che c’era una cosa più importante. Che quando succede proprio a voi di imbattervi nella persona in pericolo, che da voi dipende la sua salvezza, le convinzioni politiche o demografiche si eclissano, e senza riflettere un momento lanciate il vostro salvagente o la vostra cima. (E non voglio ancora completare l’esempio, sicché succeda a voi di annaspare e agitare le braccia, venendo da Bergamo Alta, ed essere soccorso da una carretta di scafisti siriani). Questa non è la soluzione, ma è una gran parte della soluzione. La soluzione implica che in Siria finisca la guerra civile, che Dublino 2 non metta in croce la Grecia, che la Germania non si scandalizzi per l’arrivo di sbarcati a Scicli o a Riace, che l’Europa sia l’Europa. Cose grosse. Si possono affrontare, anche se sembrano così grosse. Ma intanto c’è la gran parte della soluzione, che consiste nel comportarsi seriamente, efficacemente, come si fa col disgraziato in cui vi siete imbattuti. Per esempio, quando in uno scampolo d’estate vi capita di fronte una di quelle barche di disperati, su una spiaggia siracusana o ragusana, o calabrese o pugliese, e fate una catena umana. Una catena umana – è gran parte della soluzione. Ma sarebbe ipocrita lasciarla al caso. Se il samaritano avesse saputo che tutti i giorni, sulla famosa strada, i briganti lasciavano tramortito un passeggero, avrebbe chiesto alla polizia di occuparsi dei briganti, e intanto avrebbe improvvisato con altri volontari il pronto soccorso a quell’angolo di strada. Tutti i migranti che si mettono in viaggio alla nostra volta, e pagano caro il biglietto per la morte o la vita, tutti, sono il nostro prossimo: che siamo buoni o cattivi, che vediamo di buon occhio o furibondo la questione dell’immigrazione. Per questo è così odiosa, oltre che criminale, la politica dei “respingimenti”. Li respingi nei campi libici, a essere violati e bastonati e venduti. Li respingi “a casa loro”, dove gliela faranno pagare con la tortura e la pelle. E soprattutto li respingi: agitano le braccia, annaspano, gridano aiuto proprio a te, e li respingi. Perché questo non avviene, non abbastanza? Dobbiamo dirlo chiaramente. Perché le autorità, essendo responsabili (ciò che per molte di loro vuol dire ciniche) preferiscono un migrante annegato a un clandestino vivo che si aggiri per l’Europa. Un anonimo morto a un rifugiato vivo. Lo preferiscono, davvero, magari non dicendoselo così chiaro: se no non lo farebbero. Pensano (infatti pensano): “Se questi disperati arrivassero tutti vivi, sempre più disperati sarebbero incoraggiati a venire”. Bene: se pensano così, anche se non se lo dicono, stanno favorendo le stragi come quella di ieri, “magari non così grosse, non tanti in una volta”. Ciascuno, autorità o persona comune, può liberamente decidere che cosa pensa dell’immigrazione e dei migranti in carne e ossa – il nostro prossimo. Ma bisogna che sappia che cosa sta decidendo, e ne segua le conseguenze fino alla banchina di Lampedusa con la fila dei fagotti da monnezza. Resta da lodare ancora Lampedusa: perché quegli annegati non sono di nessuno, né del paese da cui fuggono, né di quello in cui sognavano di arrivare. Sono del mare, e di Lampedusa.

“se aveste fede!” p. Maggi sul vangelo di domani

 

vivere
XXVII TEMPO ORDINARIO – 6 ottobre 2013
SE AVESTE FEDE! – Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

