Omelia di Ernesto Balducci per la festa dell’Assunta
II confronto col drago
Festa dell’Assunta
Letture:
Ap 11,10; 12,1-6.10
1 Cor 15.20-26
Lc 1,39-56
Succede spesso, ormai, che quando siamo chiamati a riflettere su alcuni momenti del mistero cristiano, dobbiamo abbandonare le immagini che si sono consolidate lungo i secoli, le fabulazioni con cui il cuore devoto ha creato dinanzi a sé e al di sopra di sé un mondo splendente in cui si appaga il sogno, il desiderio di felicità. Succede spesso che siamo costretti — dovendo per necessità leggere la parola della Scrittura — a seguire una strada totalmente opposta. Per celebrare la gloria di Maria assunta in cielo, non si potevano togliere dal Vangelo se non queste pagine, dove però Maria ci appare in una totale condizione umana, senza splendore regale, senza nessuna esenzione dalle leggi comuni del vivere. Quella che l’immaginazione pensa come gloria celeste, qui, in questo stupendo episodio, è semplicemente il palpito di un neonato nel seno della madre. Al polo opposto della forza, della grandezza, c’è il germogliare della vita. E’ questa la vera via evangelica per entrare in un mistero dove — come voi capite — la realtà di Dio e quella dell’uomo, non possono più essere separate, mentre, più di quanto non sembri, il nostro bisogno è di tenere Dio nel suo splendore e di colorare questo splendore di tutte le ansie e le aspettative umane senza più rispetto, però, per il mistero dell’uomo, che è il luogo in cui Dio abita. Se l’incarnazione ha un senso, ha questo senso.
Tenendo fermo questo invito della Scrittura, possiamo disporre in un certo ordine, le molte cose che ci sono state dette dalla parola di Dio, oggi. Al primo posto, come è proprio di un messaggio la cui natura è profetica, c’è la rappresentazione del punto di arrivo del mistero della salvezza. Questo punto di arrivo ci è detto, con parole ferme e grandiose, da Paolo quando parla della fine che coinciderà con 1’annientamento di «tutti i principati, di tutte le potestà e di tutte le potenze»: in quel momento il regno sarà consegnato al Padre. Solo allora la creazione, ricomposta nella pace e nella fratellanza, liberata dalla sovrastruttura demoniaca del potere — come si toglie la scorza da un frutto —, sarà consegnata al Padre. Questo termine di arrivo implica qualcosa di assolutamente indicibile, di incredibile secondo le misure umane: l’annientamento della morte, l’ultima nemica. In questa visione mistica del potere avverso al regno di Dio, la morte non è che un momento – quello decisivo – che svela la sostanza di tutti gli altri e che l’autore dell’Apocalisse rappresenta come un drago. Storicamente sappiamo cosa era il drago: era l’Impero Romano. Questo drago rosso con sette teste e dieci corna e con sulle teste sette diademi, è una rappresentazione, fatta con una immaginazione iperbolica all’orientale, dell’impero di Roma. La donna che partorisce non è Maria, ma è il popolo di Dio, e la chiesa appena allo stato nascente che si trova dinanzi questo drago terribile. E’ un modo di esprimere il conflitto fra le fragili e povere comunità di credenti nella resurrezione e l’immenso apparato dell’Impero Romano. La riflessione medievale poi ha identificato la donna coronata di dodici stelle con Maria. Del resto nella nostra fede, liberata da ogni superstizione, sappiamo che gli aspetti tipici della storia del popolo di Dio, sono riferibili tutti alla storia di Maria che è come l’emblema, il segno anticipato del destino intero del popolo di Dio. Questo conflitto è come quello spiegato prima da Paolo, tra un popolo di Dio il cui principio è l’amore, la mitezza, la non violenza e il drago che è la violenza stessa. Dall’Impero Romano ai blocchi atomici di oggi, c’è una linea di continuità. Non so cosa potrebbe di¬re oggi un veggente come quello dell’Apocalisse per descrivere il drago: basterebbe una descrizione scientifica, senza bisogno di simboli, per darci un’immagine molto più paurosa che quella lievemente infantile del drago dell’Apocalisse. Basterebbe fare il conto delle testate atomiche già pronte per capire che cosa è il potere, intrinsecamente disumano, nemico dell’uomo, omicida e perciò “regno di Satana” di cui siamo tutti contribuenti in qualche modo, al livello fiscale se non altro. Dinanzi all’apparato del potere sta la vita che possiamo osservare o nel seno di Elisabetta che è presa da improvvisa gioia, o nelle piccole comunità che sono dinanzi al drago come il neonato della donna di cui parla l’Apocalisse: è la fragilità vitale dinanzi alla mortale potenza che la minaccia. Credere vuol dire fare la nostra scelta. Se fosse luogo, potremmo anche spiegare tutta la storia dei nostri tradimenti come un tentativo di fare un compromesso con il drago. Il drago dà a questo figlio nato dalla donna, a questo popolo di Dio inerme come un bambino in culla, un po’ di sicurezza. Pensiamo al Papa che va a Lourdes in nome del Signore, però ha attorno tremilaseicento uomini col fucile puntato. Il drago mette a disposizione del Messaggero la sua forza per tutelarlo. Ma quando un drago mette la sua forza a disposizione del messaggero, qualcosa di grave — voi capite — avviene, non imputabile alla persona, ma alla logica delle strutture di cui pure dobbiamo renderci conto se vogliamo non dire cose vane o non ridurre il Vangelo ad una pura esercitazione retorica. Dobbiamo do¬mandarci: come liberarci da questa insidia del drago che è — lo ripeto — la presunzione di mettere il potere come tale, con la sua forza coattiva, deterrente, al servizio del Regno di Dio, cioè di qualcosa di estremamente fragile come il neonato nel seno di Elisabetta?
