anche oggi il suo femminicidio

 

 

credere di far bene

ancora donne uccise, ancora cadaveri, ancora femminicidi, ancora donne che l’Italia non riesce a difendere dall’ ‘more violento e cieco’ dei maschi

sembra che ogni giorno ci riservi la sua pena e la sua tragicità

così Michela Marzano nel bell’articolo odierno su ‘La Repubblica’:

 

 

NON BASTA UN DECRETO

(MICHELA MARZANO).

 

Cristina, Erika e le altre quelle vittime innocenti che l’Italia non sa proteggere.
La strage.

IL CORPO di Lucia Bellucci è stato trovato chiuso nell’auto dell’ex fidanzato. L’ennesimo cadavere. L’ennesimo femminicidio.

UN’ENNESIMA tragedia che — come si dice sempre dopo — forse si poteva evitare. Dopo, sì. Se Lucia avesse denunciato l’ex compagno. Se la sua denuncia per stalking fosse stata ascoltata davvero. Se, soprattutto, le vittime fossero realmente protette. Ma le loro storie, così diverse, hanno spesso una solitudine in comune. Cristina Biagi, uccisa a Massa dall’ex marito il 28 luglio scorso, aveva sporto denuncia per stalking. Esattamente come Erika Ciurlo, assassinata a Taurisano il 29 luglio. L’aveva fatto anche Tiziana Rizzi, accoltellata in provincia di Pavia l’8 luglio e Marta Forlan, uccisa con diversi colpi di arma da fuoco in provincia di Cuneo. Sono donne e ragazze che, anche dopo aver denunciato i propri mariti, compagni, amanti ed ex, continuano a morire non solo a causa della gelosia, della smania di possesso e della violenza insopportabile degli uomini, ma anche per colpa della mentalità e dell’inefficienza di un paese che non riesce ancora a trovare un modo per ascoltarle, aiutarle e proteggerle. Ormai è quasi ogni due giorni che, in Italia, si registra un femminicidio: sono 78 dall’inizio dell’anno. Nonostante le denunce. Nonostante la legge contro lo stalking in vigore dal 2009 e tutte le altre misure recentemente adottate.
Certo, l’8 agosto, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto che riguarda proprio la lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Certo, questo nuovo decreto, che la Presidente della Camera ha annunciato di voler incardinare in Aula tra il 19 e il 20 agosto, prevede querele irrevocabili nei confronti degli uomini violenti, arresti obbligatori per maltrattamento e stalking, molteplici aggravanti nei confronti dei coniugi e compagni, processi più rapidi verso i presunti colpevoli. Ma si può anche solo immaginare che la repressione possa permettere di risolvere questa piaga contemporanea? Non è solo con un decreto che si possono proteggere veramente le vittime della violenza maschile e prevenire tragedie come quelle cui si sta assistendo impotenti da ormai troppo tempo.
Il dramma delle violenze contro le donne è sintomatico di una società che ha ormai perso tutta una serie di parametri di riferimento. Non è solo una questione di ignoranza e di non-rispetto delle regole della civiltà. È anche e soprattutto un problema di immaturità e di narcisismo. Sono troppi coloro che, insicuri e forse bisognosi di affetto, considerano come un proprio diritto impossessarsi dell’altro e di trasformarlo in un oggetto. Sono troppi coloro che, respinti e allontanati, vivono il rigetto con rancore e risentimento, come se il semplice “no” di una donna li svuotasse di senso. Ecco perché non si tratta di un problema solo legato al tradizionalismo maschilista del passato, ma anche alla fragilità identitaria dell’uomo contemporaneo. Al giorno d’oggi, gli uomini violenti appartengono a qualunque classe sociale e ceto, e alcuni sono anche celebri professionisti. Non conta né il rango sociale, né la situazione economica. Conta la loro incapacità di sopportare la perdita, come se il semplice fatto di perdere la propria donna significasse una perdita d’identità. Il dramma della violenza non lo si può solo combattere con il rigore delle leggi — anche se le denunce per stalking dovrebbero implicare una reale protezione delle vittime, impedendo per esempio il contatto con gli uomini che le hanno minacciate. Non ci si può solo limitare ad annunciare pene più severe, perché nonostante il carattere dissuasivo delle pene non è mai la legge che ha potuto impedire l’esistenza di crimini e delitti. Per contrastare le violenze contro le donne, c’è bisogno di ripensare anche le relazioni umane.
La violenza non la si può eliminare del tutto. Ma la si può e la si deve contenere. E per farlo, la chiave è e sarà sempre l’educazione. Per far capire a tutti e tutte, fin da piccoli, che il proprio valore è intrinseco e non strumentale; che ogni persona, a differenza delle cose che hanno un prezzo, non ha mai un prezzo ma una dignità; che la dignità non dipende da quello che gli altri pensano di noi, da quello che gli altri ci dicono o meno, da quello che gli altri ci fanno. Non si può combattere la violenza se non si educano le donne alla consapevolezza del proprio valore e della propria libertà. Esattamente come non si può combattere la violenza se non si educano gli uomini alla consapevolezza del valore e della libertà altrui.

