a proposito della ‘spedizione punitiva’ vigliacca a Genova contro i clochard

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immagini che danno i brividi per ferocia e cattiveria, che non vorremmo mai vedere perché di una violenza tanto inaudita quanto inutile quelle che sono state estratte dai video delle telecamere di sorveglianza di un negozio di Piccapietra che la notte del 25 gennaio hanno immortalato la terribile aggressione a quattro clochard che dormivano lungo una strada del centro di Genova. La sequenza di scatti proposta dal Corriere Mercantile mostra il commando di quattro uomini che si avvicina alla tenda e al rifugio di cartoni in cui dormivano le due coppie di senza tetto rumene. Poi il pestaggio con manganelli e tubi di ferro. Pochi secondi ma che bastano per provocare fratture, traumi, ferite e terrore. Nel mirino degli inquirenti ci sarebbero quattro giovani italiani probabilmente appartenenti al mondo ultrà, che avevano avuto un diverbio con i clochard qualche settimana prima

così opportunamente riflette ne ‘la Repubblica’ odierna Gad Lerner:

Quella ferocia contro i clochard

di Gad Lerner

La ferocia abbattutasi su due coppie di senzatetto che dormivano all’aperto in un gelido sabato notte, nel pieno centro di Genova, si presenta ora nuda e cruda sotto i nostri occhi, grazie ai fotogrammi sconvolgenti di una telecamera di sorveglianza. Guardiamoli. Impossibile girare la testa. Vediamo quattro giovani resi anonimi dalle felpe o da passamontagna. Hanno i guanti per non lasciare impronte. Impugnano chi un tubo Innocenti, chi un manganello, chi mazze d’altro genere . Si appostano, fermi in attesa che il capo dia un segnale. Quindi, all’unisono, si avventano sui corpi addormentati. Bastonano con furia mirando alle teste sopra un giaciglio di cartone e una tendina da campeggio estivo. Li vediamo usare tutte e due le mani per colpire con maggior forza. Trentuno secondi in tutto, poi fuggono. Anche i clochard meritano di essere riconosciuti per nome. Si chiamano Alice Velochova e Jan Bobak (ora è fuori pericolo, dopo una difficile operazione alla testa); e poi Susana Jonasova e Jonas Koloman (lui pure ferito grave). Hanno cittadinanza europea, slovacca. Sono vivi per miracolo. E allibiti. I frequentatori del salotto buono di Genova, fra piazza De Ferrari e i portici di Piccapietra, fino al Teatro Carlo Felice e alla Galleria Mazzini, hanno una certa familiarità con questi clochard talvolta alticci e importuni, senza mai essere pericolosi. Cercano una grata che sputi aria calda dal parcheggio sottostante, s’imbottiscono di giornali, bevono vino dal cartone e tirano su una coperta. Getti uno sguardo, provi disagio e passi oltre.   tentazione è di liquidarli come umanità di scarto, destinata prima o poi allo smaltimento. Gli stessi volontari e assistenti sociali che cercano di farsene carico offrendo loro un ricovero, spesso trovano ostacolo nel loro disagio psichico che li spinge ad aggrapparsi a un’illusoria autonomia: il loro illusorio simulacro di libertà. Talora occorrono anni di consuetudine per vincere la loro diffidenza e convincerli a lasciarsi curare. È anche il nostro alibi: cosa possiamo farci se rifiutano un  tetto? Solo che il “fenomeno”, se così vogliamo chiamarlo, lungi dal circoscriversi tende all’espansione. In mezzo alla strada arrivano pure gli sfrattati italiani e magari vanno fuori di testa persone che fino a ieri erano i nostri vicini di casa. Gli scarti umani si moltiplicano e insieme a loro non cresce la pietà ma piuttosto quella oscura tentazione dello smaltimento. Già, perché gli scarti  mani tendono a raggrupparsi in centro, dove trovano isole pedonali, compagnia, illuminazione, qualche grado entigrado in più e il lusso da rimirare. Secondo la Comunità di Sant’Egidio, a Genova i clochard sarebbero duecento. A Milano gli studenti della Bocconi hanno fatto un censimento (“raccontaMi”) e ne hanno contati 2616. Nasconderli è diventato impossibile, e ora tocca fare i conti con chi vorrebbe semplicemente spazzarli via. Speriamo che la polizia sappia dirci presto chi sono i quattro giustizieri della notte, con età compresa fra i 20 e i 30 anni, che volevano ripulire a modo loro le strade della movida. Si vocifera di ultrà da stadio, ma chissà. In cerca di spiegazioni si ipotizza una vendetta seguita a un conflitto territoriale nei giorni precedenti. Ha poco senso anche parlare di razzismo: questi si sono avventati su corpi dormienti come gli toccasse debellare non persone, ma una nuvola di insetti nocivi. Già prima di guardare le fotografie in cui si descrive l’odio che culmina nel crimine, si era mossa una trentina di cittadini genovesi,  andosi appuntamento per una notte di condivisione all’addiaccio in Galleria Mazzini. Si sono appuntati sul sacco a pelo un foglietto con scritto: “Io è te”. D’accordo, “Io è te”. Ma invece chi sono loro? Chi sono i quattro incappucciati propagatori di questa atroce pulizia cittadina? Da tempo avvertiamo che la serpeggiante propaganda del disprezzo per gli untermensch (sottouomini) — così i nazisti etichettavano i popoli inferiori non degni di vivere — rischia di sfuggire al controllo di chi aspira solo a lucrarci vantaggi politici. Il passaggio dalle parole ai fatti, la militarizzazione del rancore, l’importazione dalla Grecia dell’ideologia criminale organizzata di Alba Dorata, forse sono già un fatto compiuto anche tra noi. I pogrom, i linciaggi del Ku Klux Klan, non sono eventi lontani. Le obbrobriose fotografie del massacro di Piccapietra ci resteranno impresse come una testimonianza indelebile  .

il s. Valentino dal papa

 

Il San Valentino del Papa si trasforma in show, 25mila fidanzati da ogni parte del mondo

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Papa Francesco ha sempre stupito i suoi fedeli, ora, in vista della Festa degli innamorati, si prepara a un vero e proprio show, con 25mila coppie di fidanzati, provenienti da tutte le parti del mondo, in Piazza San Pietro, che si incontreranno a San Valentino per ascoltare la parola del Pontefice. Francesco ha motivato così la sua decisione “Non sono ancora sposati, ma si amano e vogliono amarsi per sempre”. Forse il Papa sta cercando anche di colmare quel gap tra i giovani e la Chiesa che negli ultimi hanni si è ancora più acuito.

san valentino

di seguito l’articolo in cui A. Cazzullo descrive da par suo l’evento:

Il San Valentino di papa Francesco in piazza con 25 mila fidanzati

di Aldo Cazzullo

in “Corriere della Sera” del 11 febbraio 2014

 

