l’attualità dell’eutanasia fa esplodere un forte dibattito

L’addio di Brittany: muoio con dignità 

 

Brittany Maynard è morta, come programmato, sabato sera. Oltre al suo dramma, in eredità lascia un dibattito sull’eutanasia che negli Usa è tornato a dividere la gente. Brittany ha preso i farmaci letali nel letto della sua nuova casa di Portland, circondata dal marito Dan Diaz, la madre Debbie Ziegler, e il patrigno Gary Holmes, per evitare le sofferenze del cancro al cervello che l’aveva comunque condannata.

Brittany

Su Facebook, ha lasciato quest’ultimo messaggio: «Addio a tutti i miei cari amici e alla mia famiglia, che amo. Oggi è il giorno che ho scelto per morire con dignità, davanti alla mia malattia terminale, questo terribile cancro che ha portato via così tanto da me, ma che avrebbe preso ancora di più. Il mondo è un bel posto, il viaggio è stato il mio maestro più grande, i miei amici più stretti sono le persone più generose e altruiste. Ho anche un cerchio di supporto intorno al mio letto, mentre scrivo… Addio mondo. Spargete buona energia. Siate generosi, pagate in anticipo per restituire ad altri il bene che ricevete».

Brittany, 29 anni, aveva saputo di essere malata a gennaio. I medici le avevano dato sei mesi di vita, e lei aveva scelto di evitare le cure che avrebbero rovinato la fine della sua esistenza, senza darle una vera speranza di guarire. Si era trasferita in Oregon con la sua famiglia per approfittare del Death With Dignity Act, la legge che in quello Stato consente il suicidio assistito

l’attualità dell’eutanasia ha scatenato comprensibilmente un grande dibattito, non solo negli Stati Uniti: riporto qui sotto – con l’aiuto preziosissimo del sito ‘finesettimana’ – alcuni dei principali articoli (i titoli coi rispettivi link) usciti sulla nostra stampa per avere il quadro delle varie posizioni rispetto a questo problema (segnalando in modo particolare l’ultimo articolo di G. Piana che affronta l’argomento da raffinato e sensibile teologo):

Certa gente mi critica perché non aspetto più a lungo; altri hanno deciso per conto loro cos’è meglio per me. Tutto questo mi addolora perché sono io quella che rischia: rischio ogni singolo giorno, ogni volta che mi sveglio al mattino…

spesso dare “fattibilità legale” a tali comportamenti può finire – questo è ciò che ci dice con chiarezza Verspieren – per renderli anche “moralmente accettabili” demolendo agli occhi di molti, e per di più in nome della legge, gli ultimi ostacoli alla loro attuazione.
Non si giudica il dolore altrui, ma riflettere si può e si deve. Brittany ha detto di voler « morire con dignità», come se la sofferenza le rubasse dignità. Ma non è vero: dirlo è una trappola. Anche se una risposta al senso del dolore nessuno la possiede
Sabato la 29enne si è tolta la vita, dopo aver inviato un messaggio di ringraziamento ad amici e familiari. In tanti, nelle ultime settimane, hanno voluto accompagnare la giovane nella sofferenza, al di là della sua scelta.
Ogni persona deve aver la possibilità di decidere come uscire da questo mondo. Il diritto all’eutanasia è strettamente legato al principio di autodeterminazione. Non dobbiamo aver paura del morire, ma dobbiamo garantire a tutti una morte dignitosa.

Proprio perché si deve riflettere su temi tanto complessi riproponiamo l’ampia riflessione svolta sull’eutanasia e sull’autodeterminazione da Giannino Piana lo scorso anno. “la questione dell’autodeterminazione di fronte alla morte è una questione complessa, meritevole come tale di attenta riflessione. Le ragioni a favore dell’autodeterminazione, comprese quelle di ordine teologico, sono tutt’altro che peregrine. Le argomentazioni contrarie, le quali fanno appello alla radicale indisponibilità della vita umana perché «dono» di Dio o perché dotata di una costitutiva «santità», risultano insufficienti: esse si collocano infatti a livello metaetico o parenetico, e in quanto tali non possono rivestire un carattere assoluto né tanto meno venire immediatamente trasposte in ambito normativo.”

la toccante lettera alla madre prima di essere impiccata

“Madre, non piangere accuserò i giudici al tribunale di Dio e ora dona i miei occhi”

Ecco l’ultima lettera, pubblicata su Huffington Post, che Reyahneh Jabbari, impiccata a 26 anni per aver ucciso il suo stupratore, ha scritto a sua madre Sholeh

siriana impiccata

 

“Mia dolce madre, l’unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me”

