la gioia di H. Kung: “rinasce la speranza … “

rinnovamento

E’ estremamente sodisfatto H. Kung della svolta che papa Francesco sta imprimendo con coraggio e determinazione alla chiesa ed esprime la soddisfazione di uno che ritorna a sperare:

Io credo che sia un evento di grande valore e di cui rallegrarsi moltissimo, il fatto che il dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari non sia terminato con un epistolario, ma sia continuato con un’intervista. Quella pubblicata ieri su Repubblica è il documento straordinario di un incontro da uomo a uomo con un’intensa e profonda volontà reciproca di proseguire e approfondire il dialogo. Una delle cose che colpisce all’inizio del colloquio è che abbiano saputo trovare anche la dimensione dello humour: entrambi dicono di essere stati ammoniti e avvertiti dai loro collaboratori a non lasciarsi convertire l’uno dall’altro, né alla fede cristiana né al laicismo.
ED  ENTRAMBI – lo trovo straordinario anche sul piano della comunicazione – hanno reagito ridendo e assicurando che nessuno dei due aveva questa intenzione. Ma poi, passando con disinvoltura al discorso serio, hanno sottolineato che il loro colloquio aveva e avrebbe avuto lo scopo di accrescere con uno sforzo reciproco la conoscenza. Questo si proponevano di fare e questo hanno saputo fare trovando punti significativi di convergenza e punti di leale disaccordo. Un confronto tanto più straordinario perché nessuno dei due voleva fare proselitismo.
Uno dei punti interessanti dell’intervista è il giudizio sul comunismo. Francesco afferma che non avrebbe mai aderito al materialismo, ma che ciò nonostante, attraverso i docenti che ebbe e conobbe all’università, da quella dottrina imparò moltissimo. Imparò e capì molto sulle questioni sociali di cui parlavano i comunisti. Non è un caso che Francesco abbia sottolineato l’importanza di alcuni temi che sollevava il movimento (che era sia politico che di fede) della Teologia della Liberazione.
Poi c’è la questione della Curia, o diciamo anche della Corte romana. Il Papa ha usato parole molto dure, parole che non mi aspettavo, parole che persino a me avrebbero causato estremo disagio se le avessi usate: “La Corte è la lebbra del Papato”. In quel momento del loro dialogo, Francesco e Scalfari hanno davvero colto il punto essenziale, cioè che la Curia romana deve essere posta di nuovo al servizio del genere umano e non al servizio di un sistema romano che non ha nulla a che vedere con la lezione del Vangelo. E che da un punto di vista veramente cattolico il Vaticano non può divenire la necessità suprema, ma al contrario tutte le strutture della Chiesa, anche quelle della Curia, devono porsi al servizio del Popolo di Dio.
E infine, il Papa ha rifiutato di pronunciare una gerarchia dei santi: ha detto che è possibile fare una classifica dei migliori calciatori argentini ma non dei Santi. Poi si è espresso in favore di San Paolo, quale interpretazione del cristianesimo che è rimasta valida per millenni, di Sant’Agostino e di Francesco d’Assisi. Nel corso di tutto il dialogo tra Francesco e Scalfari non c’è un singolo tono sbagliato. Si può solo sperare che questo dialogo resti d’esempio per il dialogo tra credenti e non credenti.    (H. Kung, in ‘la Repubblica’ odierna)                                     

 

(02 ottobre 2013)

“così cambierà la chiesa”: colloquio di papa Francesco con E. Scalfari

rinnovamentoI

Il Papa: così cambierà la Chiesa: colloquio tra papa Francesco e Eugenio Scalfari
in “la Repubblica” del 1 ottobre 2013

