l’onestà che non fa notizia
Hidayat Ullah uno dei tre “inseguitori” |
Hidayat Ullah uno dei tre “inseguitori” |
di fronte a un entusiasmo e a una valutazione molto positivi e abbastanza generalizzati nei confronti di papa Francesco, esistono anche timori e critiche anche forti soprattutto da parte di certa destra ‘ateodevota’ o ‘cattoreazionaria’
da sinistra si nota un forte apprezzamento generale, e anche da parte di chi nel passato ha avuto modo di criticare e fortemente disapprovare dichiarazioni e scelte di Bergoglio: mi sembra di costatare la presenza di un solo sito (Cattolicesimo Reale) fortemente e totalmente ipercritico nei confronti di papa Francesco: conoscere fasempre bene:
Speranze, illusioni e realtà a proposito di un pontificato
I lunghi anni di restaurazione mascherata o aperta che hanno frustrato, con Wojtyla e Ratzinger, le illusioni del Vaticano II, possono spiegare la disperata speranza con cui anche i cattolici più critici guardano al papa «venuto dalla fine del mondo». A costo di alimentare nuove illusioni.
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Solo misericordia?
Perfino Boff, che aveva rotto col cattolicesimo, celebra come teologo della liberazione «nei fatti» il cardinal Bergoglio, che ne fu aspro avversario in Argentina. E Raniero La Valle pensa che il nuovo papa si avvii a superare le idee radicate nel nostro «immaginario religioso» di un Dio vendicativo e di un Cristo giudice, legate a loro volta ai dogmi del peccato originale e dell’inferno – sempre meno digeribili dai cattolici più aperti.
«Finalmente abbiamo un pastore che invece di parlare di principi non negoziabili … o condannare “comportamenti devianti”», scrive La Valle sul n. 12 di “Rocca”, afferma non soltanto «che Dio è misericordia» ma «che Dio è solo misericordia e perdona sempre» in contrasto con la tradizione preconciliare di un «Dio che giudica, e poi perdona, ma anche punisce e condanna in questa vita e nell’altra»; di «un Dio offeso, che … aveva voluto essere risarcito col sacrificio del Figlio, che proprio per questo, “discendendo dai cieli”, sarebbe stato mandato a morire sulla croce»: il Dio, in una parola, incarnato nel giudizio universale di Michelangelo, che «pesa come una cappa di piombo sulla nostra fede».
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L’inizio e la fine della storia
Ma è stato proprio papa Francesco a smentire tale supposto abbandono della dottrina raffigurata da Michelangelo affermando: «Nel Credo noi professiamo che Gesù “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”. La storia umana ha inizio con la creazione dell’uomo e della donna a immagine e somiglianza di Dio e si chiude con il giudizio finale di Cristo. Spesso si dimenticano questi due poli della storia, e soprattutto la fede nel ritorno di Cristo e nel giudizio finale a volte non è così chiara e salda nel cuore dei cristiani. … L’immagine utilizzata dall’evangelista è quella del pastore che separa le pecore dalle capre. Alla destra sono posti coloro che hanno agito secondo la volontà di Dio, soccorrendo il prossimo affamato, assetato, straniero, nudo, malato, carcerato… mentre alla sinistra vanno coloro che non hanno soccorso il prossimo. Questo ci dice che noi saremo giudicati da Dio sulla carità.» (Udienza generale, S. Pietro 24 aprile 2013)
Se dunque il papa, riprendendo il testo biblico (Matteo, 25, 32-34), mette l’accento sulla «carità» come metro del giudizio finale, ribadisce però che esso ci sarà, come il paradiso e l’inferno, nel modo in cui appunto lo rappresentò il Buonarroti.
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I gay, il diavolo e Santa Teresina
Allo stesso modo Francesco, in varie occasioni, non ha affatto rinunciato a parlare dei «princìpi non negoziabili» e a condannare i «comportamenti devianti», sulla falsariga di quanto ebbe a scrivere il 22 giugno 2010 ai monasteri carmelitani di Buenos Aires l’allora cardinal Bergoglio per denunciare l’imminente approvazione della legge che legalizzava il matrimonio e le adozioni omosessuali.
In quella legge il futuro papa Francesco ravvisava «il rifiuto totale della legge di Dio, incisa anche nei nostri cuori» e aggiungeva: «Ricordo una frase di Santa Teresina quando parla della sua malattia infantile. Dice che l’invidia del Demonio voleva vendicarsi della sua famiglia per l’entrata nel Carmelo della sua sorella maggiore. Qui pure c’è l’invidia del Demonio, attraverso la quale il peccato entrò nel mondo: un’invidia che cerca astutamente di distruggere l’immagine di Dio, cioè l’uomo e la donna che ricevono il comando di crescere, moltiplicarsi e dominare la terra. Non siamo ingenui: questa non è semplicemente una lotta politica, ma è un tentativo distruttivo del disegno di Dio.»
