non siamo più capaci di indignazione!

migranti

 

l’indignazione è morta

 

faccio mia questa amara considerazione che il sito dei frati Comboniani hanno pubblicato per l’indifferenza generale in riferimento alle stragi di umanità disperata che lastrica dei loro corpi affogati i nostri confini marini:

 

Non solo quella istituzionale, capace di risvegliarsi oramai solo quando in ballo ci sono interessi economici o politici propri, ma anche quella sociale. La nostra, insomma.

migranti-tuttacronaca

 

 

 

Oramai i migranti morti in mare vengono contati a spanne dai media. Circa 30, almeno 60, ne mancherebbero altri 64… Numeri approssimativi, che se fossero “nostri” sarebbero raccontati come una strage, che se si riferiscono a “numeri” vivi vengono descritti come invasione. Ma non sono “nostri”, per cui l’approssimazione non ci riguarda. Per noi i “circa”, gli “almeno”, l’uso del condizionale non fanno la differenza. Non sono “nostri”. E l’indignazione è morta.

Dopo le 366 vittime del 3 ottobre, che per giorni hanno riempito le pagine dei giornali, indignato (?!) le istituzioni, gli altri corpi recuperati così, “alla spicciolata”, ci scivolano addosso.

La differenza della notizia, lo insegnano nelle scuole di giornalismo, è data dalla vicinanza. Più è vicina, più è sentita. E noi questi morti li sentiamo lontani. Non percepiamo la strage, sentiamo l’invasione.
Siamo inumani sì, ma da manuale. Capaci di commuoverci davanti all’Olocausto, di indignarci contro chi allora non si oppose alla deportazione dei nostri ebrei, ma impassibili davanti ai morti migranti. Siamo professionisti dell’ipocrisia.

 

il calcio è una vera religione

il calcio come religione laica universale

 

Boff L.

 

 

 

 

 

 

 

il teologo italo-brasiliano L. Boff, in occasione dei mondiali di calcio che si stanno disputando in Brasile, riflette da par suo sulle modalità con cui le due totalizzanti realtà, la religione e il calcio, sono vissute cogliendo tante analogie fra esse, anzi un’unica struttura di fondo che dalla religione viene riprodotta nel calcio trasformandolo in una vera religione laica universale:

La coppa mondiale di calcio disputata quest’anno in Brasile, come pure altri grandi eventi calcistici, assumono caratteristiche proprie delle religioni. Per milioni di persone, il calcio – lo sport che forse più di ogni altro stimola spostamenti di persone nel mondo intero – tiene il posto tradizionalmente occupato dalla religione.

Studiosi della Religione, come Emilio Durckheim e Lucien Goldmann, tanto per citare due nomi importanti, sostengono che “La religione non è un sistema di idee; è piuttosto un sistema di forze che mobilizzano le persone fino a condurle alla più alta esaltazione” (Durckheim). La fede compare sempre abbinata alla religione. Questo stesso autore classico afferma nel suo famoso “Le forme elementari della vita religiosa”: «La fede è innanzitutto calore, vita, entusiasmo, esaltazione di tutta l’attività mentale, trasporto dell’individuo al di là di se stesso» (p. 607). E conclude Lucien Goldmann, sociologo della religione e marxista pascaliano: “Credere è scommettere che la vita e la storia hanno un senso; l’assurdo esiste ma non prevarrà”.

Dunque, a guardar bene, il calcio, per molta gente adempie caratteristiche religiose: fede, entusiasmo, calore, esaltazione, un campo di forza e una permanente scommessa che la loro squadra si aggiudicherà il trionfo finale.

La spettacolarizzazione dell’apertura dei giochi ricorda una grande celebrazione religiosa, carica di rispetto, riverenza, silenzio, seguiti da un fragoroso applauso e da grida di entusiasmo. Ritualizzazioni sofisticate, con musiche e sceneggiature delle varie culture presenti nel paese e la presentazione dei simboli del calcio (bandiere e stendardi), specialmente la coppa che mima un vero calice sacro, il santo Graal ambito da tutti. E c’è, salvo il rispetto, il pallone che funziona come una specie di Ostia con la quale tutti entrano comunione.

Nel calcio come nella religione – prendiamo la religione cattolica come punto di riferimento – esistono gli 11 apostoli (Giuda non conta) che sono gli 11 giocatori, inviati per rappresentare il paese; i santi di riferimento come Pelé, Garrincha, Beckembauer e altri; esiste inoltre un papa, presidente della Fifa, dotato di poteri quasi infallibili. Si presenta circondato da cardinali che costituiscono la commissione tecnica responsabile dell’evento. Seguono gli arcivescovi vescovi che sono i coordinatori nazionali della Coppa. Poi c’è la casta sacerdotale degli allenatori, questi portatori di speciale potere sacramentale di ammettere, confermare o togliere i giocatori. Dopo emergono i diaconi che formano il corpo dei giudici, maestri-teologi dell’ortodossia, vale a dire, delle regole del gioco, il lavoro concreto della conduzione della partita. Infine vengono (i chierichetti, che aiutano i diaconi.

