un anno di pontificato raccontato da papa Francesco al Corriere della sera

Bergoglio e il primo anno da Papa: «Grande attenzione ai divorziati. Sulle unioni civili valutare i casi

l’intervista presa dal sito on line del ‘C0rriere della sera’

«Benedetto XVI non è una statua Partecipa alla vita della Chiesa»

 

di  Ferruccio de  Bortoli

Papa Francesco (LaPresse)
papa Francesco

Un anno è trascorso da quel semplice «buonasera» che commosse il mondo. L’arco di dodici mesi così intensi — non solo per la vita della Chiesa — fatica a contenere la grande messe di novità e i tanti segni profondi dell’innovazione pastorale di Francesco. Siamo in una saletta di Santa Marta. Una sola finestra dà su un piccolo cortile interno che schiude un minuscolo angolo di cielo azzurro. La giornata è bellissima, primaverile, tiepida. Il Papa sbuca all’improvviso, quasi di scatto, da una porta e ha un viso disteso, sorridente. Guarda divertito i troppi registratori che l’ansia senile di un giornalista ha posto su un tavolino. «Funzionano? Sì? Bene». Il bilancio di un anno? No, i bilanci non gli piacciono. «Li faccio solo ogni quindici giorni, con il mio confessore».

Lei, Santo Padre, ogni tanto telefona a chi le chiede aiuto. E qualche volta non le credono.

«Sì, è capitato. Quando uno chiama è perché ha voglia di parlare, una domanda da fare, un consiglio da chiedere. Da prete a Buenos Aires era più semplice. E per me resta un’abitudine. Un servizio. Lo sento dentro. Certo, ora non è tanto facile farlo vista la quantità di gente che mi scrive».

E c’è un contatto, un incontro che ricorda con particolare affetto?

«Una signora vedova, di ottant’anni, che aveva perso il figlio. Mi scrisse. E adesso le faccio una chiamatina ogni mese. Lei è felice. Io faccio il prete. Mi piace».

I rapporti con il suo predecessore. Ha mai chiesto qualche consiglio a Benedetto XVI?

«Sì. Il Papa emerito non è una statua in un museo. È una istituzione. Non eravamo abituati. Sessanta o settant’anni fa, il vescovo emerito non esisteva. Venne dopo il Concilio. Oggi è un’istituzione. La stessa cosa deve accadere per il Papa emerito. Benedetto è il primo e forse ce ne saranno altri. Non lo sappiamo. Lui è discreto, umile, non vuole disturbare. Ne abbiamo parlato e abbiamo deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa. Una volta è venuto qui per la benedizione della statua di San Michele Arcangelo, poi a pranzo a Santa Marta e, dopo Natale, gli ho rivolto l’invito a partecipare al Concistoro e lui ha accettato. La sua saggezza è un dono di Dio. Qualcuno avrebbe voluto che si ritirasse in una abbazia benedettina lontano dal Vaticano. Io ho pensato ai nonni che con la loro sapienza, i loro consigli danno forza alla famiglia e non meritano di finire in una casa di riposo».

 

Francesco: un anno da papa

 Il suo modo di governare la Chiesa a noi è sembrato questo: lei ascolta tutti e decide da solo. Un po’ come il generale dei gesuiti. Il Papa è un uomo solo?

«Sì e no. Capisco quello che vuol dirmi. Il Papa non è solo nel suo lavoro perché è accompagnato e consigliato da tanti. E sarebbe un uomo solo se decidesse senza sentire o facendo finta di sentire. Però c’è un momento, quando si tratta di decidere, di mettere una firma, nel quale è solo con il suo senso di responsabilità».

Lei ha innovato, criticato alcuni atteggiamenti del clero, scosso la Curia. Con qualche resistenza, qualche opposizione. La Chiesa è già cambiata come avrebbe voluto un anno fa?

«Io nel marzo scorso non avevo alcun progetto di cambiamento della Chiesa. Non mi aspettavo questo trasferimento di diocesi, diciamo così. Ho cominciato a governare cercando di mettere in pratica quello che era emerso nel dibattito tra cardinali nelle varie congregazioni. Nel mio modo di agire aspetto che il Signore mi dia l’ispirazione. Le faccio un esempio. Si era parlato della cura spirituale delle persone che lavorano nella Curia, e si sono cominciati a fare dei ritiri spirituali. Si doveva dare più importanza agli Esercizi Spirituali annuali: tutti hanno diritto a trascorrere cinque giorni in silenzio e meditazione, mentre prima nella Curia si ascoltavano tre prediche al giorno e poi alcuni continuavano a lavorare».

La tenerezza e la misericordia sono l’essenza del suo messaggio pastorale…

«E del Vangelo. È il centro del Vangelo. Altrimenti non si capisce Gesù Cristo, la tenerezza del Padre che lo manda ad ascoltarci, a guarirci, a salvarci».

Ma è stato compreso questo messaggio? Lei ha detto che la francescomania non durerà a lungo. C’è qualcosa nella sua immagine pubblica che non le piace?

Papa Benedetto XVI lascia il pontificato

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«Mi piace stare tra la gente, insieme a chi soffre, andare nelle parrocchie. Non mi piacciono le interpretazioni ideologiche, una certa mitologia di papa Francesco. Quando si dice per esempio che esce di notte dal Vaticano per andare a dar da mangiare ai barboni in via Ottaviano. Non mi è mai venuto in mente. Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione. Dipingere il Papa come una sorta di superman, una specie di star, mi pare offensivo. Il Papa è un uomo che ride, piange, dorme tranquillo e ha amici come tutti. Una persona normale».

Nostalgia per la sua Argentina?

«La verità è che io non ho nostalgia. Vorrei andare a trovare mia sorella, che è ammalata, l’ultima di noi cinque. Mi piacerebbe vederla, ma questo non giustifica un viaggio in Argentina: la chiamo per telefono e questo basta. Non penso di andare prima del 2016, perché in America Latina sono già stato a Rio. Adesso devo andare in Terra Santa, in Asia, poi in Africa».

Ha appena rinnovato il passaporto argentino. Lei è pur sempre un capo di Stato.

«L’ho rinnovato perché scadeva».

Le sono dispiaciute quelle accuse di marxismo, soprattutto americane, dopo la pubblicazione dell’Evangelii Gaudium?

«Per nulla. Non ho mai condiviso l’ideologia marxista, perché non è vera, ma ho conosciuto tante brave persone che professavano il marxismo».

Gli scandali che hanno turbato la vita della Chiesa sono fortunatamente alle spalle. Le è stato rivolto, sul delicato tema degli abusi sui minori, un appello pubblicato dal Foglio e firmato tra gli altri dai filosofi Besançon e Scruton perché lei faccia sentire alta la sua voce contro i fanatismi e la cattiva coscienza del mondo secolarizzato che rispetta poco l’infanzia.

«Voglio dire due cose. I casi di abusi sono tremendi perché lasciano ferite profondissime. Benedetto XVI è stato molto coraggioso e ha aperto una strada. La Chiesa su questa strada ha fatto tanto. Forse più di tutti. Le statistiche sul fenomeno della violenza dei bambini sono impressionanti, ma mostrano anche con chiarezza che la grande maggioranza degli abusi avviene in ambiente familiare e di vicinato. La Chiesa cattolica è forse l’unica istituzione pubblica ad essersi mossa con trasparenza e responsabilità. Nessun altro ha fatto di più. Eppure la Chiesa è la sola ad essere attaccata».

Santo Padre, lei dice «i poveri ci evangelizzano». L’attenzione alla povertà, la più forte impronta del suo messaggio pastorale, è scambiata da alcuni osservatori come una professione di pauperismo. Il Vangelo non condanna il benessere. E Zaccheo era ricco e caritatevole.

«Il Vangelo condanna il culto del benessere. Il pauperismo è una delle interpretazioni critiche. Nel Medioevo c’erano molte correnti pauperistiche. San Francesco ha avuto la genialità di collocare il tema della povertà nel cammino evangelico. Gesù dice che non si possono servire due signori, Dio e la Ricchezza. E quando veniamo giudicati nel giudizio finale (Matteo, 25) conta la nostra vicinanza con la povertà. La povertà allontana dall’idolatria, apre le porte alla Provvidenza. Zaccheo devolve metà della sua ricchezza ai poveri. E a chi tiene i granai pieni del proprio egoismo il Signore, alla fine, presenta il conto. Quello che penso della povertà l’ho espresso bene nella Evangelii Gaudium».

Lei ha indicato nella globalizzazione, soprattutto finanziaria, alcuni dei mali che aggrediscono l’umanità. Ma la globalizzazione ha strappato dall’indigenza milioni di persone. Ha dato speranza, un sentimento raro da non confondere con l’ottimismo.

«È vero, la globalizzazione ha salvato dalla povertà molte persone, ma ne ha condannate tante altre a morire di fame, perché con questo sistema economico diventa selettiva. La globalizzazione a cui pensa la Chiesa assomiglia non a una sfera, nella quale ogni punto è equidistante dal centro e in cui quindi si perde la peculiarità dei popoli, ma a un poliedro, con le sue diverse facce, per cui ogni popolo conserva la propria cultura, lingua, religione, identità. L’attuale globalizzazione “sferica” economica , e soprattutto finanziaria, produce un pensiero unico, un pensiero debole. Al centro non vi è più la persona umana, solo il denaro».

Il tema della famiglia è centrale nell’attività del Consiglio degli otto cardinali. Dall’esortazione Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II molte cose sono cambiate. Due Sinodi sono in programma. Si aspettano grandi novità. Lei ha detto dei divorziati: non vanno condannati, vanno aiutati.

«È un lungo cammino che la Chiesa deve compiere. Un processo voluto dal Signore. Tre mesi dopo la mia elezione mi sono stati sottoposti i temi per il Sinodo, si è proposto di discutere su quale fosse l’apporto di Gesù all’uomo contemporaneo. Ma alla fine con passaggi graduali — che per me sono stati segni della volontà di Dio — si è scelto di discutere della famiglia che attraversa una crisi molto seria. È difficile formarla. I giovani si sposano poco. Vi sono molte famiglie separate nelle quali il progetto di vita comune è fallito. I figli soffrono molto. Noi dobbiamo dare una risposta. Ma per questo bisogna riflettere molto in profondità. È quello che il Concistoro e il Sinodo stanno facendo. Bisogna evitare di restare alla superficie. La tentazione di risolvere ogni problema con la casistica è un errore, una semplificazione di cose profonde, come facevano i farisei, una teologia molto superficiale. È alla luce della riflessione profonda che si potranno affrontare seriamente le situazioni particolari, anche quelle dei divorziati, con profondità pastorale».