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La guerra di Dio
In questa lettera alle suore carmelitane, inoltre, insieme al vecchio armamentario di Dio e del Diavolo, coi rispettivi «disegni», ricompariva anche il sogno teocratico di una società modellata secondo la morale cattolica e secondo la morale “naturale” con essa coincidente: «Oggi la Patria», concludeva infatti Bergoglio, «ha bisogno dell’assistenza speciale dello Spirito Santo che porti la luce della verità in mezzo alle tenebre dell’errore. … Invocate il Signore affinché mandi il suo Spirito sui senatori che saranno impegnati a votare. Che non lo facciano mossi dall’errore o da situazioni contingenti, ma secondo ciò che la legge naturale e la legge di Dio indicano loro. Guardiamo a san Giuseppe, a Maria e al Bambino e chiediamo loro con fervore di difendere la famiglia argentina. … Che ci soccorrano, difendano e accompagnino in questa guerra di Dio.»
Parole, le ultime, che ripetono quelle con qui Gregorio IX chiamava i fedeli, nel 1230, alla crociata contro un popolo contadino (ed eretico): «siate pronti alla guerra contro i pagani … Perché non è solo la vostra guerra, ma la guerra di Dio.» (bolla Contro il popolo tedesco degli Stedingi). Mentre l’accostamento della legge sulle unioni gay al Diavolo fa tornare alla mente l’altro Gregorio, Magno (590-604), secondo il quale «era giusto che i Sodomiti, ardendo di desideri perversi originati dal fetore della carne, perissero per mezzo del fuoco e dello zolfo.» (Commento morale a Giobbe)
Echi antichi di una dottrina vecchissima, anzi decrepita quanto basta per mettere una pietra tombale sulle speranze di rinnovamento suscitate dal papa “nuovo”.
dopo la lettera di risposta di papa Francesco alle domande e sollecitazioni di E. Scalfari su La Repubblica continua un apprezzabile dialogo tra cattolici e laici su un possibile percorso comune
di seguito un bell’intervento di G. Zagrebelsky su come cattolici e laici possono cercare insieme “il vero, il bene e il giusto”:
LO STATO laico è un aspetto della secolarizzazione, cioè del rovesciamento della base di convivenza tra gli esseri umani: dalla trascendenza all’immanenza; dall’eternità al saeculum; da Dio agli uomini; dalla Chiesa alle istituzioni civili. Questo rovesciamento ha investito tutti gli aspetti delle relazioni sociali e quindi anche le relazioni politiche. La città degli uomini s’è resa autonoma dalla città di Dio. La secolarizzazione, tuttavia, non significa affatto poter fare a meno d’una dimensione trascendente della vita collettiva.
Senza una forma di trascendenza, non c’è società possibile. Ci sarebbe soltanto collisione d’interessi in conflitto. La società secolarizzata ha posto il rapporto tra istituzioni civili e fedi religiose in una luce diversa da quella che, per secoli, l’ha illuminato. La scena non si è affatto semplificata. La questione resta aperta, e le discussioni mai sopite ne sono la prova. Thomas Mann ha espresso questo rapporto mobile con l’immagine dello scambio della veste: «Significherebbe disconoscere l’unità del mondo ritenere religione e politica due cose fondamentalmente diverse, che nulla abbiano né debbano avere in comune, così che l’una perderebbe il proprio valore e finirebbe per essere smascherata come falsa qualora si potesse dimostrare che in essa vi è traccia dell’altra […] In verità religione e politica si scambiano per così dire le vesti […] ed è il mondo nella sua totalità che parla, quando l’una parla la lingua dell’altra». Ciò che, invece, è chiaro è che la secolarizzazione ha scalzato la Chiesa dal mono- polio della funzione culturale unificatrice ch’essa, nei secoli, ha preteso di occupare: la gerarchia è stata sostituita da patti, espliciti o impliciti, esclusivamente orizzontali. Il contrattualismo e il convenzionalismo sono le teorie politiche di questa concezione. Non esistono più sovrani di diritto divino; il governo delle società non è per grazia di Dio, ma per volontà del popolo o della nazione. Noi siamo immersi in questa visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, d’un punto di riferimento comune che stia sopra ciascuno di noi? Di una forza culturale che c’induca ad atteggiamenti solidaristici, ci muova a obiettivi comuni, promuova atteggiamenti, se non amichevoli, almeno non ostili tra chi riconosce la propria appartenenza a una cerchia d’individui che, insieme, formano unità? La dimensione puramente intersoggettiva dei rapporti è sufficiente a creare legami nella vita concreta d’individui che, per lo più, non si sono mai incontrati, faccia a faccia? L’esigenza di qualcosa che li trascende, in cui si possa convergere, è permanente, anche se il modo di soddisfarla è vario nel tempo. Quest’esigenza, che ci pervade in misura più o meno intensa a seconda delle circostanze storiche, nasce dal fatto che la società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, tra persone che si conoscono reciprocamente. È, invece, un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono parti d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Questa