in “la Repubblica” del 27 ottobre 2014

Cara madre, oggi ho appreso che ora è il mio turno di affrontare la Qisas ( la legge del taglione del regime iraniano, ndr). Mi ferisce che tu stessa non mi abbia fatto sapere che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Non credi avrei dovuto saperlo? Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di papà? Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella orribile notte io avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificare il mio corpo e là avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato, dato che noi non siamo ricchi e potenti come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita soffrendo e vergognandoti e qualche anno dopo saresti morta per questa sofferenza e sarebbe andata così. Ma con quel maledetto colpo la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da qualche parte ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. E ora nella prigione-tomba di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti. Tu sai bene che la morte non è la fine della vita. Tu mi hai insegnato che si arriva in questo mondo per fare esperienza e imparare la lezione e che a ognuno che nasce viene messa una responsabilità sulle spalle. Ho imparato che a volte bisogna lottare. Tu ci hai insegnato, quando andavamo a scuola, che si deve essere una signora di fronte alle discussioni e alle lamentele. Ti ricordi quanto notavi il modo in cui ci comportavamo? La tua esperienza era sbagliata. Essere presentabile in tribunale mi ha fatto apparire come un’assassina a sangue freddo. Non ho versato lacrime. Non ho implorato. Non mi sono disperata, perché avevo fiducia nella legge. Ma sono stata accusata di rimanere indifferente di fronte ad un crimine. Lo sai, non uccidevo neanche le zanzare e gettavo via gli scarafaggi prendendoli dalle antenne e ora sono diventata un’assassina volontaria. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato come un comportamento mascolino e il giudice non si è neanche preoccupato di tenere in considerazione il fatto che all’epoca dell’incidente avevo le unghie lunghe e laccate. Quant’è ottimista colui che si aspetta giustizia dai giudici! Il giudice non ha mai contestato il fatto che le mie mani non sono ruvide come quelle di uno sportivo, specialmente un pugile. E questo paese per il quale tu hai piantato l’amore in me, non mi ha mai voluto e nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli inquirenti gridavo e sentivo i termini più volgari. Quando ho perduto il mio ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni in isolamento. Cara mamma, non piangere per ciò che stai sentendo. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia una vecchia agente zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non viene ricercata in quest’epoca. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, una bella scrittura, la bellezza degli occhi e della visione e persino la bellezza di una voce dolce. Le mie parole sono eterne e le affido tutte a qualcun altro, in modo che quando verrò giustiziata senza la tua presenza e senza che tu lo sappia, ti vengano consegnate. Ti lascio molto parole scritte a mano come mia eredità. Però, prima della mia morte voglio qualcosa da te, qualcosa che mi devi dare con tutte le tue forze. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo paese e da te. So che avrai bisogno di tempo per questo. Ti prego non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e dica a tutti la mia richiesta. Mia dolce madre, l’unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto
che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via. Il mondo non ci ama. Non ha voluto che si compisse il mio destino. E ora mi arrendo ad esso ed abbraccio la morte. Perché di fronte al tribunale di Dio io accuserò gli ispettori, accuserò il giudice e i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato mentre ero sveglia e non hanno smesso di minacciarmi. Nel tribunale del creatore accuserò tutti coloro che per ignoranza e con le loro bugie mi hanno fatto del male ed hanno calpestato i mie diritti e non hanno prestato attenzione al fatto che a volte ciò che sembra vero è molto diverso dalla realtà. Cara Sholeh dal cuore tenero, nell’altro mondo siamo tu ed io gli accusatori e gli altri gli accusati. Vediamo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. Ti voglio bene.

Reyhaneh

pregiudizi italiani

 

Quei pregiudizi su stranieri, mendicanti, rom

di Massimo Calvi
23 ottobre 2014

bambino rom

 

 

Più di un italiano su tre se incontra un arabo in aeroporto teme che possa trattarsi di un terrorista. Quattro italiani su cinque, invece, si mettono la mano al portafoglio se una “zingara” sale sull’autobus. È l’effetto del pregiudizio, o meglio, di quello che la narrazione collettiva trasmette alle persone, spingendole a costruirsi un’immagine degli altri diversa da quello che l’esperienza individuale ha detto loro. Ed è proprio in questo margine, tra ciò che ci hanno raccontato e ciò che abbiamo vissuto, che si annidano i germi dei pregiudizi, della discriminazione, dell’intolleranza e persino della violenza. Ma perché tutto possa detonare, arrivando al peggio, ci vogliono altri ingredienti, e uno di questi è rappresentato dalle emozioni: come la paura, l’insicurezza, l’invidia. È questo il percorso che porta ad esempio a provare antipatia per rom e tossicodipendenti, a esprimere atteggiamenti ostili verso i migranti, o non rispettosi nei confronti degli omosessuali, a discriminare una donna sul lavoro. Ad analizzare il rapporto tra gli italiani e le discriminazioni è una rilevazione demoscopica condotta per Famiglia Cristiana da Swg, e che viene presentata oggi in occasione del lancio della campagna sociale “Anche le parole possono uccidere”, cui aderiscono pure Avvenire e la Federazione dei settimanali cattolici. Ad emergere è molto più di una classifica di chi piace e chi no. Gli italiani dicono di provare “simpatia” per i giovani, le donne, gli anziani, i poveri, gli uomini, i cristiani e i meridionali. Sembrano essere “neutri” in rapporto a settentrionali, persone di colore, magri, omosessuali, persone molto grasse ed ebrei. Decisamente “antipatici” risultano invece i ricchi, i musulmani e chi chiede la carità, mentre a un livello inferiore si trovano rom e sinti e i tossicodipendenti. “Zingari” e “drogati” sono dunque le categorie che più procurano disagio: il 70% avrebbe problemi a cenare con un tossicodipendente, il 66% con un rom, il 74% si sentirebbe urtato dall’avere un “tossico” vicino di casa, il 70% un rom. Grossi problemi anche con extracomunitari e musulmani: 4 su 10 preferirebbe non averli come vicini di casa e circa uno su tre (28% e 33%) proverebbe disagio se li avesse come colleghi di lavoro. Passando al piano personale, il quadro non cambia molto: il fidanzato da evitare per la figlia? Il tossicodipendente (82%), il rom/sinti (72%), il musulmano (69%), un uomo più anziano (58%), un’altra donna (54%), un extracomunitario (50%). A colpire è anche un altro aspetto: la differenza tra la discriminazione percepita e quella realmente vissuta. Per l’87% degli intervistati, ad esempio, in Italia ci sono diffusi atteggiamenti discriminatori legati alle preferenze sessuali e per l’83% alle origini etniche. Mentre il 66% si è sentito discriminato almeno una volta nella vita. Per che cosa? Condizione economica (40%), motivi estetici (36%), peso (35%) e genere (34%). L’indagine ha poi messo in luce che le persone che fanno riferimento ai valori della patria e della tradizione cattolica sono molto più tolleranti della media, salvo nel caso degli omosessuali. Tollerante è anche chi asserisce di credere molto nel valore della scuola e della formazione. A produrre ostilità verso i migranti sono invece il senso di insicurezza e la percezione di essere esclusi dalla società. Insomma: la discriminazione non trova terreno fertile dove ci sono cultura ed educazione, prolifera quando a dominare sono le difficoltà e le paure individuali.

 

la violenza delle parole

le parole sono pietre

di Michela MarzanoMarzano

 

in “la Repubblica” del 26 ottobre 2014

“Anche le parole possono uccidere”.