Mi dice papa Francesco: «I più gravi dei mali che affliggono il mondo in questi anni sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi. I vecchi hanno bisogno di cure e di compagnia; i giovani di lavoro e di speranza, ma non hanno né l’uno né l’altra, e il guaio è che non li cercano più. Sono stati schiacciati sul presente. Mi dica lei: si può vivere schiacciati sul presente? Senza memoria del passato e senza il desiderio di proiettarsi nel futuro costruendo un progetto, un avvenire, una famiglia? È possibile continuare così? Questo, secondo me, è il problema più urgente che la Chiesa ha difronte a sé». Santità, gli dico, è un problema soprattutto politico ed economico, riguarda gli Stati, i governi, i partiti, le associazioni sindacali. «Certo, lei ha ragione, ma riguarda anche la Chiesa, anzi soprattutto la Chiesa perché questa situazione non ferisce solo i corpi ma anche le anime. La Chiesa deve sentirsi responsabile sia delle anime sia dei corpi». Santità, Lei dice che la Chiesa deve sentirsi responsabile. Debbo dedurne che la Chiesa non è consapevole di questo problema e che Lei la incita in questa direzione? «In larga misura quella consapevolezza c’è, ma non abbastanza. Io desidero che lo sia di più. Non è questo il solo problema che abbiamo di fronte ma è il più urgente e il più drammatico». L’incontro con papa Francesco è avvenuto martedì scorso nella sua residenza di Santa Marta, in una piccola stanza spoglia, un tavolo e cinque o sei sedie, un quadro alla parete. Era stato preceduto da una telefonata che non dimenticherò finché avrò vita. Erano le due e mezza del pomeriggio. Squilla il mio telefono e la voce alquanto agitata della mia segretaria mi dice: «Ho il Papa in linea glielo passo immediatamente ». Resto allibito mentre già la voce di Sua Santità dall’altro capo del filo dice: «Buongiorno, sono papa Francesco». Buongiorno Santità — dico io e poi — sono sconvolto non m’aspettavo mi chiamasse. «Perché sconvolto? Lei mi ha scritto una lettera chiedendo di conoscermi di persona. Io avevo lo stesso desiderio e quindi son qui per fissare l’appuntamento. Vediamo la mia agenda: mercoledì non posso, lunedì neppure, le andrebbe bene martedì?». Rispondo: va benissimo. «L’orario è un po’ scomodo, le 15, le va bene? Altrimenti cambiamo giorno». Santità, va benissimo anche l’orario. «Allora siamo d’accordo: martedì 24 alle 15. A Santa Marta. Deve entrare dalla porta del Sant’Uffizio». Non so come chiudere questa telefonata e mi lascio andare dicendogli: posso abbracciarla per telefono? «Certamente, l’abbraccio anch’io. Poi lo faremo di persona, arrivederci ». Ora son qui. Il Papa entra e mi dà la mano, ci sediamo. Il Papa sorride e mi dice: «Qualcuno dei miei collaboratori che la conosce mi ha detto che lei tenterà di convertirmi» È una battuta gli rispondo. Anche i miei amici pensano che sia Lei a volermi convertire. Ancora sorride e risponde: «Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi, ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda. A me capita che dopo un incontro ho voglia di farne un altro perché nascono nuove idee e si scoprono nuovi bisogni. Questo è importante: conoscersi, ascoltarsi, ampliare la cerchia dei pensieri. Il mondo è percorso da strade che riavvicinano e allontanano, ma l’importante è che portino verso il Bene». Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce? «Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene». Lei, Santità, l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa. «E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e
combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo». La Chiesa lo sta facendo? «Sì, le nostre missioni hanno questo scopo: individuare i bisogni materiali e immateriali delle persone e cercare di soddisfarli come possiamo. Lei sa cos’è l’“agape”?». Sì, lo so. «È l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune». Ama il prossimo come te stesso. «Esattamente, è così». Gesù nella sua predicazione disse che l’agape, l’amore per gli altri, è il solo modo di amare Dio. Mi corregga se sbaglio. «Non sbaglia. Il Figlio di Dio si è incarnato per infondere nell’anima degli uomini il sentimento della fratellanza. Tutti fratelli e tutti figli di Dio. Abba, come lui chiamava il Padre. Io vi traccio la via, diceva. Seguite me e troverete il Padre e sarete tutti suoi figli e lui si compiacerà in voi. L’agape, l’amore di ciascuno di noi verso tutti gli altri, dai più vicini fino ai più lontani, è appunto il solo modo che Gesù ci ha indicato per trovare la via della salvezza e delle Beatitudini». Tuttavia l’esortazione di Gesù, l’abbiamo ricordato prima, è che l’amore per il prossimo sia eguale a quello che abbiamo per noi stessi. Quindi quello che molti chiamano narcisismo è riconosciuto come valido, positivo, nella stessa misura dell’altro. Abbiamo discusso a lungo su questo aspetto. «A me — diceva il Papa — la parola narcisismo non piace, indica un amore smodato verso se stessi e questo non va bene, può produrre danni gravi non solo all’anima di chi ne è affetto ma anche nel rapporto con gli altri, con la società in cui vive. Il vero guaio è che i più colpiti da questo che in realtà è una sorta di disturbo mentale sono persone che hanno molto potere. Spesso i Capi sono narcisi». Anche molti Capi della Chiesa lo sono stati. «Sa come la penso su questo punto? I Capi della Chiesa spesso sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani. La corte è la lebbra del papato». La lebbra del papato, ha detto esattamente così. Ma qual è la corte? Allude forse alla Curia? ho chiesto. «No, in Curia ci sono talvolta dei cortigiani, ma la Curia nel suo complesso è un’altra cosa. È quella che negli eserciti si chiama l’intendenza, gestisce i servizi che servono alla Santa Sede. Però ha un difetto: è Vaticano-centrica. Vede e cura gli interessi del Vaticano, che sono ancora, in gran parte, interessi temporali. Questa visione Vaticano-centrica trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione e farò di tutto per cambiarla. La Chiesa è o deve tornare ad essere una comunità del popolo di Dio e i presbiteri, i parroci, i Vescovi con cura d’anime, sono al servizio del popolo di Dio. La Chiesa è questo, una parola non a caso diversa dalla Santa Sede che ha una sua funzione importante ma è al servizio della Chiesa. Io non avrei potuto avere la piena fede in Dio e nel suo Figlio se non mi fossi formato nella Chiesa e ho avuto la fortuna di trovarmi, in Argentina, in una comunità senza la quale non avrei preso coscienza di me e della mia fede». Lei ha sentito la sua vocazione fin da giovane? «No, non giovanissimo. Avrei dovuto fare un altro mestiere secondo la mia famiglia, lavorare, guadagnare qualche soldo. Feci l’università. Ebbi anche una insegnante verso la quale concepii rispetto e amicizia, era una comunista fervente. Spesso mi leggeva e mi dava da leggere testi del Partito comunista. Così conobbi anche quella concezione molto materialistica. Ricordo che mi fece avere anche il comunicato dei comunisti americani in difesa dei Rosenberg che erano stati condannati a morte. La donna di cui le sto parlando fu poi arrestata, torturata e uccisa dal regime dittatoriale allora governante in Argentina». Il comunismo la sedusse? «Il suo materialismo non ebbe alcuna presa su di me. Ma conoscerlo attraverso una persona coraggiosa e onesta mi è stato utile, ho capito alcune cose, un aspetto del sociale, che poi ritrovai nella dottrina sociale della Chiesa».
La teologia della liberazione, che papa Wojtyla ha scomunicato, era abbastanza presente nell’America Latina. «Sì, molti suoi esponenti erano argentini». Lei pensa che sia stato giusto che il Papa li combattesse? «Certamente davano un seguito politico alla loro teologia, ma molti di loro erano credenti e con un alto concetto di umanità ». Santità, mi permette di dirle anch’io qualche cosa sulla mia formazione culturale? Sono stato educato da una madre molto cattolica. A 12 anni vinsi addirittura una gara di catechismo tra tutte le parrocchie di Roma ed ebbi un premio dal Vicariato. Mi comunicavo il primo venerdì di ogni mese, insomma praticavo la liturgia e credevo. Ma tutto cambiò quando entrai al liceo. Lessi, tra gli altri testi di filosofia che studiavamo, il “Discorso sul metodo” di Descartes e rimasi colpito dalla frase, ormai diventata un’icona, “Penso, dunque sono”. L’io divenne così la base dell’esistenza umana, la sede autonoma del pensiero. «Descartes tuttavia non ha mai rinnegato la fede del Dio trascendente». È vero, ma aveva posto il fondamento d’una visione del tutto diversa e a me accadde di incamminarmi in quel percorso che poi, corroborato da altre letture, mi ha portato a tutt’altra sponda. «Lei però, da quanto ho capito, è un non credente ma non un anticlericale. Sono due cose molto diverse». È vero, non sono anticlericale, ma lo divento quando incontro un clericale. Lui sorride e mi dice: «Capita anche a me, quando ho di fronte un clericale divento anticlericale di botto. Il clericalismo non dovrebbe aver niente a che vedere con il cristianesimo. San Paolo che fu il primo a parlare ai Gentili, ai pagani, ai credenti in altre religioni, fu il primo ad insegnarcelo». Posso chiederle, Santità, quali sono i santi che lei sente più vicini all’anima sua e sui quali si è formata la sua esperienza religiosa? «San Paolo è quello che mise i cardini della nostra religione e del nostro credo. Non si può essere cristiani consapevoli senza San Paolo. Tradusse la predicazione di Cristo in una struttura dottrinaria che, sia pure con gli aggiornamenti di un’immensa quantità di pensatori, di teologi, di pastori d’anime, ha resistito e resiste dopo duemila anni. E poi Agostino, Benedetto e Tommaso e Ignazio. E naturalmente Francesco. Debbo spiegarle il perché?». Francesco — mi sia consentito a questo punto di chiamare così il Papa perché è lui stesso a suggerirtelo per come parla, per come sorride, per le sue esclamazioni di sorpresa o di condivisione, mi guarda come per incoraggiarmi a porre anche le domande più scabrose e più imbarazzanti per chi guida la Chiesa. Sicché gli chiedo: di Paolo ha spiegato l’importanza e il ruolo che ha svolto, ma vorrei sapere quale tra quelli che ha nominato sente più vicino all’anima sua? «Mi chiede una classifica, ma le classifiche si possono fare se si parla di sport o di cose analoghe. Potrei dirle il nome dei migliori calciatori dell’Argentina. Ma i santi…». Si dice scherza coi fanti, conosce il proverbio? «Appunto. Tuttavia non voglio evadere alla sua domanda perché lei non mi ha chiesto una classifica sull’importanza culturale e religiosa ma chi è più vicino alla mia anima. Allora le dico: Agostino e Francesco». Non Ignazio, dal cui Ordine Lei proviene? «Ignazio, per comprensibili ragioni, è quello che conosco più degli altri. Fondò il nostro Ordine. Le ricordo che da quell’Ordine proveniva anche Carlo Maria Martini, a me ed anche a lei molto caro. I gesuiti sono stati e tuttora sono il lievito — non il solo ma forse il più efficace — della cattolicità: cultura, insegnamento, testimonianza missionaria, fedeltà al Pontefice. Ma Ignazio che fondò la Compagnia, era anche un riformatore e un mistico. Soprattutto un mistico». E pensa che i mistici sono stati importanti per la Chiesa? «Sono stati fondamentali. Una religione senza mistici è una filosofia». Lei ha una vocazione mistica? «A lei che cosa le sembra?». A me sembra di no.