Da La Repubblica del 13/08/2013.

s. anna di stazzema 12 ag. 1944: quella notte morì l’umanità intera

gigli

 

Sono trascorsi 69 anni da quella terribile mattina del 12 agosto del 1944 quando in un piccolo borgo arroccato sulle Alpi Apuane la furia nazista uccise 560 civili di cui 130 bambini. Le atrocità commesse dalle SS furono sconvolgenti. Giunsero a far partorire una donna, Evelina, e prima di ucciderla, dinanzi ai suoi occhi, spararono alla tempia del figlioletto. Furono trovati ancora uniti dal cordone ombelicale.
Quella mattina di 69 anni le SS, guidate da alcuni fascisti locali, a Sant’Anna portarono l’inferno in un luogo che si riteneva fosse lontano dai venti di guerra. Ma quel giorno oltre all’eccidio delle 560 vittime, avvenne un crimine ancora maggiore che è la morte dell’uomo, della sua umanità. Un crimine, o meglio un suicidio, che la storia ci ricorda troppe volte accadere, basti pensare ai campi di concentramento, alle tante guerre che incendiano il mondo. L’atrocità di certi atti è difficile da elaborare e così si commette l’errore di non ricordarla, è come se si innescasse nella mente un meccanismo di difesa. Freud sosteneva: “La mente allontanerà sempre, ancorché inconsciamente, la realtà dolorosa”. La realtà è che troppo doloroso concludere che in potenza ognuno di noi, se inserito in ideologie malvagie, se cresciuto in sistemi di violenza , può trasformarsi in un mostro. Ma la storia dovrebbe servire proprio a indicarci delle linee da seguire per evitare certe deviazioni. Purtroppo questo non sempre accade e l’uomo necessita di rivivere certe brutalità, spesso, invece di proporre dei modelli diversi alle violenze che si è subito, le vittime diventano carnefici. QUELLO CHE sta patendo il popolo palestinese ne è un’aberrante prova. Per le recenti guerre che ci hanno visti anche direttamente coinvolti come in Iraq e Afghanistan, addirittura ci si erige a paladini della libertà e con questo vessillo si bombardano Paesi, si spolpano di ricchezze territori uccidendo migliaia di civili. Per non parlare poi dell’ipocrisia, anche violando l’articolo 11 della Costituzione, allorquando si parla di missioni di pace. L’ultima, in ordine di tempo, uccisione di un soldato italiano raccoglie questa incongruenza in una foto di Repubblica in cui una frase di un conoscente del caduto affermava in virgolettato che quest’ultimo era un portatore di pace, che amava la pace e in basso c’era la foto di un nostro militare armato fino ai denti pronto all’assalto. Su questo occorre essere chiari: la pace, quella vera, la si conquista con il paziente dialogo, seminando il bene e non con le armi! È fondamentale, specie per i più giovani, tenere viva la memoria. Ma ancora più importante è insegnare ad attualizzare ciò che è successo 69 anni fa, capire oggi dove, in che forme e per quali motivi si eserciti il male della guerra. Occorre capire insieme ai giovani il perché siamo così succubi dei potentati militari tanto che, nel nostro Paese, investiamo quotidianamente 70 milioni di dollari in armamenti e dobbiamo acquistare dei cacciabombardieri difettosi per i quali ogni singolo casco costa due milioni di dollari. Occorre capire perché questo Sistema mondiale investa ogni anno 1.753 miliardi di dollari in armamenti quando ne basterebbero circa 40 per porre fine alla fame nel mondo. Alla nuova generazione deve essere chiaro che le armi come deterrente e la guerra per accaparrarsi sempre crescenti risorse, per questo Sistema neoliberista, sono linfa vitale. Questo Sistema della crescita infinita in un mondo finito è portatore sano di ineguaglianze come mai si sono avute in passato (ogni anno muoiono circa 50 milioni di persone per fame). Se non si cambia questo Sistema le ricorrenze per ricordare il male di ieri saranno solo sterili cerimonie per ripulirsi l’anima dei crimini di oggi.

“anche voi tenetevi pronti” lc 12

 

 

cuore di margherita

p. Alberto Maggi commenta il brano di Luca della liturgia domenicale di domani !9° domenica del tempo ordinario

 