È forse provocatorio il modo in cui sono state scelte le parole con cui, alla Camera, è stata lanciata una campagna pubblicitaria ideata da Armando Testa e promossa da alcuni giornali cattolici. Ma siccome l’intento della campagna è proprio quello di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti della violenza verbale, forse non si poteva fare altrimenti. Come attirare l’attenzione sulla banalizzazione contemporanea degli insulti? Come fare per spiegare la violenza del linguaggio? Certo, non sono le parole, di per sé, ad essere pericolose. Il pericolo comincia quando le si usa male, a sproposito, senza fare attenzione. Perché allora, invece di aiutarci a mettere ordine nel mondo, come spiega Albert Camus, non fanno altro che aumentare la quantità di sofferenza che già esiste. Tanto più che, negli ultimi anni, l’utilizzo di alcuni insulti  sembra essere stato del tutto sdoganato: sembra normale parlare di una persona di colore chiamandola “negro”, di una persona con qualche chilo di troppo definendola “cicciona”, di un omosessuale utilizzando il termine “frocio”, e via dicendo. “Meno droga, più dieta, messa male”,  qualche giorno fa Maurizio Gasparri, vice-presidente del Senato, ad una ragazza che voleva difendere Fedez, stupendosi poi della reazione che il tweet provocava sui social network. “Io ho solo risposto, perché dovrei scusarmi?”, ha replicato a chi gli faceva notare non solo la volgarità della frase, ma anche la violenza del messaggio. Mostrando così di non capire fino a che punto certe parole possano ferire, e come talvolta sia proprio a forza di banalizzare la violenza verbale che si legittimano poi alcuni passaggi all’atto. Non è stato anche perché tutti lo chiamavano “grasso”, “chiattone”, “panzone”, che poi gli aguzzini di Vincenzo, il ragazzo napoletano ricoverato in fin di vita con gravi lesioni all’intestino, hanno pensato di poter continuare a “scherzare” stuprandolo con un tubo collegato a un compressore per “gonfiarlo”? La performatività del linguaggio, per riprendere le parole di John Austin e di John Searle, non è l’invenzione di alcuni filosofi avulsi dalla realtà, ma una delle caratteristiche principali della lingua. Quando si parla, il più delle volte non ci si limita a dire qualcosa o ad esprimere un’idea, ma si agisce. E, come ogni altro gesto e ogni altra azione, anche gli atti linguistici hanno delle conseguenze. Ecco perché, nel caso degli insulti, nel mondo anglosassone si parla di hate speech, “discorso dell’odio”, ossia di parole che vengono utilizzate al solo fine di offendere e far male. Non si tratta né di esprimere un’opinione né di cercare di argomentare con l’interlocutore, ma di far tacere la persona che si ha di fronte o con la quale si discute. È un modo per ridurre al silenzio l’altra persona, esattamente come quando la si schiaffeggia o si utilizza un altro tipo di violenza. D’altronde, che cosa potrebbe mai rispondere chi si sente urlare “ciccione”, “negro”, “frocio” o chi riceve una mail o un tweet di questo tipo? Cos’altro si potrebbe fare se non rincarare la dose, alimentando così la violenza, oppure ammutolirsi e soffrire in silenzio? “Parlar male di qualcuno equivale a venderlo, come fece Giuda con Gesù”, aveva  detto qualche mese fa Papa Francesco, invitando non solo a stare dalla parte di coloro di cui “si dice ogni male”, ma anche a non utilizzare quelle paroleproiettili che offendono, umiliano, feriscono, talvolta uccidono anche la personalità di chi le riceve. Tanto più che certe parole, quando le si utilizza sui social network, restano poi prigioniere della rete, moltiplicandosi in mille rivoli e privando il linguaggio di valore. Le parole servono per esprimere sentimenti e stati d’animo, per comunicare con gli altri e creare relazioni, per difendere le proprie idee e i propri valori. Quando prevale però la “cultura dello scarto”, per citare ancora una volta Papa Francesco, oppure si immagina che l’unico modo per emergere nella società sia denigrare e umiliare, anche le parole possono trasformarsi in armi che sfasciano il mondo.

 

sono razzisti gli italiani?

 

“Io non sono razzista, ma…”

contro il razzismo

 

 

 

“ognuno di noi può diventare discriminante, a partire dai piccoli comportamenti quotidiani. E’ bene acquisire la consapevolezza che anche una parola, una banale parola, può trasformarsi in gesto di intolleranza, o essere sentita come tale” : così R. Grassi a proposito del razzismo degli italiani analizzato in un’indagine  per “Famiglia Cristiana” dalla SWG sugli “Italiani e la discriminazione”

 Alberto Raggia( in “www.famigliacristiana.it” del 23 ottobre 2014) così ricostruisce sinteticamente l’indagine:

 

razzismo

Gli italiani sono buoni o cattivi? Razzisti o tolleranti? L’indagine realizzata per “Famiglia Cristiana” dalla SWG sugli “Italiani e la discriminazione” non ha lo scopo di dare il voto in condotta al nostro Paese.