è la questione decisiva per ogni vita sociale: “senza conoscersi personalmente”. Come può esserci società, tra perfetti sconosciuti? Qui entra in gioco “il terzo” astratto, il punto di convergenza trascendente. Più si risale indietro nel tempo, più risulta difficile distinguere tra istituzioni religiose e istituzioni civili. Jan Assmann, il sapiente studioso del posto delle religioni nell’Antichità, ha mostrato questo intreccio, affascinante per un verso, terribile per un altro. Per molti secoli, il terzo astratto si è rappresentato come il Dio, o gli Dei, della religione ufficiale, vigente in ciascuna delle società umane. Si tratta della cosiddetta “religione civile” o, meglio, della religione in funzione d’unità sociale. Nella tradizione classica, la religio civilis, cioè il culto dovuto ai propri dei, assurgeva a fondamento della virtù repubblicana, quella virtù che induceva i singoli ad anteporre all’interesse individuale il bene comune, il bene della res publica, e li disponeva ad atti di dedizione ed eroismo, testimoniati nelle historiae della Roma repubblicana. Facciamo un salto nel tempo. Nell’“allons enfants de la Patrie” della Marsigliese c’è già tutta l’essenza del problema moderno della religione civile: la Patrie era il nuovo terzo; i citoyens erano i suoi figli, i suoi enfants: dunque fratelli tra loro; i patriotes erano i nuovi credenti che si riconoscevano tra loro per mezzo dei loro simboli politici, dopo aver abbattuti quelli teologici dell’Antico Regime. Nel 1789, si trattava della Patria. Nel 1793-1794, in pieno disfacimento della Francia rivoluzionaria, il “terzo” cambia natura, si cristallizza. L’asse su cui stava la Patria si riposiziona e si “teologizza”. Compare la Dea Ragione, con i suoi templi, spesso chiese profanate, con i suoi riti e i suoi officianti. Il 7 maggio 1794, un decreto sulle feste repubblicane istituisce il culto dell’Essere Supremo, voluto da Robespierre in persona e da lui stesso celebrato, l’8 giugno, avvolto in un manto azzurro, al campo di Marte sotto la regia di J.L. David. La vecchia religione e il vecchio Dio erano stati uccisi, ma se ne tentava una risurrezione deista, per tenere insieme una società in disgregazione. Quella cerimonia, artificiosa e ridicola perfino agli occhi di molti giacobini, era però segno di qualcosa di molto poco ridicolo, anzi di terribile. L’Essere supremo, evocato come il “terzo” della fase terminale della Rivoluzione, ne diventava l’onnipotente protettore che tutto giustificava. Sotto il suo sguardo tutelare, due giorni dopo la celebrazione, entrava in vigore la Legge di pratile, la legge che porta al colmo il regime del terrore giacobino, in nome dell’ossimoro formulato da Robespierre stesso: “dispotismo della libertà”. La vicenda rivoluzionaria è rivelatrice. “Il terzo”, quando si prospetta sulla scena, è, all’inizio della storia, un fattore di liberazione. Ma, in seguito, ciò che è stato liberatorio può trasformarsi in strumento d’oppressione morale, quando perde la sua autonomia, subordinandosi alle ragioni e agli interessi del potere e diventando propaganda e imbonimento e, perfino, “terrore”. In un saggio del 1967, dal titolo La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, il costituzionalista cattolico tedesco Ernst Wolfgang Böckenförde ha formulato un “motto” che oggi è diventato quasi una parola d’ordine per chi propugna l’esigenza di ricollocare la religione alla base della politica, nell’interesse non tanto della religione, quanto della politica stessa. È il motto della cosiddetta post-secolarizzazione: «Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della libertà». Cerchiamo di comprendere. Ogni regime politico si basa su un principio dominante, una “molla”, una “passione” che alimenta l’ethos pubblico che lo fa muovere. Ed è nella natura delle cose, anche politiche, che questo principio primo – nel nostro caso, “l’amore per la libertà”, tenda a rendersi assoluto, con ciò realizzando non la perfezione ma l’inizio dell’autodissoluzione. Non c’è ragione per escludere che ciò valga anche per qualunque forma di governo, compresa la democrazia basata sulla libertà. Se essa alimenta la pura e integrale libertà, cioè l’egoismo senza freni e correttivi altruistici, realizzando integralmente la sua “molla” individualistica, sprigionerà anch’essa la forza autodistruttiva d’ogni regime che voglia rendersi assoluto. La denuncia teorica, circa l’incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri presupposti di stabilità, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società occidentali che, per diversi aspetti, è una ripresa drammatizzata di quella diffusa nell’Europa del secolo scorso, tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare se stesse», secondo la vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di natalità, l’invecchiamento delle generazioni e la chiusura alla vita e al futuro; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di senso e anima e dotate di ambizioni smisurate; l’edonismo