 

 

Perché la relazione del cardinale Walter Kasper all’ultimo Concistoro (un abisso tra dottrina sul matrimonio e la famiglia e la vita reale di molti cristiani) ha così diviso i porporati? Come pensa che la Chiesa possa percorrere questi due anni di faticoso cammino arrivando a un largo e sereno consenso? Se la dottrina è salda, perché è necessario il dibattito?

«Il cardinale Kasper ha fatto una bellissima e profonda presentazione, che sarà presto pubblicata in tedesco, e ha affrontato cinque punti, il quinto era quello dei secondi matrimoni. Mi sarei preoccupato se nel Concistoro non vi fosse stata una discussione intensa, non sarebbe servito a nulla. I cardinali sapevano che potevano dire quello che volevano, e hanno presentato molti punti di vista distinti, che arricchiscono. I confronti fraterni e aperti fanno crescere il pensiero teologico e pastorale. Di questo non ho timore, anzi lo cerco».

In un recente passato era abituale l’appello ai cosiddetti «valori non negoziabili» soprattutto in bioetica e nella morale sessuale. Lei non ha ripreso questa formula. I principi dottrinali e morali non sono cambiati. Questa scelta vuol forse indicare uno stile meno precettivo e più rispettoso della coscienza personale?

«Non ho mai compreso l’espressione valori non negoziabili. I valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano esser valori negoziabili. Quello che dovevo dire sul tema della vita, l’ho scritto nell’esortazione Evangelii Gaudium».

Molti Paesi regolano le unioni civili. È una strada che la Chiesa può comprendere? Ma fino a che punto?

«Il matrimonio è fra un uomo e una donna. Gli Stati laici vogliono giustificare le unioni civili per regolare diverse situazioni di convivenza, spinti dall’esigenza di regolare aspetti economici fra le persone, come ad esempio assicurare l’assistenza sanitaria. Si tratta di patti di convivenza di varia natura, di cui non saprei elencare le diverse forme. Bisogna vedere i diversi casi e valutarli nella loro varietà».

Come verrà promosso il ruolo della donna nella Chiesa?

«Anche qui la casistica non aiuta. È vero che la donna può e deve essere più presente nei luoghi di decisione della Chiesa. Ma questa io la chiamerei una promozione di tipo funzionale. Solo così non si fa tanta strada. Bisogna piuttosto pensare che la Chiesa ha l’articolo femminile “la”: è femminile dalle origini. Il grande teologo Urs von Balthasar lavorò molto su questo tema: il principio mariano guida la Chiesa accanto a quello petrino. La Vergine Maria è più importante di qualsiasi vescovo e di qualsiasi apostolo. L’approfondimento teologale è in corso. Il cardinale Rylko, con il Consiglio dei Laici, sta lavorando in questa direzione con molte donne esperte di varie materie».

A mezzo secolo dall’Humanae Vitae di Paolo VI, la Chiesa può riprendere il tema del controllo delle nascite? Il cardinale Martini, suo confratello, riteneva che fosse ormai venuto il momento.

«Tutto dipende da come viene interpretata l’Humanae Vitae. Lo stesso Paolo VI, alla fine, raccomandava ai confessori molta misericordia, attenzione alle situazioni concrete. Ma la sua genialità fu profetica, ebbe il coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale, di esercitare un freno culturale, di opporsi al neo-malthusianesimo presente e futuro. La questione non è quella di cambiare la dottrina, ma di andare in profondità e far sì che la pastorale tenga conto delle situazioni e di ciò che per le persone è possibile fare. Anche di questo si parlerà nel cammino del Sinodo».

La scienza evolve e ridisegna i confini della vita. Ha senso prolungare artificialmente la vita in stato vegetativo? Il testamento biologico può essere una soluzione?

«Io non sono uno specialista negli argomenti bioetici. E temo che ogni mia frase possa essere equivocata. La dottrina tradizionale della Chiesa dice che nessuno è obbligato a usare mezzi straordinari quando si sa che è in una fase terminale. Nella mia pastorale, in questi casi, ho sempre consigliato le cure palliative. In casi più specifici è bene ricorrere, se necessario, al consiglio degli specialisti ».

Il prossimo viaggio in Terra Santa porterà a un accordo di intercomunione con gli ortodossi che Paolo VI, cinquant’anni fa, era arrivato quasi a firmare con Atenagora?

«Siamo tutti impazienti di ottenere risultati “chiusi”. Ma la strada dell’unità con gli ortodossi vuol dire soprattutto camminare e lavorare insieme. A Buenos Aires, nei corsi di catechesi, venivano diversi ortodossi. Io trascorrevo il Natale e il 6 gennaio insieme ai loro vescovi, che a volte chiedevano anche consiglio ai nostri uffici diocesani. Non so se sia vero l’episodio che si racconta di Atenagora che avrebbe proposto a Paolo VI che loro camminassero insieme e mandassero tutti i teologi su un’isola a discutere fra loro. È una battuta, ma importante è che camminiamo insieme. La teologia ortodossa è molto ricca. E credo che loro abbiano in questo momento grandi teologi. La loro visione della Chiesa e della sinodalità è meravigliosa».

Fra qualche anno la più grande potenza mondiale sarà la Cina con la quale il Vaticano non ha rapporti. Matteo Ricci era gesuita come lei.

«Siamo vicini alla Cina. Io ho mandato una lettera al presidente Xi Jinping quando è stato eletto, tre giorni dopo di me. E lui mi ha risposto. Dei rapporti ci sono. È un popolo grande al quale voglio bene».

Perché Santo Padre non parla mai d’Europa? Che cosa non la convince del disegno europeo?

«Lei ricorda il giorno in cui ho parlato dell’Asia? Che cosa ho detto? (qui il cronista si avventura in qualche spiegazione raccogliendo vaghi ricordi per poi accorgersi di essere caduto in un simpatico trabocchetto). Io non ho parlato né dell’Asia, né dell’Africa, né dell’Europa. Solo dell’America Latina quando sono stato in Brasile e quando ho dovuto ricevere la Commissione per l’America Latina. Non c’è stata ancora l’occasione di parlare d’Europa. Verrà ».

Che libro sta leggendo in questi giorni?

«Pietro e Maddalena di Damiano Marzotto sulla dimensione femminile della Chiesa. Un bellissimo libro».

E non riesce a vedere qualche bel film, un’altra delle sue passioni? «La grande bellezza» ha vinto l’Oscar. La vedrà?

«Non lo so. L’ultimo film che ho visto è stato La vita è bella di Benigni. E prima avevo rivisto La Strada di Fellini. Un capolavoro. Mi piaceva anche Wajda…».

San Francesco ebbe una giovinezza spensierata. Le chiedo: si è mai innamorato?

«Nel libro Il Gesuita, racconto di quando avevo una fidanzatina a 17 anni. E ne faccio cenno anche ne Il Cielo e la Terra, il volume che ho scritto con Abraham Skorka. In seminario una ragazza mi fece girare la testa per una settimana».

E come finì se non sono indiscreto?

«Erano cose da giovani. Ne parlai con il mio confessore»

(un grande sorriso).

Grazie Padre Santo.

«Grazie a lei».

intervista di papa Francesco al ‘Corriere della Sera’

Papa Francesco al Corriere:

“Forse ci saranno altri papi emeriti”

“Grande attenzione ai divorziati”

da L’Huffington Post                                                                                       05/03/2014                                                                                                                                                                                                                                                              

papa francesco

Il Papa non va dipinto come superman o una specie di star perché “è un uomo che ride, piange, dorme tranquillo e ha amici come tutti, una persona normale”. Così Papa Francesco si racconta in un’intervista a tutto campo al direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, in occasione del suo primo anno di pontificato. Nella lunga intervista, il Papa parla del suo primo anno a capo della Chiesa, toccando una delle questioni su cui si attendono grandi novità: quella dei divorziati, a cui bisogna dare “grande attenzione”. E poi la rivoluzione impressa dal suo predecessore, Benedetto XVI, primo Papa emerito e forse non unico (“Benedetto è il primo e forse ce ne saranno altri…”, si lascia una porta aperta Francesco).

“Mi piace stare tra la gente, insieme a chi soffre, andare nelle parrocchie. Non mi piacciono le interpretazioni ideologiche, una certa mitologia di papa Francesco”, spiega. “Quando si dice per esempio che [il Papa] esce di notte dal Vaticano per andare a dar da mangiare ai barboni in via Ottaviano. Non mi è mai venuto in mente”.

“Benedetto XVI non è una statua in un museo”. Francesco parla dei rapporti col suo predecessore, Joseph Ratzinger, sottolineando che  “il Papa emerito non è una statua in un museo. È una istituzione”. “Benedetto – dice – è il primo e forse ce ne saranno altri. Non lo sappiamo. Lui è discreto, umile”, “abbiamo deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa”, “la sua saggezza è un dono di Dio”. Un po’ come quella dei nonni, afferma, che “non meritano di finire in una casa di riposo”.

“Abusi sui minori sono tremendi, ma la Chiesa ha fatto tanto”. Il pontefice riconosce a Ratzinger il merito di aver “aperto una strada” nei casi di abusi su minori, “tremendi perché lasciano ferite profondissime”. “La grande maggioranza degli abusi avviene in ambiente familiare e di vicinato”, spiega Bergoglio. “La Chiesa cattolica è forse l’unica istituzione pubblica a essersi mossa con trasparenza e responsabilità”, eppure “è la sola ad essere attaccata”.