“Il senso della ricerca – spiega Riccardo Grassi, direttore Ricerca della SWG – che sposa bene lo scopo della campagna lanciata dal vostro settimanale,è un altro e cioè che sentirsi discriminati può riguardare tutti; e che ognuno di noi, allo stesso tempo, può diventare discriminante, a partire dai piccoli comportamenti quotidiani. E’ bene acquisire la consapevolezza che anche una parola, una banale parola, può trasformarsi in gesto di intolleranza, o essere sentita come tale. Ed è altrettanto  importante saper reagire positivamente a situazioni negative che ci coinvolgono in questo senso, senza finire con l’alimentare la spirale dell’odio sociale. La questione fondamentale è aiutare le persone a essere ‘generative’, capaci, cioè, di elaborare cultura della vita. Ma non solo per gli altri, ma anche nei confronti di se stessi”. L’assunto di partenza dell’indagine è che per orientarsi nell’insieme delle relazioni che caratterizzano la quotidianità, tutti noi dobbiamo usare strumenti di pre-comprensione della realtà basati sia sull’esperienza individuale (“cosa m’è accaduto in una situazione del genere?”), sua su quella collettiva (“che si dice in giro su quanto sarebbe accaduto ad altri in una situazione del genere?”). Insomma: l’esperienza vissuta assieme a quanto mi dicono i media, le agenzie educative e la famiglia su un determinato tema sono il bagaglio necessario che costituisce sempre la nostra “visione del mondo”, che a volte può generare atteggiamenti e comportamenti discriminatori. “Alla radice della discriminazione – osserva Grassi -spesso vi sono le esperienze personali, le emozioni negative, in particolare quelle di paura e di invidia, che riducono la nostra capacità di analisi ed interpretazione razionale delle situazioni”. La ricerca ha sottoposto agli intervistati otto situazioni tipo (dal “vedere per strada due omosessuali prendersi per mano”, a “essere fermati da persone di colore che vendono merce”), misurando le emozioni riferite per ciascuna di esse. I risultati evidenziano come vedere persone che chiedono la carità, un tossicodipendente accasciato su una panchina o un gruppo di persone Rom generino prevalentemente emozioni negative: disagio nei confronti dei mendicanti (32% degli intervistati), rabbia verso i tossicodipendenti (29%) e paura nei confronti dei Rom (25%).

razzismo rom

“Il pregiudizio è una categoria interna al nostro modo di leggere la realtà in modo emotivo. Così può accadere, per restare aderenti alla cronaca recente, che dei genitori impediscano a una  bambina africana di entrare a scuola, per l’irrazionale paura di un contagio di Ebola”, aggiunge il direttore ricerca di SWG. “Un importante ruolo nella creazione del pregiudizio lo hanno certamente i media, la tv, ecc.. E’ innegabile che se vengo bombardato ogni giorno dallo slogan ‘magro è bello’, rischio di discriminare le persone grasse. Ma al di là della narrazione collettiva, che può essere più o meno ‘cattiva’, c’è poi la personale rielaborazione nel nostro ambiente di vita che fa il resto. Se per esempio stigmatizzo negativamente un rom, passeggiando con mio figlio, è probabile che inneschi un pre-giudizio nella sua visione della realtà che un domani potrebbe portare ad atteggiamenti di intolleranza”. Le parole pronunciate non sono indifferenti. E anche chi si definisce“non razzista” per principio, magari lo è nei fatti e nel linguaggio

no razzismo

“E se due intervistati su tre dichiarano di aver sperimentato almeno una discriminazione ai loro danni, significa che l’intolleranza non è solo un tema sociale sensibile ma un ingiusto vissuto in prima persona. Pertanto si tratta di fenomeni a cui dare la massima attenzione, anche per mettere in atto una reazione positiva che elabori l’episodio discriminatorio, o vissuto come tale, per uscirne senza danni. Ciò è utile soprattutto quando si tratta di minori”, conclude Grassi  

il popolo della pace in marcia

la marcia della pace Perugia-Assisi

 

 

volantino

 

 

a cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, si è svolta la XX edizione della Marcia della Pace Perugia -Assisi.
 più  di centomila persone si sono messe in cammino, domenica 19 ottobre, per dare voce alla domanda di pace che sale da ogni parte del mondo e per dire basta a tutte le guerre. 

quelli di Verona


la Marcia per la pace Perugia-Assisi è organizzata dal Comitato Promotore Marcia Perugia-Assisi.
 parte dai Giardini del Frontone di Perugia alle 9.00 e arriva alla Rocca Maggiore di Assisi alle 15.00, dove si svolge la manifestazione conclusiva.marcia dell pace

 

 

è stata una bellissima giornata (e non solo per il tempo!) dove tanti giovani, uomini e donne hanno voluto ancora una volta ricordare a tutti che la pace è un diritto e che è solo con l’impegno di tutti nel diffondere una cultura di pace che questo obiettivo si può realizzare

In centomila marciano per la pace (e chiedono lavoro)

di R. I.
in “Corriere della Sera” del 20 ottobre

Cento colpi per ricordare cento anni di guerre. Si è aperta così ieri mattina, con il fragore delle esplosioni trasmesso dagli altoparlanti, la ventesima edizione della Marcia della Pace di Assisi. Tra striscioni, bandiere e arcobaleni, quasi 100 mila i partecipanti che hanno percorso a piedi i circa 24 chilometri tra Perugia e Assisi. Per dire basta ai conflitti, un secolo dopo la Prima guerra mondiale. Ma non solo. Perché per portare la pace, quella sociale, è fondamentale anche il lavoro, quest’anno tema centrale della manifestazione. In prima fila c’erano infatti gli operai dell’Ast di Terni, impegnati in una difficile vertenza per salvare oltre 500 posti a rischio. Il presidente della Camera, Laura Boldrini, che si è unita alla marcia nell’ultimo tratto, li ha incontrati: «Farò il possibile, non buttatevi giù», ha detto, sottolineando la necessità di una task force istituzionale che affronti la vicenda. «La pace sociale si basa anche sul diritto al lavoro, che è un diritto costituzionale». Dopo quello del capo dello Stato, anche papa Francesco ha inviato un messaggio: «La Marcia sia un’occasione per un maggior impegno nella diffusione della cultura della solidarietà, ispirata ai valori morali e al servizio della persona umana e del bene comune». In marcia la vicepresidente di Montecitorio, l’umbra Marina Sereni, don Luigi Ciotti, la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, quello del consiglio regionale, Eros Brega, oltre al sindaco di Perugia, Andrea Romizi. Ma i protagonisti sono stati i cittadini, tra cui moltissimi ragazzi e bambini di 177 scuole.

assisi

Hanno sfilato 277 enti locali, 479 associazioni, 526 città e rappresentanti di ogni regione. Qualche defezione, in polemica con la Tavola della pace, che ha promosso la manifestazione. «San Francesco attende i suoi testimoni di pace per incoraggiarli nel loro impegno quotidiano in una situazione drammatica di presenza di guerre e assenza di lavoro», aveva detto alla vigilia padre Enzo Fortunato, direttore della Sala stampa del Sacro convento. «Siamo qui perché non vogliamo più vedere vittime» ha spiegato Flavio Lotti, coordinatore del comitato promotore . 

