‘case in legno per i nomadi’: marcia in dietro dell’amministrazione

finisce male il progetto delle ‘casette in legno per i nomadi’ da realizzare nell’area tra il cimitero urbano e il Campo Coni a Lucca così come dall’Assessore al Sociale Vietina era stato pensato nei mesi scorsi (nei veri link rimando alle varie ‘tappe’ di questo progetto ora negato dall’Assessore stesso

riporto qui sotto la pagine de ‘la Nazione’ che ricostruisce e discute, alla sua maniera, questa ultima tappa in Consiglio Comunale:

Progetto case di legno per i nomadi: “E’ tutta un’invenzione dei giornali”

Lo sfogo dell’assessore Vietina che nega l’evidenza

Lucca, 8 gennaio 2013 –

Un problema che non esiste, un’ipotesi che non è mai nata. Sul dibattito del consiglio comunale di ieri sera inerente la questione della costruzione di casette in legno per i nomadi di via delle Tagliate scende il sipario. Almeno per ora. E scende in un clima di apparente ricompattamento della maggioranza di centrosinistra su di un tema che nelle scorse settimane ha diviso duramente i gruppi che sostengono il sindaco Tambellini. Al punto che per evitare ulteriori divisioni, la maggioranza ha preferito non proporre ordini del giorno, un modo per evitare di dividersi sugli aggettivi e gli avverbi su di un tema che incontra, riprendendo le parole amare espresse dall’assessore Vietina ai consiglieri a fine anno, diverse sensibilità culturali. Il lungo dibattito richiesto dalle opposizioni è finito, in sostanza, con un nulla di fatto. Respinti gli ordini del giorno proposti dalle minoranze che chiedevano la riqualificazione dell’area e l’allontanamento dei nomadi dal parco Fluviale, come pure una stretta ai soldi delle casse comunali investiti sul complicato tema dell’assistenza ai nomadi.

QUANTO all’ipotesi delle casette in legno, l’assessore Vietina ha negato che vi fosse un’ipotesi del genere allo studio. Incredibilmente, visto che la proposta di costruire casette in legno nel campo di via delle Tagliate aveva trovato conferme non solo nelle dichiarazioni dell’assessore regionale al Sociale Allocca, ma, indirettamente, anche dalle dichiarazioni ufficiali del sindaco Tambellini, che aveva precisato che non c’erano le condizioni economiche e urbanistiche per realizzare strutture. Eppure, per l’assessore Vietina, si parla del nulla. E per nulla. Visibilmente tesa, voce secca, piglio accigliato, tono a tratti molto seccato. L’assessore Vietina non ha proprio digerito il fatto che l’ipotesi della costruzione di casette in legno per i nomadi sia finita sui giornali. Tutto falso, tutto montato ad arte sulla stampa per screditare, sulla pelle dei nomadi, l’amministrazione comunale. Una sorta di lezione, infarcita di citazioni. «Questa convocazione si è basata esclusivamente su dati diffusi in modo improprio della stampa, sono delusa per il mancato riconoscimento del lavoro delle Commissioni – ha detto – . Mai posto in discussione l’ipotesi di dare vita a queste casette, come ha confermato il sindaco nei giorni scorsi».

«QUANTO all’ipotesi di aiutare prioritariamente le famiglie lucchesi – ha concluso la Vietina – è inammissibile: un territorio deve disporre politiche sociali non deve creare dei sistemi delle domande dei residenti e della provenienza: tutte le famiglie hanno esattamente la stessa possibilità di accedere ai servizi sociali. La riqualificazione dell’area? Una città come la nostra non può sopportare una situazione di degrado, ci assumeremo la responsabilità che questo degrado non sia procrastinato. Come? Non è il momento di dirlo. Di azzerare l’esistente non se parla nemmeno. Grande amarezza per le polemiche di una campagna di stampa tesa a presentare in modo scorretto la vicenda». Dure le opposizioni. A partire da Pietro Fazzi (Liberi e responsabili): «L’amministrazione ha preferito imporci una lezioncina fatta di citazioni e avverbi, senza spostare i termine del problema e percorrendo la via della polemica. Mi lascia indignato sentire dire dall’assessore che si sono inventati tutto i giornalisti. Se si mette in discussione una cosa che grida vendetta sembra che si sia contro l’inclusione sociale: incredibile. I nomadi non vanno allontanati, ma nemmeno parlare di una realtà intoccabile». Duro anche Lido Fava del solito gruppo: «E’ una maggioranza pasticciona e confusionaria. In via delle Tagliate ci sono problemi anche di ordine pubblico, se il progetto delle casette fosse andato in porto, si sarebbero parlato di una struttura permanente. I lucchesi non vogliono siano spesi altri soldi pubblici su simili progetti».