«Probabilmente ha ragione. Adoro i mistici; anche Francesco per molti aspetti della sua vita lo fu ma io non credo d’avere quella vocazione e poi bisogna intendersi sul significato profondo di quella parola. Il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s’innalza fino a raggiungere la comunione con le Beatitudini. Brevi momenti che però riempiono l’intera vita ». A Lei è mai capitato? «Raramente. Per esempio quando il Conclave mi elesse Papa. Prima dell’accettazione chiesi di potermi ritirare per qualche minuto nella stanza accanto a quella con il balcone sulla piazza. La mia testa era completamente vuota e una grande ansia mi aveva invaso. Per farla passare e rilassarmi chiusi gli occhi e scomparve ogni pensiero, anche quello di rifiutarmi ad accettare la carica come del resto la procedura liturgica consente. Chiusi gli occhi e non ebbi più alcuna ansia o emotività. Ad un certo punto una grande luce mi invase, durò un attimo ma a me sembrò lunghissimo. Poi la luce si dissipò io m’alzai di scatto e mi diressi nella stanza dove mi attendevano i cardinali e il tavolo su cui era l’atto di accettazione. Lo firmai, il cardinal Camerlengo lo controfirmò e poi sul balcone ci fu l’“Habemus Papam”». Rimanemmo un po’ in silenzio, poi dissi:parlavamo dei santi che lei sente più vicini alla sua anima ed eravamo rimasti ad Agostino. Vuole dirmi perché lo sente molto vicino a sé? «Anche il mio predecessore ha Agostino come punto di riferimento. Quel santo ha attraversato molte vicende nella sua vita ed ha cambiato più volte la sua posizione dottrinaria. Ha anche avuto parole molto dure nei confronti degli ebrei, che non ho mai condiviso. Ha scritto molti libri e quello che mi sembra più rivelatore della sua intimità intellettuale e spirituale sono le “Confessioni”, contengono anche alcune manifestazioni di misticismo ma non è affatto, come invece molti sostengono, il continuatore di Paolo. Anzi, vede la Chiesa e la fede in modo profondamente diverso da Paolo, forse anche perché erano passati quattro secoli tra l’uno e l’altro». Qual è la differenza, Santità? «Per me è in due aspetti, sostanziali. Agostino si sente impotente di fronte all’immensità di Dio e ai compiti ai quali un cristiano e un Vescovo dovrebbe adempiere. Eppure lui impotente non fu affatto, ma l’anima sua si sentiva sempre e comunque al di sotto di quanto avrebbe voluto e dovuto. E poi la grazia dispensata dal Signore come elemento fondante della fede. Della vita. Del senso della vita. Chi è non toccato dalla grazia può essere una persona senza macchia e senza paura come si dice, ma non sarà mai come una persona che la grazia ha toccato. Questa è l’intuizione di Agostino». Lei si sente toccato dalla grazia? «Questo non può saperlo nessuno. La grazia non fa parte della coscienza, è la quantità di luce che abbiamo nell’anima, non di sapienza né di ragione. Anche lei, a sua totale insaputa, potrebbe essere toccato dalla grazia». Senza fede? Non credente? «La grazia riguarda l’anima». Io non credo all’anima. «Non ci crede ma ce l’ha». Santità, s’era detto che Lei non ha alcuna intenzione di convertirmi e credo che non ci riuscirebbe. «Questo non si sa, ma comunque non ne ho alcuna intenzione ». E Francesco? «È grandissimo perché è tutto. Uomo che vuole fare, vuole costruire, fonda un Ordine e le sue regole, è itinerante e missionario, è poeta e profeta, è mistico, ha constatato su se stesso il male e ne è uscito, ama la natura, gli animali, il filo d’erba del prato e gli uccelli che volano in cielo, ma soprattutto ama le persone, i bambini, i vecchi, le donne. È l’esempio più luminoso di quell’agape di cui parlavamo prima». Ha ragione Santità, la descrizione è perfetta. Ma perché nessuno dei suo predecessori ha mai scelto quel nome? E secondo me, dopo di Lei nessun altro lo sceglierà? «Questo non lo sappiamo, non ipotechiamo il futuro. È vero, prima di me nessuno l’ha scelto. Qui affrontiamo il problema dei problemi. Vuole bere qualche cosa?».
Grazie, forse un bicchiere d’acqua. Si alza, apre la porta e prega un collaboratore che è all’ingresso di portare due bicchieri d’acqua. Mi chiede se vorrei un caffè, rispondo di no. Arriva l’acqua. Alla fine della nostra conversazione il mio bicchiere sarà vuoto, ma il suo è rimasto pieno. Si schiarisce la gola e comincia. «Francesco voleva un Ordine mendicante ed anche itinerante. Missionari in cerca di incontrare, ascoltare, dialogare, aiutare, diffondere fede e amore. Soprattutto amore. E vagheggiava una Chiesa povera che si prendesse cura degli altri, ricevesse aiuto materiale e lo utilizzasse per sostenere gli altri, con nessuna preoccupazione di se stessa. Sono passati 800 anni da allora e i tempi sono molto cambiati, ma l’ideale d’una Chiesa missionaria e povera rimane più che valida. Questa è comunque la Chiesa che hanno predicato Gesù e i suoi discepoli». Voi cristiani adesso siete una minoranza. Perfino in Italia, che viene definita il giardino del Papa, i cattolici praticanti sarebbero secondo alcuni sondaggi tra l’8 e il 15 per cento. I cattolici che dicono di esserlo ma di fatto lo sono assai poco sono un 20 per cento. Nel mondo esiste un miliardo di cattolici e anche più e con le altre Chiese cristiane superate il miliardo e mezzo, ma il pianeta è popolato da 6-7 miliardi di persone. Siete certamente molti, specie in Africa e nell’America Latina, ma minoranze. «Lo siamo sempre stati ma il tema di oggi non è questo. Personalmente penso che essere una minoranza sia addirittura una forza. Dobbiamo essere un lievito di vita e di amore e il lievito è una quantità infinitamente più piccola della massa di frutti, di fiori e di alberi che da quel lievito nascono. Mi pare d’aver già detto prima che il nostro obiettivo non è il proselitismo ma l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle delusioni, della disperazione, della speranza. Dobbiamo ridare speranza ai giovani, aiutare i vecchi, aprire verso il futuro, diffondere l’amore. Poveri tra i poveri. Dobbiamo includere gli esclusi e predicare la pace. Il Vaticano II, ispirato da papa Giovanni e da Paolo VI, decise di guardare al futuro con spirito moderno e di aprire alla cultura moderna. I padri conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco in quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare». Anche perché — mi permetto di aggiungere — la società moderna in tutto il pianeta attraversa un momento di crisi profonda e non soltanto economica ma sociale e spirituale. Lei all’inizio di questo nostro incontro ha descritto una generazione schiacciata sul presente. Anche noi non credenti sentiamo questa sofferenza quasi antropologica. Per questo noi vogliamo dialogare con i credenti e con chi meglio li rappresenta. «Io non so se sono il migliore che li rappresenta, ma la Provvidenza mi ha posto alla guida della Chiesa e della Diocesi di Pietro. Farò quanto sta in me per adempiere al mandato che mi è stato affidato». Gesù, come Lei ha ricordato, ha detto: ama il tuo prossimo come te stesso. Le pare che questo sia avvenuto? «Purtroppo no. L’egoismo è aumentato e l’amore verso gli altri diminuito». Questo è dunque l’obiettivo che ci accomuna: almeno parificare l’intensità di questi due tipi d’amore. La sua Chiesa è pronta e attrezzata a svolgere questo compito? «Lei cosa pensa?». Penso che l’amore per il potere temporale sia ancora molto forte tra le mura vaticane e nella struttura istituzionale di tutta la Chiesa. Penso che l’Istituzione predomini sulla Chiesa povera e missionaria che lei vorrebbe. «Le cose stanno infatti così e in questa materia non si fanno miracoli. Le ricordo che anche Francesco ai suoi tempi dovette a lungo negoziare con la gerarchia romana e con il Papa per far riconoscere le regole del suo Ordine. Alla fine ottenne l’approvazione ma con profondi cambiamenti e compromessi». Lei dovrà seguire la stessa strada? «Non sono certo Francesco d’Assisi e non ho la sua forza e la sua santità. Ma sono il Vescovo di Roma e il Papa della cattolicità. Ho deciso come prima cosa di nominare un gruppo di otto cardinali che siano il mio consiglio. Non cortigiani ma persone sagge e animate dai miei stessi sentimenti.
Questo è l’inizio di quella Chiesa con un’organizzazione non soltanto verticistica ma anche orizzontale. Quando il cardinal Martini ne parlava mettendo l’accento sui Concili e sui Sinodi sapeva benissimo come fosse lunga e difficile la strada da percorrere in quella direzione. Con prudenza, ma fermezza e tenacia». E la politica? «Perché me lo chiede? Io ho già detto che la Chiesa non si occuperà di politica». Però proprio qualche giorno fa ha rivolto un appello ai cattolici ad impegnarsi civilmente e politicamente. «Non mi sono rivolto soltanto ai cattolici ma a tutti gli uomini di buona volontà. Ho detto che la politica è la prima delle attività civili ed ha un proprio campo d’azione che non è quello della religione. Le istituzioni politiche sono laiche per definizione e operano in sfere indipendenti. Questo l’hanno detto tutti i miei predecessori, almeno da molti anni in qua, sia pure con accenti diversi. Io credo che i cattolici impegnati nella politica hanno dentro di loro i valori della religione ma una loro matura coscienza e competenza per attuarli. La Chiesa non andrà mai oltre il compito di esprimere e diffondere i suoi valori, almeno fin quando io sarò qui». Ma non è stata sempre così la Chiesa. «Non è quasi mai stata così. Molto spesso la Chiesa come istituzione è stata dominata dal temporalismo e molti membri ed alti esponenti cattolici hanno ancora questo modo di sentire. Ma ora lasci a me di farle una domanda: lei, laico non credente in Dio, in che cosa crede? Lei è uno scrittore e un uomo di pensiero. Crederà dunque a qualcosa, avrà un valore dominante. Non mi risponda con parole come l’onestà, la ricerca, la visione del bene comune; tutti principi e valori importanti, ma non è questo che le chiedo. Le chiedo che cosa pensa dell’essenza del mondo, anzi dell’universo. Si domanderà certo, come tutti, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Se le pone anche un bambino queste domande. E lei?». Le sono grato di questa domanda. La risposta è questa: io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti. «E io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio. E credo in Gesù Cristo, sua incarnazione. Gesù è il mio maestro e il mio pastore, ma Dio, il Padre, Abbà, è la luce e il Creatore. Questo è il mio Essere. Le sembra che siamo molto distanti?» Siamo distanti nei pensieri, ma simili come persone umane, animate inconsapevolmente dai nostri istinti che si trasformano in pulsioni, sentimenti, volontà, pensiero e ragione. In questo siamo simili. «Ma quello che voi chiamate l’Essere vuole definire come lei lo pensa?». L’Essere è un tessuto di energia. Energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità. Da quell’energia emergono le forme quando l’energia arriva al punto di esplodere. Le forme hanno le loro leggi, i loro campi magnetici, i loro elementi chimici, che si combinano casualmente, evolvono, infine si spengono ma la loro energia non si distrugge. L’uomo è probabilmente il solo animale dotato di pensiero, almeno in questo nostro pianeta e sistema solare. Ho detto è animato da istinti e desideri ma aggiungo che contiene anche dentro di sé una risonanza, un’eco, una vocazione di caos. «Va bene. Non volevo che mi facesse un compendio della sua filosofia e mi ha detto quanto mi basta. Osservo dal canto mio che Dio è luce che illumina le tenebre anche se non le dissolve e una scintilla di quella luce divina è dentro ciascuno di noi. Nella lettera che le scrissi ricordo d’averle detto che anche la nostra specie finirà ma non finirà la luce di Dio che a quel punto invaderà tutte le anime e tutto sarà in tutti». Sì, lo ricordo bene, disse “tutta la luce sarà in tutte le anime” il che — se posso permettermi — dà più una figura di immanenza che di trascendenza. «La trascendenza resta perché quella luce, tutta in tutti, trascende l’universo e le specie che in quella fase lo popolano. Ma torniamo al presente. Abbiamo fatto un passo avanti nel nostro dialogo. Abbiamo constatato che nella società e nel mondo in cui viviamo l’egoismo è aumentato assai più dell’amore per gli altri e gli uomini di buona volontà debbono operare, ciascuno con la propria forza e competenza, per far sì che l’amore verso gli altri aumenti fino ad eguagliare e possibilmente
superare l’amore per se stessi». Qui anche la politica è chiamata in causa. «Sicuramente. Personalmente penso che il cosiddetto liberismo selvaggio non faccia che rendere i forti più forti, i deboli più deboli e gli esclusi più esclusi. Ci vuole grande libertà, nessuna discriminazione, non demagogia e molto amore. Ci vogliono regole di comportamento ed anche, se fosse necessario, interventi diretti dello Stato per correggere le disuguaglianze più intollerabili». Santità, lei è certamente una persona di grande fede, toccato dalla grazia, animato dalla volontà di rilanciare una Chiesa pastorale, missionaria, rigenerata e non temporalistica. Ma da come parla e da quanto io capisco, Lei è e sarà un Papa rivoluzionario. Per metà gesuita, per metà uomo di Francesco, un connubio che forse non si era mai visto. E poi, le piacciono i “Promessi Sposi” di Manzoni, Holderlin, Leopardi e soprattutto Dostoevskij, il film “La strada” e “Prova d’orchestra” di Fellini, “Roma città aperta” di Rossellini ed anche i film di Aldo Fabrizi. «Quelli mi piacciono perché li vedevo con i miei genitori quando ero bambino». Ecco. Posso suggerirle di vedere due film usciti da poco? “Viva la libertà” e il film su Fellini di Ettore Scola. Sono certo che le piaceranno. Sul potere gli dico: lo sa che a vent’anni ho fatto un mese e mezzo di esercizi spirituali dai gesuiti? C’erano i nazisti a Roma e io avevo disertato dalla leva militare. Eravamo punibili con la condanna a morte. I gesuiti ci ospitarono a condizione che facessimo gli esercizi spirituali per tutto il tempo in cui eravamo nascosti nella loro casa e così fu. «Ma è impossibile resistere ad un mese e mezzo di esercizi spirituali» dice lui stupefatto e divertito. Gli racconterò il seguito la prossima volta. Ci abbracciamo. Saliamo la breve scala che ci divide dal portone. Prego il Papa di non accompagnarmi ma lui esclude con un gesto. «Parleremo anche del ruolo delle donne nella Chiesa. Le ricordo che la Chiesa è femminile». E parleremo se Lei vuole anche di Pascal. Mi piacerebbe sapere come la pensa su quella grande anima. «Porti a tutti i suoi familiari la mia benedizione e chieda che preghino per me. Lei mi pensi, mi pensi spesso». Ci stringiamo la mano e lui resta fermo con le due dita alzate in segno di benedizione. Io lo saluto dal finestrino. Questo è Papa Francesco. Se la Chiesa diventerà come lui la pensa e la vuole sarà cambiata un’epoca.