“Attenzione ai divorziati, su unioni civili valutare i casi”. Quello della famiglia è un tema centrale, “un lungo cammino che la Chiesa deve compiere. Un processo voluto dal Signore”, dice il Papa. “È alla luce della riflessione profonda che si potranno affrontare seriamente le situazioni particolari, anche quelle dei divorziati, con profondità pastorale”, spiega Bergoglio, per il quale la famiglia attraversa “una crisi molto seria”. E osserva: “I giovani si sposano poco. Vi sono molte famiglie separate nelle quali il progetto di vita comune è fallito. I figli soffrono molto. Noi dobbiamo dare una risposta. Ma per questo bisogna riflettere molto in profondità. È quello che il Concistoro e il Sinodo stanno facendo”. E sulle unioni civili: “Si tratta di patti di convivenza di varia natura, di cui non saprei elencare le diverse forme. Bisogna vedere i diversi casi e valutarli nella loro varietà” 

I gesti di tenerezza di Papa Francesco
 

 La Chiesa è donna. La Chiesa “ha l’articolo femminile “la”: è femminile dalle origini”, risponde Bergoglio a una domanda di De Bortoli. “Il grande teologo Urs von Balthasar lavorò molto su questo tema – spiega Papa Francesco – il principio mariano guida la Chiesa accanto a quello petrino. La Vergine Maria è più importante di qualsiasi vescovo e di qualsiasi apostolo. L’approfondimento teologale è in corso. Il cardinale Rylko, con il Consiglio dei Laici, sta lavorando in questa direzione con molte donne esperte di varie materie”.

Fine vita, no a obbligo di mezzi straordinari per chi è in fase terminale. “La dottrina tradizionale della Chiesa dice che nessuno è obbligato a usare mezzi straordinari quando si sa che la vita è in una fase terminale”. Così Papa Francesco al Corsera a una domanda sul testamento biologico. “Ho sempre consigliato le cure palliative”, ma “in casi più specifici” è bene ricorrere “al consiglio degli specialisti”, dice.

Quanto al concetto di “valori non negoziabili”, Bergoglio confessa di non aver mai compreso questa espressione. “I valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita della mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano essere valori non negoziabili”.

Ultimo libro e ultimo film. Che libro sta leggendo in questi giorni?, chiede il direttore del Corsera. “Pietro e Maddalena di Damiano Marzotto sulla dimensione femminile della Chiesa. Un libro bellissimo”. E ultimo film? “La vita è bella di Benigni. E prima avevo rivisto La Strada di Fellini. Un capolavoro…”.

 Il piccolo amico di Papa Francesco
 
 

“Vi racconto il mio primo anno di pontificato”

di  Ferruccio de  Bortoli

Papa Francesco (LaPresse)

 

Un anno è trascorso da quel semplice «buonasera» che commosse il mondo. L’arco di dodici mesi così intensi — non solo per la vita della Chiesa — fatica a contenere la grande messe di novità e i tanti segni profondi dell’innovazione pastorale di Francesco. Siamo in una saletta di Santa Marta. Una sola finestra dà su un piccolo cortile interno che schiude un minuscolo angolo di cielo azzurro. La giornata è bellissima, primaverile, tiepida. Il Papa sbuca all’improvviso, quasi di scatto, da una porta e ha un viso disteso, sorridente. Guarda divertito i troppi registratori che l’ansia senile di un giornalista ha posto su un tavolino. «Funzionano? Sì? Bene». Il bilancio di un anno? No, i bilanci non gli piacciono. «Li faccio solo ogni quindici giorni, con il mio confessore»…

 

whatsapp e la nostra psiche

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devo personalmente un grazie alla dottoressa M. Cikada (sito: ‘pollicinoeraungrande’) per le appropriate riflessioni espresse in questo suo bell’articolo che faccio mio non solo idealmente ma anche concretamente inserendolo volentieri nel mio sito sentendomi in sintonia con lei sia nell’approccio tardivo (non certo da ‘nativo digitale’) a questa tecnologia con relativa meraviglia, sia nella presentazione della problematica che questa nuova tecnologia promuove e suscita in senso positivo ma anche di perplessità e rischio se non accortamente utilizzata:

Psiche e WhatsApp, come ti cambio la comunicazione e il setting

La scarsa privacy di WhatsApp mette a rischio i rapporti

Il Web non si limita a collegare macchine, connette delle persone.
Tim Berners-Lee

E’ successo. Dopo mesi a tergiversare, mi sono arresa alla modernità.

E per ragioni di lavoro, sebbene appaia come la solita burla, l’ho finita per cambiare telefono. Ora sono moderna, anche io sono smart. Cosa significa per una psicologa accettare la modernità? In primis, accettare che cambino i modi di comunicare, i tempi e le parole. Sembra facile? Non del tutto. Anzi, bisogna arrivarci almeno un po’ preparati.

Facciamo il punto sul comunicare in genere nel mondo dei Social.

Che la comunicazione cambi continuamente grazie ai nuovi mezzi, social, app etc è ormai chiaro a tutti e non possiamo non tenerne conto. Specie i giovani sembrano avere familiarità con mezzi come sms, skype, twitter e via discorrendo ma anche tra gli adulti, il modo di comunicare per status, like e pochi tweet sembra prendere sempre più piede. A volte anzi, i “grandi” sono più vulnerabili a certe ferite che arrivano facilmente online per personali fragilità.

Le relazioni, cambiano insieme con il come si comunica che diventa il come approcciamo l’altro. Nelle coppie, come tra gli amici, la connessione costante è quasi la regola. Preoccupazione alle stelle quando l’altro non risponde o non si connette per qualche ora. Litigi perchè si è stati localizzati, è possibile anche questo, nel posto dove non si doveva, perchè non si è detto il “like” giusto alla cosa giusta, perchè si è scritto uno status che ha dato da pensare, insomma, la tecnologia rende necessario interpretare tutta una serie di sfumature che non sempre aiutano la relazione. Il controllo  prende piede, non lasciando spazio alla fiducia di crescere con i suoi tempi, molte relazioni giovani si basano su quello che si dice e si “fa” online con conseguenti facili rotture e sofferenze. Facebook entra  nella vita reale portando con se un bel carico di divorzi e cause. Nel 2012, in Inghilterra, si scriveva che era stato il motivo di un terzo delle separazioni dell’anno precedente. Cosa ci dice questo? Che la comunicazione sui social avviene in modo diverso, impedisce sfumature, sguardi, non ha rughe di espressione e va educata  da una parte e accettata e usata con consapevolezza delle proprie paure.

E come la mettiamo con WhatsApp? Si tratta, per i pochi che non lo sapessero, di “una app di messaggistica mobile multi-piattaforma”, insomma, un modo di comunicare veloce, aperto, per foto e brevi frasi a cui si accede scaricando la piccola App sul telefono, gratis. Pochi secondi e tutti i tuoi contatti sanno che ora sei nel magico mondo di WhatsApp. Sapranno quando ti sei collegato alla App l’ultima volta, potranno comunicare velocemente con te in qualunque momento. Per la stessa natura, la privacy viene a diventare difficile da proteggere. La cosa interessante è che questa App elimina l’imbarazzo verso l’altro in maniera ancora più netta di quanto non faccia già lo schermo di un pc quando si naviga nei social. Guardare nel mondo dell’altro diventa talmente facile che si sente spinti a farlo.

Andiamo per ordine. Questo piccolo programmino per parlare con i propri contatti, sta scalando velocemente la vetta del miglior “creatore di litigi”, quasi peggio di Facebook.

L’immediatezza, che ne fa un apprezzato strumento nell’epoca del “perchè pensarci prima”, spinge gli utilizzatori ad essere molto diretti. Inoltre, il fatto che sia possibile capire se il messaggio è stato letto, con conseguente domanda del caso “perchè non mi ha risposto?” rende il tutto un passo più vicino al cataclisma e inoltre, la dipendenza è dietro l’angolo. Sappiamo quando l’altro ha effettuato l’ultimo accesso, sappiamo che ha letto il nostro messaggio, sappiamo che non ha risposto. Gli ingredienti della crisi ci sono tutti. E infatti le discussioni/litigate su WA sono all’ordine del giorno, perchè vanno a nutrire le debolezze di ognuno di dubbi, informazioni parziali, pensieri quasi magici su quello che l’altro prova e sulle cause degli eventi.

Scomodando Zygmunt Bauman, il filosofo e sociologo che tanto ha scritto sulla società, l’amore, la paura e le relazioni liquide  (uno per tutti : Modernità liquida, Ed. Laterza, Roma-Bari 2002), i social e quindi anche WA hanno reso le relazioni e il tempo di queste diverso, o almeno lo percepiamo diverso. La velocità, l’istantaneità con cui si comunica ha preso il posto della durata anche nelle esperienze, tutto è talmente immediato che si finisce con il perdere aderenza al presente. Tutto, anche come si creiamo la nostra identità, è veloce e frammentato e segnato da ossessioni (comprare, chattare, relazionarsi, essere online) che nascondono la paura di non esistere, di essere diverso. In questo, app e affini, da una parte offrono una finestra sul mondo sempre aperta, utilizzabile quando ci si annoia, quando si ha bisogno di qualcuno, quando ci si sente soli, dall’altra danno a tutto un colore di urgenza e di ansia qualora il nostro messaggio non venga subito recepito come noi desidereremmo. La frustrazione non trova posto in questa comunicazione. L’attesa si carica di domande che non accettano lo spazio dell’altro. Le conclusioni a cui si arriva sono sempre definitive: “Non ha risposto, non ha più interesse per me.” Un silenzio come risposta ad una qualunque frase su WA abbassa l’autostima, peggiora l’ansia, rinforza la sensazione di fragilità. Se questa poi si trasforma in controllo dell’altro, le conseguenze possono esser ancora più dolorose, “con chi parla se non con me?” è la domanda terribile a cui molti cercano risposte, da soli, diventando controllori di ogni movimento dell’altro, misurando il tempo online, i contatti, il tempo di risposta fino all’orlo dell’ossessione. Esasperazione che può portare alla violenza, in alcuni casi.

La pubblicità di una nota bevanda che propone una sorta di collare elisabettiano per tornare a guardare il mondo e non solo attraverso lo schermo di un cellulare, tablet, mac o pc fa pensare che forse dovremmo fermarci un attimo, come si era già scritto anche in questa sede ( post: Se ci sei batti un click!)  la tecnologia è utile ma gli abusi sono sempre da evitare.

Da dove eravamo partiti? Dal mio nuovo telefono e dalle domande che nascono spontanee sul come gestirlo. Viste le conseguenze del possesso della possibilità di comunicare “moderno”. Perchè se si parla sempre di persone, tra queste persone, immerse nel flusso infinito di comunicazioni, di sono molti professionisti.