e l’idolatria del denaro associato al potere. Benedetto XVI, calcando la mano, ha introdotto un’espressione sorprendente e, almeno a prima vista, perfettamente contraddittoria: la “dittatura del relativismo”. Sarebbe una “dittatura” che «lascia il proprio io solo con le sue voglie » (espressione che ricalca le più crude formule di condanna usate nei confronti del liberalismo del primo ‘800). Su questo humuss’innesta una nuova proposta del magistero cattolico come forza salvifica generale, anzi universale, valida al di sopra delle divisioni pluralistiche della società. Ovviamente, una proposta di questo genere, in quanto formulata quasi come offerta di protettorato etico da parte del magistero cattolico, contraddice la libertà e l’uguaglianza delle coscienze individuali: due aspetti irrinunciabili dello “stato liberale secolarizzato”. Essa sottintende la condanna del relativismo, che è invece l’essenza dell’uguale libertà; pretende l’esistenza di materie eticamente “non negoziabili” nelle quali il legislatore civile debba porsi al servizio delle concezioni della Chiesa; comporta disuguaglianza tra le confessioni religiose, a favore del primato di quella cristiano-cattolica a detrimento di tutte le altre, per non dire delle visioni del mondo atee. Queste – secondo un’espressione terribile, anch’essa di Böckenförde – sarebbero destinate a «vivere come nella diaspora». In altri termini, la cittadinanza piena sarebbe appannaggio dei soli cattolici, e lo Stato assumerebbe, ancora una volta, la veste confessionale. Il Concilio Vaticano II ha tentato una “conciliazione” del cattolicesimo con il “mondo moderno”, espressione sintetica per dire: col pluralismo etico e politico. L’invito ai cattolici a impegnarsi in re civili a fianco dei non cattolici, con spirito di collaborazione e autonomia di giudizio era chiaro. Così come chiaro era l’inibizione d’usare l’autorità della Chiesa per sostenere posizioni politiche (“non osino” invocarla a proprio vantaggio). Sappiamo come sono andate le cose, soprattutto nel nostro Paese. Questa indicazione, peraltro non priva di zone d’ombra, è stata oscurata, messa in disparte, a vantaggio d’una presenza molto accentuata della Chiesa nella vita politica, per affermare le proprie verità. Ora, il pendolo sembra oscillare dall’altra parte. La gerarchia, con i suoi abusi, le sue pompe, le sue ricchezze, la sua arroganza, pare lasciare il passo a un atteggiamento diverso che riscopre la parte del Concilio Vaticano II che, per mezzo secolo, è stato oscurato (non abrogato: nella storia della Chiesa nulla è mai abrogato definitivamente). Uno spirito diverso da quello del passato spira nei primi atti e nelle prime parole del papa attuale, Francesco. Nella Enciclica Lumen fidei (n. 34), troviamo scritto risultare «chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti». E, nella lettera a Eugenio Scalfari, pubblicata su questo giornale l’11 settembre scorso, il Papa indica la necessità di «cercare […], le strade lungo le quali possiamo, forse, incominciare a fare un tratto di cammino insieme». Non si dovrebbe parlare, per il Papa, «nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione». LIn ogni spirito che s’ispira alla laicità e, al contempo, crede all’utilità, anzi alla necessità che forze morali possano unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a «reimpostare in profondità la questione» suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene, il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà. Il vero, il bene, il giusto possono dipanarsi nella storia, senza mai, però, raggiungere la pienezza. Le tappe del cammino sono i giudizi che gli esseri umani pronunciano “in coscienza”. Per i credenti, la pienezza ci sarà, ma non ora, in “questo” tempo; per i non credenti, l’idea stessa d’una raggiungibile “pienezza” è senza significato. Tuttavia, non è affatto privo di significato l’operare insieme per combattere la menzogna, il male, l’ingiustizia. Tutti siamo nella dimensione del contingente: i credenti, nella fede di poter sempre umilmente procedere verso il bene; i non credenti, nella convinzione di poter sempre provvisoriamente combattere il male. Il terreno per operare insieme, per fare un cammino insieme, è aperto. Una chiosa, però: il Papa, rispondendo a Scalfari, parla di “tratto di cammino”. Questa espressione non è priva d’ambiguità: dove si colloca, e chi decide dove si colloca la fine del “tratto”? E che cosa accadrà, allora? Su questo, un chiarimento da parte di coloro che si protendono la mano sarebbe necessaria.
Da la Repubblica del 23/09/2013.
Il “fonte battesimale” della città del Papa, sull’estuario del “fiume d’argento”, fu scolpito nella testardaggine granitica dei marinai di Sardegna, che si imposero sui comandanti e imposero all’insediamento un nome di donna, e di Madonna, insieme a quelli maschili e trini del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: le pari opportunità e la teologia femminile con cinque secoli di anticipo, a furor di ciurma e minaccia di ammutinamento.