Lo svolgersi della partita suscita fenomeni che avvengono anche nella religione: si odono invocazioni, canti (cori), si piange di commozione, si fanno preghiere, si emettono voti ( Filippo Scolari, allenatore brasiliano, ha mantenuto il voto di andare a piedi 20 km fino al santuario della Madonna di Caravaggio in Farroupilha, caso vincesse la Coppa come poi di fatto avvenne), scongiuri e altri simboli della diversità religiosa brasiliana. Santi forti, orixàs e energie di Axé sono evocate e invocate.

Esiste una Santa inquisizione, il corpo tecnico, la cui missione è zelare per l’ortodossia, dirimere conflitti di interpretazione ed eventualmente processare e punire giocatori o addirittura squadre intere.

Come nelle religioni e chiese, esistono nel calcio ordini e congregazioni religiose così come il “tifo organizzato”. Questi hanno i loro riti, i loro canti la loro etica, famiglie intere che scelgono di abitare vicino al Club della squadra, vere chiese, dove i fedeli si incontrano e comunicano i loro sogni. Si fanno fare tatuaggi sul corpo con i simboli della squadra. Il bambino non fa a tempo a nascere che la porticina dell’incubatrice è già ornata con i simboli della squadra del cuore per dire ‘siamo battezzati, non tradiremo la nostra fede’.

Considero ragionevole interpretare la fede come ha fatto il grande filosofo e matematico cristiano Blaise Pascal: una scommessa; se scommetti che Dio esiste hai tutto da guadagnare; se di fatto non c’è, non hai niente da perdere. Dunque è meglio scommettere che Dio esiste. Il tifoso vive di scommesse (la cui espressione maggiore è la lotteria sportiva) che la fortuna sarà a favore della sua squadra oppure che qualcosa all’ultimo minuto del gioco tutto può cambiare. Infine vincere per quanto forte sia l’avversario. Nella religione ci sono persone di riferimento, la stessa cosa vale per i campioni.

Nella religione esiste la malattia del fanatismo, dell’intolleranza e della violenza ai danni di altre espressioni religiose; lo stesso nel calcio: gruppi di di una squadra aggrediscono quelli della squadra rivale. Gli autobus vengono presi a sassate. E a volte ci scappa il morto, veri delitti conosciuti da tutti. Tifoserie organizzate e fanatiche possono ferire e perfino ammazzare tifosi del team avversario.

Per molti il calcio è diventato una cosmovisione, una forma di interpretare il mondo di dare senso alla vita. Alcuni sono depressi quando la loro squadra perde e euforici quando vince.

Io personalmente ho un grande apprezzamento per il calcio per una semplice ragione: essendo portatore di quattro protesi alle ginocchia e ai femori, mai avrei la possibilità di fare quelle corse con cadute spettacolari. Fanno quello che io non potrei mai fare senza cadere a pezzi. Ci sono giocatori che sono geniali artisti di creatività e abilità. Non senza ragione, il maggior filosofo del secolo 20º, Martin Heidegger non perdeva nessuna partita importante, perché vedeva nel calcio la concretizzazione della sua filosofia, la contesa tra Essere e Ente mentre si affrontano, si negano, si compongono e attuano l’imprevedibile gioco della vita che noi tutti stiamo giocando.

il commento al vangelo domenicale di p. Maggi

 

 

 