IN FAVORE dell’amministrazione si è spesa Valentina Mercanti (Pd): «E’ un argomento sensibile che va trattato con massima delicatezza, evitando strumentalizzazioni: quello delle casette è un progetto che è decaduto a fine novembre».Questa vicenda mostra la considerazione che l’amministrazione ha del Consiglio: una mera appendice di decisioni prese altrove. Secco Roberto Lenzi (Idv): «Abbiamo appreso dai giornali tutta vicenda: è l’ennesima dimostrazione di quanto l’amministrazione tenga d conto il Consiglio. L’intervento della Vietina è stato infarcito di retorica, ma non si amministra con la retorica». Marco Martinelli (Forza Italia) contesta le affermazioni dell’assessore: «Vietina è stata sconfessata politicamente sulla vicenda e sta provando a negare tutto, mistificando la realtà. Si palesano le divisioni dell’amministrazione». Caustico Battistini (Pd): «Questa gente dell’opposizione che fa questi discorsi sarà alle celebrazioni per don Franco Baroni. Che tristezza». Per ora finisce qui. Domani è un altro giorno.

ma per l’opposizione la cosa non può finire qui, e parte all’attacco (così nella ricostruzione de ‘lo Schermo’ odierno:

Giorgi attacca «Consiglio espropriato. Sulla questione nomadi ha già deciso la Giunta insediando autonomamente un gruppo di lavoro»

LUCCA, 8 gennaio – Non si sono sopite le polemiche e le tensioni consumate nel Consiglio comunale di ieri sera che di nuovo la questione dei campi nomadi torna a far discutere la politica lucchese dopo che il consigliere del Movimento 5 Stelle Laura Giorgi ha appreso dall’albo pretorio la delibera della Giunta comunale con la quale già lo scorso 30 dicembre è stata insediata una commissione di lavoro, senza che le commissioni ne il consiglio ne fossero partecipi.

Il consigliere Giorgi, assente nella seduta di ieri sera, aveva presentato un proprio ordine del giorno e inviato un intervento scritto «Noi avevamo chiesto in consiglio la lettura di quanto sottoscritto ossia se corrisponda a vero la notizia che un gruppo di lavoro sia già stato approvato con delibera di Giunta, nel qual caso noi  valutiamo nulla o da rivedere tale decisione. I poteri del consiglio e delle commissioni consiliari non possono essere espropriati: questo è il punto importante ma sono talmente sicuri di sé che continuano a fare quello che vogliono ed il Consiglio Comunale che esprime i cittadini è ignorato».

La delibera 275 del 2013 parte analizzando i dati aggiornati al 2013: «la Regione Toscana ha 3.745.786 abitanti sul proprio territorio e i ‘nomadi’ Rom e Sinti presenti sono circa 2.600, di cui 1.200 nei campi con una percentuale sulla popolazione toscana pari allo 0,07% (dati anno 2012 Fondazione Michelucci); attualmente a Lucca sono presenti 3 insediamenti denominati ‘campi nomadi’, situati in via delle Tagliate, in via di Fregionaia e in via della Scogliera; l’insediamento del campo delle Tagliate – situato tra il campo Coni, il cimitero ed il parcheggio bus turistici nel quartiere di S. Anna – con una estensione di 10.162 metri quadrati, è composto da etnie Sinti e Rom, è nato alla fine degli anni ’90 ed attualmente è composto da 23 piazzole, con una presenza di 132 persone a comporre 33 nuclei familiari (dati aggiornati ad agosto 2013); le altre due realtà, entrambe composte da soggetti Sinti, sono quelle del campo di via della Scogliera n. 1411 (n. 55 persone – dati del maggio 2013) e il campo di Maggiano/Fregionaia (n. 25 persone – dati maggio 2013), per un totale di complessivo di 212 persone».