E’ stato Francesco stesso a raccontarlo il 15 maggio in Piazza San Pietro, annunciando la sua visita settembrina: “Proprio nel momento della fondazione della città di Buenos Aires, il suo fondatore voleva nominarla Città della Santissima Trinità, ma i marinai che lo avevano portato laggiù erano sardi e loro volevano che si chiamasse Città della Madonna di Bonaria”.
Un omaggio che la Vergine ha ricambiato con divina fecondità, portando a sua volta l’arcivescovo di quella metropoli sul soglio di Pietro, dai confini del mondo, e conducendolo a Cagliari come il richiamo di un antico amore, davanti alla donna che scruta il mare dalla collina dell’“aria buona”.
Nell’immaginario di Francesco l’Italia comincia dalle isole: più che un punto di vista una “visione”. Anche Assisi, terza imminente tappa delle sue trasferte, si rappresenta e viene percepita come un’isola, di serenità e pace però, al contrario delle prime due, Lampedusa e Sardegna, segnate francescanamente dalle stigmate del nostro tempo: la fuga dalla patria e la perdita del lavoro.
“Questa è la seconda città che visito in Italia. E’ curioso: tutte e due sono isole. Nella prima ho visto la sofferenza di tanta gente che cerca, rischiando la vita, dignità, pane, salute: il mondo dei rifugiati. E ho visto la risposta di quella città, che essendo isola non ha voluto isolarsi…”.
Se da una parte le isole allargano gli orizzonti, predisponendo all’apertura mentale, dall’altra circoscrivono gli argomenti, realizzando la condizione congeniale al discernimento, che Francesco descrive nella intervista alla Civiltà Cattolica: “…non essere ristretti nello spazio più grande, ma essere in grado di stare nello spazio più ristretto. Questa virtù del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla posizione in cui siamo ci fa guardare sempre all’orizzonte …i grandi principi devono essere incarnati nelle circostanze di tempo e di luogo, di tempo e di persone”.
Nella sua domenica insulare Francesco ha pertanto “isolato” temi e problemi in altrettanti momenti e “memento” vis à vis: lavoratori, poveri e detenuti, intellettuali e giovani. “Io riesco a guardare le singole persone una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse”, ammette del resto nel colloquio con Padre Spadaro. “Io avevo scritto alcune cose per voi”, ha ugualmente esordito all’arrivo a Cagliari, “ma guardandovi ho preferito dirvi quello che mi viene dal cuore in questo momento”.
Di fronte a genitori disoccupati, precari e cassaintegrati Bergoglio è tornato figlio e il Papa si è sentito “papà”, il suo papà, che partì per l’Argentina “pieno di illusioni a farsi l’America. E ha sofferto la terribile crisi degli anni trenta. Hanno perso tutto! Non c’era lavoro!”.
Un discorso proseguito senza distogliere gli occhi dall’uditorio se non al termine, quando li ha levati al cielo, interpellando Dio. Mentre a Lampedusa si era rivolto ai poteri forti con il linguaggio forte della Bibbia, inventando la “liturgia della liberazione”, in terra di Sardegna il Pontefice ha consegnato alla memoria della Chiesa un nuovo genere di invocazione: la “preghiera di lotta”. “Signore, ci manca il lavoro. Gli idoli vogliono rubarci la dignità. I sistemi ingiusti vogliono rubarci la speranza. Signore Gesù, a Te non mancò il lavoro, dacci lavoro e insegnaci a lottare per il lavoro…”. La sera del 13 marzo, a ridosso della fumata bianca, scrivemmo d’istinto tema e titolo del primo articolo su Bergoglio: “Il vento buono di Buenos Aires”. Sei mesi dopo il “vento buono” ha per un giorno accarezzato il colle cagliaritano dei suoi natali etimologici, soffiando alte parole ardite, per poi riprendere la lotta e il largo, rinfrancato e fiero, incontro alla “tempesta perfetta” che investe il mondo.
IN CENTOMILA PER IL PAPA A CAGLIARI
LE LACRIME DEI LAVORATORI
APPASSIONATO DISCORSO A BRACCIO: “INSIEME CONTRO IL DIO DENARO”
Oltre centomila persone si sono radunate per il primo incontro di Papa Francesco con il mondo del lavoro a Cagliari. In prima fila gli operai delle aziende in crisi, dal Sulcis al Nuorese sino al Nord Sardegna.
Commozione dei lavoratori di Alcoa, Eurallumina, Carbosulcis alle parole del Santo Padre: ‘Dove non c’è lavoro manca la dignità’. Appassionato il discorso a braccio di Francesco: ‘Mio padre da giovane è andato in Argentina pieno di illusioni, convinto di trovarvi l’America e ha sofferto la crisi del Trenta, ha perso tutto, non c’era lavoro’. ‘Ho sentito nella mia infanzia parlare di questa sofferenza’. E ha aggiunto: ‘Lottiamo contro l’idolo denaro, rimettiamo al centro uomo e donna, in questo sistema senza etica che idolatra i soldi’.