“Così cambierò la Chiesa”

Papa Francesco ad Eugenio Scalfari

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sintesi estrema di un’intervista che papa Francesco ha rilasciato a E. Scalfari nei giorni precedenti e che compare ne ‘la Repubblica’ odierna:

Un ateo e un Papa. due visioni del mondo diverse, ma che forse in questo periodo storico così complesso e drammatico riescono a trovare dei punti in comune. Un’analisi sulla società, sul ruolo della Chiesa, sull’uomo. Su La Repubblica di oggi si legge:

Mi dice papa Francesco: «I più gravi dei mali che affliggono il mondo in questi anni sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi. I vecchi hanno bisogno di cure e di compagnia; i giovani di lavoro e di speranza, ma non hanno né l’uno né l’altra, e il guaio è che non li cercano più. Sono stati schiacciati sul presente. Mi dica lei: si può vivere schiacciati sul presente? Senza memoria del passato e senza il desiderio di proiettarsi nel futuro costruendo un progetto, un avvenire, una famiglia? È possibile continuare così? Questo, secondo me, è il problema più urgente che la Chiesa ha di fronte a sé». Santità, gli dico, è un problema soprattutto politico ed economico, riguarda gli Stati, i governi, i partiti, le associazioni sindacali. «Certo, lei ha ragione, ma riguarda anche la Chiesa, anzi soprattutto la Chiesa perché questa situazione non ferisce solo i corpi ma anche le anime. La Chiesa deve sentirsi responsabile sia delle anime sia dei corpi».