Cosa pensano gli psicoterapeuti dell’utilizzo di WhatsApp?

Ci sono due aspetti. Uno riguarda l’utenza, chi si rivolge ad un professionista del benessere psichico tramite WhatsApp, l’altro riguarda più direttamente il professionista stesso, il terapeuta che si trova ad educarsi a nuovi linguaggi e nuove regole. Rispetto al primo aspetto, la speranza è sempre che, la facilità di utilizzo del mezzo, non sia uno specchietto per le allodole che attiri persone troppo fragili ed inesperte nella rete di sedicenti non professionisti.

Quindi, quando noto, cercando online, che sono molti quelli che promuovono e propongono la consulenza tramite questa App, non posso non ricordare a potenziali utilizzatori di scegliere con attenzione a chi affidarsi. E’ bene ricordare che le prestazioni online e a distanza sono possibili e molti seri professionisti sanno lavorare bene con questi mezzi. Però, è doveroso che seguano un codice  e delle linee guida ( presentate nel 2004) e le raccomandazioni in merito alle stesse pubblicate  nel 2013 dal Consiglio Nazionale degli Psicologi. Anche se, in entrambi i documenti, non si accenna alla consulenza fornita con questa App.

E il terapeuta con il suo WA installato e attivo?

Chiaramente, il professionista che si butta nel mare magno della comunicazione online, anche senza arrivare alla consulenza, deve sapere che non stiamo parlando della comunicazione che avviene in studio o nelle telefonate. Nel momento in cui si utilizza uno strumento diverso, telefono, sms, email e ora whatsapp, bisogna fare attenzione alla cornice che questi creano intorno alle parole. Non significa rifuggire ma muoversi con scrupolo.

Parliamo di distanze, quelle giuste per il lavoro comune e l’alleanza terapeutica che non possono essere  troppo ravvicinate, mentre immediatezza e vicinanza sono le caratteristiche di WA.

Cosa fare? Se già i messaggi creavano motivo di riflessione, come comportarsi quando un cliente sceglie di comunicare sul canale, diciamo più intimo e prosaico, di WA? L’efficacia va sempre pensata, le parole soppesate, attenzione alle insidie che si nascondono dietro certi piccoli attacchi al setting che arrivano online, devono essere fonte di riflessione per il professionista. Per non parlare del controllo che questo strumento permette di esercitare, “Ieri alle 3.00 era ancora sveglio, come mai?” potrebbe far notare qualcuno in seduta. Chiaramente è possibile lavorare sulle impostazioni per rendere il tutto il meno aperto possibile, ma ricordiamoci che WA è stato pensato proprio per essere aperto. Quindi? Scappare a gambe levate? Non necessariamente. Ma avvicinarsi con consapevolezza delle regole del gioco, anche giocandoci su se necessario con leggerezza, se possibile. Sempre ricordando dove sono i limiti, sempre con in testa il nostro codice e la finalità di ogni scambio comunicativo, quello di diventare elemento di riflessione che renda possibile lavorare poi insieme nel setting terapeutico. Insomma, non è possibile fare a meno della tecnologia ma bisogna imparare ad usarla e non farsi trovare impreparati. Buona rete a tutti.

il doppio papa può generare dualismo pericoloso

i due papi

 “Perché c’è il rischio di un dualismo? Perché si tratta di personaggi entrambi autorevoli, pur molto diversi tra loro. Perché a molti viene spontaneo metterli a confronto, anche solo per cogliere le diverse stagioni della Chiesa e come soffia lo spirito nel corso della storia. Inoltre, perché da qualche tempo Ratzinger sembra aver difficoltà a starsene chiuso nel suo eremo di elezione … “

così Franco Garelli nell’articolo che qui sotto riproduco: con tatto e delicatezza si evidenzia il pericolo concreto che, a  lungo andare, la vicinanza delle due bianche figure rischi di cristallizzare l’idea che convivano a Roma, sotto la sacra volta del Vaticano, due diversi riferimenti per la cattolicità, come due papi per due anime della chiesa separate e inconciliabili:

Il doppio papa per le due anime della Chiesa

 

di Franco Garelli

 in “La Stampa” del 2 marzo 2014

 

Sta succedendo a Roma, sull’altra sponda del Tevere, ciò che alcuni osservatori lungimiranti temevano? Che il «Papa nascosto» diventi, col passare dei mesi, una presenza ingombrante anche per un Papa carismatico come Francesco? Che Ratzinger da Papa emerito susciti più attenzione, curiosità e tenerezza che da Papa regnante? Negli ultimi tempi la convivenza dei due Papi nella sede di Pietro è al centro di riflessioni e di dibattito, sia nell’insieme della cattolicità, sia nel mondo intero. Ha un bel dire Papa Bergoglio di non temere la presenza ravvicinata del suo predecessore, che dopo la grande rinuncia ha scelto di accompagnare la Chiesa soltanto con la sua preghiera. Ha un bel dire che lo vive come un «nonno a casa», che è come avere accanto «il nonno saggio, venerato, amato, esempio di prudenza». Ma il fatto stesso che Ratzinger abbia scelto di vivere a Roma, che mantenga alcune insegne dell’alto ruolo esercitato (la veste bianca, il nome di Benedetto XVI, lo stemma da pontefice), che si presenti e venga percepito a tutti gli effetti come il Papa emerito, sembra produrre una situazione spuria per la Chiesa e il mondo cattolico. A lungo andare, la vicinanza delle due bianche figure rischia di cristallizzare l’idea che convivano a Roma, sotto la sacra volta del Vaticano, due diversi riferimenti per la cattolicità. Insomma, che in questa stagione la Chiesa abbia due teste, due alte figure al comando. Una con tutti i crismi in vista e ricca di fede e di umanità latino-americana; l’altra più sullo sfondo, ma curiosamente resa forte da una vita più silente e appartata e dalle molte qualità che le vengono riconosciute. Perché c’è il rischio di un dualismo? Perché si tratta di personaggi entrambi autorevoli, pur molto diversi tra loro. Perché a molti viene spontaneo metterli a confronto, anche solo per cogliere le diverse stagioni della Chiesa e come soffia lo spirito nel corso della storia. Inoltre, perché da qualche tempo Ratzinger sembra aver difficoltà a starsene chiuso nel suo eremo di elezione, per cui di tanto in tanto fa capolino sulla scena pubblica, o dialogando con qualche intellettuale, o rispondendo ai quesiti di alcuni giornalisti (vedi la missiva inviata qualche giorno fa ad Andrea Tornielli e pubblicata su La Stampa); o perché invitato dallo stesso pontefice regnante a prendere parte a eventi clou della Chiesa. E’ successo una settimana fa nella cerimonia del Concistoro; e lo stesso avverrà alla fine di aprile, quando Ratzinger su invito di Francesco concelebrerà la messa a S. Pietro per la canonizzazione congiunta di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. Ciò che per Bergoglio è un gesto di condivisione verso il suo predecessore, può favorire l’emergere di un alter ego nell’immaginario  cattolico? Francesco ha certamente spalle troppo larghe per lasciarsi impensierire dalla presenza di Ratzinger el suo intorno immediato. E del resto, occorre riconoscerlo, l’ex pontefice ha più volte ribadito la validità della sua storica rinuncia, la ferma volontà di non essere un Papa ombra, il suo impegno (dedicandosi alla preghiera e alla meditazione) a sostenere del tutto l’azione e gli indirizzi del nuovo Pietro. Tuttavia il confronto è nell’ordine delle cose e la situazione presenta – sul versante umano ed ecclesiale – non poche ambivalenze. Le qualità di Francesco sono ormai note a tutti, tipiche di un Papa che – in linea con lo spirito del Concilio Vaticano II – interpreta il bisogno di una Chiesa più misericordiosa e aperta, meno fredda nelle sue convinzioni religiose ed etiche, meno esclusiva nella sua tensione alla verità; più collegiale nel governo e più dialogica anche col mondo. Tuttavia, l’universo cattolico è al suo interno così variegato e differenziato, così plurimo, da evidenziare non poche resistenze nei confronti di un forte indirizzo di rinnovamento della Chiesa. Inoltre, anche chi condivide la svolta epocale di Francesco, può a lungo andare interrogarsi sulle effettive possibilità che essa venga realizzata, sulle «risorse» di cui il Papa dispone per smuovere gli antichi equilibri. Le riserve nei confronti del nuovo indirizzo della Chiesa di Roma non vengono soltanto da quell’area del tradizionalismo cattolico che risulta assai più vicino alla concezione di Chiesa di Benedetto XVI che a quella di Francesco, anche se quando Ratzinger era regnante non ha mancato di creargli dei grattacapi. Anche alcune Chiese nazionali o quote di fedeli o qualche intellettuale cattolico possono nutrire dubbi sullo stile e sui programmi di un pontificato – quello attuale – che  a sì rotto gli schemi del passato, ma che appare loro fragile nel produrre il cambiamento. Qual è la prospettiva o la consistenza teologica dietro lo sbriciolamento del vangelo di cui Papa Francesco  offre un esempio ogni giorno? La sua prossimità alla gente, i continui bagni di folla, l’annullamento della distanza, la semplificazione dei riti e la riduzione dei simboli, non rischiano a lungo andare di depotenziare il sacro, di desacralizzare la Chiesa e di stemperare il senso del mistero? Proprio qui entra in gioco il Papa emerito, di cui sono stati evidenti i limiti nella capacità di governo e la sua distanza dalla modernità avanzata, ma che è ancor oggi assai apprezzato per la statura teologica e la profondità culturale. Ratzinger, dunque, – con la sua presenza a Roma e nel centro della cattolicità – continua a essere un punto di riferimento per le Chiese che in lui più si sono identificate. Alcune certamente mosse dalla voglia di conservazione, ma altre semplicemente nostalgiche di un pontificato che fa leva su un alto pensiero, spinge la Chiesa a non mescolarsi col mondo e offre grandi certezze.

frei Betto: vivere la speranza come atteggiamento critico

In forza della speranza

frei Betto

                     

In forza della speranza (Frei Betto)
fa sempre bene e riempie il cuore di speranza rinnovata rileggere (anche se un po’ datate) pagine come queste di frei Betto, da noi sconosciuto ma notissimo invece nell’America latina che nei decenni passati ha vissuto la ‘fatica spirituale’ – nel contesto della ‘teologia della liberazione’ – di coniugare la propria fede cristiana coll’impegno liberante in regimi politici di violenza strutturale: anche la virtù della speranza ha vissuto questo approfondimento e riscatto verso ogni possibile ‘spiritualizzazione’ e idealizzante onirica fuga dalla realtà:
“con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere”
“un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione” :
 

Un cristiano vive questa virtù come atteggiamento critico. Nessuna realizzazione umana lo può soddisfare pienamente e tenderà sempre verso qualcosa d’altro, da conquistare e da ricevere in dono.