 

Perugia-Assisi

Quel popolo dei 100mila che dice “no” a guerre e polemiche

di Luca Liverani
in “Avvenire” del 21 ottobre 2014

Chi temeva una Perugia-Assisi sotto tono è stato smentito. Nonostante la crisi, che ha ridimensionato le trasferte organizzate da associazioni, scuole o singoli. Nonostante le defezioni polemiche di alcune grandi associazioni e il mancato sostegno dei sindacati. Domenica mattina da Perugia su fino alla Rocca di Assisi ancora una volta – come da oltre un ventennio è sfilato un popolo di 100mila persone non rassegnate a una congiuntura economica decisa altrove, alle guerre a cascata in Medio Oriente, in Africa, persino in Europa, alle epidemie ignorate fin quando non bussano a casa nostra. Un fiume di gente diversa, ma fermamente unita nella volontà di esserci. Non per voglia di protagonismo – difficile, in un evento di massa, ignorato totalmente dai grandi quotidiani nazionali, eccezione fatta per alcune tv: TV2000, Rai3, RaiNews e Sky. Perché mai allora da Abbiategrasso a Zugliano gruppi, famiglie, parrocchie e associazioni si sono sobbarcati un viaggio faticoso, per poi affrontare 25 chilometri a piedi? La molla allora non può essere stata che lo scatto morale, l’indignazione civile, la compassione umana per le troppe offese all’umanità perpetrate a tutte le latitudini. La necessità insopprimibile di tanti italiani perbene e civili di fare e di dire qualcosa per un mondo meno disumano. Segno che la Marcia della Pace ha ancora un fortissimo appeal . Tornano alla memoria, più attuali che mai, le parole di San Giovanni Paolo II ai giovani della Gmg del 2000: «Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro… vi sforzerete di rendere questa terra sempre più abitabile ». «Non c’era nulla di retorico in quei 15 chilometri di gente – ragiona all’indomani della Marcia il coordinatore Flavio Lotti – giunta da ogni parte senza troppe etichette e distinguo, ciascuno con le propie ragioni e tutti con qualcosa di positivo in testa e tra le mani. La Marcia è riuscita a unire un pezzo importante della famiglia umana che non vuole lasciarsi trascinare nello sprofondo della III Guerra mondiale». Così la Marcia è iniziata col rimbombo di cento rintocchi, uno per ogni anno di questo secolo 1914-2014, perché «Cent’anni di guerre bastano», come si leggeva nel tema della Marcia. E allora in marcia «per la diffusione della cultura della solidarietà, ispirati ai valori morali e al servizio della persona umana e del bene comune», come ha scritto Papa Francesco.

 

 

 

contro l’intolleranza e l’estremismo presenti anche oggi

coi tempi che corrono mi sembra di capitale importanza riflettere su questo appello che S. Morgan rivolge a tutte le fedi e le visioni della vita per sradicare da se stesse quel cancro che distrugge la vita stessa: “l’estremismo è un mostro… che sale dagli abissi più oscuri. Ieri, cristiano, erigeva roghi. Ateo, costruiva i gulag. Oggi è diventato spettacolare nell’islam … “

 tutte le fedi e le religioni e le visioni della vita hanno avuto e hanno tutt’ora la tentazione dell’estremismo: “oggi, lo spirito dell’Inquisizione non è morto. Forse non si innalzano più roghi, ma si continua a giudicare e a condannare… Basta vedere certi interventi dei patriarcati ortodossi, o di certi pastori  o preti conservatori, o leggere certi commenti di forum associati alla Manif pour tous per rendersi conto fino a che punto questo spirito è ancora vivo, fino a che punto vi sono persone che sognano un mondo in cui ogni uomo (e soprattutto ogni donna) sia rinchiuso in una casella ben definita. E tutto questo contribuisce a distruggere e a sfigurare ogni giorno di più il cristianesimo che, pure, quelle persone dicono di difendere”

 

 

Contro l’estremismo

appello alle persone di diverse spiritualità

di Sébastien Morgan

in “www.lemondedesreligions.fr” del 29 agosto 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)