Santità, Lei dice che la Chiesa deve sentirsi responsabile. Debbo dedurne che la Chiesa non è consapevole di questo problema e che Lei la incita in questa direzione? «In larga misura quella consapevolezza c’è, ma non abbastanza. Io desidero che lo sia di più. Non è questo il solo problema che abbiamo di fronte ma è il più urgente e il più drammatico». L’incontro con papa Francesco è avvenuto martedì scorso nella sua residenza di Santa Marta, in una piccola stanza spoglia, un tavolo e cinque o sei sedie, un quadro alla parete. Era stato preceduto da una telefonata che non dimenticherò finché avrò vita. Erano le due e mezza del pomeriggio. Squilla il mio telefono e la voce alquanto agitata della mia segretaria mi dice: «Ho il Papa in linea glielo passo immediatamente ».

Un’intervista lunga dove Francesco spinto dalle domande di Scalfari si racconta più dal punto di vista umano che da quello religioso ( ammesso che si possano scindere le due visioni). La Chiesa che Francesco racconta è quella del “fare” (per dirla con termine ormai abusato dalla politica, dove se ne parla ma non si realizzano gli obiettivi che ci si propone di raggiungere) non è quella mistica. Quando il direttore di La Repubblica chiede a Bergoglio “Lei ha una vocazione mistica?” il Papa risponde “Adoro i mistici; anche Francesco per molti aspetti della sua vita lo fu ma io non credo di avere quella vocazione e poi bisogna intendersi sul significato profondo di quella parola. Il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s’innalza fino a raggiungere la comunione con le Beatitudini, Brevi momenti che però riempiono l’intera vita”.

 

la sfida di papa Feancesco: verso nuove frontiere

altare

Chris Lowney, autore di Pope Francis e direttore di uno dei più grandi sistemi di assistenza sanitaria ospedaliera, riflette sulla sfida che papa Francesco rivolge alla chiesa di “percorrere strade polverose verso nuove frontiere”:

Francesco ci sfida a percorrere strade polverose verso nuove frontiere

di Chris Lowney*
in “ncronline.org” del 27 settembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

Credo che papa Francesco stia cercando di attivare un enorme cambiamento culturale nella Chiesa cattolica. E vedo l’inconfondibile impronta spirituale di Sant’Ignazio di Loyola nella spiritualità e nello stile di leadership del papa. “Chi è Jorge Mario Bergoglio?”, ha chiesto padre Antonio Spadaro al papa durante la ormai famosa intervista fatta in agosto. Mentre molti politici e celebrità avrebbero sfruttato questa semplice domanda per dare una risposta autopromozionale, ecco che cosa ha detto il papa: “Sono un peccatore”. Una risposta che trae da una pagina degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che comprende alcune meditazioni forti sul peccato personale: “Mi considero come una piaga e un ascesso, da cui sono usciti gravi peccati”. Ma non c’è una visione deprimente nella spiritualità ignaziana di Francesco; è solo una maniera semplice e schietta di parlare della condizione umana. E benché i postmoderni qui nella New York cosmopolita possano rifiutare il discorso cattolico sul peccato, tutti possono sentire dentro di sé una risonanza rispetto alla visione papale di una chiesa-“ospedale da campo” che si concentra innanzitutto sullo sforzo di guarire. Siamo tutti profondamente imperfetti, papi inclusi, ma ciononostante intrinsecamente resi degni e incondizionatamente amati da Dio. Questo è stato un motivo ricorrente di tutta la vita di Bergoglio. Mentre scrivevo Pope Francis: Why He Leads the Way He Leads, ho parlato con molti gesuiti che si sono formati sotto di lui quando era rettore di un grande seminario gesuita. Il padre gesuita Hernàn Paredes mi ha detto: “Per Bergoglio era importante che noi ci amassimo così come eravamo”. Paredes ci fa partecipi di un curioso aneddoto su un collega equadoregno che un giorno orgogliosamente indossava una giacca tradizionale, in cui erano intessute delle immagini di lama. Un seminarista argentino crudelmente dileggiava la tenuta del ragazzo, come se si trattasse di un burino appena arrivato nella grande città. Allora Bergoglio invitò l’argentino a portare quella giacca per un giorno, come meditazione “ambulante” per l’intera comunità: ogni persona ha una fondamentale dignità, è degna di rispetto per diritto di nascita; l’amore costante di Dio non è condizionato da ciò che gli altri pensano di noi, dal nostro status o dalla nostra cattiveria. Questo messaggio chiave del cattolicesimo e degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola è fondamentale per la visione di Francesco sulla chiesa. Nell’intervista, ha parlato di una chiesa che “è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate”. Quando visita i rifugiati a Lampedusa, abbraccia i disabili in Piazza San Pietro, dice che vuole una chiesa che sia “per i poveri”, o ci incoraggia a diffondere la notizia della misericordia di Dio, implicitamente ci sta dicendo che la nostra cappella è ancora troppo piccola. Non ne abbiamo ancora fatto una casa per tutti, e fare questo è compito di ogni cattolico perché, nella ignaziana visione del mondo di papa Francesco, non siamo soltanto peccatori amati, ma siamo ognuno personalmente, pur peccatori, chiamati a lavorare accanto a Gesù e diffondere la buona notizia di Gesù. Questo ci porta al secondo potente tema ignaziano nell’intervista di Spadaro: lo spirito di frontiera. Francesco ha detto che fu inizialmente attratto dall’ordine gesuita per tre ragioni, una delle quali era il suo “spirito missionario”. Ignazio di Loyola esortava i gesuiti a vivere “con un piede alzato”, sempre pronti a cogliere la prossima opportunità. Istituì anche uno speciale quarto voto di obbedienza: essere sempre disponibili ad essere inviati in missione dal papa. Questo atteggiamento mentale liberò una straordinaria energia centrifuga nelle prime generazioni gesuite, che notoriamente andarono in ricerca al di fuori delle frontiere del mondo allora conosciuto dagli europei. Lo stesso paese natale del papa, l’Argentina, ad esempio, è ancora punteggiato dalle rovine di importanti insediamenti innovativi – le cosiddette “riduzioni del Paraguay” (1) – che i
gesuiti, da pionieri, fecero sorgere nelle zone abitate dagli indigeni. Ma Francesco ci sta invitando ad interpretare la “frontiera” in un senso molto più ampio. Le frontiere del cattolicesimo del XXI secolo non riguardano tanto le persone lontane geograficamente, quanto piuttosto coloro che non danno molto valore alla religione organizzata e che sono stati trascurati o esclusi. Il papa ha detto al suo intervistatore che ammirava il “dialogo con tutti… perfino con i suoi avversari” di uno dei primi gesuiti, padre Peter Faber. E, ha detto il papa, “cerchiamo di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente”. Questa non è una banalità, questa è una strategia. Un altro gesuita che ho intervistato per il progetto del mio libro ha detto che a padre Bergoglio fu chiesto una volta di assumersi la responsabilità di una nuova parrocchia in una comunità impoverita e che lui “arruolò” alcuni seminaristi volontari per assisterlo. A fare cosa? Ebbene, ad andare in giro per la città. Ad incontrare tutti, non solo quelli che andavano in chiesa. A trovare i più poveri e vedere che cosa era possibile fare per aiutarli. Quando i seminaristi tornavano da quelle visite, Bergoglio era solito controllare quali scarpe fossero impolverate – cioè chi mostrava uno spirito di frontiera per incontrare le persone lì dove realmente vivono. Quando il gruppo scoprì quanto effettivamente fossero poveri i loro vicini, un gesuita ricorda che Bergoglio disse qualcosa come: “Non possiamo stare qui seduti a braccia conserte, mentre abbiamo tutto, e quella gente non ha nemmeno abbastanza da mangiare”. Così passarono all’azione, mettendo un grande pentolone in un campo per dare avvio ad una primitiva mensa dei poveri. Questo stile innovativo, instancabilmente energico e volto all’esterno è fondamentale per lo “spirito di frontiera” che Francesco vuole instillare. Nell’omelia del giorno successivo alla sua elezione ha detto: “La nostra vita è un viaggio, e quando smettiamo di essere in movimento, le cose vanno male”. La frontiera è ora il nostro vicinato, non un posto all’altro capo del mondo. Lo riusciremo a capire più chiaramente accogliendo il grande mantra della spiritualità ignaziana raccomandato dal papa: trovare Dio in ogni cosa. Questo significa trovare Dio presente non solo nel nostro pasto eucaristico, ma nel costituire il personale di quegli “ospedali da campo” che guariranno sofferenza, alienazione, disperazione o povertà dei nostri vicini. All’inizio di questo scritto, sostenevo che Francesco sta cercando di attivare un enorme cambiamento culturale nella nostra chiesa. Enorme cambiamento culturale: è un’iperbole? Ebbene, considerate la pioggia di parole e frasi sollevate dalle dichiarazioni dell’intervista del papa sulla chiesa, sulla vita dei gesuiti o dei cattolici: “vivere al confine ed essere audaci”, “essere in ricerca, creativi e generosi”, “trovare nuove strade”, “dialogare con tutti, anche con gli avversari”. Purtroppo, pochi osservatori obiettivi assocerebbero totalmente queste caratteristiche alla nostra chiesa di oggi. Francesco sta chiedendo a ciascuno di noi di contribuire a guidare il cambiamento culturale che renderà quelle caratteristiche più pienamente vive. Sì, ognuno di noi deve aiutare a guidare. Dopo tutto, ha detto che i vescovi “devono essere capaci di accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade”. Allora, impolveriamo le nostre scarpe e troviamo nuove strade.
(1) Riduzioni gesuite: piccoli nuclei cittadini in cui erano strutturate le missioni, con lo scopo di civilizzare e di evangelizzare. *Chris Lowney,  autore di Pope Francis: Why He Leads the Way He Leads (Loyola Press), è stato amministratore delegato di J.P. Morgan & Co. ed è ora direttore del consiglio di Catholic Health Initiatives, uno dei più grandi sistemi nazionali di assistenza sanitaria e ospedaliera.