«Non sono ancora sposati, ma si amano e vogliono amarsi per sempre». Con questa motivazione, papa Francesco festeggerà san Valentino con 25 mila fidanzati. Un avvenimento senza precedenti nella storia della Chiesa: alle 11 e mezza di venerdì 14 febbraio, piazza San Pietro si aprirà a coppie di fidanzati venuti da 20 Paesi; la maggior parte sono italiani, ma ci saranno anche francesi, spagnoli, americani, asiatici. Un’ora di dialogo in mondovisione, con domande e risposte del Papa, conclusa da una benedizione. Una sola condizione: i fidanzati sono «promessi sposi», che contrarranno il matrimonio entro l’anno. In un primo tempo, la cerimonia era prevista nell’aula Nervi, intitolata a Paolo VI. Ma le adesioni via Internet sono state tante che in pochi giorni i 7 mila posti erano già bruciati. E quando si è arrivati a quota 25 mila il Vaticano ha deciso: si farà in piazza san Pietro. L’idea è di Vincenzo Paglia, presidente del pontificio consiglio sulla famiglia, ed ex vescovo di Terni. «Nel terzo secolo dopo Cristo, vescovo di Terni era Valentino — racconta Paglia —. Secondo la tradizione, il santo intervenne per consentire il matrimonio tra una giovane cristiana e un militare pagano. Neanche allora i matrimoni erano facili. La notizia si sparse, e in molti andarono da lui per chiedere aiuto. Ogni anno a Terni si tiene la festa della promessa, vengono in tanti a chiedere la benedizione. Da qui l’idea, in un tempo di spaesamento, di smarrimento, di crisi del matrimonio, di ridare uno scatto alla festa di san Valentino, di coglierla nella sua forza. Debbo dire che il Papa era rimasto contento dell’iniziativa fin dall’inizio. Ma non ci aspettavamo una risposta  simile». Dice Paglia che «è un’esplosione certamente singolare, che va colta nella sua profondità, in una società in cui il matrimonio viene spostato sempre più in avanti negli anni, quando i problemi sono già tutti risolti. Questi fidanzati, invece, si sposano per edificare insieme il futuro, per poter risolvere insieme i problemi, per costruire insieme una casa che sia stabile per loro e per i loro figli». Proprio ieri il Corriere dava notizia dei sette milioni di giovani italiani tra i 18 e i 34 anni che vivono con almeno un genitore. «È un dato che non può non rendere pensosi — commenta Paglia —. La politica deve assolutamente dare una risposta. Se non c’è casa e non c’è lavoro, è ovvio che si ritardi il tempo del matrimonio; ma in questo modo si ritarda l’edificazione della società. Sposarsi da giovani vuol dire rendere la società più dinamica, offrire l’esercizio della responsabilità già in età giovanile e non solo adulta. Piazza San Pietro piena di fidanzati sembra voler dire che una risposta è possibile. Io mi auguro che l’esempio di papa Francesco sia contagioso presso i politici, gli economisti, gli operatori di cultura, perché mettano al centro della loro attenzione la questione della famiglia». Bergoglio ha voluto che tutta la Chiesa per due Sinodi — il primo nell’ottobre 2014, il secondo un anno dopo — discutesse di famiglia, vista sia come tema ecclesiale sia come tema sociale. E sulla comunione ai divorziati, a cui già Ratzinger aveva aperto, durante un dialogo pubblico con coppie — sposate però — a Milano nel giugno 2012, adesso si profila un confronto tra i vescovi. «Ogni risposta è prematura — dice per ora Paglia —, anche perché la questione va affrontata nel più vasto orizzonte della condizione delle famiglie dei divorziati e dei risposati. Non tutti i casi sono uguali e non si può dare una risposta semplificata a una situazione complessa, che sarà analizzata con attenzione durante i lavori del Sinodo. Non c’è dubbio che la via della misericordia nella verità sarà percorsa fino in fondo». Dietro il San Valentino 2014, che si profila a suo modo storico, c’è ovviamente la popolarità di Francesco. «Il Papa riesce a intercettare questa domanda, questo bisogno di futuro —  sostiene Paglia —. Il problema del matrimonio e della famiglia, prima di essere una questione di dottrina, è una questione di risposta alla solitudine. Questi giovani che verranno qui in piazza San Pietro e ci hanno stravolto il programma sono controcorrente. Non hanno paura di sposarsi in un mondo che non crede più ai legami che durano per sempre. Non hanno paura di mettere su una famiglia in un mondo in cui si crede che è bene che ciascuno pensi a se stesso. In questo senso, questi giovani sono un segno di speranza per la Chiesa e per il mondo. Non che sposarsi risolva di per sé le difficoltà; ma a mio avviso si tratta di ridare fascino al matrimonio religioso. Tra l’altro, le statistiche in Italia mostrano che chi si sposa in chiesa si separa di meno. Non dobbiamo attutire l’ideale del matrimonio; dobbiamo rilanciarlo nel suo fascino e nella sua forza. In una società che si defamiliarizza, magari con l’idea che “tutto è famiglia”, c’è bisogno di riproporre l’altezza del matrimonio e della famiglia».

85 ‘paperoni’ pari a tanti milioni di persone

La ricchezza di 85 “paperoni” è pari a quella della metà più povera del pianeta

Il rapporto dell’Oxfam fotografa un pianeta dove le élite (ecco la lista) si sono arricchite sulle spalle dei poveri, evadendo il fisco e influenzando la politica. E chiede di “reprimere più severamente segretezza finanziaria ed evasione”. Il direttore dell’Fmi: “Benefici della crescita goduti da troppe poche persone”

di | 20 gennaio 2014

L’ultimo rapporto di Oxfam, Working for The Few – Political capture and economic inequality, descrive un quadro dell’ineguaglianza mondiale terrificante. La metà della popolazione più povera, circa 3,5 miliardi di persone ha un reddito annuale pari a quello degli 85 uomini più ricchi del pianeta. “L’estrema disuguaglianza tra ricchi e poveri – dice Oxfam – implica un progressivo indebolimento dei processi democratici a opera dei ceti più abbienti, che piegano la politica ai loro interessi a spese della stragrande maggioranza”.

Il dato si inserisce nel quadro più generale della ripartizione della ricchezza a livello mondiale. “Circa metà della ricchezza – continua il rapporto – è detenuta dall’1% della popolazione mondiale. E questo reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo” circa 1700 miliardi di dollari. Esattamente a quanto ammonta la somma del reddito degli 85 super ricchi – il rapporto indica la lista di Forbes che riepiloghiamo qui di seguito. La fotografia scattata dalla Ong mostra una mondo che evolve continuamente verso la diseguaglianza: sette persone su 10, infatti, vivono in Paesi dove la disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni. L’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei Paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012. Negli Usa, l’1% dei più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90% della popolazione si è impoverito».

L’aumento della concentrazione della ricchezza è strettamente legata all’illegalità: “Ovunque, gli individui più ricchi e le aziende nascondono migliaia di miliardi di dollari al fisco in una rete di paradisi fiscali in tutto il mondo”. Una ricchezza stimata in 21mila miliardi di dollari. “Negli Stati Uniti, anni e anni di deregolamentazione finanziaria sono strettamente correlati all’aumento del reddito dell’1% della popolazione più ricca del mondo che ora è ai livelli più alti dalla vigilia della Grande Depressione”. Ma anche nei paesi emergenti la situazione è analoga: “In India, il numero di miliardari è aumentato di dieci volte negli ultimi dieci anni a seguito di un sistema fiscale altamente regressivo”.

Dal rapporto si ricava che già dalla fine degli anni 70 la tassazione per i più ricchi è diminuita in 29 paesi sui 30: “In molti Paesi, i ricchi non solo guadagnano di più, ma pagano anche meno tasse”. Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International, spiega che “il rapporto dimostra, con esempi e dati provenienti da molti Paesi, che viviamo in un mondo nel quale le éliteche detengono il potere economico hanno ampie opportunità di influenzare i processi politici, rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole”. 

Ecco la lista degli 85 più ricchi del pianeta stilata da Forbes:
       NOME                      REDDITO (mld di dollari)    ETA’   SETTORE           PAESE  
1  

Carlos Slim Helu & family

$73 B 73 Telecom Mexico
2  

Bill Gates

$67 B 58 Microsoft United States
3  

Amancio Ortega

$57 B 77 Zara Spain
4  

Warren Buffett

$53.5 B 83 Berkshire Hathaway United States
5  

Larry Ellison

$43 B 69 Oracle United States
6  

Charles Koch

$34 B 78 diversified United States
6  

David Koch

$34 B 73 diversified United States
8  

Li Ka-shing

$31 B 85 diversified Hong Kong
9  

Liliane Bettencourt & family

$30 B 91 L’Oreal France
10  

Bernard Arnault & family

$29 B 64 LVMH France
 Citizenship
11  

Christy Walton & family

$28.2 B 59 Wal-Mart United States
12  

Stefan Persson

$28 B 66 H&M Sweden
13  

Michael Bloomberg

$27 B 71 Bloomberg LP United States
14  

Jim Walton

$26.7 B 66 Wal-Mart United States
15  

Sheldon Adelson

$26.5 B 80 casinos United States
16  

Alice Walton

$26.3 B 64 Wal-Mart United States
17  

S. Robson Walton

$26.1 B 70 Wal-Mart United States
18  

Karl Albrecht

$26 B 93 Aldi Germany
19  

Jeff Bezos

$25.2 B 50 Amazon.com United States
20  

Larry Page

$23 B 40 Google United States
21  

Sergey Brin

$22.8 B 40 Google United States
22  

Mukesh Ambani

$21.5 B 56 petrochemicals, oil & gas India
23  

Michele Ferrero & family

$20.4 B 88 chocolates Italy
24  

Lee Shau Kee

$20.3 B 85 diversified Hong Kong
24  

David Thomson & family

$20.3 B 56 media Canada
26  

Prince Alwaleed Bin Talal Alsaud

$20 B 58 investments Saudi Arabia
26  

Carl Icahn

$20 B 77 leveraged buyouts United States
26  

Thomas & Raymond Kwok & family

$20 B real estate Hong Kong
29  

Dieter Schwarz

$19.5 B 74 retail Germany
30  

George Soros

$19.2 B 83 hedge funds United States
31  

Theo Albrecht, Jr. & family

$18.9 B 63 Aldi, Trader Joe’s Germany
32  

Alberto Bailleres Gonzalez & family

$18.2 B 82 mining Mexico
33  

Jorge Paulo Lemann

$17.8 B 74 beer Brazil
34  

Alisher Usmanov

$17.6 B 60 steel, telecom, investments Russia
35  

Iris Fontbona & family

$17.4 B 71 mining Chile
36  

Forrest Mars, Jr.