Teologia della liberazione irrinunciabile
La storia del mondo è innanzitutto l’arena complessiva della lotta drammatica tra le forze dialettiche di grazia e libertà da un lato e peccato e oppressione dall’altro. Ma la storia nel suo nucleo più intimo è comunque storia della salvezza, perché Dio – in quanto creatore e redentore del mondo e dell’uomo – ha posto se stesso come fine oggettivo del movimento storico e dell’azione umana di liberazione.
Chi dunque partecipa attivamente alla liberazione, sta dalla parte del Liberatore divino. Nella pratica, si tratta della partecipazione trasformante al processo storico verso il fine trascendente e immanente di esso. Chi agisce per la liberazione, sta già dalla parte di Dio, che egli ne abbia piena consapevolezza o meno (…).
È possibile mostrare il radicamento della Teologia della liberazione originale nella rivelazione biblica e nella grande tradizione teologica e dottrinale della chiesa. E se anche – per quel che riguarda l’elaborazione delle proprie fondamenta – ci si possa ancora trovare in una fase di sviluppo, le carenze e le incongruenze emerse in alcune prese di posizione, dal forte impatto mediatico, di singoli rappresentanti della Teologia della liberazione non possono mettere in discussione la validità delle sue grandi acquisizioni di fondo.
Sulla base delle esigenze della vita ecclesiale e della stessa teologia è necessario affermare che la chiesa nel terzo mondo, ma anche la chiesa come chiesa universale, non può rinunciare a un ulteriore sviluppo e a un’applicazione della Teologia della liberazione. Solo per mezzo della Teologia della liberazione, la teologia cattolica – sul piano universale e a livello di svolta storica epocale – ha potuto emanciparsi dal dilemma dualistico di aldiquà e aldilà, di felicità terrena e salvezza ultraterrena; o, rispettivamente, da un dissolversi monistico di un aspetto nell’altro. È un dilemma, tuttavia, che il marxismo non già ha generato, ma solo espresso.
Non da ultimo per queste ragioni la Teologia della liberazione sarebbe anche da considerare come un’alternativa radicale alla concezione marxista dell’uomo e all’utopia storica da essa scaturita. Proprio la pretesa metodologica della Teologia della liberazione – quella di prendere avvio da una prassi trasformante – non è altro che la riformulazione dell’evento originario della teologia: prima c’è la sequela di Cristo e da questa scaturisce anche la formulazione della professione su chi è realmente Gesù.
Può darsi anche che, nell’attuale congiuntura, nell’opinione pubblica l’interesse per la Teologia della liberazione sia in calo. Ma alla luce delle oggettive questioni irrisolte, essa svolge un’opera indispensabile per il servizio della chiesa di Cristo a favore dell’umanità, un servizio trasformante, sul piano della riflessione e della pastorale. La Teologia della liberazione è irrinunciabile, sia sul piano regionale sia per la comunicazione teologica universale.
GERHARD LUDWIG MÜLLER Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede
da vaticanisider.lastampa.it
Papa Francesco ai vescovi:
“Non cadete nel carrierismo”
“Non cercate promozioni e viaggi in aereo”, ha detto Bergoglio ai 120 vescovi ricevuti in Vaticano.
E ancora: “Vi invito a saper accogliere tutti gli uomini e le donne che incontrate e lasciate aperta la porta della vostra casa”
E’ il messaggio rivolto da Papa Francesco nell’incontro con 120 vescovi di recente nomina, ricevuti in udienza oggi nella sala Clementina del Palazzo apostolico.
Non siate carrieristi – Il papa torna a fustigare il carrierismo ecclesiastico: “Noi pastori – ha detto – non siamo uomini con la ‘psicologia da principi’, uomini ambiziosi, che sono sposi di una chiesa, nell’attesa di un’altra più bella, più importante o più ricca. State bene attenti di non cadere nello spirito del carrierismo!”. Francesco ha anche invitato i vescovi alla “stabilità”, cioè a “rimanere nella diocesi”, “senza cercare cambi o promozioni”. “Evitate lo scandalo di essere ‘Vescovi di aeroporto’! Siate Pastori accoglienti, in cammino con il vostro popolo”. “Il nostro – ha detto – è un tempo in cui si può viaggiare, muoversi da un punto all’altro con facilità, un tempo in cui i rapporti sono veloci, l’epoca di internet. Ma l’antica legge della residenza non è passata di moda!”.