p. Maggi commenta il vangelo di domani

 

p. Maggi

XXVI TEMPO ORDINARIO – 29 settembre 2013

NELLA VITA, TU HAI RICEVUTO I TUOI BENI, E LAZZARO I SUOI MALI; MA ORA LUI E’ CONSOLATO, TU INVECE SEI IN MEZZO AI TORMENTI – Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi
Lc 16,19-31
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:  «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Per la terza e ultima volta appare nel vangelo di Luca l’espressione “uomo ricco”. Questa espressione è sempre negativa. E’ già apparsa una prima volta come l’uomo stolto, sciocco, ricco, ingordo, demolisce i granai per costruirne degli altri e il Signore gli dice “oh stupido! Questa notte muori e tutto quello che hai lasciato, per chi sarà?”
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Abbiamo visto la volta precedente la stessa espressione nell’uomo ricco che loda il fattore disonesto e Gesù denuncia il fatto che la ricchezza è sempre disonesta. I disonesti sono talmente perversi nel loro sistema di ricchezza e di valori, che ammirano i disonesti. E questa è la terza volta, è la parabola conosciuta da tutti come quella del ricco e del povero Lazzaro.
E’ il capitolo 16, versetti 19 e segg. di Luca.  L’evangelista dice “«C’era un uomo ricco»”, e con un’abile pennellata ne da un ritratto, “«indossava vestiti di porpora e di lino finissimo»”. Oggi potremmo dire che vestiva firmato da capo a piedi; la povertà interiore ha bisogno di esprimersi nel lusso esteriore.
“«E ogni giorno si dava a lauti banchetti»”, quindi una fame insaziabile; è la fame interiore che crede di sopire ingurgitando dei cibi. L’unica descrizione che Luca da del ricco è questa, non si dice che – come a volte si pensa – questo ricco sia  malvagio, cattivo, nulla di tutto questo. E’ un uomo ricco e, secondo la tradizione biblica ebraica, era benedetto da Dio perché Dio premiava i buoni con la ricchezza e li malediva con la povertà.
“«Un povero, di nome Lazzaro»”, l’unica volta che un personaggio delle parabole ha un nome, e questo nome significa ‘Dio aiuta’,  “«stava alla sua porta, coperto di piaghe»”. Le piaghe erano considerate un castigo inviato da Dio, secondo il libro del Deuteronomio, cap. 28. Quindi è un uomo che è colpevole della sua miseria e delle sue piaghe.
“«Bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani»”, cioè gli animali più impuri, gli esseri considerati più impuri, “«che venivano a leccare le sue piaghe»”. Quindi è impuro chi vive fra gli impuri. Ebbene, a sorpresa, dice Gesù “«Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli».
L’uomo che sulla terra aveva come unica compagnia gli esseri più impuri, i cani, viene portato dagli angeli, cioè gli esseri più puri, quelli più vicini a Dio.  “«Accanto ad Abramo», per comprendere bene questa parabola di Gesù, notiamo che è rivolta ai farisei che si beffavano di Gesù che aveva detto che non è possibile servire Dio e il denaro, e, proprio perché rivolta ai farisei, Gesù parla con le categorie farisaiche del premio e del castigo da ricevere nell’aldilà.
E lo fa secondo un libro conosciutissimo a quell’epoca, il libro di Enoch, dove il regno dei morti veniva considerato un grande baratro, dove il punto più luminoso era il seno di Abramo, il punto più oscuro era dove andavano a finire i malvagi.
“«Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi», il termine ‘inferi’ traduce il termine greco ‘ade’ che significa ‘regno dei morti’, “«tra i tormenti, alzò gli occhi»”, e finalmente si accorge di Lazzaro. Il ricco di questa parabola non viene condannato per essere stato malvagio nei confronti del povero, per averlo maltrattato, ma semplicemente non si è accorto della sua esistenza.
Solo adesso, quando è nel bisogno, finalmente se ne accorge. Ma i ricchi non cambiano, i ricchi sono animati da una perversione che non è possibile sradicare dalla loro esistenza. E infatti non chiede, ancora comanda, “«’Padre Abramo, mostrami pietà’»”, mostrami misericordia, e ordina, “«’Manda Lazzaro’»”, lui, il ricco pensa che tutto gli sia dovuto. Lui si serve delle persone, non ha mai servito. 2
E Abramo gli risponde, sempre secondo la teologia farisaica, con il fatto del premio e del castigo “«’Tu hai ricevuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali’»”. E quindi, come in terra vivevano su due mondi differenti dove non si incontravano – ripeto il ricco ha ignorato l’esistenza del povero – adesso sono su due mondi completamente distanti.
Ma ecco l’egoismo del ricco, l’egoismo che non si può sradicare, che arriva fino in fondo. Dice, “«Allora padre, ti prego di mandare Lazzaro’»”, lui di Lazzaro di serve, “«’a casa di mio padre perché ho cinque fratelli’»”. Gli interessa soltanto la sua famiglia, non dice “mandalo al popolo, alla gente, mandalo ad annunciare cosa succede se accumulano denari, se non pensano agli altri”.
No, il ricco è incurabilmente egoista, pensa soltanto a sé stesso e che tutto gli sia dovuto. Allora manda ai suoi fratelli, alla sua famiglia, degli altri non gli interessa.
Ed ecco la risposta di Abramo, “«Hanno Mosè e i Profeti’»”, cioè quelli che hanno legiferato a favore dei poveri, Mosè ha detto “la parola del Signore è che nessuno sia bisognoso”, i profeti hanno tanto tuonato contro i ricchi,   “«’Ascoltino loro’»”.
E la replica del ricco: “«No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno’»”. Ed ecco la sentenza importante e drammatica di Gesù, “«Abramo rispose: ‘Se non ascoltano Mosè’»”, la parabola è rivolta ai farisei, quelli che si fanno scudo della legge di Mosè, della dottrina, soltanto per coprire i propri interessi.
Queste persone tanto pie, tanto devote, i zelanti custodi della tradizione e della fede, quando non conviene, sono i primi ad ignorare la legge di cui sono difensori. “«’Se non ascoltano Mosè e i Profeti non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti’»”.
Perché Gesù afferma questo? Perché quanti sono stati incapaci di condividere il pane con l’affamato, non riusciranno mai a credere nel Gesù risorto, che è riconoscibile soltanto – come scriverà Luca nell’episodio di Emmaus – nello spezzare del pane. Quindi è un monito molto severo contro il cancro della ricchezza.
Una persona che viene affetta da questa malattia è incurabile e non si guarisce neanche nell’aldilà.