  

La speranza, una delle tre virtù teologali, ha molto in comune con la fede. In brasiliano le due parole fanno rima (esperança = confiança); in altre lingue hanno stretti legami di parentela. Si spera ciò in cui si crede e si crede in ciò che si spera.

Per Gesù, la speranza è un atteggiamento virtuoso da giocarsi “qui” e “ora”, nel contesto del Regno di Dio che avanza come anticipazione della pienezza della storia, non in un “altrove” e “domani”, come vorrebbero coloro che negano o rifiutano la realtà di questo mondo.

Oggi l’espressione “Regno di Dio” ha una connotazione vaga, quasi metaforica. Ben diversa l’eco che queste parole dovettero avere al tempo dell’impero romano. Annunciare un regno che non fosse di Cesare aveva gravi ricadute anche politiche. Per questo Gesù fu messo a morte.

Oggi “speranza” ha una connotazione molto laica, al punto da preferirle la parola “utopia”. Con la desacralizzazione del mondo e la morte degli dèi (frutti del Rinascimento), si è fatta impellente la necessità di ipotizzare un mondo futuro. Con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere. L’uomo moderno si concepisce come uno scultore che, davanti a un pezzo di marmo grezzo, ha già in mente il capolavoro che vuole creare e ha fiducia di poterlo realizzare. Nella sua opera monumentale, Il principio speranza, il filosofo marxista Ernest Bloch scrive che «la speranza è sostegno indispensabile della ragione umana».

Il marxismo è stata la prima grande religione laica in grado di tradurre la speranza in un ideale sociale. Grazie a questa visione del mondo, è entrata nella cultura occidentale la percezione del tempo come processo storico: l’uomo prefigura la propria esistenza come un divenire e una continua lotta contro ogni ostacolo che impedisce la realizzazione di ciò che spera di realizzare.

Per il cristiano, la speranza del Regno supera ogni altra utopia laica (sia essa politica, tecnologica o scientifica). Tale speranza porta il credente a credere che le promesse di Dio si realizzeranno in questo mondo (hic et nunc), fino a trasfigurare radicalmente tutta la realtà. Forte di queste promesse, magnificamente espresse nella Sacra Scrittura, il cristiano mantiene una costante posizione critica nei confronti di ogni loro parziale attuazione: non esiste un modello di sviluppo umano che lo possa accontentare del tutto.

La nuova persona e il nuovo modello di mondo “sperati” dal cristiano sono, al contempo, frutto dello sforzo umano e dono di Dio: sforzo che non termina mai e dono che non cessa di sorprendere. Esiste sempre un domani migliore dell’oggi. Chi spera in Cristo non assolutizzerà mai una data situazione acquisita o un modello da conseguire: ogni progresso fatto è relativo e, quindi, suscettibile di ulteriore perfezionamento. Il divenire (questo svolgersi della salvezza che Dio dona e che l’uomo realizza dentro la Storia) avrà fine soltanto quando l’universo tornerà nelle mani del suo Creatore.

La speranza ha bisogno della memoria. Chi spera, ricorda e commemora. Yahvé non è uno dei tanti dèi dell’Olimpo. È un Dio che ha una storia e che ricorda: egli è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Anche noi, che speriamo nella realizzazione del Regno, ricordiamo le grandi opere da lui compiute. Questa memoria alimenta la coscienza critica, cioè la consapevolezza della disparità tra l’oggi raggiunto e il domani da ricevere in dono e da costruire, della inadeguatezza del “già” e dell’infinitezza del “non ancora”.

Un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione. Dice bene san Paolo: «Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Romani 8,24-25). Anche la Lettera agli Ebrei ci ricorda che «la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (11,1). Charles Péguy, scrittore, poeta e politico francese, scriveva: «La Fede vede ciò che è. / Nel Tempo e nell’Eternità. / La Speranza vede ciò che sarà. / Nel Tempo e per l’Eternità».

Sperare è camminare nella fede verso ciò che si spera e si crede. La fede ci dà la certezza che Gesù ha vinto la morte e la speranza ci dona la forza di superare ogni segno di morte (ingiustizie, oppressioni, preconcetti…). Il nostro cammino è punteggiato di dubbi e di sofferenze, di conquiste e di gioie. È vero che siamo prigionieri della finitezza. Ma fede e speranza riempiono il nostro cuore di infinito. E se camminiamo lungo i sentieri dell’amore, sappiamo di avere Dio come guida.

Frei Betto

(da Nigrizia, maggio 2009)

razzismo ordinario!

Verona, sfogo razzista alla biglietteria in stazione: “Voglio una bianca, non una nera”

ha rischiato 30 giorni di arresto e ora dovrà pagare 7500 euro di multa il 59enne veronese che aveva dato in escandescenze a Porta Nuova, mentre era in fila: “Assumiamo anche le nere ora? Tra poco saranno i padroni del mondo

“Voglio una bianca, non una nera”. Lo hanno sentito quelli che erano in fila davanti e dietro di lui, e sicuramente l’ha sentito bene la ragazza di 25 anni, di origini africane ma con nazionalità italiana e nata a Palermo, impiegata alla biglietterie della stazione dei treni di Porta Nuova. “Razzismo” per il giudice, che l’ha giudicato colpevole e destinatario di una multa da 7500 euro. La sentenza è arrivata a seguito del patteggiamento dell’uomo, Mario Brusco, veronese di 59 anni. Lo “sfogo” razzista in pubblico risale al 31 luglio 2013, come spiegano i quotidiani locali

“Assumiamo anche le nere? Voglio un’impiegata bianca, non voglio una nera. Tra poco saranno loro i padroni del mondo. Qui non ho mai visto un’impiegata

Se lui la riteneva una “battuta” allo stesso modo non l’hanno pensata i testimoni a pochi centimetri di distanza. Una giornata storta, forse. Sta di fatto che mentre in coda alla biglietteria si era subito spazientito e aveva cominciato a borbottare e poi ad urlare. Era persino arrivato a sbattere i pugni sul bancone: gesto che gli aveva fruttato un colloquio con la polizia ferroviaria. Poi è arrivata la denuncia per ingiurie aggravate dalla discriminazione razziale ed etnica. Giovedì il 59enne si è presentato davanti al giudice per le udienze preliminari che non ha accolto la richiesta del pm di patteggiamento a pena pecuniaria. E’ finita invece con 30 giorni di arresto convertiti in 7500 euro di multa.

c’è un posto per le donne nella chiesa di papa Francesco?

papa-francesco

le donne cercano il loro posto nella chiesa

aria nuova nella chiesa di papa Francesco, maggiore spazio alle persone rispetto alle tradizioni irrigidite, alle strutture ossificate fino al punto di schiacciare le persone

maggiore spazio alle persone soprattutto a quelle che tradizionalmente sono state più trascurate, ignorate, bocciate, subordinate, emarginate, silenziate anche da un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile

riusciranno nella chiesa di papa Francesco le donne e le teologhe a trovare il loro spazio da protagoniste? papa Francesco è disposto  a mettersi in ascolto della teologia elaborata dalle donne?

tante sono le questioni e ampia la problematica  legate a questo ambito: si offrono qui di seguito (utilizzando l’apporto prezioso di ‘finesettimana’) tre contributi per illustrare alcune delle attese che il mondo femminile oggi vive per cercare e trovare il proprio posto nella chiesa:

 

Lo spostamento del baricentro dalla dottrina alla prassi (la dottrina e il culto si inverano nella pratica della giustizia) richiedono un ripensamento complessivo della vita delle nostre comunità. Ripensare l’intera struttura ministeriale della chiesa, il rapporto sacro potere. Papa Francesco è disposto a mettersi in ascolto della teologia elaborata dalle donne?

In un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile, in cui sono sempre stati gli uomini a creare dottrina, morale, leggi, spiritualità, a celebrare i sacramenti e a trasmettere il Vangelo, la sapienza femminile è rimasta inespressa, complice anche una misoginia – strisciante ma non troppo – di cui la teologia maschile si è fatta portatrice

Un interessante numero della rivista bimestrale “Legendaria” dedica  un notevole spazio al tema delle donne nella chiesa. Ha chiesto a 7 donne, credenti e non credenti di rivolgerea papa Francesco 3 domande. Già avevamo riportato quella di Mariella Gramaglia apparsa anche sul neoquotidiano “pagina99”. 1)Perché non riconoscere al femminismo il molto che ha fatto per le donne? 2)perché gli ecclesiastici esercitano una superiore autorità nei confronti battezzati? 3) che fare nei confronti della povertà diffusa livello mondiale?

p. Maggi e p.Pagola commentano il vangelo della domenica

p. Maggi

 

AMATE I VOSTRI NEMICI 

Commento al Vangelo della ottava domenica dell’anno liturgico di p. Alberto Maggi

 

Mt 5,38-48

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

 