p. Maggi

TU SEI PIETRO, E A TE DARO’ LE CHIAVI DEL REGNO DEI CIELI

SOLENNITA’ S.S. PIETRO E PAOLO 

29 giugno 2014

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

Mt 16,13-20

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Per tenere lontani i suoi discepoli dal lievito dei farisei, cioè dalla dottrina dei farisei e dei sadducei, Gesù li porta lontano dall’istituzione religiosa giudaica e li conduce all’estremo nord del paese. E quanto scrive Matteo, nel capitolo 16, versetti 13-20. “Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo”, Cesarea di Filippo è all’estremo nord del paese, è la città costruita da uno dei figli di Erode il Grande, Filippo, e, per distinguerla dall’altra Cesarea marittima, è stata chiamata Cesarèa di Filippo. All’epoca di Gesù la città era in costruzione. Questo è un dettaglio da tener presente, nei pressi della città si trovava una delle tre sorgenti del fiume Giordano, che era anche ritenuta l’ingresso del regno dei morti. Quindi sono elementi che occorre tener presente per la comprensione di quello che l’evangelista ci narra. Ebbene Gesù conduce i suoi discepoli così lontano dalla Giudea e anche dalla Galilea per porre loro una domanda. “Domandò ai suoi discepoli: «La gente»”, letteralmente “gli uomini”, «chi dice che sia il Figlio dell’uomo?»L’evangelista contrappone gli uomini al Figlio dell’uomo, l’uomo che ha la condizione divina, quindi l’uomo che ha lo spirito e quelli che non ce l’hanno. Gesù vuole rendersi conto di quale sia stato l’effetto della predicazione dei discepoli che lui ha inviato ad annunziare la novità del regno. La risposta è deludente. “Risposero: «Alcuni dicono Giovani il Battista»”, perché si credeva che i martiri sarebbero subito risuscitati, «altri Elìa»”. Elia, secondo la tradizione, non era morto, ma era stato rapito in cielo e sarebbe tornato all’arrivo del futuro messia. «Altri Geremia»”, sempre secondo la tradizione era scampato a un tentativo di lapidazione, «o qualcuno dei profeti». Si aspettava uno dei profeti annunziato da Mosè, comunque tutti personaggi che riguardano l’antico. Nessuno, né i discepoli né la gente alla quale essi si sono rivolti, ha compreso la novità portata da Gesù. Allora Gesù dice: «Ma voi»”, quindi si rivolge a tutto il gruppo, «Chi dite che io sia?»Gesù si è rivolto a tutto il gruppo dei discepoli, ma è soltanto uno che prende l’iniziativa. “Rispose Simon Pietro”, Simone è il nome, Pietro è un soprannome negativo che indica la sua testardaggine, e quando l’evangelista lo presenta con questo soprannome, significa che c’è qualcosa di contrario all’annunzio di Gesù. “Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»”. Finalmente c’è uno dei discepoli che ha capito che Gesù non è il figlio di Davide, colui che con la violenza impone il regno, ma è il figlio del Dio (letteralmente) vivificante, cioè comunica vita. “E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone»”. Perché beato? Pietro è il puro di cuore e quindi può vedere Dio. Gli dice “beato”, però lo chiama «figlio di Giona»”. “Figlio”, nella cultura ebraica non indica soltanto chi è nato da qualcuno, ma chi gli assomiglia nel comportamento. E Gesù lo chiama “figlio di Giona”. Giona è l’unico tra i profeti dell’Antico Testamento che ha fatto esattamente il contrario di quello che il Signore gli aveva comandato. Infatti il Signore gli aveva detto: “Giona, vai a Ninive a predicare la conversione altrimenti io la distruggo” e Giona fece il contrario. Anziché andare verso est, si imbarcò sulla nave e puntò ad ovest. Poi finalmente Giona si convertì. Quindi in questo figlio di Giona Gesù fa il ritratto di Pietro: farà sempre il contrario di quello che Gesù gli chiederà di fare, ma poi alla fine si convertirà. «Perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.»Ecco Pietro è il beato perché è il puro di cuore che può vedere Dio. “E io dico a te: «Tu sei  Pietro»”, il termine greco adoperato dall’evangelista è Petros, che indica un mattone, un sasso, che può essere raccolto e usato per una costruzione. “«E su questa pietra»”. Pietra no è il femminile di Pietro. L’evangelista adopera il termine greco Petra che indica la roccia che è buona per le costruzioni. E’ lo stesso termine che Gesù, nel capitolo 7, ha scelto per la casa costruita sulla roccia. uindi Gesù dice a Simone: “Tu sei un mattone. Su questa roccia”, e la roccia è Gesù, «Edificherò la mia chiesa»”. Il termine greco ecclesia non ha nulla di sacrale, ma è un termine profano che indica l’adunanza, l’assemblea di quelli che sono convocati. Quindi Gesù non viene a costruire una nuova sinagoga, ma una nuova realtà che non ha connotazioni religiose, e per questo adopera questo termine laico. «E le potenze»”, letteralmente “le porte”; le porte di una città indicavano la sua forza, la potenza. “«Degli inferi»”, cioè del regno dei morti. Ricordo che la scena si svolge vicino a una delle grotte che si pensava essere l’ingresso nel regno dei morti, “«Non prevarranno contro di essa». Quando una comunità è costruita su Gesù, il figlio del Dio vivente, quindi si comunica vita, le forze negative, le forze della morte, non avranno alcun potere. “«A te darò le chiavi del regno dei cieli»”. Concedere le chiavi a qualcuno significava ritenerlo responsabile della sicurezza di quelli che stavano dentro. Abbiamo detto altre volte che il regno dei cieli nel vangelo di Matteo non significa un regno nei cieli, ma è il regno di Dio. Quindi Gesù non dà a Pietro le chiavi per l’accesso all’aldilà, non lo incarica di aprire o chiudere, ma lo ritiene responsabile di quelli che sono all’interno di questo regno, che è l’alternativa che Gesù è venuto a proporre. «Tutto ciò che legherai sulla terra»”, qui  l’evangelista adopera un linguaggio rabbinico, che significa dichiarare autentica o meno una dottrina, «sarà legato nei cieli»”, cioè in Dio, «E tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»”. Quello che Gesù ora dice a Pietro poi più tardi, al capitolo 18, lo dirà a tutti i discepoli. Le ultime parole che Gesù adopererà in questo vangelo rappresentano l’invio dei discepoli ad andare ad insegnare “tutto ciò che vi ho comandato”. Quindi nell’insegnamento di Gesù, questo messaggio che comunica vita, c’è l’approvazione divina, da parte dei cieli. Però, ecco la sorpresa, “Ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”. Quando Gesù ordina significa che c’è resistenza. Nella risposta di Pietro c’era stata una parte positiva in quanto ha riconosciuto Gesù come il figlio del Dio che comunica vita, il Dio vivente, ma la parte negativa qual è? La gente ha detto che tu sei il Cristo, cioè il messia atteso dalla tradizione. Allora Gesù dice: “questo non lo dovete dire a nessuno”, perché lui non è il messia atteso dalla tradizione. Gesù è Cristo, è il messia, ma in una forma completamente diversa, non adopererà il potere, ma l’amore; non il comando, ma il servizio. E questo provocherà adesso lo scontro proprio con Simone. Quello che era stato definito “pietra” da costruzione, diventerà una pietra di scandalo.