L’amministrazione Fazzi con atto n. 128 del 24 marzo 1999 attivò un protocollo d’intesa per interventi a favore delle popolazioni Rom e Sinti con il contributo della Caritas Diocesana e coordinato dal Servizio Sociale Professionale;

I progetti attivi dal documento dell’esecutivo comunale sono:  interventi di sostegno – a cura del Servizio Sociale Professionale – «progettazione condivisa ed erogazione sostegno scolastico/educativo presso il campo, esenzione servizi scolastici, sostegno economico; tutela sui minori come definiti dall’autorità giudiziaria del Tribunale per i Minorenni di Firenze con provvedimenti di affido al servizio sociale e/o monitoraggio e controllo sul nucleo familiare; azioni di affiancamento su percorsi di formazione professionale e di inserimento sociale; collaborazione con le istituzioni scolastiche, con particolare attenzione alla frequenza scolastica ed allo scambio reciproco di informazioni».

Il progetto «In campo» attuato «con convenzione con le Cooperative La Cerchia e Odissea e la Caritas; quattro educatori, presenti sul campo per 60 ore settimanali per 35 minori coinvolti, e la coordinatrice attuano un sostegno scolastico ed educativo individualizzato e di gruppo».

Il progetto Donne al Lavoro  che prevede «un percorso di accompagnamento e inclusione sociale/lavorativa gestito dalla Caritas attraverso varie cooperative (per Lucca l’Impronta e Odissea) che si concretizza in borse lavoro (di circa 400 euro/mese) per esperienze qualificanti di lavoro presso aziende».

Attività estive – laboratorio-gioco intitolato «Fuori Gioco» consistente in «due incontri settimanali presso gli spazi esterni della struttura Carlo del Prete (presso struttura comunità per minori in viale Carlo del Prete), con orario 15,30-19,30 con attività di gioco finalizzate alla socializzazione, conoscenza del sé, senso e rispetto delle regole, espressività e valorizzazione delle capacità individuali, per 20 ragazzi delle scuole elementari».

I risultati di tutte queste attività sono valutati positivamente dell’amministrazione e sono efficaci «ma necessitano di una implementazione di carattere organizzativo, economico e professionale, anche per affrontare e risolvere le aree critiche che pure permangono». Per questo la Giunta comunale definisce l’obiettivo «di implementare la presenza di un presidio dei servizi sul campo attraverso la dotazione di una struttura polivalente utilizzabile per le iniziative di sostegno».

La Giunta il 30 dicembre scorso ha deliberato quindi di «attivarsi attraverso lo strumento del protocollo di intesa tra tutti gli attori istituzionali che con l’Amministrazione comunale hanno operato ed operano nel campo con l’obiettivo di meglio definire compiti e ruoli nell’ambito delle azioni progettuali programmate per il campo delle Tagliate; di sostenere tutte le iniziative – pubbliche e private – che attuano i vari interventi di sostegno alle comunità sinti e rom, con indicazione prioritaria alla soluzione delle problematiche più urgenti relative alla condizione degli ospiti sulle aree di sosta;

Di esplicitare nella sede della Conferenza Zonale dei Sindaci … la necessità di confermare ed implementare le linee di attenzione ed intervento già previste dal Piano di Salute in favore di dette comunità;

Di ufficializzare la costituzione di un Tavolo di Lavoro istituzionale e tecnico denominato “Gruppo Nomadi”, costituito dai rappresentanti istituzionali e tecnici dei seguenti soggetti: Comune di Lucca: assessore con delega a Politiche Formative Politiche Sociali e di Genere del Comune di Lucca; assessore con delega alle Politiche Abitative del Comune di Lucca; dirigente Settore Dipartimentale 02 Politiche Sociali del Comune di Lucca; responsabile del coordinamento della U.O. 2.1 ‘Area Minori, Famiglia, Disabili, Emarginazione’; responsabile del coordinamento della U.O. 2.3 ‘Area housing sociale’; assistente sociale comunale con specifica attribuzione relativa alla problematica dei nomadi; comandante o suo referente del Servizio di Staff D Polizia Municipale; dirigente o suoi referenti del Settore Dipartimentale 05 ‘Opere e Lavori Pubblici, Urbanistica’ , dirigente o suo referente del Settore Dipartimentale 03 ‘Servizi Educativi e a Tutela del Territorio’;  Fondazione Casa, attraverso un proprio referente;  Caritas Diocesana, attraverso un proprio referente;  Comunità di S. Egidio, attraverso un proprio referente».