$17 B 82 candy United States
36  

Jacqueline Mars

$17 B 74 candy United States
36  

John Mars

$17 B 77 candy United States
36  

Georgina Rinehart

$17 B 59 mining Australia
40  

German Larrea Mota Velasco & family

$16.7 B 60 mining Mexico
Rank Name Net Worth Age Source Country of Citizenship
41  

Mikhail Fridman

$16.5 B 49 oil, banking, telecom Russia
41  

Lakshmi Mittal

$16.5 B 63 steel India
43  

Aliko Dangote

$16.1 B 56 cement, sugar, flour Nigeria
44  

Len Blavatnik

$16 B 56 diversified United States
44  

Cheng Yu-tung

$16 B 88 diversified Hong Kong
46  

Joseph Safra

$15.9 B 75 banking Brazil
47  

Rinat Akhmetov

$15.4 B 47 steel, coal Ukraine
47  

Leonid Mikhelson

$15.4 B 58 gas, chemicals Russia
49  

Leonardo Del Vecchio

$15.3 B 78 eyeglasses Italy
49  

Michael Dell

$15.3 B 48 Dell United States
51  

Steve Ballmer

$15.2 B 57 Microsoft United States
52  

Viktor Vekselberg

$15.1 B 56 oil, metals Russia
53  

Paul Allen

$15 B 60 Microsoft, investments United States
53  

Francois Pinault & family

$15 B 77 retail France
55  

Vagit Alekperov

$14.8 B 63 Lukoil Russia
56  

Phil Knight

$14.4 B 75 Nike United States
56  

Andrey Melnichenko

$14.4 B 41 coal, fertilizers Russia
58  

Dhanin Chearavanont & family

$14.3 B 74 food Thailand
58  

Susanne Klatten

$14.3 B 51 BMW, pharmaceuticals Germany
58  

Vladimir Potanin

$14.3 B 53 metals Russia
61  

Michael Otto & family

$14.2 B 70 retail, real estate Germany
62  

Vladimir Lisin

$14.1 B 57 steel, transport Russia
62  

Gennady Timchenko

$14.1 B 61 oil & gas Russia
64  

Luis Carlos Sarmiento

$13.9 B 80 banking Colombia
65  

Mohammed Al Amoudi

$13.5 B 69 oil, diversified Saudi Arabia
66  

Tadashi Yanai & family

$13.3 B 64 retail Japan
66  

Mark Zuckerberg

$13.3 B 29 Facebook United States
68  

Henry Sy & family

$13.2 B 89 diversified Philippines
69  

Donald Bren

$13 B 81 real estate United States
69  

Serge Dassault & family

$13 B 88 aviation France
69  

Lee Kun-Hee

$13 B 72 Samsung South Korea
69  

Mikhail Prokhorov

$13 B 48 investments Russia
73  

Alexey Mordashov

$12.8 B 48 steel, investments Russia
74  

Antonio Ermirio de Moraes & family

$12.7 B 85 diversified Brazil
74  

Abigail Johnson

$12.7 B 52 money management United States
76  

Ray Dalio

$12.5 B 64 hedge funds United States
76  

Robert Kuok

$12.5 B 90 diversified Malaysia
78  

Miuccia Prada

$12.4 B 64 Prada Italy
79  

Ronald Perelman

$12.2 B 71 leveraged buyouts United States
80  

Anne Cox Chambers

$12 B 94 media United States
81  

Stefan Quandt

$11.9 B 47 BMW Germany
82  

Ananda Krishnan

$11.7 B 75 telecoms Malaysia
82  

Alejandro Santo Domingo Davila

$11.7 B 36 beer Colombia
82  

James Simons

$11.7 B 75 hedge funds United States
82  

Charoen Sirivadhanabhakdi

$11.7 B 69 drinks Thailand
86  

Zong Qinghou

l’onu accusa il Vaticano

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la condanna del Vaticano sui diritti dei minori

 

 l’Onu si è espresso, chiaramente, duramente: il Vaticano e la chiesa cattolica non hanno fatto tutti gli sforzi per essere concretamente e coerentemente dalla parte dei bambini, per combattere efficacemente la pedofilia tra il clero denunciando i colpevoli, superando l’omertà e aprendo gli archivi

così M. Rita Parsi, membro della commissione che ha emesso un così duro giudizio:

“É stato un lavoro complesso e difficile… Abbiamo parlato di aborto… ma per ricordare le madri premature, bambine anche loro… Anche il tema della contraccezione, dell’educazione sessuale e all’affetto va visto in quest’ottica… Un bambino non va discriminato perché proviene da una famiglia gay o per l’orientamento sessuale. Come non vanno discriminati perché neri, rom, profughi o poveri. Anche qui, siamo nel Vangelo. Non giudicare. L’ha detto Gesù e l’ha ripetuto Papa Francesco”

di seguito un’ampia rassegna stampa che dà il senso preciso della consistenza del problema nella varietà delle posizioni:

“Il Vaticano ha violato la convenzione sui diritti dei bambini… non ha fatto tutto ciò che avrebbe dovuto” per proteggere i bambini… la persistenza di “processi canonici” opachi… riduce la credibilità della messa in atto delle raccomandazioni ufficiali… Al di là della “sorpresa” suscitata dall’ampiezza delle critiche… il Vaticano ha denunciato “un tentativo di ingerenza” nella dottrina in materia di contraccezione, omosessualità e aborto”
“Il Comitato per i diritti del bambino si dichiara preoccupato del fatto che il Vaticano non riconosca l’estensione dei crimini e non prenda le necessarie misure per impedire gli abusi e difendere i bambini, si afferma nella relazione presentata mercoledì… La Santa Sede deplora che la commissione nella sua relazione abbia tentato di intromettersi nella dottrina della Chiesa cattolica relativamente alla dignità umana e all’esercizio della libertà religiosa”
“Condanna a Ginevra, sorpresa a Roma… il Comitato dei diritti del bambino delle Nazioni Unite ingiunge alla Chiesa di rivedere totalmente le sue pratiche, norme e insegnamenti in riferimento ai bambini. Il Vaticano, invece, si dice scioccato da un approccio giudicato assolutamente parziale ed ideologico”

 