 

anche le briciole … contano

Lo spreco delle briciole

tante rose rosa

chi l’ha detto che le ‘briciole’ e le piccole cose non hanno valore, siano del tutto  insignificanti, trascurabili: in una bella riflessione T. Dell’Olio (su ‘Mosaico dei giorni’ del
 23 giugno 2014), richiama ad uno sguardo nuovo capace di cogliere l’unicità e il valore anche delle cose più piccole, sguardo che talvolta sembra perfino coincidere con quello di … Dio

 Abbiamo bisogno di frammenti. Anzi noi viviamo di frammenti, schegge, piccole finestre… che quotidianamente ci si aprono davanti anche nelle giornate più buie. Sono frammenti di vita. Di vita autentica. E, a ben vedere, mai nulla è banale, consueto, abitudinario. Tutto ha bisogno di un occhio nuovo capace di cogliere l’unicità di un incontro, di un gesto, di un particolare. Dio parla. Eccome se parla! Ha il gusto del particolare. Solo c’è bisogno che noi ne intercettiamo la presenza e che ne impariamo il linguaggio. Il dramma è piuttosto lo spreco delle briciole. Quelle che per noi non servono a nulla e che nutrono i passeri. Sembra un paradosso parlare di spreco di briciole in un mondo che butta via tanto pane. Eppure è importante. “Colligere fragmenta”, raccogliere i frammenti. Forse abbiamo proprio bisogno di esercitare mente, cuore e mani alla pratica di raccogliere l’apparente inutilità delle briciole.   T. Dell’Olio

il vangelo assolutamente al primo posto

 

fra

 da noi si parla, in ambito intraecclesiale e conseguentemente anche in ambito pubblico e politico, di valori e principi irrinunciabili e non politicamente mediabili o ‘negoziabili’, pretendendo spesso delle politiche che, in nome di tali principi, generali e astratti,  umiliano o offendono o arrecano sofferenza alle persone: il vangelo invece ci rimanda incondizionatamente all’unico valore concretamente assoluto mai da mettere da parte: l’uomo con i suoi bisogni e necessità

mi piace riportare, qui sotto, il gesto forte, radicalmente evangelico che a Saint-Etienne, in Francia,  padre Gerard Riffard, il sacerdote cattolico della parrocchia di Saint-Anne, ha fatto e per il quale è stato convocato in tribunale:  aver cioè aperto le porte della sua chiesa a una quarantina di richiedenti asilo africani.

così p. Agostino Rota Martir, nel segnalarmi questo gesto, pubblicato dal sito ‘comune info’, si augura accada anche tra di noi:

Troverà qualche imitatore anche tra i parroci italiani?
Speriamo … è un modo per uscire da equilibrismi tattici/politici. L’accoglienza ha il primato sulla legge, almeno per il cristiano, anche se qualcuno dirà che non bisogna essere ingenui o che bisogna fare un’accoglienza “intelligente”…

 

 il prete dei Clandestini

 

Rischia una multa di 12.000 euro per aver ospitato un gruppo di immigrati nella sua parrocchia. Succede a Saint-Etienne, in Francia, dove sono sempre più numerose le voci di solidarietà nei confronti di padre Gerard Riffard, il sacerdote cattolico della parrocchia di Saint-Anne, convocato in tribunale per aver aperto le porte della sua chiesa a una quarantina di richiedenti asilo africani.

Durante l’udienza, l’ex parroco ha cercato in tutti i modi di spiegare che la sua azione era dettata unicamente dalla carita’ cristiana. Ma la giustizia ha mostrato il suo volto più duro e la pubblica accusa ha chiesto una sanzione da 12.000 euro per violazione della delibera comunale che avrebbe vietato di dare ospitalita’ in quell’edificio religioso in base alle norme burocratiche di sicurezza che regolano l’accoglienza del pubblico. Durante l’udienza, il prete, settant’anni, ha ricordato che ”lo Stato è obbligato dalla legge a dare asilo a chi lo richiede”, cosa che peraltro “non fa regolarmente”. E ha cercato di mostrare la contraddizione tra l’accusa che viene mossa contro di lui e “l’obbligo di non lasciare la gente fuori, in situazione di pericolo” che la stessa legge in teoria impone. Poi ha spiegato: “All’inizio, circa sette anni fa, ho cominciato ad accogliere alcuni senzatetto nel mio appartamento“. Ma nel corso del tempo, il loro numero è aumentato e il parroco ha deciso allora di mettere a loro disposizione la sala parrocchiale adiacente alla chiesa.

fra22

“La giustizia può dire cio’ che vuole, mi è assolutamente impossibile lasciare dormire un bebe’ all’aperto”, ha protestato padre Gerard Riffard, spiegando che i rifugiati accolti in questi ultimi anni “provengono in maggioranza dalla Repubblica democratica del Congo o dall’Angola… e hanno lasciato i loro Paesi perché erano in pericolo di vita”. Lo scorso agosto, la commissione municipale di sicurezza ha avviato le ispezioni nella chiesa, decretando che era “impossibile ospitare in quelle condizioni”. Ma padre Riffard ha continuato ad accogliere i rifugiati, sfidando norme e burocrazia.

Manifestazioni di solidarietà nei confronti del sacerdote sono arrivate, intanto, da esponenti del partito comunista, come pure da monsignor Dominique Lebrun, responsabile della diocesi di Saint-Etienne: “Cosa deve fare un prete, un cristiano: lasciare degli individui nell’insicurezza della strada oppure aprire le sue modeste porte?”, si è chiesto il vescovo. La sentenza che dovrà dare una risposta a nome dello Stato francese è attesa per il 10 settembre.