LEGGI ANCHE – Vietina sul campo nomadi: «No a discriminazioni, sì a integrazione e responsabilità». Bocciati gli ordini del giorno Martinelli-Macera, ma l’opposizione stigmatizza il «progetto casette»

polizia italiana violenta!

polizia violenta

pregevole e meritevole, oltre che seria professionalmente, la puntata di ‘presadiretta’ sulla violenza impunita e anche ‘protetta’ da parte di molti membri della polizia di stato italiana

aggiungo solo questo: in tanti anni che seguo diversi segmenti del mondo sinto o rom, quante ne ho sentite, quanti occhi neri ho visto, quanti segni di violenza sulla loro carne ho costatato!

così un articolo de ‘il Fattoquotidiano’ ricostruisce i contenuti della puntata:

“PRESADIRETTA” MANDA SU RAI TRE LE STORIE DI ABUSI E VIOLENZE SU SEMPLICI CITTADINI EMOZIONE E SDEGNO TRA GLI UTENTI, IL SINDACATO CONSAP: “FANGO SU DI NOI”.

La verità più indicibile diventa semplice se si raccontano i fatti, uno dopo l’altro. Lunedì sera Presa-diretta ha messo in fila gli episodi accertati dalla cronaca negli ultimi anni: tutte le volte che un poliziotto, un carabiniere, un agente penitenziario hanno negato il diritto alla dignità di un cittadino; tutte le volte che, invece di applicare la legge, gli uomini di Stato hanno schiaffeggiato, bastonato, preso a calci e pugni una persona affidata alla loro responsabilità. 

Chi legge il Fatto Quotidiano conosce molte di quelle storie, perché ha seguìto nel tempo la fatica delle famiglie, la rabbia di chi ha disperatamente lottato per veder riconosciuta la violenza inferta ai propri cari. Riccardo Iacona e Giulia Bo-setti, autori della puntata, hanno mostrato le foto dei morti insanguinati, i video delle aggressioni registrati fortunosamente da qualche testimone, gli sguardi persi di chi ha vissuto un abuso. E gli italiani hanno capito. Hanno lanciato allarmi via Facebook e Twitter: guardate che cosa sta andando in onda, accendete su Rai3, è un dovere civile. Bisogna per forza guardare la mamma di Federico Aldrovandi, la sorella di Stefano Cucchi, gli amici di Giuseppe Uva, la faccia di chi ha temuto di non poter mai arrivare alla verità sul proprio dolore.

SONO STATI LORO lo strumento più efficace per far prendere a tutti coscienza piena di un fenomeno su cui nessuno può tacere. Soprattutto quando i dettagli spiegano la banalità del trattamento riservato a esseri umani strapazzati come bambole. “A Federico gli sono saltati addosso, sulla schiena, gli hanno fermato il cuore, si sono rotti due manganelli su quattro” ha detto la mamma di Aldrovandi. “In Italia non esiste la pena di morte, non la possono fare loro. Io madre te l’ho dato sano, me l’hai dato morto” piange ancora Rita Cucchi.

Ma il valore più riconoscibile per i “Morti di Stato” è la sequenza meccanica delle storie meno famose, di chi è arrivato con la sua pena scandalosa fino ai giornali locali, ai dubbi di un cronista blandito dalle rassicurazioni ufficiali: nessun abuso, il problema è stato il soggetto violento, ubriaco, fanatico, malato di mente.

A VOLTE BASTA essere fratelli e mettersi a litigare un po’ più forte del normale per essere portati in Questura e rimediare una scarica di legnate (Tommaso e Niccolò De Michiel). Basta rispondere storto a un poliziotto durante un controllo per finire ammanettato e stramazzare al suolo senza che un solo testimone voglia spiegare come e perché (Michele Ferrulli). Oppure, vai allo stadio, finisci in un pestaggio alla stazione e resti disabile per tutta la vita (Paolo Scaroni).

“Dedichiamo Presadiretta a uomini delle Forze dell’ordine che ogni giorno cercano di essere all’altezza della divisa e della Costituzione” ha twittato Iacona a fine serata. “Una trasmissione vergognosa che infanga la professionalità: invitiamo tutti i colleghi a non pagare il canone” ha risposto il sindacato Consap. Nessuna reazione ufficiale è arrivata dal governo, dalle forze politiche, da carabinieri e polizia. Il silenzio, ancora.