Può sembrare scoraggiante l’invito che Gesù fa e che leggiamo nel vangelo di Matteo: “Siate perfetti come è il Padre vostro perfetto”, perché noi pensiamo subito alla perfezione di Dio, con tutto quello che immaginiamo, di potenza di grandezza di Dio. Vediamo invece cosa intende l’evangelista con questo invito alla perfezione. Il vangelo che commentiamo è il capitolo 5 di Matteo, dal versetto 38. Gesù continua a prendere le distanze dalla legislazione di Mosè per presentare un’alternativa di società e un modo nuovo per  rapportarsi con il Signore. E dice Gesù: «Avete inteso che fu detto: ‘ Occhio per occhio e dente per dente’». Questa legislazione di Mosè in realtà fu un grande passo avanti in quello che riguardava la gestione della vendetta che prima era illimitata. E’ famoso nella Bibbia il vanto di Lamec, che troviamo nel libro del Genesi, capitolo 4 versetto 24, dove Lamec si lamenta e dice: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfitura e un ragazzo per un mio livido”. quindi la vendetta era illimitata. Mosè invece ha cercato di mettere un limite, occhio per occhio, dente per dente. Ebbene Gesù prende le distanze da questo e chiede di fare un passo in avanti. «Ma io vi dico: ‘Non opporvi al malvagio’ »”. Non significa questo invito di Gesù ad essere delle persone passive che accettano ogni prepotenza. Il cristiano non è questo, anzi. Ma significa spezzare il cerchio della violenza, proporre iniziative di bene, di amore e di pace, che disinneschino questo odio e questa violenza che si abbattono su di te. Per questo quando Gesù dice «Se uno di da uno schiaffo sulla guancia destra tu porgigli anche l’altra »”, non significa passare da stupidi. Gesù non ci chiede di essere stupidi, tonti, ma buoni fino in fondo. Di fatto l’unica volta nel vangelo di Giovanni che Gesù prende uno schiaffo, mica ha presentato l’altra guancia, ma ha detto: “Se ho sbagliato mostrami dove ho sbagliato, se non ho sbagliato perché questa violenza?” Quindi Gesù invita a non opporre alla violenza che viene addosso altra violenza,  altrimenti questa cresce e poi dopo diventa un crescendo interminabile di violenza che genera altra violenza. Per questo Gesù non chiede – ripeto – di essere tonti, ma di essere buoni, di disinnescare la violenza con proposte di bene ancora maggiore. Il credente è colui che, di fronte alla violenza dell’altro, gli fa comprendere: “Guarda la tua capacità di volermi fare del male non sarà mai così grande come la mia di volerti e farti del bene”. Questo è l’invito di Gesù. Poi Gesù passa a toccare uno dei piedistalli della spiritualità ebraica, «Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo …’ »”, l’amore la prossimo era un amore limitato, perché arrivava fino a dove esisteva il concetto di prossimo, che era molto relativo. Il concetto più stretto significava colui che appartiene al mio clan familiare, un po’ più largo a quello della mia tribù, un po’ più largo ancora alla nazione di Israele, ma non di più. Quindi era un amore che aveva dei limiti. “ «E odierai il tuo nemico’»”. L’odio al nemico era anormale in questa società, ma soprattutto era giustificato dall’odio che Dio aveva per i peccatori. E’ tipico il canto del salmista nel salmo 139, versetti 21-22 dove dice: “Quanto odio Signore quelli che ti odiano. Li odio con odio implacabile, li considero miei nemici”. Mai si odia con tanto gusto come quando si odia in nome di Dio, perché ci si sente giustificati in questo odio. Ebbene Gesù prende le distanze da tutto questo. «Ma io vi dico: ‘Amate i vostri nemici’»”. Quindi Gesù propone un amore di un livello superiore che non solo non conosce i limiti dell’amore che arriva fino al prossimo, ma li supera. E’ questa la novità esclusiva di Gesù, è un amore che arriva a inglobare anche il nemico. E per ‘amare’ Gesù non ha scelto il verbo greco fileo, da cui filosofia, filantropia, un amore di benevolenza che riceve qualcosa in cambio, ma il verbo agapao, da cui la parola agape che tutti conosciamo, che significa un amore che è indipendente dalla qualità di colui che lo riceve, è indipendente dalla risposta dell’altro. Quindi di un amore che non guarda i meriti della persona che viene amata, un amore che si genera per il bisogno dell’altro, non per la risposta che se ne può avere. «’E pregate per quelli che   perseguitano’»”, quindi è chiaro che per nemico si intende quello che perseguita la comunità cristiana. Ebbene Gesù chiede di fare un passo in avanti, questo amore non diventa reale finché non si trasforma in amore per quelli che lo perseguitano. Se c’è questo accade qualcosa che trasforma l’esistenza del credente, «Affinché siate figli del Padre vostro»”. Essere figlio in quella cultura significa colui che assomiglia al padre nel comportamento. Allora, se chi ama il nemico e prega per il nemico assomiglia al Padre, si vede che questa è la qualità d’amore di Dio, un amore di Dio che arriva a tutti quanti, anche a quelli che sono considerati i suoi nemici. E poi Gesù dà un’immagine di cosa significa questo amore, «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni »”,  è un’offerta di vita che è rivolta a tutti. Il Dio di Gesù non è buono, è esclusivamente buono, lui non guarda i meriti delle persone, ma guarda i loro bisogni. Non è il Dio che premia i giusti e castiga i malvagi, ma a tutti, giusti e malvagi, offre il suo amore. E poi Gesù fa un altro esempio, «E fa piovere sui giusti e sugli ingiusti»”. Quindi questi esempi, che sono comprensibili a tutti, il sole e la pioggia, vogliono dire che l’amore di Dio è un amore dal quale nessuna persona si può sentire esclusa. Gesù non discrimina tra meritevoli e no, tra puri e impuri, ma il suo amore si rivolge a tutti quanti. E poi Gesù dice: “Se amate e salutate”, e prende le categorie ritenute più lontane da Dio, i pubblicani, quelli che erano impuri fino all’essenza stessa della persona e i pagani, quelli che avevano altre divinità. “Se amate e salutate quelli che vi amano e vi salutano che fate di più? Siete come quelli che sono impuri profondamente e quelli che sono senza Dio, i pagani”. Ed ecco l’invito finale di Gesù: «Voi dunque siate perfetti …»”, che significa essere pieni, completi, “ «come è perfetto il Padre vostro celeste»”.  Ecco, dopo tutto questo, allora capiamo bene cosa significa questo invito alla perfezione. Significa essere buoni fino in fondo. E questa non è una virtù, un eroismo straordinario possibile soltanto ad alcuni, ma essere buoni fino in fondo è dentro le capacità e le possibilità di ogni persona. Quando si realizza questo la vita del credente si intreccia con quella di Dio e diventa una sola cosa; l’uomo permette a Dio di essergli Padre e sperimenta la sua presenza intima, profonda, in ogni avvenimento della propria esistenza e della propria vita.

UNA CHIAMATA SCANDALOSA

il commento di p. A. Pagola:
La chiamata all’amore è sempre seduttrice. Sicuramente, molti accoglievano con gusto la chiamata di Gesù ad amare Dio e il prossimo. Era la migliore sintesi della Legge. Ma quello che non potevano immaginare è che un giorno egli avrebbe detto loro di amare i nemici. Tuttavia, Gesù lo fece senza considerare alcuna delle tradizioni bibliche, prendendo le distanze dai salmi …di vendetta che alimentavano il discorso del suo popolo. Egli  affrontò il clima generale di odio che si respirava nel suo ambiente, proclamò con chiarezza assoluta la sua chiamata: “Io, invece, vi dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per quelli che vi calunniano.”
Il suo linguaggio è scandaloso e sorprendente, ma completamente coerente con la sua esperienza di Dio. Il Padre non è violento: ama perfino i suoi nemici, non cerca la distruzione di nessuno. La sua grandezza non consiste in vendicarsi bensì in amare incondizionatamente tutti. Chi si sente figlio di quel Dio, non introdurrà nel mondo odio né vorrà la distruzione di nessuno.   L’amore verso il nemico non è una forma di mediazione adottata da Gesù, diretta a persone chiamate ad una perfezione eroica, ma la sua chiamata vuole introdurre nella storia un atteggiamento nuovo verso il nemico, perché egli vuole eliminare nel mondo l’odio e la violenza distruttrice.
Chi vuole somigliare a Dio non alimenterà l’odio contro nessuno, cercherà il bene di tutti incluso quello verso i suoi nemici.
Quando Gesù parla dell’amore verso il nemico, non sta chiedendo che alimentiamo in noi sentimenti affettivi, simpatia o affetto verso chi ci fa del male, il nemico continua ad essere qualcuno del quale possiamo aspettarci dei danni, e alla luce di ciò, difficilmente questo può cambiare i sentimenti del nostro cuore. Amare il nemico significa, prima di tutto, non fargli del male, non cercare né desiderare di danneggiarlo. Non dobbiamo rimproverarci se non sentiamo amore alcuno verso di lui. È naturale che ci sentiamo feriti o vilipesi. Dobbiamo preoccuparci quando continuiamo ad alimentare l’odio e la sete di vendetta.   Ma non si tenta solo di non fargli del male. Possiamo addirittura fare dei passi fino ad essere disposti a fargli del bene se lo troviamo necessitato. Non dobbiamo dimenticare che siamo più umani quando perdoniamo che quando ci rallegriamo della sua disgrazia.
Il perdono sincero verso il nemico non è cosa facile. In alcune circostanze alla persona può essere fatto del male in un solo momento. Praticamente è impossibile liberarsi del rifiuto, delll’odio o della sete di vendetta. Non dobbiamo giudicare nessuno dal di fuori. Solamente Dio ci comprende e ci perdona in maniera incondizionata, perfino quando non siamo capaci di perdonare.   Costruisci dunque un mondo più fraterno e gentile.
José Antonio Pagola

Scalfari parla ancora di ‘rivoluzione’ di papa Francesco

Scalfari

La rivoluzione di Francesco contro i mandarini del Vaticano

 dopo la telefonata e il carteggio che ha avuto luogo nei primi mesi del  pontificato di papa Francesco tra questi e Scalfari, rapporto ravvicinato che ha fatto promettere ai due di continuarlo con impegno per la reciproca soddisfazione (ancorché assai di più quella di Scalfari che sembrava letteralmente toccare il cielo con un dito a un passo da una travolgente conversione!), il fondatore di ‘la Repubblica’ torna a riflettere sulla ‘rivoluzione’ di papa Francesco in questo lungo articolo:

in “la Repubblica” del 19 febbraio 2014

 