“Vengono di fatto ignorati i passi compiuti negli ultimi 15 anni… E vi è la solita confusione di piani giuridici… La Santa Sede viene invitata «a rivedere le sue posizioni sull’aborto»… Seguono le contestazioni sull’omosessualità… ciliegina sulla torta: il Comitato esorta la Santa Sede a «valutare il numero di bambini nati da preti cattolici, scoprire chi sono e prendere tutte le misure necessarie per garantire i diritti di questi bambini a conoscere e ad essere curati dai loro padri»”
“Il compito del Comitato ONU è analizzare i rapporti periodici… sull’attuazione della Convenzione… Lo scorso 16 gennaio è toccato alla Santa Sede… Tomasi in quell’occasione… ha ricordato i diversi livelli su cui si è articolata la risposta della Chiesa: quello dello Stato sovrano della Città del Vaticano… quello internazionale… quello del governo della Chiesa universale, con le linee guida… e le innumerevoli misure adottate dalle Chiese nei vari Paesi”
“Un documento che la Santa Sede, nel prenderne atto e assicurando che «le osservazioni sui propri Rapporti… saranno sottoposte a minuziosi studi ed esami nel pieno rispetto della Convenzione», nella sostanza respinge al mittente, mentre esprime «rincrescimento» nel «vedere in alcuni punti delle Osservazioni Conclusive un tentativo di interferire nell’insegnamento della Chiesa cattolica sulla dignità della persona umana e nell’esercizio della libertà religiosa»”
“Di fatto l’invito a comparire davanti ad una Commissione Onu per rendere conto delle accuse di pedofilia non ha precedenti storici. E pensare che tutto nasce dalla tenacia di un gruppo di vittime, uomini abusati quando erano ragazzi da un potentissimo prete messicano ora scomparso, padre Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo. Senza mai scoraggiarsi hanno dato vita ad un movimento che piano piano ha reso possibile tutto questo. “
«Quello che si nota è che il rapporto finale affronta un ventaglio di questioni troppo ampio. Non tratta solo il tema degli abusi, ma anche quello dei diritti dei bambini illegittimi, e poi parla spiacevolmente della dottrina morale della Chiesa, come dovrebbe cambiare secondo l’Onu. Insomma un po’ eccessivo».
da un lato l’Onu accusa il Vaticano di aver violato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, e invita la Chiesa cattolica a una maggior apertura in campo etico e religioso; dall’altro lato la Santa Sede nega di aver coperto i preti colpevoli o di essersi interessata più della reputazione dei sacerdoti che della sicurezza dei minori; e rivendica che proprio i principi religiosi e morali del cattolicesimo – se ben intesi – sono fecondi per la difesa dei diritti dei bambini e per la promozione dei compiti dello sviluppo. Un dialogo difficile
Sulla pedofilia l’Onu condanna il Vaticano. «Ha violato la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per l’infanzia. Dovrebbe sollevare dai loro incarichi e consegnare alla polizia tutti coloro che sono colpevoli di abusi sessuali su minori», ha dichiarato ieri il presidente della Commissione Onu sui diritti dei minori Kirsten Sandberg
«La denuncia delle Nazioni Unite è di straordinaria importanza, e apre uno spiraglio di speranza. Semmai sarebbe dovuta venire prima. Ma se oggi è stata possibile, credo che molto sia dipeso anche dalle aperture coraggiose dell’attuale Pontefice. Ora chiediamo che la Chiesa di Papa Francesco prosegua su questa strada, con atti concreti
Francesco Zanardi non odia i preti. Nemmeno don Nello Giraudo, il parroco che per anni lo ha violentato in una parrocchia di Spotorno: “Mi fa pena, ma anche lui è una vittima della chiesa”. Ha 43 anni, fa l’elettricista ed è portavoce di Rete l’Abuso, un’associazione di supporto per le vittime dei preti pedofili…
“Suor Mary Ann Walsh, portavoce della Conferenza Episcopale americana, commenta con sagacia il testo Onu: “Chiunque porti attenzione sul problema (degli abusi sessuali) contribuisce a risolverlo…”, ma mischiarlo con aborto e contraccezione rischia di far caos… “Aborto e contraccezione sono temi che scatenano guerre culturali, gli abusi sessuali… sono un peccato e un crimine”.  C’è, tra mille verità, un eccesso di giacobinismo moralistico che indebolisce il rapporto Onu”
“«Per via di un codice del silenzio… casi di abusi sessuali su minori sono stati difficilmente denunciati…» è l’accusa più pesante contenuta nel rapporto che la Commissione Onu per i diritti del fanciullo ha pubblicato ieri, dopo le audizioni dei rappresentanti del Vaticano il 16 gennaio scorso… critiche che riguardano soprattutto comportamenti del passato ora combattuti, mentre colpisce «il tentativo di interferire nell’insegnamento della Chiesa Cattolica»… su temi come aborto, famiglia o omosessualità”
“La delusione è grande, ma nessuno Oltretevere ha voglia di elevare il livello dello scontro. «Sembra quasi che il rapporto sia stato preparato prima» dell’audizione della delegazione vaticana, dice mons. Tomasi… «risposte precise su vari punti» da parte della Santa Sede «non sembrano essere state prese in seria considerazione»… Di certo il rapporto Onu identifica problemi aperti: le norme non bastano a combattere il fenomeno se non cambia davvero la mentalità”
“É stato un lavoro complesso e difficile… Abbiamo parlato di aborto… ma per ricordare le madri premature, bambine anche loro… Anche il tema della contraccezione, dell’educazione sessuale e all’affetto va visto in quest’ottica… Un bambino non va discriminato perché proviene da una famiglia gay o per l’orientamento sessuale. Come non vanno discriminati perché neri, rom, profughi o poveri. Anche qui, siamo nel Vangelo. Non giudicare. L’ha detto Gesù e l’ha ripetuto Papa Francesco”
Severissimo atto d’accusa nei confronti del Vaticano da parte della Commissione Onu per i diritti dei minori sulla questione dei preti pedofili. «La Santa sede … non ha riconosciuto l’ampiezza dei crimini commessi, non ha preso le necessarie misure per affrontare i casi di abuso sessuale e per proteggere i bambini e ha adottato politiche e pratiche che hanno portato a una continuazione degli abusi e all’impunità dei responsabili». In particolare: trasferimenti di preti pedofili, mancanza di trasparenza, mancata denuncia alla magistratura
“Non crede che la pressione di questo rapporto, e l’arrivo del nuovo Papa Francesco, spingeranno il Vaticano a cambiare? «Lo dubito, sono secoli che si comportano così. Francesco ha fatto passi nel governo della Chiesa, ma è Papa da un anno e non ha salvato un solo bambino dai predatori che colpiscono ogni giorno». Cosa dovrebbe fare? «Denunciare i colpevoli, farli giudicare dalla giustizia ordinaria, e punirli anche dal punto di vista canonico. Rimuovere i vescovi che hanno protetto i molestatori»”
Le anticipazioni circa alcune osservazioni del Comitato per i diritti del fanciullo dell’Onu suscitano sorpresa e qualche preoccupazione. Non tengono conto del forte impegno profuso dalla Chiesa negli ultimi anni a difesa e protezione dei diritti del fanciullo, sia a livello centrale sia a livello di singole conferenze episcopali.
«Il nostro è più che altro un invito perché la Santa Sede aderisca in pieno a tutti i 54 articoli della Convenzione a tutela dei diritti di bambini, preadolescenti e adolescenti, e perché armonizzi ancora di più le sue visioni a quelle dell’Onu, che condanna tutte le forme di discriminazione possibili a danno dei minori».
Uno tsunami di accuse durissime, arrivato a mezzogiorno e condensato nelle 16 pagine di osservazioni finali del
Non giova a nessuno procedere con schemi ideologici su simili tragedie: non certo alle vittime, né alla chiesa, ma nemmeno alla società civile che evita in tal modo di porsi interrogativi fondamentali su un’etica condivisa e sulla degenerazione di un clima che disprezza l’altro e offende il più debole.
«La Santa Sede ha adottato sistematicamente politiche e pratiche che hanno portato alla prosecuzione degli abusi sui minori e all’impunità dei colpevoli. La Santa Sede ha sempre posto la salvaguardia della reputazione della Chiesa e la tutela degli interessi dei colpevoli sopra a quella dei bambini». È la dura accusa della Commissione Onu per i diritti dei minori nei confronti del Vaticano
«… non si possono mettere insieme casi di trenta o quarant’anni fa con la situazione di oggi, come se nel frattempo non ci fosse stato un lungo lavoro di purificazione, modifiche legislative e misure disciplinari più severe approvate negli ultimi anni. Non so, c’è una sorta di scarto, di sfasatura. Quello che mi ha sorpreso è l’impressione che fosse già stato scritto, magari con l’aggiunta di qualche paragrafo dopo l’incontro del Comitato con la nostra delegazione…»
Pochi contenuti concreti nello scontro Onu Vaticano …  dovuto per metà all’invadenza dell’ideologia e per metà al peso della storia. Ma forse lo scontro non risulterà inutile se spingerà gli ambienti Onu a prestare maggiore attenzione alla nuova politica vaticano-cattolica… e se stimolerà il Papa e i suoi a dare compiti adeguati alla «Commissione per la protezione dei fanciulli» annunciata il dicembre scorso.
“La folgore dell’Onu cade sul Vaticano e illumina violentemente colpe, omissioni, ritardi nel contrastare gli abusi sessuali del clero. Al tempo stesso costringe la Santa Sede a rendere conto di quanto ancora non sta facendo per portare alla luce i crimini commessi e assicurare alla giustizia i preti delinquenti. Ci sono passaggi nel rapporto del Comitato per i diritti dell’infanzia, che sembrano scritti prima del 2010… Il rapporto Onu, rifacendo tutta la storia, mette però in luce tutto ciò che oggi ancora non funziona.
le Nazioni Unite pubblicano un atto d’accusa durissimo contro il Vaticano per i preti pedofili e per le posizioni sull’omosessualità (e pure per l’aborto e la contraccezione). L’attacco frontale è in un rapporto del Comitato dell’Onu sui diritti dell’infanzia diffuso a Ginevra.
Il rapporto delle Nazioni Unite è innocuo perché in ritardo rispetto alla attuale situazione della chiesa, ed è innocuo  perché chi non vuole cambiare le cose è ben contento che si parli d’altro, come la contraccezione e l’aborto. È però preoccupante perché il livello di scontro tra visione morale e visione medica della sessualità si è alzato.
Il foglio chiama alle armi: “Non è tempo di reazioni solo diplomatiche.”
La prima reazione del Vaticano al rapporto del Comitato Onu per i diritti dell’infanzia è una robusta cortina fumogena. I termini negativi si sprecano… In realtà, dietro il muro di gomma innalzato per reagire al colpo, il Vaticano si sta interrogando seriamente sul modo migliore di affrontare la questione… Al di là di singoli passaggi del documento il comitato di Ginevra ha posto domande precise al Vaticano
“È stato tra i processi più clamorosi mai celebrati in Italia, sia per il numero elevato delle vittime che per la caratura del sacerdote imputato, il quale, come emerso nel dibattimento che si è concluso con una condanna in secondo grado…”

un piccolo specchio per capire se sei tollerante o intollerante

le 8 abitudini di chi è intollerante

come descrivereste una persona intollerante? Lo psicoterapeuta Mark Goulston, durante la sua lunga carriera, si è reso conto che ci sono alcuni tratti che accomunano chi non sopporta il proprio prossimo. Goulston ha delineato 8 caratteristiche che contraddistinguono i soggetti intolleranti.

1. Tendono a essere fanatici – Non è il semplice credere profondamente in qualcosa, è il non dare spazio ad altre interpretazioni. Il loro punto di vista è l’unico possibile e qualunque cosa sia lievemente diversa viene etichettata come sbagliata ed è quindi un nemico che va attaccato.

2. Hanno una psiche rigida – Ogni altro punto di vista li rende estremamente ansiosi e lotteranno fino in fondo affinché gli altri passino dalla loro parte. Il loro esagerato senso di auto-protezione li porta a vedere il “diverso” come una minaccia alla propria identità. Le azioni che compiono – così pensano loro – sono autodifesa contro “l’assalto” del nuovo punto di vista.