Lc 12,32-48
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. [Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». ]
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi.
Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».
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Tutti i Vangeli hanno un respiro eucaristico. Cosa significa? Che l’eucaristia è al centro dell’azione, del pensiero e della linea teologica dell’evangelista, perché l’eucaristia è il momento importante, prezioso e indispensabile per la vita e per la crescita della comunità.
C’è nel Vangelo di questa domenica una perla preziosa con la quale Luca ci indica che cos’è l’eucaristia. Che cos’è l’eucaristia?
L’eucaristia non è un culto chela comunità dei credenti offre a Dio, ma al contrario è il momento in cui la comunità di credenti accoglie un Dio che si offre a loro. Sentiamo l’evangelista in questo brano molto importante dove Gesù invita alla piena fiducia nel Padre, così come presenta l’eucaristia. Gesù invita ad essere pronti “con le vesti strette ai fianchi”, che significa azione, disponibilità, servizio. Quando ci si doveva mettere a servizio ci si cingeva le vesti ai fianchi.
Dice poi “«Siate simili a quelli che aspettano il loro padrone»”, è il termine greco Kyrion, qui signore, “«quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito»”. Ebbene, scrive l’evangelista, “«Beati»”, quindi pienamente felici, “«quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli»”.
Quindi quelli che, quando si presenta il signore sono in servizio – non sono servi del signore, sono coloro che liberamente mettono la propria vita a servizio degli altri – Gesù li chiama beati. Perché? La logica sarebbe: se il padrone torna a casa e trova i servi ancora svegli si farà servire. Invece ecco la novità clamorosa portata da Gesù, “«In verità vi dico»”, quindi assicura qualcosa di importante, “«si stringerà le vesti ai fianchi»”.
Abbiamo detto che stringersi le vesti è segno del servizio. Ecco, Dio, il Signore, è colui che si presenta con la caratteristica del servizio, non come un padrone che chiede di essere servito dai suoi servi, ma come un signore che si mette a fare il servo, perché quelli che sono considerati tali si sentano liberi.
“«Li farà mettere a tavola e passerà a servirli.»” Ecco che cos’è l’eucaristia, il momento importante, prezioso, indispensabile, in cui la comunità di quanti, liberamente, hanno messo la propria vita a servizio del bene degli altri, vengono fatti riposare dal Signore, che passa lui stesso a servirli, cioè a ricaricarli con la sua stessa energia vitale, comunicando loro vita.
Questo è il significato dell’eucaristia.
E, continua Gesù, “«Se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverò così, beati loro!»” Cioè l’atteggiamento del credente è sempre quello del servizio. Dove c’è il servizio il Signore collabora con il suo Spirito. Quindi a chi serve il Signore comunica le sue energie.
Ma c’è Pietro che, come al solito, si dimostra preoccupato e chiede “«Signore, questo lo dici per noi o per tutti?»” cioè, tutti devono servire o siamo soltanto noi? Allora Gesù ha questo richiamo, rivolto a Pietro, ma riguarda tutta la comunità, “«Chi è dunque l’economo fedele»” – è questo il termine che l’evangelista ha adoperato – “«che il signore metterà …»” – non a capo,
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nella comunità cristiana non ci sono persone a capo di altre – “«… sulla sua servitù per dare la razione del cibo»”.
Quindi Gesù non mette nessuno al di sopra degli altri ma incarica di comunicare vita. Questo è l’insegnamento del credente. Allora nell’eucaristia il Signore si fa pane perché quanti lo accolgono siano poi capaci di farsi pane per gli altri.
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“Dio è diverso dai padroni”

dente di leone

omelia di don Angelo Casati in  commento alle letture della liturgia della domenica 19° del tempo ordinario e del vangelo: Lc 12, 32-48

 

Nel cuore dell’estate tre parabole dal Vangelo di Luca che invitano alla vigilanza. Apparentemente sembrano fuori tempo; noi siamo soliti collocarle nei giorni dell’Avvento, giorni che ci parlano degli accadimenti dell’ultima ora, delle ultime cose.

E forse c’è una ragione se Luca, a differenza di Matteo, colloca queste parabole dentro le istruzioni del viaggio, quasi a dire che la vigilanza è dimensione permanente, appartiene al viaggio, a tutte le ore del viaggio.

E’ un’opinione personale, e quindi discutibile, ma a me sembra che proprio d’estate andrebbe raddoppiata la vigilanza, perché d’estate, quando l’attenzione di un popolo è meno vigile, si tentano a volte operazioni di una gravità estrema.

E vorrei iniziare la riflessione dalla prima delle parabole, quella che riguarda i servi nell’assenza del padrone, i servi ai quali viene raccomandata, con immagini ricche di fascino, la vigilanza. Ecco le immagini: la notte, la cintura ai fianchi, le lampade accese.

La notte: la venuta del Signore, la sua incessante venuta, i suoi appelli, i suoi inviti sono dentro le nostre notti, quando è buio, quando non è tutto così chiaro, dentro l’incertezza, l’imprevedibilità della vita.

Penso che tutti voi abbiate colto la bellezza, la poeticità, la suggestione del testo della Sapienza che oggi abbiamo ascoltato, testo in cui gli ebrei ricordano la loro grande notte: “la notte della liberazione desti al tuo popolo, Signore, una colonna di fuoco, come guida in un viaggio sconosciuto, e come un sole innocuo per il glorioso emigrare”.

Glorioso emigrare: bellissimo! Dov’era la gloria? Partire di notte? Guadare il fiume? Camminare quarant’anni?

Glorioso emigrare, perché era il viaggio verso la libertà, lontano dai faraoni, fuori da un servire da schiavi.

Vigilanti, voi mi capite, era notte: pronti a cogliere bagliori di libertà, di liberazione, smascherando i sintomi, spesso nascosti, di una perdita di libertà, smascherando l’avvento dei nuovi, truccati, seducenti faraoni.

“Cinti i fianchi”: l’abito di chi parte, e l’abito di chi lavora, di chi non vuole essere impedito nel viaggio e nel lavoro.

E’ la partenza – dicevamo – per un viaggio di libertà, per un lavoro – aggiungiamo – che non potrà mai essere un lavoro servile, un lavoro da schiavi, perché da questo Dio ti conduce fuori, come dal paese d’Egitto.