È passato quasi un anno dall’elezione di Jorge Bergoglio al soglio di Pietro ed ora tutta la Chiesa ha fiducia in lui, i fedeli soprattutto per la sua grande capacità di comunicatore, la sua apertura al dialogo, le sue immagini di una Chiesa povera e missionaria, la sua fede nel Dio misericordioso con tutti. Ma non solo i fedeli affollano le chiese e le piazze per ascoltarlo; anche le strutture istituzionali, in Italia e in tutto il mondo, lo appoggiano senza più le riserve iniziali che non erano né poche né marginali. Lo appoggiano e puntano sul successo della sua azione riformatrice i Vescovi di tutte le nazioni cristiane nell’America Latina, in quelle americane del Nord, in Europa, in Africa, in Asia, in Oceania; lo appoggiano i cardinali, la Curia, le Conferenze episcopali, i presbiteri, le Comunità, gli Ordini religiosi, le Università cattoliche, gli Oratori, i Protestanti. Lo stimano e vogliono dialogare con lui i rabbini e le comunità ebraiche, gli imam che predicano il Corano e perfino — perfino— i non credenti. Roma è ridiventata la capitale del mondo. Non l’Italia, ma Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo; non Washington, non Brasilia, non Pechino, non Nuova Delhi, non Mosca, non Tokyo, ma Roma. Non avveniva da duemila anni, ma adesso è così. Dunque un trionfo in appena un anno non ancora compiuto. Apparentemente è così. Sostanzialmente anche, ma solo in parte e, aggiungo, in piccola parte almeno per ciò che riguarda la struttura vaticana e che Francesco chiama l’Istituzione: la Chiesa che ha come principale obiettivo la sua conservazione e il potere, il temporalismo che ne derivano. Quella che Francesco ha in notevole misura degradato al rango di “intendenza”, quella che deve fornire i necessari  servizi alla Chiesa combattente e missionaria. Insomma i mandarini, come li chiamerebbero in Cina. I mandarini nella Chiesa cattolica ci sono sempre stati dopo i primi tre secoli della Chiesa patristica. Hanno certamente avuto una funzione storica tutt’altro che trascurabile; hanno evangelizzato l’Europa e le Americhe, hanno continuamente aggiornato e riformato, modernizzato l’Istituzione e il suo linguaggio, il suo modo di proporsi al popolo dei fedeli e alle potenze politiche europee. Hanno combattuto guerre non solo teologiche ma con lance e spade e spingarde e cannoni e navi e cavalieri e inquisizioni e persecuzioni. Sconfitte e vittorie e scismi, eresie e vendette e intrighi e diplomazie e dogmi e scomuniche. Questa è stata la storia del Papato e della Chiesa; non ad intervalli, ma continuativamente. Una Chiesa verticale assai poco apostolica. Ventuno Concili in duemila anni; molti sinodi ma con pochi poteri. Intrecciata alla storia dei regni e dei poteri politici, Francia, Spagna, Inghilterra, principi elettori di Germania, Bizantini, Saraceni, imperatori e califfi. Spesso la Chiesa ha perso, spesso ha vinto, da sola con le scomuniche, o con le armi alleandosi col vincitore. Ma non è stata soltanto questo. È stata anche la Chiesa missionaria, la Chiesa povera, la Chiesa martire, la Chiesa dell’amore e della misericordia. Ma il nucleo di questo ampio ventaglio è sempre stato tenuto in mano dall’Istituzione. Ora – e per la prima volta – l’Istituzione è a rischio di perdere il rango di guida. In parte l’ha già perso ma non del tutto. I mandarini ci sono ancora. Hanno fatto atto di sottomissione, si sono allineati, ma ancora combattono. Come? Credono di convincere Francesco ad attuare buone riforme ma non una rivoluzione, giocando sulla doppia natura di papa Bergoglio che come tutti gli uomini che hanno testa e cuore e quindi contraddizioni dentro di sé possono da quelle contraddizioni ricavare ricchezza, pienezza e armonia tra intelletto ed anima oppure confusione e  incoerenza. I mandarini sono sempre stati al passo dei tempi ma con cautela, prudenza, compromessi nel rafforzamento del loro ruolo. Francesco, non dimentichiamolo, è nato e cresciuto nella Compagnia di Gesù. Si sente ancora gesuita? Ma ha scelto di chiamarsi Francesco, come finora non era mai avvenuto. Che cosa significa questa miscela? Come si può mettere insieme il poverello di Assisi e Ignazio di Loyola? Basta la fede in Cristo? Ma chi è Cristo per papa Francesco e chi è per i

mandarini che ancora allignano e non solo in Vaticano.

papa-francesco

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Ad una delle domande qui formulate una risposta me la sono data; naturalmente è la mia e deriva soltanto da quanto credo di aver capito di papa Francesco che, secondo me, è tuttora identificato con la cultura e la testimonianza che la Compagnia di Gesù ha dato della Chiesa per cinque secoli. Oggi la Compagnia è molto meno potente di un tempo, altre forze sono nate nel tessuto dell’Istituzione, il clero regolare ha perso parte del suo ruolo e i gesuiti non hanno più il primato della cultura e dell’educazione della gioventù cattolica. Il cosiddetto Papa nero, cioè il generale della Compagnia, è definitivamente tramontato e il “perinde ac cadaver”, che è ancora il motto della Compagnia, non ha più alcun reale significato. Del resto non l’ha mai avuto perché i contrasti tra il Papato e la Compagnia sono stati frequenti e per ben due volte portarono all’isolamento dei gesuiti e alla loro cacciata da alcuni paesi europei a cominciare dalla Francia, col beneplacito del Vaticano. Tuttavia la cultura gesuitica e soprattutto la prassi comportamentale che viene insegnata ai loro novizi e ai cattolici che frequentano le loro scuole, le loro università ed i loro esercizi spirituali è ancora di alto livello e di notevole suggestione. Consiste soprattutto in tre punti: la vocazione missionaria fondata non sul proselitismo ma sull’ascolto e sul dialogo con i diversi; la capacità di guidare, capire e in qualche modo influire sui processi della società dove la Compagnia è presente; dividersi tra di loro identificandosi con processi così diversi l’uno dall’altro restando tuttavia profondamente legati alla Compagnia e ai suoi organi centrali. Insomma una sorta di gioco delle parti nel quadro d’una rappresentazione della quale sono gli attori principali. Un tempo, l’ho già detto, la loro potenza nella Chiesa e nei paesi cattolici del nostro continente fu di altissimo livello; del resto la Compagnia fu fondata da Ignazio per combattere lo scisma luterano e limitarne le conseguenze. In che modo? Non opponendogli il conservatorismo ma una forte riforma. I laici e i protestanti la chiamarono controriforma dando un significato conservatore a quella parola, ma non era così e basta ricordare l’azione pastorale dei Borromeo, Carlo e Federico, del quale ultimo c’è ampio racconto nei Promessi Sposi del Manzoni. Papa Bergoglio è intrinseco della cultura e della prassi della Compagnia e non è certo un caso che sia il primo Pontefice che da essa proviene in una fase di estrema laicizzazione del mondo e di estremo isolamento della Chiesa. Vuole una Chiesa missionaria così come la Compagnia l’ha voluta e praticata; esorta i preti regolari e quelli secolari a comprendere l’ambiente in cui operano e adeguare ad esso la loro cura d’anime, ma li esorta anche a confrontarsi con culture religiosamente diverse, con particolare attenzione ad aperture di dialogo con non credenti e atei. E vuole, papa Bergoglio, trasformare in questo senso la Chiesa, il ruolo dei Vescovi e delle Conferenze episcopali, il ruolo della Curia, senza mai abbandonare la dottrina né smontare l’architettura  dogmatica, semmai interpretarne il significato. I gesuiti sono maestri nella casistica, anzi ne sono addirittura gli inventori e Bergoglio è, in quanto Papa, il maestro dei maestri. Nelle sue mani la casistica ha compiuto un salto di qualità ed è diventata una visione plurima del mondo, un ventaglio amplissimo di posizioni diverse e contraddittorie da gestire indirizzandole verso una convivenza proficua e di reciproca comprensione e rispetto. Ecco, una fedeltà alla Compagnia a 24 carati. Ma il gesuita Bergoglio eletto al soglio di Pietro non si chiama, come pure avrebbe potuto, Ignazio, bensì Francesco, con esplicito riferimento al santo di Assisi. Nessuno aveva mai preso quel nome nella storia del papato. Un gesuita si chiama papa Francesco. Qual è il significato e il senso di questa apparente contraddizione?

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Molti pensano che Francesco d’Assisi, dopo una “jeunesse dorée” finita piuttosto male, cui seguì una radicale conversione almeno agli inizi vissuta per il suo valore espiatorio, sia stato una sorta di fondamentalista della Chiesa dei poveri: piedi scalzi o con sandali anche nei più rigidi inverni, risorse individuali nessuna, risorse della comunità dei frati scarsissime e frutto di elemosine più spontanee che cercate e chieste, fedeltà totale a Cristo, fratellanza e amore tra i seguaci di Francesco, assenza di conventi accoglienti anteponendo un’itineranza pressoché continua, amore per il prossimo da soccorrere, scarsi contatti con la Chiesa ufficiale e istituzionale, identificazione con la virtù, la natura, la preghiera, la poesia che sgorga dall’anima, nessun timore per “sora nostra morte corporale” perché l’anima è immortale e la vita solo un transito. Questo racconto dell’iniziazione di Francesco e dei suoi compagni coglie senza dubbio alcuni aspetti comuni della Chiesa povera da loro praticata e predicata, ma ne tralascia altri non meno importanti. Per esempio i contatti che da un certo momento in poi Francesco ebbe e coltivò con i dignitari della Chiesa e col Papa quando decise di consolidare in un Ordine e nelle sue regole le comunità dei suoi seguaci, di dargli una sede, ferma restando la pratica itinerante intervallata però di soste non di riposo ma di contemplazione dello Spirito e di se stessi. I contatti con la Chiesa ufficiale furono lunghi e piuttosto complessi. La Curia non era molto propensa a riconoscere un Ordine di quella natura nel momento stesso in cui la Chiesa era già nel pieno delle sue lotte temporali e ancora alle prese con la secolare questione delle investiture, dopo  la piena vittoria a Canossa di papa Gregorio VII. Una lotta per il potere dalla quale Francesco e i suoi seguaci erano del tutto estranei, anzi del tutto avversi. Alla fine fu il Papa stesso a ricevere Francesco colmandolo di lodi e condividendo l’idea che ci fosse un Ordine come egli proponeva, ma condizionandone l’approvazione a modifiche non marginali delle regole proposte da Francesco. La  trattativa durò a lungo. Alla fine gran parte delle modifiche furono accettate dalla comunità francescana e l’Ordine nacque.