Quando Gesù parla del suo regno usa sempre immagini che ci riconducono al piccolo, al fragile, all’improbabile, al minacciato: ad un pizzico di sale, ad una manciata di lievito, ad una fiammella accesa… cose piccole, che però sono nell’ordine della vita e di fronte a cui invece il potere ha l’aspetto dell’onnipotenza della morte. Il potere non fa che creare morti. Le cronache di questi giorni ce lo dicono, in America, e nell’Africa. Il potere non fa altro che darci la possibilità di fare le statistiche dei morti. II regno di Dio è dall’altra parte. Aver capito questo significa, intanto, esultare. La tristezza consiste nell’obbedire all’istinto di potenza, nel voler riusci-re, nel cercare di essere considerati nella gerarchia del drago, di essere in alto. II che comporta frustrazioni, tradimento di amici, finzione, doppi sensi, menzogne. Uno che entra nel mondo non può che pagare il suo pedaggio con la tristezza, perché in tutti noi c’è l’alba dell’idea di un mondo diverso da questo, un mondo che pare impossibile, al punto tale che l’educazione che noi diamo ai ragazzi consiste nell’addestrarli a ricordarsi che certe cose sono impossibili. Quando si sono rassegnati, sono già diventati adulti, come noi. Il regno di Dio è nel capovolgere le cose.
Torniamo pure a Maria, a questa donna che enuncia nell’inno così caro alla memoria cristiana la sua esultanza. Il suo messaggio non ha un carattere personale, intimistico, ma storico e universale. Maria non è, per cosi dire, una «devota». Quante sono le devote alla Madonna che appena si parla di problemi sociali e politici, inorridiscono! Ma la Madonna quando esulta, esulta perché «Dio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote». E’ un capovolgimento sociale e politico quello che Maria contempla, per esaltare il Padre. In questa esaltazione è riflessa la coscienza di una scelta di vita, una scelta dove tutti i valori si trasformano. Ciò che conta nel primo registro, quello del potere, qui non conta niente, mentre conta quello che per il potere è degno di un sorriso. Credere questo significa entrare nella grande beatitudine. Cosa dice Elisabetta a Ma¬ria? «Beata te che hai creduto».
L’aver creduto all’impossibile che le fu annunciato è la vera ragione della beatitudine di Maria: le altre glorie sono frutto più o meno dell’immaginazione. Una volta accettato questo dato di fatto che Maria ha detto un si con tutta se stessa alla proposta di Dio, ha creduto alla proposta di Dio ed è entrata nel mistero del Cristo, il resto viene di conseguenza. Noi crediamo che essa è nella gloria, ma non siamo affatto curiosi di sapere come vi è salita. L’unica beatitudine che il Vangelo esplicitamente le attribuisce è questa: «Beata te che hai creduto». E quando Gesù udì dalla folla una voce che disse: «Beate le mammelle che ti hanno allattato», quasi a voler — per cosi dire — scoraggiare tutte le devozioni maria¬ne del futuro, disse: Beati quelli che ascoltano la parola del Padre — cioè che credono — costoro sono mia madre, miei fratelli e mie sorelle. Questa verità evangelica abolisce tutte le altre misure di grandezza. Nasce così in noi la simpatia per tutti coloro che nel mondo rassomigliano a questa creatura senza potere e senza importanza. Maria è in ogni donna che partorisce nella povertà e nella miseria, in ogni donna profuga, in esilio nel suo Egitto lontano, in ogni donna che accoglie sulle sue braccia il cadavere del figlio ucciso. Questo è il mistero che si ripete con puntualità nelle Viae crucis reali del mondo, fuori degli spazi sacri. Entrare in questa via vuol dire entrare in un’altra sapienza il cui frutto immediato e profondo è davvero la consolazione di ogni uomo che crede nella parola di Dio e che è perciò madre e fratello e sorella di Gesù.
(Ernesto Balducci: Il Vangelo della pace; Borla 1985 – Vol. 3 , pp. 332-337