L’estremismo è più che mai attivo nelle nostre società. Come una peste, si diffonde in tutte le religioni senza distinzione, ma anche all’interno dell’ateismo che, con il pretesto della laicità, non esita a partire in crociata contro la spiritualità. L’estremismo è un mostro, una creatura infame che sale dagli abissi più oscuri. Ieri, cristiano, erigeva roghi. Ateo, costruiva i gulag. Oggi è diventato spettacolare nell’islam. La sua particolarità: è come le cellule cancerose che distruggono l’organo in cui sono generate. Esaltando apparentemente il pensiero nel quale nasce, l’estremismo snatura questo pensiero, lo svuota della sua sostanza, prima di rivoltarglielo contro, in un processo di distruzione e di annichilimento totale. La volontà di normalizzazione è spesso un segno di estremismo. Consiste nell’emanare delle regole tanto rigide quanto assurde nei contenuti e nel condannare chiunque non vi si conformi. Coloro che emanano tali leggi dispongono allora di una potere d’azione sulla popolazione che si trova in loro balia. Giocando sulla superstizione, sul senso di colpa e sulla paura irrazionale (dell’Inferno, del Diavolo, del fare male…), gli integralisti dettano le loro norme e condannano coloro che non vi si adeguano. Norme che, a loro dire, provengono da “leggi naturali”, dalla “volontà divina” o dalla conformità razionale e scientifica. Così, la caccia all’eresia e l’Inquisizione sono direttamente responsabili della perdita di credibilità della Chiesa e del cristianesimo in generale. Instaurando una polizia del pensiero, una Gestapo dogmatica, inventando il concetto di eresia, torturando povere ragazze innocenti, la Chiesa è riuscita a ridare corpo ai mostri che lo stesso Cristo aveva combattuto: il farisaismo mortale, il giudizio dell’altro e il patriarcato a cui è spesso associato. Le prime vittime dell’estremismo cristiano furono altri cristiani ritenuti devianti (ariani, gnostici, catari, protestanti, ecc…). Oggi, lo spirito dell’Inquisizione non è morto. Forse non si innalzano più roghi, ma si continua a giudicare e a condannare… Basta vedere certi interventi dei patriarcati ortodossi, o di certi pastori o preti conservatori, o leggere certi commenti di forum associati alla Manif pour tous per rendersi conto fino a che punto questo spirito è ancora vivo, fino a che punto vi sono persone che sognano un mondo in cui ogni uomo (e soprattutto ogni donna) sia rinchiuso in una casella ben definita. E tutto questo contribuisce a distruggere e a sfigurare ogni giorno di più il cristianesimo che, pure, quelle persone dicono di difendere. Nell’islam, l’estremismo ci sguazza, attaccando i cristiani che sono l’oggetto di un vero genocidio in Oriente, ma prendendosela anche e soprattutto con altri musulmani e con l’islam. In quanto cristiano, detesto lo spirito di Inquisizione che mi sembra essere agli antipodi dell’elevazione spirituale e della rigenerazione individuale proposta da Cristo. Immagino che ogni vero sufi che vive ontologicamente l’Amore di Dio, non possa che considerare con la stessa repulsione il terrorismo e la schiavitù della donna predicata dagli islamisti. Ci si potrebbe pure diffondere ampiamente sulle forme di estremismo ebraico che vanno contro lo spirito di universalità e di apertura presenti nell’anima ebraica, e parlare anche delle manifestazioni d’ombra in certe correnti buddiste o induiste. Che cosa dobbiamo concluderne? Che ogni religione possiede la propria parte d’ombra, la propria parte malefica? Oppure che ogni religione è come ogni individuo che, nel suo percorso spirituale, lotta con se stesso per far sbocciare l’immagine divina che è in lui. Immagine che deve portare alla somiglianza con Dio e trasformare ogni essere in fonte d’Amore e di Compassione. Le resistenze interiori a questa trasformazione fanno parte del processo che deve portare alla trasfigurazione.Sono come innumerevoli ferite e determinismi che, come immense dighe, bloccano la libera circolazione dell’Acqua Viva e del Soffio dello Spirito. Sono questi blocchi interiori che ognuno deve far saltare per diventare realmente libero e compiuto. Sono queste molteplici ferite che devono essere guarite perché si possa vivere Dio come Egli è, e liberarsi dall’immagine sbagliata che ci si fa di Lui. È ora che la civiltà guarisca dalla barbarie, è ora di incarnare l’amore divino quaggiù, è ora di vivere realmente Dio. I veri spirituali di ogni religione, donne e uomini di buona volontà, devono sentire la responsabilità di ergersi contro le idee di morte che nascondono il gioiello divino di cui sono custodi. Devono sentire la responsabilità di immergersi sempre più profondamente nel cuore della loro religione per farne scaturire la sorgente immortale per liberarla dalle scorie che la sfigurano.

*Sébastien Morgan è autore di: Devenir soi-même, chronique d’un chrétien du XXI siècle, 2013,

ed. Mercure Dauphinois.

le ruspe a Coltano

 

Pisa, in azione le ruspe nell’ex campo rom di Coltano

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sgomberi nei capi rom di Pisa: vergogna!

Due ruspe, di cui una grande e una piccola, quattro camion scarrabili, un furgone e nove operai. Sono le ”forze” messe in campo da ieri mattina da Pisamo e Avr impegnate nella pulizia e bonifica dell’ex campo rom di Coltano e da cui ieri mattina è stata allontana la penultima delle quattro famiglie che vi abitavano abusivamente (altre due, infatti, se ne erano già andate da tempo mentre l’ultima, non può essere allontanata in quanto in attesa di processo da parte dell’autorità giudiziaria), come previsto al momento della realizzazione delle casette minime, intervento che aveva come presupposto la chiusura e la bonifica della vecchia area di sosta.

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Un’operazione cominciata nella giornata di ieri e che, oltre ai mezzi impegnati nella bonifica, ha visto impegnati congiuntamente anche vigili urbani, carabinieri, polizia e guardia forestale oltre agli operatori della Società della Salute e della Croce Rossa. Che sta proseguendo oggi: fino ad ora sono stati portati via circa 360 quintali di rifiuti, quelli più voluminosi come le lamiere e gli altri materiali della baracca, del container del camper e delle due roulotte abbandonate che sono stati abbattuti. Rimasta al sul posto, invece, quella di padre Agostino Rota Martir, il sacerdote che da anni vive nell’insediamento.

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Uomini e mezzi sono ancora in azione per completare la pulizia: l’obiettivo, infatti, è quello di finire il lavoro nella giornata di oggi o, al più tardi, nella mattina di domani.

“non avere paura”

 sintonia piena tra sapienza evangelica e sapienza orientale: “non avere paura”

Dall’attaccamento sorge il dolore, dal dolore sorge la paura; per colui che è totalmente libero, non c’è attaccamento, non c’è dolore, non c’è paura.

In questo momento, l’unico momento che esiste, il passato, il presente e il futuro sono contenuti. Il segreto del benessere del corpo e della mente consiste nel non piangere per il passato e nel non preoccuparsi per il futuro, e nel vivere il momento presente con saggezza e onestà.

Neppure la morte è da temere per chi ha vissuto con saggezza.