‘mulino rosa’

aiuto

a proposito dello ‘tzunami mediatico che si è scaraventato addosso alla noto pastificio Barilla immediatamente dopo le dichiarazioni del suo responsabile alla trasmissione radiofonica ‘la zanzara’, una interessante riflessione di M. Gramellini:

Intervistato dalla Zanzara – programma radiofonico specializzato nello scavare trappole ai vip, i quali misteriosamente fanno la coda per cascarvi dentro – Guido Barilla ha affermato che nelle pubblicità dei suoi prodotti non mostrerebbe mai una famiglia gay, perché lui si rivolge a quella tradizionale. Subito è scattato un cortocircuito d’indignazione, con appelli al boicottaggio di fusilli e fette biscottate. La logica sacrosanta del politicamente corretto impone infatti di scagliarsi contro ogni offesa alla sensibilità delle minoranze. È che stavolta non si riesce a scorgere tanto bene l’offesa. Soltanto la scelta di un’azienda di concentrarsi sul «target» – la famiglia tradizionale – a cui immagina di vendere i propri spaghetti. Una decisione ovviamente opinabile, ma ispirata da valutazioni commerciali, non politiche o morali. Così come ispirata da valutazioni commerciali è stata la scelta opposta di Ikea, che ha spalancato le porte dei suoi spot ai gay anche per suscitare scalpore e simpatia, assegnando al proprio marchio una patente d’avanguardia.

L’indignazione è un’energia rara e preziosa che con l’esperienza si impara a sprecare il meno possibile. Non sarà una reclame del Mulino Bianco a discriminare i gay, e nemmeno la cocciutaggine nel chiamare i genitori «mamma» e «papà» anziché «genitore 1» e «genitore 2» come pretenderebbe qualche originalone. Le campagne per cui vale veramente la pena di indignarsi (e di battersi) riguardano i diritti degli omosessuali, la loro possibilità di accudire il compagno malato, ereditare, sposarsi, adottare, vivere liberamente l’amore. Il resto è solo un intermezzo pubblicitario.

Da la Stampa del 27/09/2013.

Minori Rom allontanati dalle loro famiglie‏

 

Ago   popolo rom
ricevo da Agostino questa sconcertante notizia e, condividendo sia le sue preoccupate riflessioni, sia soprattutto la sofferenza dei genitori, dei figli, dei rom oggetto di così crudele progetto di ‘inclusione’ e ‘inserimento’, metto a disposizione di una riflessione pubblica più allargata:
Ieri mattina (25  Settembre) due bambini sono stati allontanati dai loro genitori Rom di Coltano e affidati ad una comunità.

Anche in questo caso gli assistenti sociali di Pisa hanno mostrato la loro perfidia, soprattutto quando si tratta di agire nei confronti dei Rom, ma questa volta non hanno esitato a coinvolgere e sfruttare la scuola. Infatti si sono presentati ieri mattina alla scuola, accompagnati da agenti di P.S. per prelevare i due figli di M. Le insegnanti hanno cercato di far valere le ragioni della madre (assente) ma con la tristezza nel cuore, anche di fronte anche ad un provvedimento del Tribunale Minori di Firenze hanno dovuto rassegnarsi ed assistere allo smarrimento e la paura dei loro due alunni stampata sui loro volti e consegnare a queste impietose assistenti sociali i due minori. Alle insegnanti si sono anche raccomandate di non avvisare la madre, che è stata avvertita  più tardi dagli stessi assistenti sociali, ad intervento ormai ultimato.

Certo, tutto è stato fatto nel rispetto delle norme e delle carte bollate, ovviamente in nome della tutela dei minori..ma quante ingiustizie si possono compiere anche in nome della stessa, quanta approssimazione nel leggere con realismo e obiettività stili di vita e comportamenti dei Rom, perché diversi dai nostri e quindi frettolosamente colpevolizzati.

Evito di raccontarvi lo strazio della mamma, legatissima ai suoi due figli, che per anni ha lottato per difenderli dalle astuzie e dai controlli stressanti degli assistenti sociali, forse la sua colpa principale è la sua povertà e la malattia psichica di suo marito.

Ieri tutto il campo di Coltano era furibondo e si è stretto attorno alla mamma nel tentare di consolarla e consigliarla. Furibondo verso gli assistenti sociali per il loro comportamento ambiguo, ingannatore e che non esita a servirsi anche della scuola.

“Ci obbligano a mandare i nostri figli a scuola per poi portarceli via quando a loro piace.” Vi lascio immaginare lo tsunami che questo fatto può creare nelle vite dei Rom e che rischia di minare il lavoro di anni: la scuola è via di integrazione o via comoda degli orchi che vengono a portarci via i “nostri figli”?

Diverse volte è successo qui a Pisa in questi anni, (soprattutto da quando esercitano le assistenti sociali: Zeni, Renata Paoli e Agata Amato) che i figli minori sono stati separati dalle loro famiglie, siamo sicuri che in tutti i casi si è veramente intervenuti per la tutela dei minori?

Forse è quanto mai urgente porci delle domande, anche solo dell’uso assai disinvolto delle minacce verso i Rom di allontanare i loro figli, quando il Rom in questione non si mostra abbastanza “condiscendente”.
 
Ciao Ago
 

benedizione papale di papa Francesco a Belen

 

 

benedizione papale

 

“Grazie per la sua benedizione. #sonotroppoemozionata #troppo #troppoperme”.

Siamo agli scoccioli, agli ultimi particolari sul matrimonio Belen Rodríguez 

La showgirl, connazionale di Papa Bergoglio, ha postato emozionata su Instagram la benedizione che ha ricevuto da papa Francesco per il giorno delle nozze. La bella argentina alcuni mesi fa aveva espresso la volontà di far benedire il piccolo Santiago proprio dal Santo Padre, per adesso si deve accontentare di questa pergamena. Un attestato che in realtà chiunque può richiedere pagando all’Elemosineria in Vaticano 35 euro tramite bollettino postale. Per lei comunque un bel ricordo, per noi l’ennesima tappa di un matrimonio infinito.