Dio è diverso dai padroni: Dio si assenta, Dio lascia a te questa casa, questa terra, queste cose. Le lascia alla tua responsabilità: non vuole schiavi.

Ha rovesciato – bellissimo – l’immagine stessa del padrone, l’ha rovesciata per quanto lo riguarda. L’ha rovesciata nella parabola. E non dite più che Dio è un padrone. E’ un Signore. Ha rovesciato l’immagine del padrone, cingendo lui i suoi fianchi, mettendosi lui a servire. Gesù ha lavato i piedi ai discepoli, come fa il servo. Ma per amore.

E proprio per questo, perché non vuole più faraoni, e lui ci ha dato l’esempio: la cosa che Dio non sopporta, non potrà mai più sopportare né nella chiesa né nella società civile, è che qualcuno approfitti della sua assenza per farla da padrone.

C’è nella parabola una dura condanna per l’amministratore che approfitta del ritardo del Signore per percuotere, mangiare, bere, ubriacarsi. No. L’autorità gli era stata conferita per distribuire armoniosamente. Se viene usata per interesse personale o per altri fini, trova nella parabola la sua condanna. Cinti i fianchi.

“Prenditi cura” -è un verbo evangelico- prenditi cura delle cose di ogni giorno, delle relazioni di ogni giorno, della casa, della strada, della città, delle occupazioni, dei volti di ogni giorno, come se a te fossero stati affidati dal Signore, prima di partire. Ritornerà.

E, infine, le lucerne accese.

Se è vero che il nostro è un andare nella notte, se è vero che gli accadimenti della vita non sono di così facile né immediata interpretazione, se è vero che discernere i segni dei tempi è compito a volte arduo, importanti diventano le lucerne nella notte.

Dio aveva dato al suo popolo ” una colonna di fuoco come guida in un viaggio sconosciuto”.
Oggi, rileggendo le immagini, mi ritornava al cuore la preghiera nel salmo: “lampada ai mie passi è la tua parola, Signore” (Sl. 119,105).

Chiediamoci più spesso che cosa dice non il tale opinionista o quell’altro, ma la parola di Dio. E sia luce, luce critica, luce di giudizio, luce di accompagnamento del viaggio sconosciuto.

L’evangelista Luca, proprio nel capitolo precedente al nostro, parlava di questa luce interiore:

“Stai attento” – diceva Gesù – “che la tua luce non diventi tenebra. Se dunque tu sei totalmente nella luce, senza alcuna parte nelle tenebre, allora tutto sarà splendente, come quando una lampada ti illumina con il suo splendore” (Lc 11,35-36).

anche i colpevoli conservano il diritto al rispetto

 

 

 

belle margherite

capita sempre più spesso a  persone (in genere di scarsa reputazione) entrare in una caserma per essere interrogate ed uscirne malconce o addirittura morte

il giorno dopo si legge sul giornale che due o tre forze dell’ordine sono state collocate altrove (solo quando la cosa ha fatto scalpore) e tutto finisce lì

purtroppo uno stato di diritto non può sottovalutare questo perché in uno stato di diritto le forze dell’ordine hanno il dovere di garantire la sicurezza di tutti i cittadini

M. Marzano dedica una bella riflessione sui diritti anche dei colpevoli:

I diritti dei colpevoli

 

di Michela Marzano

Che in uno Stato di diritto le forze dell’ordine abbiano il dovere di garantire la sicurezza di tutti i cittadini e il vivere insieme collettivo è fuori discussione. Soprattutto in un periodo di crisi non solo economica ma anche sociale e morale come la nostra, un’epoca in cui i crimini e i delitti contro le persone non cessano di aumentare e la cronaca è scandita quasi quotidianamente da fatti di sangue. È possibile però che queste stesse forze dell’ordine non siano poi in grado di garantire anche l’incolumità dei presunti colpevoli? Come si spiegano gli incidenti che si sono verificati in questi ultimi anni durante l’arresto o l’incarcerazione di alcuni detenuti? È possibile che, in nome del diritto alla sicurezza dei cittadini, alcune persone perdano automaticamente i propri diritti? «Al di là di quello che ha commesso un soggetto, la vita è sacra», ha affermato ieri il Procuratore di Sanremo, Roberto Cavallone, commentando i risultati dell’autopsia del giovane tunisino morto in giugno a Santo Stefano al Mare, poco dopo essere stato fermato e portato in una caserma dei carabinieri. Era stato bloccato mentre spacciava in una piazza di Riva Ligure e, dopo aver tentato di fuggire, aveva resistito all’arresto. Il che spiegherebbe la colluttazione violenta con i carabinieri e il fatto che l’uomo sia stato poi schiacciato a terra. Spiegherebbe, ma non giustificherebbe: perché si trattava di un essere umano. Colpevole, molto probabilmente; clandestino, quasi sicuramente: ma non per questo privato di ogni diritto. Talvolta sembra installarsi, anche in un paese come l’Italia che fa della difesa dei diritti umani una delle proprie bandiere, una sorta di “doppia morale”: da un lato, ci sarebbero tutti coloro che meritano rispetto e protezione; dall’altro lato chi, infrangendo la legge, diventerebbe automaticamente meno degno di rispetto. Una “doppia morale” che finisce poi con il contraddire le premesse stesse che fondano il vivere-insieme collettivo. Come si può difendere uno Stato di diritto quando i princìpi stessi del diritto vengono cancellati? Come si può anche solo immaginare di essere garanti della civiltà quando si calpestano i diritti di chi, non rispettando le regole deve certo assumersi la responsabilità dei propri gesti, ma non per questo può poi essere trattato senza precauzione? Parlando delle difficoltà che incontrano i medici quando si trovano di fronte ad un paziente, il filosofo francese Georges Canguilhem spiegava che il solo modo per prendersi cura di un malato è “curare tremando”. Quando si ha a che fare con la vita umana, infatti, le certezze vengono meno, e si può solo cercare di compiere il “male minore”. Mutatis mutandis, si potrebbe dire che anche le forze dell’ordine dovrebbero imparare a garantire la sicurezza e l’incolumità dei cittadini “tremando”. Senza quindi mai dimenticarsi che, dietro ad ogni crimine ed ogni delitto, c’è sempre un essere umano. Deve essere estremamente complicato far rispettare la legge e proteggere la sicurezza dei cittadini. Talvolta deve essere drammatico farlo, sapendo che può succedere qualunque cosa non appena si abbassa la guardia. Ma si dovrebbe farlo sempre sapendo che la giustizia, per definizione, non è vendicativa e che la protezione degli uni, non implica mai il non-rispetto degli altri. Come ha spiegato più volte Albert Camus parlando della barbarie della tortura, non si può voler difendere la civiltà quando ci si comporta in modo incivile. Si rischia di fare esattamente come coloro da cui ci si vorrebbe difendere.