Sarebbe lungo e fuori posto in questa sede dar conto di questa complessa vicenda che del resto è stata ampiamente esaminata dagli storici della Chiesa. Ricordo però che Francesco ha avuto contatti col Papa e con i suoi dignitari ma la sua itineranza lo portò in varie regioni d’Italia e perfino in Terrasanta dove le Crociate avevano da tempo messo quelle terre a ferro e fuoco creando principati cristiani, eserciti stanziali e Ordini militari e religiosi insieme. Francesco ne conobbe i capi e molti cavalieri, ma conobbe anche alcuni dei capi saraceni e con alcuni di loro pregò il Dio che è universale e del cui nome nessuno dovrebbe appropriarsi e farne bandiera di guerra. Alcuni dei cristiani di Terrasanta si convinsero a quanto Francesco predicava e se ne convinsero perfino alcuni dei capi saraceni da lui incontrati che lo frequentarono ed anche lo ospitarono per qualche giorno dimostrando amicizia alla persona e rispetto per la fede da lui manifestata verso il “Dio di tutti”.

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Questi sono i tratti salienti sia pure accennati in modo estremamente sintetico, della Compagnia fondata da Ignazio e della Chiesa povera guidata dal santo di Assisi. Ci sono, tra i due Ordini e soprattutto tra i loro fondatori alcuni tratti comuni; soprattutto la fede in Gesù Cristo e nella Chiesa sua mistica sposa; ma le differenze sono di gran lunga prevalenti. Papa Francesco porta con sé e dentro di sé entrambe queste due possenti manifestazioni di religiosità, di ruolo e di comportamenti. Mi sono chiesto se si tratti di una contraddizione apparente o sostanziale e la risposta che mi do è: sostanziale.

Ignazio ebbe anche alcuni momenti di misticismo ma non è su di essi che poggiò la sua azione; amava i mistici, li riteneva indispensabili alla Chiesa, ma la sua fede era radicata nella sua testa e non soltanto nel suo cuore. Da questo punto di vista papa Francesco gli somiglia molto. Il santo di Assisi visse invece in uno stato di misticismo e di identificazione con Cristo quasi permanenti. Basterebbe il suo rapporto di dolcezza e di dialogo continuo con la natura “sive Deus”, le stimmate sulle sue mani, l’amore spirituale con Chiara che fu accanto a lui nel momento saliente della sua esistenza.

Che io sappia per quello che ho colto in papa Francesco, quest’aspetto saliente di  misticismo e trasfigurazione in lui non ci sono. C’è l’ammirazione e vorrei dire l’adorazione per il santo di cui ha preso il nome. L’identificazione tra queste due figure si realizza tuttavia su un piano altrettanto importante ed è quello dell’amore per il prossimo, della misericordia diffusa a tutte le anime, della Chiesa povera e missionaria che dialoga con tutti, che è vicina a tutti i deboli, a tutti i poveri, a tutti gli esclusi, dell’identificazione di questa Chiesa con il popolo di Dio e dei suoi presbiteri con cura di anime, dei Vescovi successori degli apostoli, delle Comunità dedicate al volontariato, delle pecore smarrite e dei “figli prodighi” che tornano perché hanno sentito nel loro profondo d’essere cercati.

La Chiesa-istituzione non è stata quella predicata da Gesù se non in parte. Per secoli e anzi millenni la priorità di ruolo l’ha avuta l’Istituzione consapevole del valore della Chiesa povera ma dedicata soprattutto all’esercizio del potere e quindi della temporalità, comunque aggiornata ai tempi ma dedita al rafforzamento e all’ampliamento della temporalità. Papa Francesco è sempre stato in guerra con la primazia della temporalità. È flessibile e consapevole ed esperto della forza dei suoi avversari, è astuto nella gradualità e nella necessità di compromessi, ma è anche sagace nel cogliere il momento dell’attacco radicale agli ostacoli che i mandarini gli oppongono. Insomma è una guerra e durerà a lungo. Ratzinger non si era accorto di questa realtà. I brevi anni del suo pontificato li ha vissuti come una sorta di Truman Show, una città del tutto fittizia costruita da una potente società televisiva e abitata da dipendenti di quella società della quale il protagonista era il solo a non sapere che tutto era finto, finte le famiglie, finto il lavoro degli artigiani, finta l’amicizia e il rispetto che tutti gli dimostravano in quel sito della terra che sembrava il più felice, onesto e agiato del mondo. Finto e inesistente fino a quando… Fino a quando Benedetto XVI si trovò coinvolto nello scandalo del “Corvo”, delle malefatte del suo maggiordomo, nelle ruberie dello Ior e nella complicità della Curia. E scoprì che il mondo in cui credeva d’aver vissuto celava un pantano morale. Ne capì la vastità e il radicamento; misurò la vastità di quel mondo e le proprie forze e decise che la sola cosa che doveva fare era denunciarne l’esistenza e dimettersi. L’energia di affrontare una guerra così lunga e complessa il suo corpo non l’aveva. Sperò e pregò affinché il Conclave seguito alle sue dimissioni scegliesse la persona adatta e così accadde un anno fa.

Il Papa che oggi conduce l’opera di bonifica e di trasformazione che Ratzinger non poté fare ha dentro di sé l’obiettivo del santo d’Assisi e la metodica di Ignazio. La contraddizione è questa: la bonifica della palude è uno scopo che anche Ignazio aveva ben presente ai suoi tempi ma la sua metodica si svolgeva nella palude, utilizzava la palude per rendere ancora più necessaria la presenza della Compagnia. Dopo Ignazio, la Compagnia trasformò la metodica da strumento in obiettivo sicché una parte di quell’Ordine alimentò la palude per sguazzarvi dentro. Ora si dà il caso che il gesuita Bergoglio abbia riportato la metodica gesuita da metodica a strumento. Per questo ha preso il nome di Francesco. Ma questa non è una posizione riformista che i mandarini tollererebbero e addirittura appoggerebbero. Questa è una rivoluzione. Un gesuita che sceglie quel nome è, forse contro le sue intenzioni, forse anche senza che ne sia  interamente consapevole, una bomba. Non era mai accaduto nella storia della Chiesa. Era accaduto invece che la Chiesa, dopo i primi secoli, si fosse impestata, corrotta, penetrata da quello che Dostoevskij chiama, lo “Spirito della terra” e cioè il demonio, la corruzione, la lotta per il potere.

Papa Francesco lo sa ed è questa la sua battaglia. Ha molte doti papa Francesco: carità spirituale, curiosità dei diversi, estrema socievolezza ed allegria di spirito, simpatia ed empatia. È la persona adatta per lo scopo che si prefigge. Oltre il novanta per cento dei fedeli è con lui, ma gli ostacoli sono numerosi e lo Spirito della terra, comunque lo si voglia identificare, è una muraglia di gomma difficilissima da sradicare.

I non credenti dal canto loro, hanno anch’essi un muro di gomma che protegge i malgoverni, gli interessi illeciti, la vanità dei potenti, la demagogia, il semplicismo, l’inconsapevolezza, l’irresponsabilità, il dispotismo e il privilegio.  Francesco è amico dei non credenti che combattono questa battaglia ed essi a loro volta sono suoi amici. Per quanto mi riguarda, io mi sento legato da profonda amicizia con papa Francesco e sono da tempo ammirato dalla predicazione e dalla vita di Gesù che considero un uomo e non un Dio, ma certo un personaggio d’eccezione quale ce lo raccontano i Vangeli che sono la sola fonte della sua esistenza storica. Ammesso che sia esistito un personaggio di quella fatta, l’Istituzione da lui ispirata dura da due millenni e dentro di essa se ne sono viste di tutti i colori ma anche quei principi di carità fraternità, responsabilità, sofferenza e gioie, desideri, amore, debolezza e forza che insieme ai loro contrari convivono dentro gli animali pensanti che noi siamo. Caro papa Francesco, su sponde diverse noi combattiamo la stessa battaglia. Purtroppo durerà fino a quando esisterà la nostra specie. I leoni e le formiche, i topi e le gazzelle non hanno i nostri problemi e le nostre contraddizioni. Anch’essi sopportano la fatica del vivere, la paura e la soddisfazione quando appagano i loro bisogni primari. La nostra fatica è diversa e forse maggiore della loro e questa è la nobiltà delle nostre umane vicende

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Che tempo fa? Scopri le previsioni meteo usando… il tuo gatto!

tramite  pianetablu un bel metodo per avere informazioni sulle variazioni meteorologiche: osservare semplicemente il proprio gattino di casa, … e sembra addirittura un metodo infallibile, provare per credere:

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Vortici polari, tempeste, venti equatoriali: diciamolo, nell’ultimo mese il tempo “pazzerello” ha messo a dura prova la nostra pazienza. Si dovrebbe smettere di ascoltare la scienza per le previsioni meteo e tornare a l’unica fonte di cui ci si può veramente fidare: il nostro gatto. Questo è il suggerimento di H.H.C. Dunwoody, un tenente dell’esercito che nel 1883 suggerì di seguire la saggezza degli animali, piuttosto che mettere la nostra fede nelle mani dei meteorologi che “non possono predire il tempo per un periodo più lungo di due o tre giorni, e spesso non più lunghi di 24 ore”. 

Nel suo libro Weather Proverbs (Proverbi meteo), Dunwoody documenta un lungo elenco di credenze popolari riguardo le previsioni meteo “animali”, tra cui i segnali di orsi, volpi e capre, ma si concentra in particolare sui gatti . Il TIME ha redatto una piccola guida per scoprire il tempo che farà usando il nostro amico felino.

1. Quando i gatti starnutiscono è un segno di pioggia.

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2. Il punto cardinale verso il quale un gatto si volta per lavarsi la faccia dopo la pioggia mostra la direzione da cui il vento soffierà.

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3. Se i gatti russano arriverà il brutto tempo.

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4. E’ un segnale di pioggia se il gatto si lava la testa passando la zampetta dietro l’orecchio.

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5. Quando i gatti si distendono a “pancia all’aria” con la testa storta verso la schiena, aspettatevi una tempesta.

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6. Quando un gatto si lava il viso con la schiena rivolta verso una fonte di calore aspettatevi il disgelo invernale.

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E a voi cosa dice il vostro amico felino? Se avete altri aneddoti legati al binomio meteo/gatto fatecelo sapere!

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