 

quando il linguaggio tradisce le discriminazioni che neghiamo

gay

 

 

 

 

quando mettiamo le mani avanti iniziando il discorso dicendo: “non sono razzista, però … ” , “io non discrimino i rom, i gay, i neri, però … “, stiamo già dicendo molto in proposito, stiamo già tradendo lo sguardo razzista sulla realtà che a parole intendiamo negare a  chi ci ascolta e, prima ancora, a noi stessi

mi piace riportare un trafiletto di M. Valcarenghi apparso su ‘il Fattoquotidiano’ che argutamente evidenzia questa velata, ma neanche tanto, forma di razzismo o discriminazione che assume talvolta anche le forme più gentili ed eleganti (“io tra i rom o tra i gay ho tanti amici, quindi … “):

Né omo né etero: persone

di Marina Valcarenghi

in “il Fatto Quotidiano” del 16 giugno 2014

gay1

“Un mio compagno di università gay suona divinamente il clarinetto”. “Perché mi dice che è omosessuale?” “Beh … così per dire – poi il mio paziente proseguì sospettoso – perché mi fa questa domanda?” “Perché non credo che direbbe: “Un mio compagno di università etero suona … eccetera. Perché questa marcatura della differenza?” ”Non sono omofobo” “Non ho detto questo, ho detto che ha segnalato una diversità di orientamento sessuale in una frase che non la richiedeva. Come se io dicessi: “Una mia amica lesbica cucina il cus cus”. “Ma lo fanno tutti!”, protestò il mio paziente. “È vero, credo infatti che in molti casi – come nel suo – si tratti di un automatismo indotto dall’imitazione, o addirittura di un’inconscia affermazione di apertura alla diversità, ma di fatto, magari senza saperlo né volerlo, si conferma uno stigma”. Un mio amico mi disse: “… in fondo sono un gay di sessant’anni…” “Sei un uomo di sessant’anni” intervenni con tutta la dolcezza che sentivo. “Sì, hai ragione… non ci si accorge nemmeno più, ti hanno messo addosso un marchio e ormai te lo tieni e tanto vale sventolarlo come una bandiera. So che è una cavolata. Non è né un marchio né una bandiera, è un modo di essere”. Io e quel mio amico, come tanti altri, sogniamo un mondo dove l’omosessualità e l’eterosessualità non siano più argomenti, dove la scelta nell’amore e nel sesso, non di rado anche mutevole nel corso di una vita, sia finalmente un fatto privato, irrilevante nell’amicizia, nel lavoro, nello sport, nell’arte, nella politica e dovunque altrove, dove non siano più necessarie manifestazioni carnevalesche e zone separate, dove nessuno osi utilizzare l’opzione sessuale per alzare palizzate e distribuire svantaggi o privilegi. Ce la possiamo fare, è solo questione di tempo. Stiamo attenti al nostro linguaggio: le parole sono importanti.

 

a proposito del centenario della grande guerra

 

 

primq guerra mondiale

per ricordare senza retorica  e mistificazioni

 

 

 

 

 

riporto qui sotto una bella riflessione di Sergio Tanzarella (docente di storia della chiesa alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale) che in occasione dei 100 anni della prima guerra mondiale ripensa a questa purificata da ogni memoria celebrativa, dalla solita retorica e mistificazione e menzogna che vogliono rivivere positivamente anche il negativo assoluto, assolutamente da condannare:

prima guerr mond

 

Ricordare e condannare

di Sergio Tanzarella

Sono trascorsi 100 anni dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, tutti i protagonisti di allora – vittime e carnefici – sono morti, ma non è morta né la retorica, né la mistificazione, né la menzogna che pretende di ricordare e celebrare, oggi come ieri, la catastrofe di quegli anni.

L’attivismo celebrativo si era già messo all’opera nel 2012 con la mostra “Verso la grande guerra” al Vittoriano di Roma. Un mostra che aveva avuto come consulente storico Bruno Vespa, dando modo all’allora sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e presidente del Comitato per la commemorazione Paolo Peluffo, cavaliere dell’ordine pontificio di San Gregorio Magno e molto altro, di affermare che «la grande guerra è stato un passaggio fondamentale nel processo di costruzione del nostro Paese perché è nell’affratellamento delle trincee il primo momento vero in cui si sono “fatti” gli italiani». Una tesi stantia che cerca, così, di riabilitare e giustificare quel massacro, collegandolo al completamento dell’unità nazionale.