lettera a papa Francesco

il papa

Arnaldo ‘presbitero’ scrive al papa all’indomani della GMG per ringraziarlo della sua presenza e il suo messaggio di speranza

scrive anche per invitarlo a riflettere su alcuni aspetti che effettivamente hanno rappresentato il limite di impostazione di questa giornata

davvero un’ottima opportunità di riflessione!

Caro Papa Francesco,

pace e bene!

Ti scrivo oggi, lunedì 29 di luglio 2013 in cui la Chiesa fa la memoria di Santa Marta, e tu sei tornato a Santa Marta, in Vaticano. Vorrei aiutarti in una riflessione sulla Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro 2013, che è appena terminata. E’ stata una settimana di grazia, di incontri, di evangelizzazione, di preghiera, di sacrifici, perfino di silenzi e contemplazione. Di tutto questo vogliamo ringraziare il Signore, datore di tutti i beni.
Voglio anche ringraziare te, che hai salvato la GMG con i tuoi messaggi, evitando che la settimana fosse uno show della fede. Dico questo perché i cristiani più impegnati e attenti sono stanchi di assistere ai vari show della fede – tanto cattolici come evangelici – che passano in tv.
E qui mi permetto di accennare ai lati d’ombra della GMG.
– I nostri vescovi hanno subappaltato la GMG ai movimenti ecclesiali (rinnovamento dello spirito con i padri cantautori, neocatecumenali…) che, rispondendo a un tempo caratterizzato dal pentecostalismo (e dall’era dell’acquario?), sono rampanti, pieni di entusiasmo. Essi, in tempo di globalizzazione, dove l’omissione dei governi porta al fai-da-te, mostrano che molto si può fare collocando piena fiducia in Gesù Cristo e riunendosi (pur senza unirsi). Così essi trasmettono gioia e speranza. E “convertono”. Ma i movimenti non sono tutta la Chiesa cattolica brasiliana.
– Con il monopolio dei movimenti, abbiamo avuto una GMG che ha fatto di Rio un no-logo, uno spazio neutro. La settimana poteva essere trasferita senza ritocchi in qualsiasi altra metropoli. C’è stata, sì, l’accoglienza calorosa, e poi il mare, il Corcovado, la favela, ma del popolo brasiliano non c’era traccia. Qual è la realtà sociale, che coinvolge la gioventù brasiliana? Nell’intervista per la Globo, tu stesso ti sei scusato dicendo che non sapevi perché i giovani brasiliani stanno da un mese e mezzo protestando, in tutte le città. Non c’è stata la presenza delle culture di cui il Brasile è un crogiulo. Non ci sono stati momenti per una presenza forte di indios, afro-brasileiros, donne (così importanti per il Brasile), nuovi immigrati… Anche le espressioni artistiche del Brasile sono state ignorate. Era tutto secondo la mega-cultura post-moderna, come evento mondiale globalizzato.
– La chiesa tradizionale e la religiosità popolare – caratteristiche della realtà brasiliana – sono state presenti solo nella devozione affettuosa a Maria (nb. l’adorazione al Santissimo in Brasile è stata introdotta col progetto di romanizzazione). Certi canti popolari – passati e recenti – avrebbero “incendiato” i tre milioni di giovani (p.e. Jesus Cristo eu estou aqui di Roberto Carlos e Erasmo C). Sappiamo infatti che i canti pentecostali sono individuali-e-di-massa, ma non di comunità.
– Anche più grave è stata l’esclusione della chiesa profetica brasiliana. A partire dalla fine degli anni sessanta, c’è stata una primavera della Chiesa in Brasile e nell’America Latina: l’opzione per i poveri, le Comunità Ecclesiali di Base (CEBs) e la teologia della liberazione, considerate una pentecoste. Adesso pentecoste sono i movimenti carismatici. Eppure, i vescovi in Aparecida, nella V Conferenza Latinoamericana hanno rilanciato le CEBs e i documenti più recenti della CNBB parlano di urgenze come: fare della parrocchia una comunità di comunità, e impegnarsi nella difesa della vita (impegno socio-politico). L’esclusione della chiesa profetica è stata un retrocesso politico per nulla evangelico.
– Mi fermo qui senza entrare nei temi dell’ecumenismo e della propria strategia dei “mega eventi”, come questo, che possono essere provvidenziali ma anche nutrire illusioni.
Francesco, ho perfino pensato che quando tu eri serio, forse lo eri non a motivo della stanchezza ma della perplessità. Non voglio dire che tu fosti strumentalizzato, non permetteresti mai. In te sono evidenti l’immediatezza, la sincerità, la semplicità creativa dei gesti e delle parole… Ma – voglio essere sincero, non irritarti della mia impertinenza – la tua sensibilità sociale arriva alla solidarietà della carità e alla proposta di promozione umana. C’è anche la denuncia contro la dittatura del denaro. Ma non trovo messaggi sul cambiamento delle strutture di peccato. Dirai che segui la spiritualità francescana (e lucana) di rivoluzionare senza volere lo scontro; ma non puoi dimenticare la spiritualità martiriale (e giovannea) in situazione di grave conflitto e ingiustizia.
Tutto questo ho voluto scriverti per tolgliermi un peso dalla coscienza. Chiedi tanto di pregare per te e prometto che lo farò. Il Signore ti benedica e ti protegga. Memento.
Arnaldo, presbitero.