Da Il Fatto Quotidiano

del 08/01/2014

sullo stesso numero de ‘il Fattoquotidiano’ A. Caporale, pur con i dovuti distinguo per non generalizzare, sottolinea che non a caso si chiamano forze dell’ordine e non del disordine:

IL CESTO E LE MELE MARCE

Si chiamano forze dell’ordine, non del disordine. E l’uso delle armi, della forza fisica è consentito per far rispettare la legge quando essa è violata, non per violarla. Nella terribile sequenza visiva che lunedì sera Presadiretta ha illustrato su Rai3 con la virtù del migliore giornalismo d’inchiesta, abbiamo avuto la prova di come questa elementare verità, fondamento della democrazia, risulti bugiarda. Assistere a poliziotti che manganellano con ferocia, e in alcuni casi portano la loro azione alla morte altrui, apre il registro della violenza di Stato che qui appare smisurata per la varietà e la vastità dei comportamenti di vera e propria sopraffazione. Eravamo abituati alle clip poliziesche sudamericane e invece ci ritroviamo, nel silenzio umiliante del governo e di quasi tutta la classe politica, a fare i conti con questo tipo di violenza domestica “legalizzata”.

Certo che non si deve fare di una mela marcia tutto un cesto di frutta. Ed è sicuro che la maggioranza degli uomini in divisa servano lo Stato per pochi quattrini al mese, e lo facciano con ammirevole senso di abnegazione e indubbio spirito civile. Ma qui, è terribile dirlo, non sembra che si sia in presenza di casi isolatissimi quanto piuttosto di un apparente menu espressivo di polizia e carabinieri nei confronti di target definiti (tifosi, tossici, giovani esuberanti) e in genere coincidenti con classi sociali poco agiate. Se ci fosse un ministro dell’Interno e non una figurina di plastica, questo documento visivo sarebbe già agli atti di una severa inchiesta interna. E se ci fosse un Parlamento non da oggi sarebbe approvata la norma che impone la tracciabilità di quei manganelli, l’identificazione di ogni singolo poliziotto (non va bene il nome? basterebbe un codice di riconoscibilità) perché sia chiara e pubblica l’identità di chi è chiamato a imporre il rispetto della legge e a fare un uso prudente, equilibrato, sempre soggetto a verifica, della forza che quella stessa legge gli consente di esercitare. È infine disarmante la sequela di connivenze, di opacità e vere e proprie omissioni di atti d’ufficio che ogni inchiesta giudiziaria subisce quando si trova di fronte a casi simili.

Cosa aspetta il capo della Polizia a rendere finalmente pubblico il codice di comportamento a cui ogni azione dev’essere ispirata e le sanzioni per chi varca, in nome della legge, il confine dell’illecito?

Antonello Caporale

l’Italia e la questione dei diritti civili

P. Zanca fa un utilissimo punto della situazione su ‘il Fatto quotidiano’ e C. Saraceno in una chiarissima riflessione da par suo, su ‘la Repubblica’, aiuta a capire che metter in contrasto politiche per la famiglia e diritti civili è semplicemente fuori di ogni logica e politicamente fuorviante; di seguito una significativa intervista al ministro M. Cecilia Guerro e, per finire, una riflessione su tutto questo di C. Sardo:

IL PAESE INCIVILE: SUI DIRITTI È TUTTO FERMO DA DIECI ANNI

 

Ceccato

CON GLI ANNI DUEMILA SEMBRAVA APRIRSI UNA NUOVA STAGIONE DI LIBERAZIONE MA SU DIVORZIO, FECONDAZIONE, UNIONI ED EUTANASIA NON SI MUOVE UNA FOGLIA.

L’unica volta che ci si era avvicinato, era riuscito perfino a portare a casa un risultato storico: con un decreto, addio per sempre alla distinzione tra figli nati dentro e fuori dal matrimonio. Ma per il governo Letta, sul tema dei diritti civili, doveva ancora arrivare la grana Renzi e i suoi “trattiamo con chi ci sta”. O meglio, dopo le toppe al bilancio, a Palazzo Chigi doveva ancora capitare la sventura di trovarsi di fronte ai buchi di civiltà. Non che fosse un imprevisto: dalle unioni civili al divorzio, dalla fecondazione assistita al testamento biologico, dall’omofobia allo ius soli, quando si è trattato di assicurare la possibilità di piena realizzazione delle libertà individuali, lo Stato italiano si è dimostrato sempre più ingombrante del solito. Ecco come siamo messi, nel Paese in cui non sembra mai il momento buono per cambiare registro.