3. Sono saputelli – Sanno alla perfezione un minuscolo argomento e questo li rende in dovere di applicare tale “conoscenza” a ogni minimo aspetto della vita. Se sfidati battono in una ritirata strategica, valutano come agirebbero in “quell’ambito” e poi, con un’aggressività ancora maggiore della precedente, tornano all’attacco.

4. Sono pessimi ascoltatori – Toh che novità! Raramente ascoltano o provano a comprendere chi li circonda e il loro stato d’animo. A meno che non la pensino come loro.

5. C’è tensione nelle loro relazioni – Sorpresi? In effetti la loro mania di avere tutto sotto controllo li porta ad avere relazioni solo con chi ubbidisce, è sempre d’accordo e si sottomette alla loro volontà. Ma questo spesso confluisce, ad esempio, con dei rapporti infernali con i propri figli adolescenti.

6. Vedono il mondo in bianco e nero – Le scale di grigio non sono minimamente contemplate. Spesso vengono da famiglie in cui c’era un estremo controllo o, viceversa, caos. Genitori autoritari finiranno per far credere ai figli di aver pagato in anticipo il brutto della vita, lasciandosi andare; famiglie caotiche, invece, porteranno le successive generazioni a imporsi una maggior disciplina, rischiando di superare il limite.

7. Non lasciano nulla al caso – Hanno una salda convinzione che lasciare qualcosa al caso comporti, automaticamente e necessariamente, qualcosa di brutto. Per Einstein la decisione più importante è “scegliere se il mondo in cui vivi è sicuro o pericoloso”. Per qualche astrusa ragione, questi soggetti credono che il loro sia un mondo pericolosissimo. E si sentono, quindi, giustificati se mostrano comportamenti aggressivi e ostili verso gli altri. Quegli altri che, dicono loro, sarebbero pronti per attaccarli per primi (sembra una politica estera di nostra conoscenza?).

8. Soffrono di un’indomabile gelosia – Forse questa è l’osservazione più interessante. Essere invidiosi significa desiderare ciò che un’altra persona ha; essere gelosi significa arrabbiarsi con la persona per il solo fatto di averla. Chi è intollerante è anche geloso, perché non si sente felice. Al contrario, è frustrato perché, pur seguendo tutte le regole, non hanno pace. Di conseguenza, quando ad esempio vedono due persone disposte a infrangere regole e convenzioni pur di trovare il vero amore ed essere felici, non sono solo invidiosi, ma gelosi. Ecco perché tanta veemenza contro il matrimonio gay, anche se le relazioni di altre persone non li sfiorano neanche da lontano.

 

 

Italia malata grave! record europeo della corruzione

Ce l’abbiamo fatta: l’Italia vanta il record europeo di corruzione

 

La corruzione
ALLARME ROSSO ITALIA CORROTTA IMPIETOSO DOSSIER DELLA COMMISSARIA UE MALMSTRÖM: 60 MILIARDI BUTTATI IN TANGENTI TRA APPALTI TRUCCATI E INTESE COSCHE-PALAZZO

dossier di Bruxelles: metà delle mazzette del continente sono made in Italy

peggio di noi soltanto Grecia, Croazia, Bulgaria e Romania La commissaria agli Affari Interni, Cecilia Malmström, è impietosa: il 97% degli italiani percepisce il fenomeno come dilagante, il 42% se ne sente vittima. Le tangenti pagate valgono 60 miliardi Allarme per i rapporti con le mafie e per le leggi ad personam

così Giampiero Gramaglia su ‘il Fattoquotidiano’:

Nell’Unione europea, la corruzione costa 120 miliardi di euro l’anno, “praticamente l’equivalente del bilancio stesso dell’Ue”: è un cancro che “mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche, danneggia l’economia nel suo insieme e priva gli Stati di una parte cospicua del gettito fiscale”, quanto mai necessario in anni di crisi. Nessuno dei 28 ne è esente, ma l’Italia ne ha il primato e lo manterrà, perché le leggi non intaccano “la percezione d’un quadro normativo di quasi impunità”.  

Brutto record tra prescrizione e falso in bilancio

Secondo i calcoli della Corte dei Conti, il fatturato della corruzioneinItaliaèdi60miliardidieuro l’anno, la metà di quello europeo complessivo. Le fonti dell’Ue s’affrettano a precisare che i dati non sono esattamente comparabili. Ma Cecilia Malmström, commissaria europea agli Affari Interni, è abituata a bacchettare l’Italia. E, questa volta, fa l’elenco dei fattori di persistenza della corruzione in Italia: tempi di prescrizione troppo brevi, leggi ad personam, scarsa trasparenza di finanziamenti ai partiti e appalti pubblici. Così, un ex premier – Silvio Berlusconi – prosciolto “per scadenza dei termini di prescrizione” (processo Mills) e il caso di “un parlamentare indagato per collusione con il clan camorristico dei Casalesi”, richiamo alla vicenda di Nicola Cosentino, diventano paradigmi della corruzione in Europa, pur senza essere esplicitamente citati. Gli Stati dell’Ue hanno fatto molto negli ultimi anni per combattere la corruzione, ma “le azioni fin qui intraprese sono lungi dall’essere sufficienti”. In Italia, le accelerazioni normative (la legge anti-corruzione del 2012, la ratifica della convenzione del Consiglio d’Europa nel 2013 e il piano 2013-2016 approvato il 30 gennaio) rappresentano, secondo la commissaria, un “passo avanti”, ma “lasciano irrisolti” problemi di fondo, perché “non modificano la disciplina della prescrizione, la legge sul falso in bilancio e l’auto-riciclaggio e non introducono il reato di voto di scambio”, né sciolgono il nodo del conflitto d’interesse. L’analisi di Bruxelles collima con i rapporti del Greco–il gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione – e dell’Ocse.

Il buco nero delle opere pubbliche

Il primo rapporto della Commissioneeuropeasullacorruzione nell’Ue mostra che natura e livello del fenomeno e l’efficacia delle misure per contrastarlo variano da Paese a Paese: la Malmström non promuove col massimo dei voti nessuno, perché “la corruzione merita maggiore attenzione in tutti gli Stati dell’Unione”, e suggerisce linee di intervento “che – dice – spero possano essere seguite”. Vestito aragosta sullo sfondo rosso mattone della scena allestita per l’occasione, la commissaria è forse all’ultima recita del suo mandato. Risponde a domande sull’Italia citando passi del rapporto, che invita a “bloccare l’adozione di leggi ad personam” ed esprime preoccupazione per il grado di corruzione degli appalti pubblici   – la denuncia il 92% delle imprese, contro una media Ue del 73% –, che vanno resi più trasparenti. Lodo Alfano ed ex Cirielli, depenalizzazione del falso in bilancio e legittimo impedimento stanno a provare, per il documento dell’Ue, che i tentativi di garantire processi efficaci sono stati “più volte ostacolati da leggi ad personam”.

Sono stati 201 i Comuni sciolti per criminalità organizzata

Secondo il rapporto, “in Italia i legami tra criminalità organizzata, politici e imprese, e lo scarso livello di integrità dei titolari di cariche elettive e di governo sono tra gli aspetti più preoccupanti”. Bruxelles suggerisce di perfezionare la legge che “frammenta” le disposizioni su concussione e corruzione e giudica “insufficienti le disposizioni sulla corruzione nel settore privato esullatuteladeldipendentepubblico che segnala illeciti”. La Commissione raccomanda di “estendereipoteriesvilupparela capacità dell’autorità nazionale anticorruzione Civit”. Quanto alla corruzione dei politici,il rapporto cita dati del 2012: indagini e ordinanze di custodia cautelare per esponenti politici locali un po’ ovunque, 201 Consigli municipali sciolti e oltre 30 deputati della precedente legislatura indagati per reati di corruzione o finanziamento illecito.

Da Il Fatto Quotidiano del 04/02/2014.

risolvere i problemi dei rom … mandandoli via!

Ancora sgomberi a Pisa: due famiglie rom allontanate da Coltano

sembra un vizio non solo di amministrazioni ‘cattive’ di destra insensibili alla valorizzazione e al rispetto delle minoranze  culturali e ai problemi umani spesso legati ad esse perché represse o marginalizzate, ma anche di quelle ‘buone’ che celebrano ‘giornate della memoria’ e che organizzano dibattiti pubblici sui diritti umani e che progettano soluzioni abitative ‘per loro’, magari prescindendo da un ‘loro’ effettivo coinvolgimento essendo il vero motivo degli interventi non i ‘loro bisogni ma la nostra esigenza di operare delle migliorie per darci una buona coscienza ed eliminare le brutture più grosse per esibire una immagine di sé politicamente più accettabile, quando proprio non ci sia sotto, velatamente, un intento di assimilazione presentata come ‘inserimento’ e altre belle parole …

un intervento di ‘moduli abitativi’ per i rom di Coltano, molto pubblicizzato ed elogiato, presentato da molti come un tipo di soluzione ideale per comunità rom (anche se più che a politici o uomini delle istituzioni che poco o nulla conoscono i rom, le loro abitudini, il loro modo di organizzare la vita , è ai rom stessi che andrebbe chiesta una valutazione sulle soluzioni progettate per loro) è stato messo in atto dal comune di Pisa: peccato però che chi non accetta ‘a scatola chiusa’ tale soluzione non trova altra proposta che l’essere mandati via: sta succedendo proprio questo  a due famiglie (qui sotto la solidarietà di chi le conosce molto bene)

Il comunicato di Africa Insieme e Rebeldia e la solidarietà di p. Agostino Rota Martir che ha rischiato lui stesso di essere allontanato

Ci risiamo. Ancora una volta, la politica del Comune sui rom assume un solo e unico volto: quello degli sgomberi. Con un intervento effettuato la scorsa settimana, infatti, la Polizia Municipale ha notificato un’ordinanza di allontanamento a quattro nuclei familiari del campo di Coltano.