E che la linea giustificazionista-governativa sia questa lo dimostra quanto ha scritto il 30 gennaio 2013 il Comitato per gli anniversari di interesse nazionale: «Se la Prima Guerra Mondiale è stata sicuramente un evento che si sarebbe dovuto evitare, perché connesso al dolore per il sacrificio di innumerevoli vite umane, tuttavia tale evento è stato pur sempre legato alla nascita di un sentimento di orgoglio nazionale, poiché ha portato a compimento il processo di unità nazionale». Linea ribadita anche dal Comitato per il centenario della Prima Guerra Mondiale: «Quello della grande guerra è un anniversario particolarmente importante per la costruzione della nostra identità europea».

pri guerr mond

Ecco dunque la mistificazione al lavoro: unità nazionale, identità europea, sacrificio di vite umane. Ancora dopo un secolo si impone la spiegazione di un disegno superiore e alto – Italia ed Europa – rispetto al quale la morte di 700mila italiani, 500mila mutilati e feriti gravi, 300mila prigionieri abbandonati dall’Italia perché considerati disertori e codardi, errori strategici pacchiani, un indebitamento che si è estinto solo nel 1980, una truffa colossale sulle spese di guerra con imputati generali, politici, industriali tutti rimasti impuniti, cioè una catastrofe nazionale totale viene compresa ed edulcorata con la patriottarda parola del «sacrificio», riproponendo la mistica di guerra della propaganda.

La stessa propaganda che oggi si ostina ad ignorare i risultati di centinaia di ricerche storiche, scientificamente ispirate, che restituiscono a quella guerra – attraverso uno studio scientifico delle fonti – l’orrore che essa è stata. In essa tutti i progressi tecnologici dell’epoca (gas, mitragliatori, aerei, artiglieria, lanciafiamme, proiettili dum-dum) furono messi a servizio di un’ideologia di morte su larghissima scala, in grado di produrre sui corpi e sulle menti devastazioni mai viste e permanenti. Non sapevano infatti descriverle né i medici nelle autopsie né gli psichiatri davanti a nevrosi e follie mai viste prima. A questo si aggiungevano il clima di terrore tra le truppe, costrette, in una guerra di cui nulla sapevano, ad assalti continui ed inutili ad inespugnabili trincee, le decimazioni di massa, i plotoni di esecuzione per le minime infrazioni, seguendo una linea di comando che partiva dall’autore di tutti gli ordini più efferati: il generale Cadorna.

A suo servizio presso lo Stato maggiore, vi era il capitano medico, frate francescano, Agostino Gemelli. Il suo impegno di psicologo militare fu tutto rivolto a creare le condizioni perché i soldati annullassero totalmente qualsiasi senso critico e si assoggettassero ad obbedire agli ordini, quali essi fossero, senza pensare. Per ottenere questo utilizzò senza problemi ogni risorsa e stratagemma, anche ricorrendo all’universo religioso che pose a servizio della causa della guerra sempre compresa come opera salvatrice divina. Il programma gemelliano – in linea con la teologia del suo tempo – era quello di riconoscere innanzitutto il valore provvidenziale ed espiatorio della guerra. Ma egli andò oltre fino a sostenerne il valore divino. In un articolo del 1915, “La filosofia del cannone”, egli scriveva «Ho detto che la guerra è divina. Con ciò non intendo enunciare un paradosso. Io intendo dire soltanto che l’effusione del sangue umano, per opera della guerra, nelle terribili lotte dei popoli, ha un valore speciale, per il quale esso coopera al governo divino del mondo. Lo spargimento di tanto sangue innocente è una forma di espiazione della colpa del genere umano, espiazione che ha valore di rigenerare non solo individui, ma anche le nazioni». E appena due anni dopo, nel libro di psicologia militare Il nostro soldato, Gemelli teorizzerà il cannone come efficace strumento di catechesi: «Se vi ha dunque rinascita religiosa al fronte, questa si ha esclusivamente nell’ospedale. Ma la professione di fede cristiana non si realizza d’un tratto. L’educazione religiosa è stata compiuta dalla voce del cannone durante i mesi di trincea, e il soldato ha appreso questa lezione quasi senza avvedersene».

Leggere i tantissimi scritti di Gemelli di quegli anni, le sentenze dei plotoni di esecuzione, le lettere dei soldati scampate alla censura e le lettere anonime indirizzate al re “soldato” Vittorio Emanuele potrebbero servire a rendere questo anniversario occasione di costruzione di una memoria nazionale fondata non sull’ipocrisia, la mistificazione, la baggianata del tricolore elemento di coesione nazionale, ma sul riconoscimento che 5 milioni di italiani furono sottoposti ad una prova inutile, onerosissima e per molti di loro mortale. Altro quindi da quanto il Ministero dell’Istruzione prepara per i nostri studenti in quelle che definisce le «celebrazioni relative alla Prima Guerra Mondiale» grazie ad un storia da trattare – secondo le parole della sua direttrice generale Palumbo – in modo «nuovo e fresco». L’orrore non andrebbe mai celebrato, ma riconosciuto, ricordato e condannato.

dal Roma pride di quest’anno a Roma: “ci ved … iamo fuori”

nuova proposta1

 