l’ Italia è un paese malato di mente: parola di V. Andreoli

 

gigliI

 

 

ll professor Vittorino Andreoli: “L’Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti”

 

“L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?
“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.

Mi faccia capire questa storia della maschera.
“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.

Esibizionisti.
“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.
“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.

Secondo sintomo.
“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?
“La recita”.

La recita?
“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.

Che fanno gli inglesi?
“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.

Torniamo ai sintomi, professore.
“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.

Con la fede non si scherza.
“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.
“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.

E allora?
“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.

Scherza o dice sul serio?
“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?
“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.

E lei, perché non se ne va?
“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.

Grazie della seduta, professore.
“Prego”.

la saggezza di Socrate

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Nell’antica Grecia Socrate aveva una grande reputazione di saggezza. Un giorno venne qualcuno a trovare il grande filosofo, e gli disse:

– Sai cosa ho appena sentito sul tuo amico?

– Un momento – rispose Socrate. – Prima che me lo racconti, vorrei farti un test, quello dei tre setacci.

– I tre setacci?

– Ma sì, – continuò Socrate. – Prima di raccontare ogni cosa sugli altri, è bene prendere il tempo di filtrare ciò che si vorrebbe dire. Lo chiamo il test dei tre setacci. Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è vero?

– No… ne ho solo sentito parlare…

– Molto bene. Quindi non sai se è la verità. Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di buono?

– Ah no! Al contrario

– Dunque, – continuò Socrate, – vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere. Forse puoi ancora passare il test, rimane il terzo setaccio, quello dell’utilità. E’ utile che io sappia cosa mi avrebbe fatto questo amico?

– No, davvero.

– Allora, – concluse Socrate, – quello che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile; perché volevi dirmelo?

Se ciascuno di noi potesse meditare e metter in pratica questo piccolo test… forse il mondo sarebbe migliore.

dice un’ovvietà, imprudentemente: ne approfittano per smantellare sentenze definitive

 

 

 

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il giudice Esposito, il presidente del tribunale  della Cassazione che il 1° di agosto ha emesso la sentenza di condanna definitiva di Berlusconi, pensava di fare un piacere ai vecchio amico giornalista concedendogli un’intervista

 

una buona ricostruzione del fatto nell’articolo di M. Lillo sul fatto quotidiano odierno:

 

NON È CHE NON POTEVA NON SAPERE” È LA FRASE DELLA POLEMICA PRONUNCIATA DAL GIUDICE ANTONIO ESPOSITO AL “MATTINO”.