La metafora del vescovo – Il papa è partito dalla metafora del vescovo come pastore che, secondo costituzione apostolica conciliare Lumen gentium, ha “abituale e quotidiana cura del gregge”. Per Francesco, il vescovo “è in cammino con e nel suo gregge”, il che vuole dire “mettersi in cammino con i propri fedeli e con tutti coloro che si rivolgeranno a voi, condividendone gioie e speranze, difficoltà e sofferenze, come fratelli e amici, ma ancora di più come padri, che sono capaci di ascoltare, comprendere, aiutare, orientare”. Un vescovo che vive in mezzo ai suoi fedeli “ha le orecchie aperte per ascoltare ‘ciò che lo spirito dice alle chiesè e la ‘voce delle pecore’, anche attraverso quegli organismi diocesani che hanno il compito di consigliare il vescovo, promuovendo un dialogo leale e costruttivo. Questa presenza pastorale vi consentirà di conoscere a fondo anche la cultura, le usanze, i costumi del territorio, la ricchezza di santità che vi è presente. Immergersi nel proprio gregge!”.
I pastori – I pastori devono avere “l’odore delle pecore”, ha peraltro ricordato Bergoglio, ricordando ciò che aveva detto più volte in Argentina e nell’omelia della messa crismale e poi: “siate pastori con l’odore delle pecore, presenti in mezzo al vostro popolo come gesù buon pastore”. Per il Papa, infine, “non è mai tempo perso quello passato con i sacerdoti! riceverli quando lo chiedono; non lasciare senza risposta una chiamata telefonica; essere in continua vicinanza, in contatto continuo con loro”.
Affetto per i sacerdoti – Francesco richiama anche i nuovi vescovi alla necessità di avere “affetto per i vostri sacerdoti: sono il primo prossimo del vescovo, indispensabili collaboratori di cui ricercare il consiglio e l’aiuto e di cui prendersi cura come padri, fratelli e amici”. Esorta il Papa: “Non dimenticate le necessità umane di ciascun sacerdote, soprattutto nei momenti più delicati e importanti del loro ministero e della loro vita”.
Scendete in mezzo ai fedeli – Da qui, l’appello del Papa: “Non chiudetevi! Scendete in mezzo
ai vostri fedeli, anche nelle periferie delle vostre diocesi e in tutte quelle periferie esistenziali dove c’è sofferenza, solitudine, degrado umano. Presenza pastorale – spiega ancora Francesco – significa camminare con il popolo di Dio: davanti per indicare la via, in mezzo per rafforzarlo nell’unità, dietro perché nessuno rimanga indietro ma soprattutto per seguire il fiuto che ha il popolo di Dio per trovare nuove strade”.
PAPA FRANCESCO: NO A VESCOVI CARRIERISTI, CON MENTALITA’ DA PRINCIPI. VADANO IN PERIFERIE, SIANO PASTORI GREGGE CON ODORE DI PECORE
Papa FrancescoIl papa ammonisce i vescovi a non cadere nello spirito del carrierismo e raccomanda loro lo stile dell’umilta’, austerita’ ed essenzialita’: “siate Pastori con l’odore delle pecore”, e li invita ad andare nelle periferie, anche quelle dell’esistenza. I vescovi non sono uomini con la “psicologia da principi”, uomini ambiziosi, raccomanda papa Francesco, ma siano uomini di comunione e unita’, perche’ serve spirito collegialita’.
don Aldo Antonelli, espressione delle comunità di base, dei cattolici del dissenso, dei ‘credenti della diaspora’ pone domande forti al mondo ‘cattolico’ su cui merita davvero fermarsi a riflettere
Nel carteggio intercorso tra papa Francesco ed Eugenio Scalfari si è visto, giustamente, l’inizio di una nuova era nei rapporti tra la Chiesa e la cultura moderna. O almeno la ripresa, dopo il gelo della stagione Woitiliana/Ratzingeriana, del dialogo conciliare.
Ciò, specificatamente in riferimento al rapporto Fede-Ragione. Un’alba di speranza ripresa nella coscienza di quello che Francesco stesso ha voluto chiamare un “paradosso”: “la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione”.
Noi non possiamo che rallegrarci di tanto osare; noi che testardamente abbiamo continuato a credere non mettendo da parte le ragioni della ragione, ma valorizzandole e tenendole ben in cale.
Noi cattolici del dissenso, comunità di base, credenti della diaspora ecc. Preso atto di questa grande apertura, vorremmo però, che si aprisse lo sguardo e si accendesse l’attenzione anche su un aspetto più pratico ma altrettanto deleterio della vita di buona parte della chiesa, pur nella consapevolezza, riconosce papa Francesco, “che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità”.
Mi riferisco a quel mondo chiamato volgarmente “cattolico” e che abbraccia tutta quella religiosità feticista che acceca, rende “intransigenti” e “arroganti” (per riprendere i suoi stessi termini affermandoli); rende schizofrenici e incoerenti con le idealità del Messaggio Evangelico.
Perché? Cosa fanno questi cattolici?