Come noto, l’insediamento di Coltano è diviso in due aree: da un lato il “villaggio”, con le famose “casette” assegnate ai rom; dall’altro il “campo”, dove abitano famiglie che non sono rientrate nell’area attrezzata. Da mesi si discute del destino di questa seconda area. Oggi l’amministrazione ha dato la sua risposta: quattro nuclei verranno sgomberati, ma solo a due di questi è stata proposta una dignitosa soluzione abitativa. Le altre famiglie – nelle quali vi sono anche bambini – dovranno allontanarsi. 

Ci risiamo, dunque: l’amministrazione comunale ripropone la consueta strada degli anni passati. Nel frattempo, il mondo intorno a noi è cambiato. L’Italia si è dotata di un programma nazionale denominato “Strategia di Inclusione”, che chiede di interrompere la spirale perversa degli sgomberi, e di avviare progetti di inserimento abitativo.

La Regione Toscana ha creato tavoli di lavoro con gli enti locali per trovare soluzioni abitative e per scongiurare gli sgomberi forzati. Vi sono fondi europei stanziati per progetti validi e innovativi, e già alcune città toscane hanno avuto accesso a questi fondi. Il Comune di Pisa non ha presentato alcun progetto ed è oggi il fanalino di coda delle politiche sociali sui rom, sia a livello regionale che nazionale. 

A pochi chilometri da Coltano, un altro campo – quello della Bigattiera – ha suscitato aspre polemiche nei mesi scorsi. Una mozione del Consiglio Comunale obbligava il Sindaco a ripristinare l’erogazione della luce elettrica e dell’acqua corrente, e a garantire il trasporto scolastico dei bambini [per il testo della mozione e il dibattito in aula si veda l’apposita pagina sul sito del Consiglio Comunale di Pisa]. Oggi, a quasi sei mesi di distanza, nulla si è mosso, e quella comunità continua ad essere priva dei servizi essenziali.

Un recente dossier dell’Associazione 21 Luglio – una delle più note organizzazioni internazionali di tutela dei diritti umani – inserisce Pisa tra le città dove più frequentemente sono violati i diritti dell’infanzia rom. Non è proprio un bel biglietto da visita per un Sindaco che si definisce “amico dell’infanzia”… 

Ancora una volta, ci troviamo a proporre la soluzione più semplice. Si revochi l’ordinanza di sgombero, e si apra un tavolo di lavoro con le famiglie interessate, con la Regione e con le associazioni, per trovare soluzioni condivise e rispettose dei diritti fondamentali. E’ davvero così difficile farlo? 

Africa Insieme / Progetto Rebeldia 

Pisa, 29 Gennaio 2014

bambino rom

 

Le 2 famiglie Rom di Coltano a rischio di allontanamento

La chiusura di uno spazio, quello che rimane del campo Rom di Coltano, può essere una scelta legittima e necessaria e questo compete giustamente al Comune, ma è importante farlo offrendo a chi lo abita delle alternative percorribili, come recita tra l’altro la “Strategia Nazionale d’inclusione dei Rom e Sinti” della Commissione Europea del 2011, sottoscritta anche dal Governo Italiano. 

Le famiglie Rom in questione (di fatto solo 2) in questi ultimi anni si sono trovate a vivere una situazione di emergenza, e forse le colpe sono da ripartire tra le diverse parti in causa e non solo verso i Rom. Sta di fatto che le 2 famiglie Rom hanno dimostrato di saper vivere nel rispetto delle regole fondamentali: ogni giorno accompagnano i loro figli a scuola (non potendo usufruire del servizio scuolabus del campo) e i genitori sono impegnati duramente ogni giorno nella raccolta del ferro per il mantenimento delle loro famiglie. Credo fermamente meritino che gli venga data un’altra chance, il loro allontanamento alla cieca provocherebbe un’ulteriore ferita che si aggiunge ad altre. 

Gli esseri umani non sono da considerarsi degli scarti, ce lo ricorda spesso e in varie occasioni papa Francesco e il suo stile ci entusiasma:

“Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città, costituisce una tragedia. Uno che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia! Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti.

Questa “cultura dello scarto” tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti.” (5 Giugno 2013) 

Anche il sottoscritto era destinatario della stessa ordinanza di allontanamento dal campo Rom, sono riconoscente all’Assessora Sandra Capuzzi per la sua comprensione, di fatto “graziandomi” offrendomi una alternativa percorribile e condivisa. Auspico che venga offerta anche a queste 2 famiglie Rom la possibilità di definire un percorso condiviso, anche per non aggravare ulteriormente la loro esistenza, soprattutto per il bene dei loro figli, evitando di fatto di sentirsi degli scarti, come dei rifiuti da spazzare via..ne vale veramente la pena? 

don Agostino Rota Martir

 campo Rom di Coltano – 30 gennaio 2014  

dopo l’olocausto è possibile ancora credere in un Dio buono?

alla luce della grandezza del male visto durante l’Olocausto molte persone hanno riesaminat0 le impostazioni  classiche del problema dell conciliazione della realtà  di Dio con il male soprattutto così intollerabile

la domanda comune è: “come può la gente avere ancora qualche tipo di fede dopo l’Olocausto?”

a questa domanda cerca di dare una risposta il teologo ebreo H. Jonas con il volumetto: ‘il concetto di Dio dopo Auschwitz:

Il concetto di Dio dopo Auschwitz

Hans Jonas

Hans Jonas

Le tragedie pongono sempre dei dubbi e delle domande. E se la tragedia in questione riguarda migliaia di persone ed è di gravità incommensurabile, i dubbi che pone sono parimenti gravi. Per questo Auschwitz pone al popolo ebraico, e non solo, problemi sulla stessa natura di Dio, problemi difficili da risolvere, da chiarire. Davanti a una simile tragedia, davanti a migliaia di vittime innocenti, si pone una domanda essenziale: quale Dio ha potuto permettere questo?

A questa domanda prova a rispondere Hans Jonas col suo libello “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”. Un trattato breve, ma incisivo, ben scritto e ben argomentato, su un tema difficoltoso, soprattutto per un ebreo. Scrive infatti Jonas:

Si deve considerare a questo punto, il fatto che l’ebreo, di fronte a un simile interrogativo, si trova teologicamente in una situazione più difficile del cristiano. Infatti, per il cristiano che attende l’autentica salvezza dall’al-di-là, questo mondo (e in particolare il mondo umano a causa del peccato d’origine) è il mondo di Satana e conseguentemente un mondo non degno di fiducia. Ma per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia, e quindi Auschwitz, per il credente, rimette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato.

Cosa fare allora? Come ripensare il concetto di Dio? Come conciliarlo con l’orrore del campo di sterminio? Rinunciando all’onnipotenza.

Jonas ci presenta un Dio inedito, sofferente, compartecipe delle vicissitudini

Il famigerato cancello di entrata di Auschwitz

Il famigerato cancello di entrata di Auschwitz.

umane e non più onnipotente e distaccato. Del resto l’onnipotenza è insostenibile anche da un punto di vista logico. Nel momento della creazione, nel momento in cui Dio ha creato un altro-da-sé, l’onnipotenza è venuta a mancare. L’esistenza di un altro infatti limita il potere di Dio poiché l’altro ha una sua indipendenza, seppur parziale e limitata, e quindi una sua potenza. Solo restando unico e solo, Dio avrebbe potuto rimanere onnipotente. Ma sarebbe stata un’onnipotenza solo teorica e inutile poiché non ci sarebbe stato nessun altro soggetto su cui applicare quella stessa potenza. Perciò l’onnipotenza di Dio diviene un concetto non più sostenibile.