Pacs, Dico, Cus e niente più

L’accidentato percorso dei contratti tra persone che vivono stabilmente insieme si avvicina a festeggiare il suo ottavo compleanno. E oggi, alcuni parlamentari sono ancora lì a tentare di rimediare al tentativo fallito dal governo Prodi di regolamentare il settore delle unioni di fatto. In Parlamento ci sono una serie di proposte depositate, da quella dei Pd Andrea Marcucci e Luigi Man-coni, a quella di Alessia Petra-glia (Sel) fino alle proposte del Nuovo centrodestra (Giovanardi) e di Forza Italia (Alberti Casellati). Non si tratta di un riconoscimento sociale e simbolico: il patto tra conviventi serve soprattutto in momenti difficili come la malattia o la morte. Sulle varie proposte (se ne contano 8) si sta valutando l’esame congiunto in commissione al Senato. Il presidente Nitto Palma ha chiesto al Pd di “conoscere l’orientamento definitivo del gruppo”. Ha risposto Giuseppe Lumia: “Da un lato va considerata l’opportunità di disciplinare la condizione delle coppie di fatto – si legge nel resoconto – dall’altro occorre valutare se vi siano le condizioni per l’estensione in favore delle coppie composte da persone dello stesso sesso”. Spiega che bisogna confrontarsi con l’esecutivo. Chiarisce Lucio Barani di Gal: sui matrimoni omosessuali esiste “una maggioranza numerica in Commissione che non corrisponde a quella che sostiene attualmente l’azione di governo”. Il centrodestra conferma. “La Commissione prende atto”. E rimanda a fine gennaio.

Se ti lascio non ti cancello

La legge è ferma al 1970. E anche qui sono dieci anni che si cerca di portare l’intervallo obbligatorio tra separazione e divorzio da 3 anni a 1. Ma niente da fare. Ora, a Montecitorio, ci riprovano il 5 Stelle Alfonso Bonafede e la Pd Alessandra Moretti. Se ne discuterà in commissione Giustizia, sperando sia la volta buona.

La fuga delle provette

Anche la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, quest’anno ne compie dieci. In mezzo c’è un referendum (senza quorum) e una serie di sentenze della Corte Costituzionale. Adesso è la deputata Pd Michela Marzano a tentare di mettere fine al calvario di migliaia di coppie in cerca di un figlio. L’obiettivo – già sollecitato dalla Consulta – è quello di stabilire che “la regola di fondo” è “la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali”. Sono loro, e non qualche centinaio di parlamentari , a dover stabilire il numero di impianti necessari, la tempistica, le diagnosi da fare se il problema non è l’infertilità ma una malattia genetica. Visto che in Italia non si può, solo nel 2011 sono 4 mila le coppie fuggite all’estero. Rosetta e Walter hanno scelto di restare qui a combattere contro una legge ingiusta. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano a risarcirli per danni morali.

Il testamento di Marino

Ci vorrà – ahinoi – un altro caso Englaro o un altro Welby per rimettersi a parlare di fine vita e di testamento biologico. Il documento del comitato nazionale di bioetica porta di nuovo la data di dieci anni fa, il 2003. Già allora di parlava di Dat, la dichiarazione anticipata di trattamento. Ma al Senato la proposta che porta la firma di Ignazio Marino (nel frattempo diventato sindaco di Roma) è ancora lì che si dimena tra i pareri delle commissioni.

La cicogna non parla straniero

Tutto fermo anche in materia di cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia. Gli autorevolissimi appelli – da Napolitano in giù – sono rimasti nei cassetti. Ci sono una quindicina di proposte depositate in commissione, compresa quella del Cinque Stelle Giorgio Sorial: prevede uno ius soli temperato, dove la cittadinanza si acquista se si è nati da almeno un genitore straniero residente legalmente in Italia da non meno di tre anni. Per Grillo però una legge del genere non può non passare da un referendum popolare: “Una decisione che può cambiare nel tempo la geografia del Paese – ha detto a maggio – non può essere lasciata a un gruppetto di parlamentari e di politici in campagna elettorale permanente”.