Lc 17,5-10
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Nel vangelo di Luca Gesù presenta due immagini della vita quotidiana, del rapporto tra i servi e il loro padrone, ma completamente differenti. Addirittura in contrasto.
Nella prima, nel capitolo 12 di questo vangelo, Gesù parla di un signore che, tornando a notte fonda a casa, e trovando i servi ancora svegli, cosa farà? Non solo non si farà servire, ma passerà lui a servirli. E’ immagine dell’Eucaristia, dove il Signore, a quanti hanno deciso di mettere la loro vita a servizio degli altri, comunica le sue stesse capacità d’amore, per un esercizio ancora più grande e generoso.
Qui invece, nel brano che la liturgia oggi ci presenta, al capitolo 17 di Luca, versetti 5-10, l’immagine che Gesù presenta è completamente diversa. E’ un signore che quando il servo torna dal campo pretende di essere servito. E anzi dirà: “Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?”
Come mai questo contrasto? Cosa significa?
Vediamolo allora nel contesto. Gesù ha invitato i suoi discepoli ad essere “figli dell’Altissimo”, a somigliare a Dio. E’ come si assomiglia a Dio? 1
Gesù ha detto: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”. E l’esercizio della misericordia Dio lo manifesta nel perdono concesso sempre, un perdono gratuito, un perdono anticipato. E Gesù chiede ai discepoli di perdonare sempre”.
Gesù dirà ai suoi discepoli che “se sette volte al giorno uno ti dice ‘sono pentito’ tu …” – e usa l’imperativo – “gli perdonerai”. Quindi Gesù vuole rendere i suoi discepoli figli di Dio, pienamente liberi, ma per farlo occorre essere capaci di un amore simile a quello del Signore.
E l’esercizio del perdono gratuito ne è la prova. Per fare questo però bisogna abbandonare quel rapporto servo-Signore, con l’obbedienza alla legge, che faceva parte dell’antica alleanza. Mosè, il servo del Signore, aveva imposto un’alleanza tra dei servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza alla sua legge. Gesù, il figlio di Dio, propone una nuova relazione tra dei figli e il loro Padre, basata sull’accoglienza e la somiglianza all’amore del Padre.
Il credente per Gesù non è più colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. Se i discepoli non lo fanno, se i discepoli sono incapaci di questa misericordia che si manifesta nel perdono, rimangono nella condizione dei servi. Quindi il brano di oggi mette i discepoli di fronte a un’alternativa: continuare con la vecchia tradizione ad essere servi del Signore senza mai riuscire a percepirne l’amore, e quindi incapaci poi di comunicarlo agli altri, oppure accogliere la novità portata da Gesù, essere figli di Dio, pienamente liberi.
E la libertà si manifesta nell’amore gratuito e nel perdono concesso a tutti.
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la povertà non può mai essere una colpa!

povertà

non sappiamo più metterci nei panni di chi soffre la povertà ed è costretto ad emigrare per le più gravi varie situazioni: oggi che non abbiamo più bisogno di emigrare, guardiamo alla povertà degli emigranti con paura considerandola come colpa
una bella riflessione in questo senso da parte di M. Serra ne:
L’AMACA del 4 ottobre 2013 (Michele Serra)

Un flusso ininterrotto di persone povere verso i paesi ricchi, questa è sempre stata l’immigrazione. Se perfino dopo giornate come quella di ieri molti ne parlano con paura, ira, astio, è anche perché è cambiato fino a snaturarsi, negli anni, il concetto stesso di povertà. Per secoli la povertà è stata una piaga dalla quale guarire, una condanna alla quale ribellarsi. Oggi, nella società del benessere obbligatorio, è diventata una colpa. I poveri, per il nostro sguardo reso grasso e opaco dalla cessazione della fame, sono colpevoli di povertà. Non è solamente lo spirito del capitalismo ad avere generato questa colossale e molto funzionale mistificazione. È una scorciatoia morale, una comodità psicologica che ci rassicura tutti – mica solo quelli di destra, o i razzisti che ghignano, o i leghisti che latrano – perché se la povertà è un demerito (e non una condizione ingiusta, subita per debolezza e sovente inflitta con la prepotenza) allora i poveri fanno meno pena, e in quei barconi alla deriva, in quegli annegati, oltre a non riconoscere i nostri avi gracili e spaesati come eritrei che fuggivano dall’Italia, neppure riconosciamo la ribellione di nostri simili a una vita grama e infame, dalla quale fuggono esattamente come faremo noi se fossimo al loro posto.