Ma non è solo la logica a far vacillare il concetto. Jonas ci dice che tre cose sono importanti nella concezione ebraica di Dio: l’onnipotenza, la bontà e la comprensibilità. Ora, dice l’autore, questi tre attributi non possono valere contemporaneamente. Possono sussistere solo due alla volta. Se infatti Dio è buono e comprensibile (pur parzialmente) dall’uomo allora non può essere onnipotente. Non si potrebbe in tal caso comprendere l’esistenza dell’ingiustizia, della sofferenza degli innocenti. Non si potrebbe spiegare ciò che successe ad Auschwitz. Se fosse invece onnipotente e comprensibile, ne seguirebbe la mancanza della bontà. Un Dio che può evitare la sofferenza degli innocenti e non lo fa non può essere considerato buono, se postuliamo la possibilità di comprenderne la legge e le azioni. Per salvare l’onnipotenza e la bontà di Dio dobbiamo rinunciare alla comprensione, dobbiamo renderlo un Dio distante, misterioso, sconosciuto e inconoscibile in ogni suo aspetto. Ma per l’ebraismo bontà e comprensibilità sono irrinunciabili. Senza questi due attributi, l’intero ebraismo perde significato. Per questo Jonas dice che l’onnipotenza è, tra i tre attributi, quello a cui rinunciare. Solo un Dio che ha rinunciato all’onnipotenza creando e si è messo in gioco nel divenire del tempo può far capire un male insensato e ingiusto. E può, finalmente, mostrare il suo aspetto vero, quello di un Dio che pur nella sua potenza e grandezza, soffre e diviene e partecipa del destino dell’uomo.

Siamo dunque in balia del caos e del male? Dobbiamo pensare che Dio non possa dunque nulla contro l’ingiustizia e la sofferenza? Dobbiamo pensare di essere soli nella lotta di questo mondo? No. Dio c’è comunque e c’è una superiorità del bene sul male, una superiorità che porta lentamente il mondo verso qualcosa di meglio, verso un perfezionamento. Così scrive Jonas:

Grazie alla superiorità del bene sul male in cui noi confidiamo in virtù della logica non causale che governa le cose di questo mondo, la loro nascosta santità può controbilanciare una colpa incalcolabile, saldare il conto di una generazione e salvare la pace del regno invisibile.

Così la scoperta della non-onnipotenza di Dio lungi dal divenire motivo di disperazione, diventa motivo di speranza e di avvicinamento al Creatore.

Questa concezione non è rimasta limitata all’ebraismo. Nonostante ciò che si diceva all’inizio dell’articolo, anche alcuni teologi cristiani hanno sposato questa tesi per spiegare l’eccesso di male che pervade il nostro mondo. Simili idee sono nettamente minoritarie, ma presenti nel cattolicesimo sia romano che ortodosso. Cito solamente, a tal proposito, il nome di Sergio Quinzio, importante e originale teologo del XX secolo.

Hans Jonas fu un filosofo tedesco (poi naturalizzato statunitense) di origine ebraica. Nato nel 1903, fu un grande studioso dello gnosticismo. Fuggì dal nazismo prima in Inghilterra e poi in Palestina e partecipò come volontario alla seconda guerra mondiale. Morì nel 1993.

“Il concetto di Dio dopo Auschwitz” è un’opera a mio parere molto importante e non solo per i credenti (ebrei o meno), ma per tutti. Dà spunti di riflessione sul mondo contemporaneo che si rivelano preziosi.

L’edizione della casa editrice “il melangolo” è ben curata, elegante, e corredata da utili note e da un discorso dello stesso Jonas sul razzismo, tenuto in occasione del conferimento del premio Nonino.

riflessioni nel ‘giorno della memoria’

auswitz

nel ‘giorno della memoria’ è importante soprattutto riflettere perché la rimozione sbrigativa e superficiale del passato ci porta, senza che ce ne accorgiamo, a riprodurre atteggiamenti, insensibilità e disumanità che sono le premesse perché cio che è stato possa rivirsi ancorché in forme inedite

niente di più opportuno che riflettere su una intervista di E. Biagi a Primo Levi stesso, verrà inoltre proposto un articolo di L. Mazzetti su forme di razzismo ancora presenti fra noi nell’azione disinvolta di qualche forza politica come la Lega ed infine la reazione comprensibilmente durissima a gesti di volgare razzismo antisemita coi pacchi contenenti teste di maiale:

“Come nascono i lager? Facendo finta di niente”

 intervista a Primo Levi a cura di Enzo Biagi

in “il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2014

(in onda su RaiUno l’8 giugno 1982)

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?

Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?

Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?

Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?

Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?

Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?

Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?

Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?

Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?

Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?

Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?

Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?

Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuol dire accampamento, vuol dire luogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?

Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?

L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?

Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?

Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?

Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.

Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?

È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?

In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?

Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.

Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?

Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?

Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?

Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi. Biagi, grazie a lei.

Ma i razzisti ci sono ancora: vedi la Lega

di Loris Mazzetti

in “il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2014

divieto ai nomadi

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa entrarono nella città polacca di Oswiecim e scoprirono il campo di concentramento più tristemente noto con il nome di Auschwitz. I soldati sovietici trovarono una montagna di cadaveri, ma anche qualche superstite, la cui testimonianza fece scoprire al mondo, per la prima volta, l’orrore del genocidio nazista, strumenti di tortura e di annientamento: i forni crematori. È importante non dimenticare il passato ma i fatti ci dimostrano invece che dimenticare è molto facile. Nella “Bell’Italia” esiste un partito, la Lega, che senza giri di parole mette alla gogna il ministro della Repubblica Kyenge, prima paragonandola a un orango tango per il colore della pelle, poi pubblicando su La Padania i suoi impegni pubblici perché i “padani” sappiano dove poterla contestare; il poco onorevole Bonanno dà dell’ebreo a Gad Lerner perché aveva definito il suo gesto di presentarsi in Parlamento con il volto dipinto di nero, un atto nazista; il segretario Salvini annuncia che alle Europee di maggio la Lega sarà alleata con il partito xenofobo di estrema destra Front National di Marine Le Pen. L’intervista di Enzo Biagi che il Fatto Quotidiano pubblica alla vigilia del “Giorno della Memoria” – istituito per non dimenticare le vittime dell’Olocausto e in onore di coloro che, rischiando la propria vita, hanno protetto i perseguitati – è allo scrittore Primo Levi, uno dei pochi sopravvissuti ad Auschwitz. L’intervista andò in onda su RaiUno l’8 giugno 1982 nel programma Questo secolo: 1935 e dintorni, viaggio negli anni che contano. Quando Mussolini cambiò idea e gli italiani divennero ariani Levi, nato a Torino nel ’19, fu partigiano nel Partito d’Azione in Val d’Aosta. Nel dicembre del 1943, insieme a due compagni, venne preso dai fascisti. Prima deportato nel campo di concentramento di Fossoli, a Carpi, poi, il 22 febbraio del ’44, insieme ad altri 650 ebrei, fu sbattuto dentro un treno merci con destinazione Auschwitz. Solo in 22 si salvarono. “L’esperienza del  campo di concentramento può venire superata e resa indolore, addirittura resa utile come tutte le esperienze della vita. Ma non si cancella mai”, scrisse Levi. L’esperienza vissuta ad Auschwitz la raccontò nel libro Se questo è un uomo, pubblicato per la prima volta nel 1947. Biagi e Levi si conobbero quando lo scrittore piemontese con La tregua, in cui raccontò il viaggio di ritorno dal lager nazista, vinse, nel 1963, la prima edizione del Premio Campiello. Biagi lo volle conoscere perché aveva letto Se questo è un uomo, ed era stato molto colpito per la narrazione asciutta, piena di particolari, realista. Il libro, ripubblicato da Einaudi nel 1956, aveva avuto un grande successo.

porraimos

Il Giorno della Memoria ci riporta alla mattina del 1938, quando in Italia tutto iniziò. Allora Biagi, diciottenne, lavorava già in una redazione. I quotidiani, ha ricordato più volte il grande giornalista, per disposizioni ricevute dal regime uscirono con questo titolo: “Le leggi per la difesa della Razza”. Il fascismo voleva mettersi al passo con i camerati di Berlino. Gli italiani furono invitati, inizialmente attraverso la stampa, a considerare, che tranne una piccola minoranza, appartenevano alla razza ariana. “Era un privilegio, per la verità, del quale nessuno si era mai preoccupato, Mussolini compreso”, disse Biagi nella presentazione dell’intervista. Nel 1934 ricevendo uno dei capi del sionismo internazionale, alla presenza del rabbino di Roma, parlando del Führer, il Duce affermò, a proposito degli ebrei: “Il signor Hitler è un imbecille e un cialtrone fanatico, ascoltarlo parlare è una tortura, un giorno non ci sarà più traccia di lui, gli ebrei saranno sempre un grande popolo, Hitler è una cosa da ridere non lo temete e dite alla vostra gente di non averne paura”. Mussolini che aveva amato una ragazza ebrea, Margherita Sarfatti, non era, inizialmente, frenato da pregiudizi, cambiò per convenienza, come tante altre volte, opinione. La sopravvivenza vissuta come colpa e il suicidio Il 6 ottobre 1938, i 60 mila cittadini italiani di religione ebraica seppero che per loro stava cominciando una nuova persecuzione. Il Gran Consiglio stabilì che erano proibiti i matrimoni misti, gli ebrei non dovevano avere industrie con più di 100 dipendenti, né terreni che superassero un certo valore, né domestici ariani, niente servizio militare, niente radio, niente nome sull’elenco del telefono, niente annunci funebri. Li ributtarono ancora una volta nel ghetto. In Italia 200 professori persero la cattedra, 23 mila professionisti perdettero il lavoro, 150 tra ufficiali e sottufficiali vennero congedati, chiusi i portoni delle scuole, che erano di tutti, per 6 mila studenti. Venne diffuso il Manifesto della Razza a firma di dieci illustri scienziati nel quale si affermava: “Gli ebrei non appartengono alla Razza italiana”. L’11 aprile 1987 Levi morì suicida. Ferdinando Camon nel libro Conversazione con Primo Levi ha scritto: “Dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c’è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega

macellai delle coscienze

di Gad Lerner

in “la Repubblica” del 26 gennaio 2014

il-giorno-della-memoria

Sono poche le specie animali di cui la Bibbia consente, e solo a determinate condizioni, l’utilizzo per alimentazione. Il maiale non rientra fra di esse in quanto, pur avendo l’unghia bipartita come i bovini e gli ovini, non è un ruminante.