Da Il Fatto Quotidiano del 05/01/2014.

 

FAMIGLIA E DIRITTI NON SONO NEMICI

 

Prima il sostegno alla famiglia e poi eventualmente, si può discutere dei diritti degli omosessuali a veder riconosciuti i propri legami di coppia e le proprie famiglie. È ormai un riflesso condizionato. Ogni volta che si parla del diritto al riconoscimento sociale e giuridico delle coppie omosessuali, chi è contrario evoca una gerarchia di priorità, quando non di mutua esclusione, tra i “diritti della famiglia” e quelli delle coppie omosessuali e delle loro famiglie, senza, peraltro, chiarire dove starebbe la contrapposizione tra l’una e l’altra cosa e perché riconoscere le coppie omosessuali indebolirebbe la possibilità di fornire sostegni alle famiglie. Questi, infatti, riguardano politiche abitative e di trasferimenti monetari e di servizi, principalmente, anche se non esclusivamente, a favore di chi ha famigliari a carico — figli minori, persone non autosufficienti e bisognose di cura. Proprio quelle politiche di cui sono stati molto avari tutti i governi italiani dal dopoguerra a oggi, nonostante siano stati per lo più retti da maggioranze in cui prevalevano i “difensori della famiglia” che si sono fin qui opposti a ogni riconoscimento delle coppie omosessuali e delle loro famiglie. Quelle politiche che negli ultimi anni sono state ulteriormente ridotte, proprio quando i bilanci delle famiglie erano in maggiore sofferenza, con i tagli drastici effettuati a carico della spesa sociale. Per non parlare delle politiche economiche, che hanno reso sempre più difficile ai giovani formare una famiglia — di qualsiasi tipo — se lo desiderano e a chi ne ha formata una di riuscire a mantenerla adeguatamente. L’evocazione della “priorità della famiglia”, sembra servire solo come paravento per nascondere quanto poco si faccia a favore delle famiglie concretamente esistenti, mostrandosi come campioni dei “valori”, purché a costo zero. O meglio, a costo dei diritti di libertà e del riconoscimento di un pluralismo etico e nel modo di definire e realizzare progetti di solidarietà, intimità, amore. Questi difensori a oltranza dei “valori” e della “famiglia” univocamente e monoliticamente intesi, tuttavia, rischiano di essere spiazzati proprio da chi riconoscono come guida in questo campo o, più prosaicamente, vogliono compiacere per un qualche calcolo politico. Le chiese cristiane, infatti, stanno mostrando un forte dinamismo riflessivo. Il fenomeno è più evidente, e più consolidato, nelle chiese protestanti, anche italiane, che hanno ormai riconosciuto che non esiste una “famiglia naturale”, bensì forme storico-culturali di intendere famiglia e matrimonio. Perciò parlano di concetto plurale di famiglia, ove tutte le varie forme, incluse quelle basate su una coppia omosessuale, sono ugualmente dotate di valore. La chiesa cattolica si addentra con maggiore lentezza e prudenza in questo terreno, almeno sul piano dei documenti ufficiali (anche se il dibattito teologico non è in realtà molto distante dalle posizioni protestanti richiamate sopra). Tuttavia sta manifestando crescenti aperture alla varietà delle forme famigliari, innanzitutto sul piano pastorale, soprattutto per merito di papa Francesco e della sua insistenza su una chiesa inclusiva piuttosto che giudicante ed esclusiva. Si è anche aperto un piccolo varco a chi, nella chiesa cattolica, sarebbe disponibile ad accettare una qualche forma di riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, etero e omosessuali. Certo, siamo molto lontani dalla accettazione che il matrimonio sia consentito anche alle coppie omosessuali. E c’è spesso una insistenza quasi ossessiva nel sottolineare che la famiglia è una sola, quella fondata sul matrimonio tra uomo e donna, salvo dover fare i conti con il fatto che molti genitori divorziano e si risposano e altri convivono, senza che per questo sia loro che i figli siano “senza famiglia”. Tuttavia, a differenza degli Alfano e dei Lupi, non solo singoli parroci, o teologi più o meno marginali, ma anche parte della gerarchia cattolica, incluso il responsabile della Pastorale per la famiglia, non escludono che sia venuto il momento di dare un qualche riconoscimento a queste coppie, se non altro per cercare di frenare la richiesta di matrimonio. Questa, piccola, apertura, può non bastare alle persone omosessuali, che legittimamente chiedono pari opportunità anche nel fare famiglia. Ma segnala che anche nei piani alti della gerarchia della Chiesa cattolica italiana le posizioni non sono più così monolitiche come un tempo. E infatti le controversie e gli attacchi dei conservatori dell’ortodossia non sono mancati. Sarebbe tuttavia singolare che i difensori a oltranza nostrani della famiglia unica e della insanabile opposizione tra questa difesa e l’allargamento dei diritti sostenessero la propria posizione con argomentazioni che sono messe in dubbio anche nelle sedi che tradizionalmente le hanno elaborate e divulgate.