IL DISCORSO DI NUOVA PROPOSTA LETTO DA CATERINA DAL PALCO DEL ROMA PRIDE 2014

“Lo slogan della campagna di comunicazione del Roma Pride di quest’anno e’ “ci vediamo fuori!”.
Fuori, alla luce del sole, senza nascondersi più, perché le nostre esistenze sono belle, degne e piene come quelle di ogni altra persona, e allo stesso modo dovrebbero essere protette e incoraggiate da uguali diritti e responsabilizzate da uguali doveri.
Noi di Nuova proposta, donne e uomini omosessuali cristiani, da tempo abbiamo fatto nostra questo stile di vita e di pensiero.
Ci sentiamo parte del popolo di Dio che cammina e vogliamo favorire il cambiamento tra le comunità cristiane che sono ancora troppo disinformate e spesso incapaci di accogliere e sentire veramente come “fratello o sorella” una persona omosessuale o transessuale. Noi, questo cambiamento, cerchiamo di promuoverlo dall’interno delle comunità stesse.
Negli ultimi anni ci stiamo impegnando per “portare fuori” le nostre storie di vita e proporre percorsi nuovi di accoglienza dentro le parrocchie, dentro i gruppi e le associazioni cristiane, proponendoci come interlocutori di un dialogo che sappiamo può essere anche duro e doloroso, ma che riteniamo indispensabile.
Accogliere significa entrare in relazione profonda con una persona, senza giudicare, senza porre condizioni, significa rispettare l’altra persona, i suoi desideri, la sua affettività e contribuire con ogni mezzo al dispiegarsi delle sua energie vitali, dei suo sogni,che sono qualcosa di sano e prezioso e possono essere importanti e utili per tutti, per il bene della società.
E’ finito il tempo di aspettare passivamente cambiamenti nel mondo cristiano o legittimazioni dall’alto.
Abbiamo capito che il cambiamento si realizza solo mettendosi in gioco, proponendo, mettendo in circolo le proprie esperienze, le proprie esistenze, trasformandole in occasione di crescita per la comunità intera.

nuova proposta3

Oggi più che mai,siamo di fronte a un’opportunità di cambiamento e crescita.
La domanda che si e’ rivolto spontaneamente il vescovo Francesco “chi sono io per giudicare un gay?” – comunque la si pensi – è stato un balsamo per molte persone, ma deve ora diventare un cambiamento concreto.
Quella sospensione di giudizio non basta!
Deve evolvere in crescita delle comunità cristiane nella loro capacità concreta di accogliere, incoraggiare, rispettare le persone omosessuali e transessuali nel loro desiderio di una vita piena, come tutte le persone che ancora oggi si trovano emarginate ed escluse a causa dei sistemi di potere.

nuova proposta

La nostra speranza, per cui continuiamo a lottare, è quella che di realizzare il progetto di libertà e di umanità proposto da Gesù 2000 anni fa: guardare ogni persona con gli occhi del cuore e non con quelli della legge, lottare perché chi viene lasciato indietro dalla società dei potenti, possa camminare a testa alta con la propria dignità di essere umano.
Gesù camminava e predicava “fuori”, per le strade, non nel tempio.
Dobbiamo continuare,tutti insieme, lesbiche , gay, etero, transessuali, credenti e non credenti a stare “fuori”, a produrre bellezza e speranza, a dialogare con tutti, a proporre valori nuovi e a lottare per diritti e doveri uguali per tutti!”!

le beatitudini secondo papa Francesco

   

Le beatitudini sono il programma di vita che ci propone Gesù!

 

Le beatitudini sono il programma di vita che ci propone Gesù!

Come si fa per diventare un buon cristiano?

Questa è la domanda che Papa Francesco si è posto ed ha rivolto ai partecipanti della Santa Messa in Casa Santa Marta oggi, lunedì 9 giugno 2014, spiegando poi, nel corso della riflessione, che la risposta a tale questione è semplice e la possiamo trovare nelle beatitudini, le quali sono “il programma di vita che ci propone Gesù; tanto semplice, ma tanto difficile“.

Il cammino delle beatitudini, ha spiegato il Pontefice, è complesso perché è un cammino contro corrente: “il mondo ci dice: la gioia, la felicità, il divertimento, quello è il bello della vita” ha detto “E ignora, guarda da un’altra parte, quando ci sono problemi di malattia, problemi di dolore nella famiglia“.

Perché questo? Perché sostanzialmente “il mondo non vuole piangere” quindi alla fin fine “preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle. Soltanto la persona che vede le cose come sono, e piange nel suo cuore – ha quindi spiegato Bergoglio – è felice e sarà consolata” ma non nel modo terreno, perché “la consolazione di Gesù, non quella del mondo“.

Così Gesù, in “un mondo di guerre, un mondo dove dappertutto si litiga, dove dappertutto c’è l’odio” propone “niente guerre, niente odio, pace, mitezza” proclamando beati i miti; in un mondo dove “tutti siamo stati perdonati” dove tutti apparteniamo a un grande “esercito di perdonati“ Gesù dice beati coloro che perdonano, che vanno “per questa strada del perdono“; ancora in un mondo dove “è tanto comune da noi essere operatori di guerre o almeno operatori di malintesi” Gesù dichiara beati gli operatori di pace e coloro che “hanno un cuore semplice, puro, senza sporcizie, un cuore che sa amare con quella purità tanto bella“.