Siddharta Gautama

“le nostre mani grondano sangue”: lo scrivono 142 cittadini israeliani

Lettera di 142 cittadini israeliani alla famiglia di Mohammed Abu Khadr

 Gaza massacro
La carneficina che sta facendo a pezzi la gente di Gaza non fa parte di una guerra convenzionale. Uno degli eserciti più potenti del mondo s’è scagliato con tutta la sua ferocia contro persone lasciate sole dai governi “amici”, pronti semmai a chiudere loro, come sempre, ogni valico o via di fuga. Quel che accade in questi giorni a Gaza fa parte però di una guerra più grande, quella di tutti gli Stati e di tutti gli eserciti contro tutti i popoli. Sì, perfino contro quello che vive in Israele. Ce lo ricorda una splendida quanto emozionante lettera scritta da 142 cittadini israeliani capaci di vedere e capire l’orrore che provocano l’occupazione e la volontà di chi esercita il potere politico e militare nel loro paese. “Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire che non sapevamo, che non abbiamo capito prima o che non siamo stati in grado di prevederlo”. Quei cittadini scrivono alla famiglia di Mohammed Abu Khadr, il giovane palestinese arso vivo da un gruppo di coloni, ma scrivono anche al mondo intero. Sono parole che sfidano il pensiero dominante di una società che hanno visto diventare povera e perdersi nella cultura della violenza. Quelle parole coraggiose tengono aperta, anche quando tutto sembra perduto, la sola speranza di un cambiamento in profondità che potrebbe aver ragione dell’orrore  (Michel Sabbah Patriarca Emerito di Gerusalemme?
Gaza

 le nostre mani grondano sangue

 

Le nostre mani hanno dato fuoco a Mohammed. Le nostre mani hanno soffiato sulle fiamme. Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire “non lo sapevamo, non lo abbiamo capito prima, non eravamo in grado di prevederlo”. Siamo stati testimoni dell’enorme macchina di incitamento al razzismo e alla vendetta messa in moto dal governo, dai politici, dal sistema educativo e dai mezzi di informazione.

Abbiamo visto la società israeliana diventare povera e in stato di abbandono, fino a quando la chiamata alla violenza è diventata uno sfogo per molti, adulti e giovani senza distinzioni, in tutte le sue forme.

Abbiamo visto come l’essere “ebreo” sia stato totalmente svuotato di significato, e radicalmente ridotto a nazionalismo, militarismo, una lotta per la terra, odio per i non-ebrei, vergognoso sfruttamento dell’Olocausto e dell’“Insegnamento del Re (Davide, ndt)”.

Più di ogni altra cosa, siamo stati testimoni di come lo Stato di Israele, attraverso i suoi vari governi, ha approvato leggi razziste, messo in atto politiche discriminatorie, si è adoperato per custodire con forza il regime di occupazione, preferendo la violenza e le vittime da ambo le parti ad un accordo di pace.

Le nostre mani sono impregnate di questo sangue, e vogliamo esprimere le nostre condoglianze e il nostro dolore alla famiglia Abu Khadr, che sta vivendo una perdita inimmaginabile, e a tutta la popolazione palestinese.

Ci opponiamo alle politiche di occupazione del nostro governo, e siamo contro la violenza, il razzismo e l’istigazione che esiste nella società israeliana.

Rifiutiamo di lasciare che il nostro ebraismo venga identificato con questo odio, un ebraismo che include le parole del rabbino di Tripoli e di Aleppo, il saggio Hezekiah Shabtai che ha detto: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Levitico, XVIII).

Questo amore reciproco non si riferisce soltanto a quello di un ebreo verso un altro, ma anche verso i nostri vicini che non sono ebrei. E’ un amore che ci insegna a vivere con loro e insieme a loro perseguire il benessere e la sicurezza. Non è soltanto il buonsenso che ce lo richiede, ma è la Torah stessa, che ci ha ordina di condurre la vita in modo armonioso, nonostante e contro le azioni dello Stato e le parole dei nostri rappresentanti di governo.

Le nostre mani grondano di sangue.

Per questo ci impegniamo a continuare la nostra battaglia all’interno della società israeliana – ebrei e palestinesi – per cambiare la società dal suo interno, per lottare contro la sua militarizzazione e per diffondere una consapevolezza che oggi risiede soltanto in una esigua minoranza.

Lotteremo contro la scelta di muovere ancora guerre, contro l’indifferenza nei confronti dei diritti e delle vite dei palestinesi, e il continuo favorire gli ebrei in tutto questo ciclo di violenza.

Dobbiamo combattere per offrire un legame umano– un legame che sia anche politico, culturale, storico, israelo-palestinese ed arabo- ebraico; un legame che può essere raggiunto attraverso la storia di molti di noi che hanno origini ebraiche ed arabe, e per questo, fanno parte del mondo arabo.

La nostra scelta è quella della lotta per l’uguaglianza civile e il cambiamento economico, in nome dei gruppi emarginati e oppressi nella nostra società: arabi, etiopi, mizrahim (di discendenza araba), donne, religiosi, lavoratori migranti, rifugiati, richiedenti asilo e molti altri.

Di fronte a questa situazione il lato più forte è quello che ha la capacità di usare la nonviolenza per abbattere il regime razzista e il vortice di violenza. Di fronte alla compiacenza di molti israeliani, cerchiamo e scegliamo la nonviolenza, mentre gli altri preferiscono permettere al regime di ingiustizia di rimanere saldo al proprio posto, e aspettano soluzioni che in qualche modo fermino la spirale infinita di violenza – che mostra la sua faccia ora in questa nuova guerra contro Gaza – soltanto per avere nuove morti e appelli alla vendetta da ambo le parti e allontanando un possibile accordo sempre più lontano.

Le nostre mani grondano di sangue, e il nostro desiderio è quello di creare una lotta congiunta con qualsiasi palestinese che voglia unirsi a noi contro l’Occupazione, contro la violenza del nostro regime, contro il disprezzo dei diritti umani.

Questa sarà una lotta per mettere fine all’Occupazione, o con l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente o attraverso la creazione di uno Stato unico in cui tutti saremo cittadini di pari diritti e dignità.

Le nostre mani sono piene di questo sangue. Affermandolo così forte nella nostra società saremo sempre accusati dalla propaganda nazionalista di essere unilaterali, e di condannare soltanto i crimini israeliani e non quelli commessi dai palestinesi.

A queste persone noi rispondiamo così: colui che sostiene o giustifica l’uccisione dei palestinesi, supporta e incoraggia di conseguenza anche l’uccisione degli israeliani ebrei. E viceversa. La giostra della violenza è grande e si muove velocemente, ma noi ci opponiamo ad essa, e crediamo che l’unica soluzione sia la nonviolenza.