don Ciotti e le interferenze clericali nella politica

 

 Don Luigi Ciotti  "Papa Francesco chiude un equivoco:  addio alle interferenze tra Vaticano e politica"
Don Luigi Ciotti “Papa Francesco chiude un equivoco: addio alle interferenze tra Vaticano e politica”  

don Ciotti commenta le parole del Pontefice nel dialogo con il fondatore di Repubblica

di PAOLO RODARI

  Don Luigi Ciotti, il Papa nell’incontro con Eugenio Scalfari dice che “la corte è la lebbra del papato”. Sembrano parole contro il Vaticano. È così? “È strano, ma la durezza delle parole del Papa, ha un che di leggero e di salutare. E non credo che queste parole vadano ascoltate come rivolte solo al Vaticano. La denuncia, secondo me, è secca e riguarda chi ama stare vicino al potente di turno senza accorgersi che quel ruolo è una responsabilità di servizio. È a queste persone che si riferisce il Papa quando parla di corte. E mi creda, non ci sono solo in Vaticano. È il cuore umano che è tentato dal potere. E molti mediocri, considerato che non riescono a raggiungere il potere, si accontentano di diventare servi e corte del potente di turno (fino a quando questi ha responsabilità). Ha ragione papa Francesco: diventare servi del potere per acchiappare un po’ di potere (anche se di sponda), vuol dire servire il potere e smarrire la logica e la pratica del servizio. Questa è lebbra. Per tutti. Anche per il Vaticano, se questa si annida nel Vaticano”.
Il Papa dice che la Chiesa non deve fare politica. Negli anni passati non è stato così, soprattutto in Italia. È una sconfessione degli ultimi decenni? “In parte sì. Ma credo di capire che il Papa non chieda alla Chiesa di non fare politica nel senso alto del termine. Devono finire, secondo Francesco e così mi sembra di capire, contatti troppo stretti tra politici e gerarchia cattolica. Una sana indipendenza tra politica e chiesa, rende entrambi più veri e più liberi. Per molto tempo la gerarchia ha intercettato non solo il voto dei cattolici, ma ha anche condizionato le politiche concrete di alcuni Paesi. Non credo che il Papa voglia spingere la Chiesa in cielo e la politica sulla terra. Semplicemente chiede che chi si occupa di terra si assuma le sue responsabilità senza farsi scudo del cielo. Senza chiedere voti e consensocon l’alibi del cielo”.
Qual è a suo avviso il segreto di questo Papa. Perché riesce a conquistare tanta gente lontana dalla fede? “Perché è vero. Perché non dice quello che pensa, ma perché prima pensa e poi dice. Perché non ha niente di finto addosso. Nemmeno la sua umiltà è finta, accompagnata alla consapevolezza del ruolo e dei doveri che deve ricoprire. Francesco piace perché guarda negli occhi sempre quando parla: anche se davanti a sé ha milioni che lo ascoltano”.
Francesco dice a Scalfari che la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi sono “il” problema della Chiesa. Ci voleva un Papa sudamericano per sentire parole così? “Forse. Noi siamo un continente

vecchio. Siamo tentati dal contrapporre gli adulti ai giovani e di sacrificare questi ultimi per difendere i diritti e i privilegi di chi è avanti negli anni. Nel Sud del mondo non è così. Le nostre piazze sono piene di capelli bianchi. Nell’America Latina piazze e strade sono dei bambini. Papa Francesco è nel solco dei suoi predecessori: l’unico modo per non contrapporre diritti e generazioni, è partire dai giovani non dimenticando le persone anziane”.

PAPA FRANCESCO: CHIESA DI PECCATORI, ANCHE CARDINALI E PAPI

papa Francesco all’udienza generale: qualcuno qui senza peccati?