Pensava di fare un bel dono al vecchio amico giornalista: un’intervista esclusiva che tutti cercavano. Dopo avere detto di no a tv, radio e grandi quotidiani nazionali, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha giudicato Berlusconi colpevole di frode fiscale, Antonio Esposito, 72 anni da Sarno, si è concesso al Mattino, per l’esattezza ad Antonio Manzo, 53 anni da Eboli. Si erano conosciuti trenta anni prima, Esposito pretore a Sapri e Manzo cronista ventenne a caccia di scoop, oggi caporedattore e inviato speciale del Mattino. Esposito si fidava di Manzo e il giorno della sentenza che ha condannato Berlusconi non gli aveva detto un no secco come ai colleghi ma solo: “Tranquillo, te la do l’intervista, quando le acque si calmano”. Ora le acque si sono agitate e parecchio. Il ministro della Giustizia Cancellieri sta valutando l’ipotesi dell’azione disciplinare nei confronti di Esposito e tre membri laici del Pdl che fanno parte del Csm – Filiberto Palumbo, Bartolomeo Romano e Nicolò Zanon – chiedono l’apertura di una pratica sulle sue dichiarazioni.
L’INTERVISTA a pochi giorni dalla sentenza, quando il dispositivo è noto ma la motivazione deve ancora essere stesa, è un’ingenuità che il fronte berlusconiano non si è fatta sfuggire. Il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce ha convocato Esposito ieri pomeriggio nel Palazzaccio, alla presenza del segretario generale Franco Ippolito. Esposito si è difeso, ha smentito alcuni passi dell’intervista e ha prodotto un fax inviatogli dal Mattino con il testo concordato dopo una lunga telefonata con Manzo. Il fax non contiene la frase che ha suscitato su di lui le maggiori critiche. Santacroce ha preso atto e poi ha scritto una relazione urgente al ministro con allegato il fax, che pubblichiamo sopra. Nell’intervista pubblicata dal Mattino, Esposito dopo avere parlato del principio del ‘non poteva non sapere’ in generale (“Potrebbe essere una argomentazione logica, ma non può mai diventare principio alla base di una sentenza”) risponde a una domanda precisa del cronista. Manzo chiede “Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?”. Esposito nel testo risponde:“Noi potremmo dire: tu venivi portato a conoscenza di quel che succedeva. Non è che tu non potevi non sapere perché eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio o Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito. È un po’ diverso dal non poteva non sapere”.
La domanda e la risposta non sono contenute nel testo concordato spedito via fax alle 19,30 di lunedì 5 agosto al numero di casa Esposito dalla segreteria di direzione del Mattino. Il presidente Esposito dice il vero quando dichiara all’Ansa: “Il testo dell’intervista da pubblicare, inviatomi dal giornalista del Mattino, dopo il colloquio telefonico, via fax, alle ore 19,30 del 5 agosto 2013 è stato manipolato con l’inserimento, da parte del giornalista, della domanda…”. Ma non è del tutto vero che la risposta sul principio “non poteva non sapere”, non sia mai stata data a Manzo. Semplicemente l’inviato del Mattino ha scelto di fare il suo mestiere fino in fondo infischiandosene del fax inviato, dei decenni di consuetudine con il magistrato e delle conseguenze di questa sua scelta, pienamente legittima, sul giudice. “Quelle parole non erano contenute nel fax ma sono state dette dal giudice Esposito. Per questo abbiamo ritenuto fosse giusto pubblicarle”, spiega Antonio Manzo al Fatto. Il giudice Esposito nel suo comunicato all’Ansa si duole per il comportamento del giornalista: “È sufficiente confrontare il testo dell’articolo pubblicato dal Mattino con il testo inviatomi alle ore 19,30 (data del fax), da pubblicare, per rendersi conto della gravissima manipolazione che ha consentito al giornalista di confezionare il titolo ‘Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere’”. Ma lo stesso Esposito nella conversazione registrata dal giornalista del Mattino e pubblicata sul sito internet della testata partenopea in serata, ha effettivamente accennato alla questione della motivazione possibile della condanna di Berlusconi. Nella conversazione registrata non c’è la domanda specifica sulla motivazione della condanna a Berlusconi. Dallo spezzone pubblicato sembra di capire che Esposito voglia spiegare al giornalista un principio giuridico generale (‘è stato detto’) tanto che al-l’amico giornalista fa presente con accento campano: ‘nun me portà ngoppa a stu problem’, cioè non mi fare parlare della motivazione di Berlusconi. Esposito dice effettivamente “potremmo dire eventualmente nella motivazione” ma poi aggiunge che “è sempre una valutazione di fatto”. E, come si sa, la valutazione di fatto non dovrebbe essere permessa alla Cassazione, il che fa pensare che alla fine Esposito torni a parlare in generale. Comunque lo scivolone mediatico di Esposito non dovrebbe avere conseguenze sul piano del processo a Berlusconi, perché il verdetto è già definitivo e neanche sul piano disciplinare. L’articolo 2 della legge 269 del 2006 punisce solo “le pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione” mentre esclude quelli “definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria”, come la sentenza Berlusconi. Nel 2011 dopo la sentenza sul caso Meredith, il presidente della Corte di Appello di Perugia – Claudio PratilloHellmann-ha parlato abbondantemente con la stampa prima del deposito della motivazione. Nessuno ha avuto nulla da ridire. Forse perché è meno rischioso spiegare alla stampa l’assoluzione di Amanda Knox che la condanna di Berlusconi.

Da Il Fatto Quotidiano del 07/08/2013.

la situazione politica italiana bloccata da Berlusconi

il corazziere

il pdl agita la bandiera della ‘agibilità politica’ di Berlusconi dopo la sua condanna, come se nel nostro paese non ci fosse democrazia e non fosse permesso a tutti di svolgere la propria attività politica

ci muoviamo chiaramente su un terreno scivoloso, su cui riflette opportunamente C. Tito su ‘La Repubblica’ di oggi:

 

L’agibilità ad personam
(Claudio Tito).