 

Andare contro i metodi di Netanyahu non significa necessariamente sostenere Hamas: la realtà non è dicotomica. Altre opzioni esistono nell’asso tra questi due. Allora sottolineiamo ancora di più che siamo cittadini israeliani e il centro della nostra vita è Israele. Per questo la nostra più grande critica è rivolta alla società israeliana, che cerchiamo di cambiare.

Questi assassini si nascondono tra di noi, fanno parte di noi. Ci sono, ovviamente, spazi in cui si possono criticare anche le altre società. Ma crediamo, ciononostante, che il dovere di ogni persona sia di esaminare prima da vicino e in modo critico la propria società, e solo dopo si possa permettere di approcciarsi alle altre (…).

Le nostre mani grondano di questo sangue, e sappiamo che la maggior parte dei palestinesi innocenti uccisi negli ultimi 66 anni da noi israeliani ebrei non hanno mai ricevuto giustizia.

I loro assassini non sono stati arrestati, neanche processati, a differenza dei ragazzi sospettati per l’omicidio di Mohammed. La maggior parte di questi innocenti è morta per mano di uomini in uniforme mandati dal governo, dai militari, dalla polizia o dallo Shin Bet.

Questi omicidi, avvenuti per mezzo di aerei, artiglieria o di persona vengono definiti come “errori umani” o “problemi tecnici”. E quando ci si riferisce ad essi a volte si include soltanto una fiacca scusa. La maggior parte dei casi viene raramente posta sotto inchiesta e quasi tutti finiscono senza rinvii a giudizio, dissolvendosi nell’aria. Tanti, troppi sono ignorati dai media, dalle agenzie giudiziarie, dall’esercito.

La ragione per cui i sospettati della morte di Mohammed sono stati arrestati è semplice: non portavano un’uniforme.

Ad eccezione dei soldati condannati per il massacro di Kafr Qasam nel 1956 e rimasti in prigione per non più di un anno, raramente ci sono stati altri processi nelle Corti israeliane contro uomini dello Stato, anche per la maggior parte degli odiosi massacri a cui questa terra ha assistito.

Quando Benjamin Netanyahu esprime le sue condoglianze e condanna l’omicidio di Mohammed, lo fa con lo stesso respiro di sempre, comunicando una rivendicazione pericolosa e razzista sulla superiorità morale di Israele nei confronti dei suoi vicini.

“Non c’è posto per simili assassini nella nostra società. In questo noi ci distinguiamo dai nostri vicini. Nelle loro società questi assassini sono visti come eroi e hanno delle piazze dedicate ai loro nomi. Ma questa non è l’unica differenza. Noi perseguiamo coloro che incitano all’odio, mentre l’Autorità Palestinese, i loro media ufficiali e sistema educativo fanno appello alla distruzione di Israele”.

Netanyahu ha dimenticato che diverse persone sospettate di essere criminali di guerra hanno servito in vari governi israeliani, alcuni sotto la sua stessa leadership, e che il numero di persone innocenti assassinate negli ultimi 66 anni di conflitto dipinge un quadro molto diverso.

Quando guardiamo il numero di ebrei israeliani e di palestinesi uccisi, vediamo che il numero dei palestinesi è molto più elevato.

Netanyahu dimentica anche, o cerca di farci dimenticare, l’incitamento diffuso propagato dal suo governo nelle ultime settimane, e le sue parole di vendetta dopo la scoperta dei corpi dei tre ragazzi ebrei rapiti – Gilad Shaar, Naftali Fraenkel ed Eyal Yifrah – quando tutti noi eravamo in stato di profondo shock: “Satana non ha ancora inventato una vendetta per il sangue di un bambino, né per il sangue di questi ragazzi giovani e puri” (…).

Le nostre mani hanno sparso questo sangue, e invece di dichiarare giorni di digiuno, lutto e pentimento, il governo ha ora deciso di lanciare un’operazione militare a Gaza, che ha chiamato “Operazione Bordo Protettivo”.

Chiediamo al governo di fermare questa operazione subito e di lottare per una tregua e per un accordo di pace, a cui il governo israeliano si è sempre opposto negli ultimi anni.

Gaza è la storia di tutti noi; è anche l’oblio della nostra storia. E’ il posto più segnato dal dolore in Palestina e in Israele (…). Gaza è la nostra disperazione.

Le nostre origini comuni sembrano essere state spazzate via sempre più lontano: dopo 40 anni di possibilità di un compromesso storico doloroso tra i due movimenti nazionali, quello palestinese e quello sionista, questa opzione è gradualmente evaporata. Il conflitto viene reinterpretato in termini mitologici e teologici, in termini di vendetta, e tutto ciò che ora possiamo promettere ai nostri figli sono molte altre guerre per le generazioni a venire, nuove uccisioni tra entrambi i popoli, e la costruzione di un regime di apartheid che richiederà ancora più decenni per essere smantellato.

Le nostre mani hanno sparso questo sangue(…), cerchiamo di lavorare contro questa tendenza. Lo facciamo attraverso le varie comunità della nostra società: ebrei e palestinesi, arabi e israeliani, Mizrahi e Ashkenazi, tradizionalisti, religiosi, laici e ortodossi.

Abbiamo scelto di opporci ai muri, alle separazioni, alle espropriazioni e deportazioni, al razzismo e alla colonizzazione, per offrire un futuro comune come alternativa all’attuale stato depressivo, oppressivo e violento della nostra società.

Vogliamo costruire un avvenire che non si arrenda al ciclo di violenza e di vendetta, ma che al suo posto offra la giustizia, la riparazione, la pace e l’uguaglianza; un futuro che attinge agli elementi comuni della nostra cultura, umanità e tradizioni religiose in modo che le nostre mani non serviranno più a spargere sangue, ma a ricongiungerci l’uno con l’altro in pace, con l’aiuto di dio, Insha’Allah.f50e1d609a50a41c5a0f6a7067007f65-kWlD-U430201236893097IbH-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443

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