Quelle di Gesù sono “poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per viverla

il pregiudizio è disprezzo: papa Francesco tira le orecchie ai romani

Papa Francesco: «Ho visto
i romani disprezzare gli zingari»

bambini rom

 

 

 

 

 

 

Papa Bergoglio rievoca un ricordo personale nell’incontro con i promotori episcopali e la Pastorale degli zingari: «Quando prendevo il bus a Roma e salivano nomadi, l’autista spesso diceva ai passeggeri: `Guardate i portafogli´. Questo è disprezzo»
di Redazione Online Rom
Bergoglio in metrò a Buenos Aires quando era cardinale (foto Ap)

Bergoglio in metrò a Buenos Aires quando era cardinale

Papa Francesco accusa i romani di non rispettare i nomadi. Di più, sostiene che alcuni li disprezzano: «Quando prendevo il bus a Roma e salivano degli zingari, l’autista spesso diceva ai passeggeri: `Guardate i portafogli´. Questo è disprezzo, forse è vero, ma è disprezzo». Così il pontefice ha evocato un ricordo personale, giovedì 5 giugno, parlando ai partecipanti all’incontro mondiale dei promotori episcopali e dei direttori nazionali della Pastorale degli zingari. L’evento – organizzato dal Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti – si è tenuto giovedì nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, sul tema «La Chiesa e gli zingari: annunciare il Vangelo nelle periferie».

In difesa dei piccoli rom

Nella Capitale è noto l’aneddoto di un vescovo gesuita latino-americano, il brasiliano Don Luciano de Almeida – amico di Bergoglio e del quale oggi è in corso il processo di beatificazione -, il quale, girando anche lui in bus, prendeva sempre le difese dei ragazzini rom, che venivano trattati con disprezzo dai passeggeri. Il Santo Padre è poi tornato sull’argomento aggiungendo che «spesso gli zingari si trovano ai margini della società e a volte sono visti con ostilità e con sospetto». E ha aggiunto: «Sono tra i più vulnerabili, soprattutto quando mancano gli aiuti per l’integrazione e per la promozione della persona umana nelle varie dimensioni del vivere civile».

«Vittime di nuove forme di schiavitù»

Papa Francesco sottolinea che «i gruppi più deboli sono quelli che più facilmente diventano vittime delle nuove forme di schiavitù: sono infatti le persone meno tutelate che cadono nella trappola dello sfruttamento, dell’accattonaggio forzato e di diverse forme di abuso». E spiega: «Tra le cause che nell’odierna società provocano situazioni di miseria in una parte della popolazione, possiamo individuare la mancanza di strutture educative per la formazione culturale e professionale, il difficile accesso all’assistenza sanitaria, la discriminazione nel mercato del lavoro e la carenza di alloggi dignitosi».

«I pastori siano loro fratelli»

Bergoglio non si nasconde che quella dei nomadi «è una realtà complessa», e precisa che «certo anche il popolo zingaro è chiamato a contribuire al bene comune e questo è possibile con adeguati itinerari di corresponsabilità, nell’osservanza dei doveri e nella promozione dei diritti di ciascuno». Tuttavia c’è bisogno di aiutarli e per questo indirizza ai responsabili della Pastorale per gli zingari un «incoraggiamento a proseguire con generosità la vostra importante opera, a non scoraggiarvi ma a continuare a impegnarvi in favore di chi maggiormente versa in condizioni di bisogno e di emarginazione nelle periferie umane». «Gli zingari -conclude – possano trovare in voi dei fratelli e delle sorelle che li amano con lo stesso amore con cui Cristo ha amato i più emarginati: siate per essi il volto accogliente e gioioso della Chiesa»

«Tra noi disoccupazione al 95%»

Sottoscrive in pieno le parole di Papa Francesco la `Federazione Rom e Sinti Insieme. Anche se Djana Pavlovic, vice presidente della federazione, chiede al pontefice «di non utilizzare il termine `zingari´». «Nessun dubbio, è ovvio, sulla volontà di usare questa parola con un’accezione positiva, ma noi preferiamo essere chiamati `Rom´». «Nessuno al di fuori dell’Italia usa la parola zingaro, Rom nella nostra lingua significa `uomo´ ed è sicuramente la denominazione più adatta». Quanto al discorso del pontefice, «il Papa è da ringraziare perché ha sottolineato una situazione che è riportata in tutti i rapporti sulle condizioni di vita del popolo Rom e Sinti. La disoccupazione è al 95%, il tasso di mortalità infantile è elevatissimo, solo il 3% della popolazione Rom supera il 60mo anno di vita». «La nostra condizione è la conseguenza di un razzismo che dura da secoli. In Italia -denuncia Pavlovic – trent’anni di politiche di assistenzialismo e mancata responsabilizzazione hanno ostacolato l’inclusione sociale. Manca la volontà politica di mettere fine alle discriminazioni e ad una strumentalizzazione che spesso viene usata a fini politici».

Il Paese dei Campi (di segregazione)

L’associazione «21 Luglio» che da anni si occupa dei problemi dei rom nella capitale osserva che «è la prima volta che un Pontefice individua nella mancanza di alloggi adeguati una delle cause principali dello stato di discriminazione e di segregazione in cui vivono le comunità rom e sinte nel nostro Paese». L’Associazione sottolinea poi come l’Italia, denominata il «Paese dei campi», sia lo Stato che più degli altri ha «promosso politiche segnate dalla segregazione abitativa nei confronti di rom e sinti». «Le parole di Papa Francesco, in perfetta sintonia con le raccomandazioni delle istituzioni internazionali ed europee – continua 21 luglio – indicano nel superamento dei “campi nomadi” la strada maestra per una piena inclusione della minoranza rom. Un superamento urgente ma finora disatteso, visto che in molte città italiane, a partire dalla Capitale, gli amministratori continuano a proporre il “campo” come il luogo del margine in cui collocare, su base etnica, uomini, donne e bambini rom

image_pdfimage_print