IL PDL agita la bandiera della “agibilità politica” del suo leader. Ma è un terreno scivoloso. Contestarne l’assenza comporta dei rischi. Quando un’importante forza politica mette in campo questo concetto, dovrebbe essere consapevole del fatto che muove un’accusa precisa e grave.

È come se dicesse: nel nostro Paese non c’è democrazia, non è permesso a tutti e a tutti i partiti di svolgere la propria attività. È come se rimproverasse la classe dirigente attuale, il governo, le massime istituzioni di muoversi lungo un percorso antidemocratico. È questa la situazione che si vive in Italia?
No, non è e non può essere questa. A parte una evidente contraddizione, visto che l’attuale esecutivo è sostenuto da una maggioranza di cui fa parte anche il Popolo delle libertà, la condanna di Silvio Berlusconi non ha nulla a che vedere con la tenuta del nostro sistema né con l’agibilità politica di un leader che ha personalmente guidato il Paese per una decina degli ultimi 19 anni e che nello stesso periodo ha influenzato la vita complessiva del paese, sul piano politico e culturale, in maniera determinante.
La pena a quattro anni di reclusione (solo un anno da scontare perché gli altri tre sono stati cancellati da un indulto) è il frutto di un processo penale svoltosi regolarmente nei tre gradi di giudizio. Lo ha confermato la Corte di Cassazione che lo stesso ex presidente del Consiglio aveva definito il «mio giudice a Berlino ». Un processo provocato da un reato e non da un’opinione. Da un illecito e non da una posizione politica. Il Cavaliere non è stato condannato per la sua attività in Forza Italia prima e nel Pdl poi. Non è stato giudicato in quanto leader di partito. Il concetto dell’agibilità politica, sollevato in questo modo, è dunque a dir poco inappropriato. I suoi sostenitori adesso lamentano il fatto che senza Berlusconi viene a mancare la competizione politica, viene eliminato il futuro avversario del centrosinistra. In un sistema democratico, la leale e corretta sfida elettorale deve essere ovviamente garantita. Ma il caso non è questo. I magistrati non dovrebbero applicare la legge? O il Parlamento dovrebbe immaginare una corsia preferenziale?
Una risposta affermativa comporterebbe l’accettazione di analisi, queste sì azzardate, secondo cui il leader del centrodestra può fregiarsi di un
status giuridico eccezionale. E questo solo in quanto leader del centrodestra. Come direbbe il filosofo Carl Schmitt si dovrebbe dar vita ad uno “Stato d’eccezione” in cui legalità e legittimità sono separate, in cui lo Stato di diritto per come lo abbiamo conosciuto dal 1948 ad oggi viene sospeso. La deriva suggerita dagli esponenti berlusconiani, infatti, è proprio questa. Prevedere una soluzione eccezionale, solo per Berlusconi. Inserire la condanna in una sorta di “sospensione politica” che gli consenta, in un modo o nell’altro, di continuare ad essere senatore, proseguire nella sua leadership partitica e ritentare — quando si ripresenterà l’occasione — la candidatura alla guida del governo e a un seggio in Parlamento. C’è una implicita pretesa di non essere equiparati a tutti gli altri cittadini, c’è la volontà di non accettare l’esito di un processo. Fino a venti anni fa esisteva un istituto, quello della immunità parlamentare, che metteva al riparo deputati e senatori dalle inchieste. Ma tutti erano al riparo e non solo uno. E poi dalle inchieste e non dalle condanne in via definitiva.
Rivolgersi allora al presidente della Repubblica per reclamare una specie di salvacondotto significa trascinare Napolitano in una impropria trattativa. Non a caso il capo dello Stato ha usato una massiccia dose di prudenza nel colloquio con i capigruppo del Pdl. Sa che farsi incastrare in un negoziato di questa natura comporta rischi che non si possono correre. Il Quirinale non può essere impegnato in questo patteggiamento. Può forse comprendere la condizione di umana difficoltà vissuta, ma non può certo scendere a patti sui principi costituzionali. Per questo è immotivata la delusione che ieri ha avvinghiato lo stato maggiore del centrodestra dopo l’incontro sul Colle.
Irragionevole anche nelle conseguenze. Gli ambasciatori dell’ex premier sembrano infatti voler scaricare sul governo e sul Quirinale il peso della loro richiesta. La vita dell’esecutivo non è più valutata per i provvedimenti che approva o per le leggi che vara, ma solo per la capacità di assegnare al Cavaliere uno status giuridico ad personam.
In questo contesto, dunque, viene meno anche il motivo per cui è stato condannato. Non si discute più dei reati commessi. La frode fiscale viene infilata in una sorta di tritatutto che sbriciola la sentenza. E poi la avvolge nel mantello della sovranità popolare. Ossia nel consenso che Berlusconi ha ricevuto in questi anni e che ha conservato in parte anche alle ultime elezioni. Come se gli otto milioni di voti ricevuti a febbraio fossero un grande lavacro, una amnistia di fatto. Ma la sovranità popolare impone responsabilità e non concede wild card
per l’irresponsabilità.

Da La Repubblica del 06/08/2013.

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