 

Papa Francesco

La Chiesa è santa ma ‘fatta di peccatori’. ‘Come può essere santa una Chiesa fatta di uomini peccatori, sacerdoti peccatori, suore peccatrici, cardinali peccatori, papi peccatori?’, chiede il Papa durante l’udienza generale. ‘Qualcuno di voi è qui senza i suoi peccati? Qualcuno tra noi lo è?’, ha poi chiesto il Papa spiegando che la Chiesa ‘è santa non per i nostri meriti ma perché procede da un Dio che non la abbandona al male’.

Giovani disoccupati oltre il 40%

 amici

peggiora in modo preoccupante la condizione giovanile metà della quale tra poco si ritrova senza lavoro, con tutto quello che ne consegue:

Ue e Ocse: “L’instabilità italiana rischia di contagiare l’Europa”

Confindustria: con la crisi politica Pil in calo per tutto il 2014

La recessione.

(Elena Polidori)

 L’instabilità politica spaventa la Ue e l’Ocse che avvertono: «La crisi italiana minaccia l’Europa e la sua fragile ripresa». La Confindustria fa anche una stima: se continuasse questa incertezza, il Pil nazionale avrebbe il segno meno per tutto il 2014. L’Italia va al voto di fiducia portandosi appresso dati allarmanti sulla disoccupazione giunta al 12,2%, il top dal 1977; per i giovani questa percentuale sale al 40,1%, un record storico. Così, mentre i mercati scommettono sulla sopravvivenza del governo Letta, l’Istat diffonde i dati allarmanti sul lavoro, «la realtà cruda del paese», come la chiama il leader Cisl Bonanni, la «conferma della stagnazione», come la definisce il ministro Giovannini. Il Cnel aggiunge un particolare al quadro già drammatico dei giovani: uno su quattro non solo non lavora ma non studia neppure; i precari sono 3 milioni. Sono dati che farebbero soffrire qualunque paese, ancor più se si trova in una situazione politica delicata, incerta. Ed è su questo che basa le sue stime la Confindustria: Pil negativo e pure un esercito di posti di lavoro persi. Sempre su questo insistono Olli Rehn, Martin Schulz e Angel Gurria, ovvero il commissario per l’economia Ue, il presidente del Parlamento europeo ed il segretario generale dell’Ocse. Il senso del loro messaggio, quasi un appello, è chiaro: una Italia politicamente incerta costituisce una minaccia per la ‘fragile ripresa’ dell’economia, che oltretutto sta affacciandosi solo adesso. E questa minaccia è destinata a fuoriuscire dai confini nazionali diventando un pericolo per tutti. «Per l’intera zona euro’, puntualizza Rehn. E Schulz: ‘Non si può aprire una crisi per interessi particolari. Una caduta del governo creerebbe enormi turbolenze politiche e sui mercati finanziari’. Gurria si preoccupa soprattutto di smantellare il gran can can sulle tasse sulla casa: l’Ocse «è sempre stato contrario all’abolizione dell’Imu». Nella sua analisi la cancellazione di questa tassa non aiuta a diminuire la pressione fiscale sui salari e gli investimenti, come invece sarebbe opportuno. In sede europea la tenuta del governo è vista come imprescindibile. Schulz, il più politico dei tre, si preoccupa anche di argomentare che chi voterà a favore di Letta «non sarà né un traditore né un eroe, ma un deputato e un senatore responsabile ». Per essere ancora più sicuro dell’esito del voto, ha pure telefonato al segretario del Pd Epifani, perché «anche loro» devono sostenere l’esecutivo con tutti i mezzi. Lo stato dell’economia lo impone. Non a caso Rehn auspica ‘il ritorno della stabilità politica il prima possibile ». Bisogna poter prendere le decisioni utili alla crescita e all’occupazione. Un mini-segnale positivo in questo quadro fatto di tanti segni meno, arriva dal cosiddetto clic day, l’operazione per la raccolta delle domande di assunzione delle aziende relative agli under 30. Assunzioni con incentivi, ovviamente. Ebbene, in tre ore ne sono arrivate circa 5.500.

Da La Repubblica del 02/10/2013.

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