 

 

Iforza-nuova

segni di deriva mentale dei nostri tempi

una amara riflessione su l’ ‘amaca’ odierna di M. Serra:

l militante di Forza Nuova che in mezzo alla strada strilla nel suo megafono slogan “contro la sodomia” più che alla violenza fascista fa pensare alla deriva mentale dei nostri anni, dal picchiatello che annuncia l’Apocalisse al ragioniere satanista che in birreria leva il calice ad Astarotte. Già la parola “sodomia” non aiuta, nella sua incomparabile ridicolaggine, a essere udita senza ridere. Poi c’è il contesto, in questo caso la periferia lombarda, con le rotonde e le villette a schiera, poco di biblico, molto di anonimo, improbabile che nel discount lì accanto qualcuno, cliente o commessa, sappia che cosa significa sodomia, compreso chi eventualmente l’abbia praticata. Chissà chi glielo ha detto, al ragazzotto con il megafono, che il mondo è messo a repentaglio, oltre che dai “giudei”, pure dai sodomiti. Chissà quali letture e catechismi nazi, quali pagine Facebook, e in quali camerette di oneste case operaie o piccolo borghesi dove si cresce soli e sprovveduti, come nell’America di quei tremendi romanzi dove è il nulla che genera i mostri. Chissà quella parola, “sodomia”, che effettone esotico deve fare, e che sensazione eccitante poterla scandire in mezzo alla gente che ti guarda neanche più disgustata o spaventata; più che altro smarrita.

Boff:papa Francesco parla con un non credente da uomo a uomo

boff1

Francesco, vescovo di Roma, si è spogliato di tutti i titoli e simboli di potere che non fanno altro che allontanare le persone le une dalle altre ed ha pubblicato una lettera nel principale giornale di Roma, La Repubblica, rispondendo al suo ex-direttore e “decano” intellettuale Eugenio Scalfari, non credente. Lui aveva sollevato pubblicamente alcune domande al Vescovo di Roma. Francesco ha compiuto un atto di straordinaria importanza, non solo perché l’ha fatto in un modo senza precedenti, ma soprattutto perché ha parlato come un uomo che parla ad un altro uomo in un contesto di dialogo aperto, collocandosi allo stesso livello del suo interlocutore.

Infatti, Francesco, che, come sappiamo, preferisce chiamarsi Vescovo di Roma e non Papa, ha risposto a Eugenio Scalfari cordialmente, con l’intelligenza calorosa del cuore, più che con la fredda intelligenza delle dottrine. Attualmente, in filosofia, si cerca di riscattare l’”intelligenza sensibile “che arricchisce ed amplia l’”intelligenza intellettuale”, perché parla direttamente agli altri, alla loro profondità, senza nascondersi dietro dottrine, dogmi o istituzioni.

In questo senso, per Francesco non è rilevante che Scalfari sia o non sia credente, ognuno ha la sua storia personale e il suo percorso esistenziale che devono essere rispettati. Ciò che è rilevante è la capacità di entrambi di essere aperti ad ascoltare l’altro. Per dirla come il grande poeta spagnolo Antonio Machado: “La tua verità? No, la Verità, e vieni con me a cercarla. La tua, tientela”. Più importante che sapere, è non perdere mai la capacità di imparare. Questo è ciò che significa il dialogo.

Con la sua lettera, Francesco ha dimostrato che tutti cerchiamo una verità più piena e più ampia, una verità che non abbiamo ancora. Per scoprirla, non servono i dogmi presi da loro stessi, né le dottrine formulate in astratto. Il presupposto comune è che ci sono ancora risposte da ricercare e che tutto è avvolto nel mistero. Questa ricerca colloca tutti allo stesso livello, credenti e non credenti, anche i fedeli delle diverse Chiese. Ognuno ha il diritto di esprimere la sua visione delle cose. Viviamo tutti in una contraddizione terribile che circonda credenti e atei: Perché Dio permette le grandi ingiustizie di questo mondo? E’ la domanda di profondo sconforto che ha fatto Papa Benedetto XVI quando ha visitato il campo di sterminio nazista di Auschwitz. Si sottrasse per un momento il suo ruolo di Papa e parlò solo come un uomo, con il cuore aperto: “Dio, dove eri quando queste atrocità sono accadute? Perché taci?”.

Tutti noi cristiani dobbiamo ammettere che non c’è una risposta e che la questione rimane aperta. Solo ci conforta l’idea che Dio può essere ciò che la nostra ragione non capisce. L’intelligenza intellettuale da sola ammutolisce, perché non ha una risposta per tutto. La Genesi, come diceva il filosofo Ernst Bloch, non è all’inizio ma alla fine. Le cose, così pensano i credenti, si sviluppano verso un lieto fine. Solo alla fine, in qualche modo, ci sarà dato di capire il senso dell’esistenza. Allora noi potremo finalmente dire: “e tutto è buono” e dare “l’Amen” definitivo. Ma mentre viviamo non tutto è buono. Verità assolute e verità relative? Preferisco rispondere come il grande poeta, mistico e pastore, il vescovo Don Pedro Casaldáliga, lì nella Amazzonia profonda: “L’assoluto? Solo Dio e la fame”.

Nutro grande fiducia che Francesco, con il suo dialogo, potrà realizzare grandi cose per il bene dell’umanità. Ha cominciato a fare una grande riforma del papato. Presto ci sarà la riforma della Curia romana. Attraverso diversi discorsi ha detto che tutti i problemi possono essere discussi, cosa impensabile tempo fa. Questioni come il celibato sacerdotale, il sacerdozio delle donne, la morale sessuale ed il riconoscimento degli omosessuali, fino a poco tempo non potevano essere sollevate da teologi e vescovi.

Sicuramente il suo dialogo con i non credenti potrà veramente espandersi ed aprire una nuova finestra con l’etica della modernità che considera non solo la tecnologia, ma la scienza e la politica, e può anche portarci a superare l’esclusione dal comportamento della Chiesa cattolica, in altre parole, l’arroganza di concepirsi come l’unica vera erede del messaggio di Gesù’. E’ sempre bene ricordare che Dio ha mandato suo Figlio al mondo, e non solo ai battezzati. Egli illumina ogni persona che viene nel mondo, non solo i credenti, come ricorda san Giovanni nel prologo del suo Vangelo.

In questo senso, in una lettera al Papa Francesco, ho suggerito personalmente un Concilio Ecumenico di tutta la cristianità, di tutte le chiese, tra cui anche la presenza di atei che possono, per la loro saggezza ed etica, aiutare ad analizzare le minacce che affliggono il pianeta e come affrontarle. E prima di tutti le donne, generatrici di vita, perché la vita stessa è minacciata.

Il Cristianesimo è presentato come un fenomeno occidentale e deve trovare il suo posto entro la nuova fase dell’umanità, la fase planetaria. Solo allora sarà per tutte e per tutti.

In Francesco, come egli già aveva dimostrato in Argentina, non vedo alcuna volontà di conquistare e fare proselitismo, ma, come riaffermato a Scalfari, disponibilità a testimoniare e camminare un pezzo di strada insieme agli altri. Il Cristianesimo prima che una istituzione è un movimento, il movimento di Gesù e degli Apostoli. In questa comprensione, sperimentare la dimensione della dignità umana, dell’etica e dei diritti fondamentali è più importante che semplicemente appartenere ad una Chiesa. Questo è il caso di Eugenio Scalfari. E’ più importante guardare la dimensione della luce della storia, che la dimensione delle ombre, vivere come fratelli e sorelle nella stessa casa comune, la Madre Terra, rispettando le scelte di ciascuno, sotto il grande arcobaleno, simbolo della trascendenza dell’essere umano.

Il lungo inverno della Chiesa è finito. Aspettiamo una primavera solare, piena di fiori e di frutti, nella quale valga la pena di essere umani nella forma cristiana di questa parola.

(Intervista rilasciata per telefono a Vera Schiavazzi, di Romano Canavese, Torino, il 15 settembre scorso).

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