Vanno in pellegrinaggio a Madjugorie a pregare la Madonna degli umili; poi tornano in Italia e votano Lega, il partito dei razzisti. Si dicono “cattolici” e sono solo dei “provinciali”.
Vanno in Chiesa a festeggiare i Santi del calendario ed escono fuori e calpestano i martiri in carne ed ossa che incontrano per strada.
Si dicono cristiani e si chiamano fratelli; ma poi, se possono, si fanno le scarpe a vicenda, arrampicandosi sui cadaveri degli “altri”.
Pregano Dio per la Pace e la Giustizia, ma votano a destra, dove ingrassano i partiti di quel liberismo economico e di quel turbocapitalismo che seminano violenza e fomentano guerre.
Hanno lottato contro il divorzio, contro l’aborto, contro l’eutanasia, contro la contraccezione ed hanno spalancato la porte a quella globalizzazione che non è altro che la riduzione del mondo ad un mercato, dove investono i padroni del capitale e nel quale la condizione di cittadino interessa meno che quella di consumatore.
Hanno chiuso gli occhi pregando Dio e si sono ritrovati servi di un altro dio, il dio denaro.
Senza avvedersene, hanno voluto coniugare, in un rapporto incestuoso, ciò che il loro Maestro aveva avvertito non essere possibile: “Non potete servire Dio e la ricchezza!” (Matteo 6,24).
Sotto questa dittatura tutto si è trasformato in merce: idee, progetti, relazioni, oggetti, ecc.; perfino la religione!
Frei Betto, teologo brasiliano, incarcerato per anni e anni sotto la dittatura militare degli anni di piombo (1964-1985), denuncia: “Si vendono imprese, strade, influenze e governi. (…) Si trasforma Che Guevara in birra inglese, la liturgia in uno show business e i figli di Gandhi in un carro del carnevale. L’importante è mercificare e reificare tutto: dall’emblema rivoluzionario alle natiche della ballerina.
Rendere il superfluo necessario. Solo così si dilata il consumo. (…)
Creata per elevare le persone ad un altro livello di coscienza, perché vivano la comunione con Dio e tra loro, e fondata su valori derivati dalla rivelazione trascendente, la religione stessa, poco a poco, ha finito per perdere la sua dimensione profetica, di denuncia e di annuncio. Si sveste del suo carattere etico, di critica verso ciò che disumanizza, per adeguarsi all’imballaggio che la rende, nel mercato, un prodotto attraente. Così, essa risplende sotto le luci della ribalta, scambiando il silenzio con l’isterismo pubblico, la meditazione con l’emozione truccata, la liturgia con la danza aero¬bica. Nella sfera cattolica, rende il prodotto più appetitoso” (Adista 88/99).
Scandalizza che di fronte a questa deriva prostituiva qualcuno additi ancora come nemico da abbattere un inesistente “Comunismo”. È da briganti e da delinquenti.
Qui non siamo più di fronte a quello che i vescovi francesi nel primo dopoguerra denunciavano come lo “scisma pratico” dei fedeli.
Qui siamo di fronte ad una ideologia liberista e libertaria che assolutizza il soggetto cancellando la società, intronizza sull’altare dei valori una libertà assassina riservata ai pochi e impedita ai molti, invoca stupidamente la giustizia impedendone le condizioni.
Di tutto ciò, caro papa Francesco, “insieme”, come tu scrivi, se ne può parlare?
da huffingtonpost.it
sul livello non solo basso ma spaventosamente negativo del dibattito politico nel nostro paese, con abbondanti aspetti di oscenità , sghignazzo e banalità. si può utilmente leggere l’ ‘amaca’ odierna di M. Serra:
Lo spaventoso livello del dibattito politico, se possibile peggiorato dall’ingordigia con la quale i media si buttano sui dettagli più volgari, non è solo deprimente. È anche dannoso, perché laddove ci sia una sostanza, resta sepolta sotto una coltre di oscenità e sghignazzi. Si prenda il caso Santanché. Ha rilasciato al Tempo di Roma un’intervista importante. Nella quale spiega che Forza Italia dev’essere «un partito presidenziale, con a capo Berlusconi e senza un segretario, per eliminare lacci e lacciuoli tra la gente e il presidente». È un modello di partito antidemocratico, direi schiettamente fascista (anche se è più di moda dire “populista”). Un Duce e il suo popolo, niente in mezzo che disturbi.
Ora: è più importante sapere che la signora Santanché incarna valorosamente quel non poco di fascismo che nel berlusconismo alligna, o chiamarla Pitonessa e computare fedelmente le sue liti televisive a base di battutine sessuali e allusioni (fasciste anche loro) alla scarsa virilità dei suoi avversari? Quanto spazio è stato dedicato alle significative parole effettivamente da lei affidate al Tempo, e quanto alle fesserie twittate a proposito del gergo da visita militare del quale la signora è al tempo stesso artefice e vittima?
Da La Repubblica del 18/09/2013.