Il Libro sacro non fa alcun riferimento all’impurità del maiale, creatura di Dio come le altre. Solo nella tradizione postuma e nella secolare contrapposizione alle altrui usanze, la carne suina è assurta a simbolo di cibo proibito. Per gli ebrei così come per i musulmani.

Naturalmente gli antisemiti che hanno voluto infliggere un’offesa blasfema agli ebrei, non a caso alla vigilia della Giornata della Memoria, recapitando teste di maiale al tempio Maggiore di Roma, ll’ambasciata d’Israele e al Museo della Storia di Trastevere dov’è in corso una mostra sulla Shoah, nulla sanno riguardo alle leggi alimentari della Kashrut. Il loro scopo era solo quello di intimidire gli ebrei con una minaccia tipica del linguaggio mafioso, e nel contempo di perpetrare l’ennesima umiliazione al popolo sterminato settant’anni or sono.

Analoga ignoranza manifestano purtroppo da tempo certi esponenti politici che hanno condotto dei maiali, o hanno cosparso la loro urina, nei luoghi destinati alla costruzione di edifici di culto islamico. Anche lì, in verità, basta una preghiera per purificare l’area; ma è lo sfregio quello che si vuole perpetrare. Il dileggio di una fede religiosa. L’ostentazione razzista. Da alcuni anni, purtroppo, le celebrazioni della Giornata della Memoria, in coincidenza con la liberazione del lager di Auschwitz Birkenau in cui furono uccisi oltre un milione di deportati, vengono utilizzate anche come palcoscenico di scellerate provocazioni. L’anno scorso Berlusconi colse l’occasione di una cerimonia al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, da cui partirono venti convogli di prigionieri destinati alla morte, per un pubblico elogio di Mussolini.Ma è il negazionismo l’insidia più velenosa. Quello che si è manifestato di nuovo ieri con le scritte vergate, sempre a Roma, per sostenere che l’Olocausto sarebbe una “menzogna” e Anna Frank una “bugiardona”. È l’arma più crudele con cui si rinnova la sofferenza dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. Liquidare come un’abile invenzione propagandistica il genocidio degli ebrei d’Europa è la modalità prescelta per additarli nuovamente come popolo subdolo e dominatore, meritevole quindi di essere perseguitato. Non a caso il negazionismo ha fatto tanti proseliti nel mondo arabo e musulmano in guerra con lo Stato d’Israele. Ma più in generale minimizzare l’esito delle leggi razziali e delle deportazioni novecentesche, sostenendo che la Soluzione Finale non rientrasse nei piani del regime nazista, serve anche a addormentare le coscienze di fronte al ritorno delle pulsioni razziste e delle legislazioni discriminatorie alimentate dal fenomeno migratorio e dalla sofferenza sociale.

Basterebbe l’orribile episodio di ieri per confermare l’importanza di un buon uso della memoria storica come insegnamento per il presente, oltre che come omaggio alle vittime. Sicché la miglior risposta alla barbarie culturale della testa di maiale spedita in sinagoga saranno le migliaia di manifestazioni già organizzate nelle scuole italiane per la Giornata di domani. Resta però la speciale offesa di cui è stata fatta oggetto la Comunità romana, la più antica della diaspora ebraica. Nel corso degli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una straordinaria rivitalizzazione culturale del quartiere ebraico della capitale che sorge sulla sponda sinistra del Tevere. Non solo luoghi di culto ma anche centri studi, scuole, negozi e ristoranti kasher. Qualcuno vorrebbe ridurre tale luogo, affascinante per chiunque voglia confrontarsi con la vicenda millenaria dell’ebraismo, di nuovo a Ghetto chiuso in se stesso e assediato. Come fu prima del 1870. Bene ha fatto, dunque, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, a elogiare la costante opera di prevenzione e vigilanza delle forze dell’ordine, scattata anche di fronte alla provocazione di ieri. Spetta allo Stato difendere l’incolumità dei cittadini e il patrimonio culturale ebraico. Vincendo così la tentazione di ricorrere a impropri strumenti di autodifesa che la diffusione dell’odio antisemita rischia di far degenerare. Gli ebrei italiani, per fortuna, non sono soli contro tutti. Purché la coscienza democratica non abbassi la guardia, ora che si affacciano di nuovo tempi bui. È un sinistro avvertimento questo ricorso a un animale che si pretende impuro. Contro gli ebrei, così come prima contro i musulmani. Ma in realtà contro la nostra democrazia. Viene davvero da dire: poveri maiali innocenti, vittime dei macellai delle coscienze 

27 gennaio: la nostra memoria troppo insenbile

Noi, incapaci di sentire davvero quel dolore

per ricordare e riflettere significativamente nel ‘giorno della memoria’ riporto qui sotto l’articolo di fondo di Ferruccio Sansa su ‘il Fattoquotidiano’ odierno:

Il giorno della memoria

Olocausto, la memoria sia parte della vita

Così un giorno ti ritrovi a un bivio. Sei andato a Monaco, per vedere la cattedrale, le birrerie, i musei. Poi uscendo dalla città, tra distese di fabbriche e capannoni, a un incrocio vedi un cartello giallo con quella scritta: DACHAU.

Non te lo aspettavi, quasi disturba la spensieratezza del viaggio. Quel segnale scompiglia i pensieri. Ma senti di dover svoltare. Quasi più per dovere che per convinzione. Senza quasi accorgertene ti trovi in un grande spiazzo. I rumori della città non ci sono più. Eppure non sai cosa fare, non sei pronto. Indugi nell’oltrepassare quel cancello di ferro battuto che senza aver mai visto già conosci così bene: “Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi.

Cosa dirò ai bambini?, ti chiedi. E io, come reagirò?, quasi temi di non essere all’altezza. Di non capire. Di non soffrire abbastanza. Eccolo dunque il campo di concentramento. Ecco i camini, le baracche. Avanzi sulla ghiaia, in un silenzio di cattedrale. Leggi i pannelli: “Dachau fu il primo campo di concentramento nazista, fu inaugurato nel 1933. Qui trovarono subito posto cinquemila internati”. Cinquemila uomini, donne e bambini. Provi a immaginarteli uno per uno, gente come te, come tua moglie, come i bambini cui chiudi la giacca perché non prendano freddo.

Ti sforzi di capire, di soffrire perfino, ma non ti senti adeguato. Non ci riesci davvero.

Leggi quei numeri spaventosi, diecimila, centomila morti, così grandi che invece di accrescere lo sgomento ti fanno quasi perdere di vista ogni singola vita, confusa nella cifra immensa.

Ebrei, polacchi, nomadi. Arrivi davanti al monumento dedicato ai bambini. Ti volti verso i tuoi, così misteriosamente silenziosi, quasi avessero capito, lo avessero sentito sulla pelle senza bisogno di tante spiegazioni. Proprio Giovanni e Nino, che vanno alla scuola germanica, che conoscono la grandezza di questa civiltà. E, però, provi a spiegare, a ricordare l’orrore che questo popolo, ogni popolo, ogni uomo a volte trova dentro di sé.

É quasi finito. Hai fatto il tuo dovere, puoi tornare a casa. Mancano le baracche ai margini del campo. La “Barache X”. Entri. Ti trovi in una stanza spoglia, in un buio che si infittisce procedendo verso una porta: le docce. Quindi è successo qui. Oltre quella soglia. Rimani fermo, non riesci a entrare. Ti guardi intorno. Non ci avevi ancora fatto caso: subito prima di superare l’ultima porta, lo sguardo incontra una piccola finestra quadrata. Di sicuro, sì, certamente è successo anche a loro in quegli ultimi istanti. Si vede solo un frammento di prato, il verde acceso dalla pioggia appena caduta. La vita. Lo vedi e d’improvviso ti metti a piangere, non riesci a fermarti, singhiozzi come non ti accadeva da quando eri bambino.

Da Il Fatto Quotidiano del 27/01/2014.

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