Da La Repubblica del 06/01/2014.

«Coppie etero o gay: stessi diritti»

intervista a Maria Cecilia Guerra

a cura di Alessandra Arlachi

in “Corriere della Sera” del 9 gennaio 2014

«L’intervento di Renzi sulle unioni civili anche omosessuali deve essere ascoltato. Questo non è un

problema che deve aspettare, non più».

Maria Cecilia Guerra, viceministro per il Lavoro, ha tra le mani la delicata delega per le Pari

opportunità. Non ha intenzione di lasciarla sulla carta.

Cosa intende fare per dar seguito alle parole del segretario Matteo Renzi sulle unioni civili

omosessuali, un decreto del governo?

«No, il governo è maggioranza. E questo non è un tema che deve essere affrontato da una

maggioranza o da una parte politica. Non deve essere un tema da campagna elettorale. Deve essere

un dibattito trasversale, sereno. Il Paese è maturo per questo. Ci sono leggi già in Parlamento sulle

unioni civili, bisogna dare seguito a quelle».

Quali? Ce ne sono tante…

«Lo deciderà il Parlamento».

Ma lei quale legge vorrebbe?

«Esprimo un parere personale. E dico che non ci sono motivi per trattare in modo diverso una

coppia omosessuale rispetto ad una coppia eterosessuale. Siamo sempre davanti a due persone che

hanno un rapporto d’amore e sono disponibili ad una relazione di reciprocità fatta di diritti e doveri,

di responsabilità rispetto alla società. Del resto in molti Paesi d’Europa i due tipi di coppie sono già

equiparate».

Intende quei Paesi dove sono leciti i matrimoni fra omosessuali?

«Già. Sono tanti. La Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda, la Svezia, il Belgio, la Danimarca. Poi ci

sono anche la Germania e il Portogallo, lì però ci sono dei distinguo che riguardano le adozioni per

le coppie omosessuali».

Lei pensa che sarebbe giusto concedere anche la possibilità di adozione alle coppie

omosessuali?

«Personalmente penso di sì perché sono a favore di una piena equiparazione. Ma intanto penso si

debba convenire sul fatto che se all’interno della coppia omosessuale c’è un genitore naturale

single, credo che il partner debba avere la possibilità di adottare quel figlio. E non vedo che tipo di

obiezioni potrebbero esserci a una cosa simile».

Si rende conto che le prime obiezioni potrebbero arrivare proprio dall’interno del suo partito,

il Pd?

«Non è un problema di partito. Un tema di questo genere, l’ho già detto, non deve essere

appannaggio di un partito o di un altro. È un tema talmente sensibile che deve essere affidato alla

coscienza di ognuno. E io vorrei che con coscienza ognuno mi spiegasse qual è il problema a

trattare gli esseri umani alla stessa maniera. Del resto anche la Corte costituzionale ci ha sollecitato,

fin dal 2010, a legiferare in tema di diritti alle coppie omosessuali. E il Paese è maturo per questo.

Lo dicono i sondaggi».

Quali? E cosa dicono?

«L’Istat ha scoperto che il 62,8% degli italiani pensa che sia giusto che una coppia di omosessuali

che convive possa avere per legge gli stessi diritti di una coppia sposata. Il 43,9% pensa sia

addirittura giusto che si sposino. Non crede che il Paese sia maturo? Non pensa sia giusto smetterla

con gli alibi che dare i diritti alle coppie omosessuali costa?».

Se parliamo di concedere la pensione di reversibilità un costo in effetti c’è…

«Ma ci può essere anche un risparmio se parliamo di assegni familiari o di detrazioni fiscali: se non

si riconosce una famiglia omosessuale qui lo Stato ci va a rimettere. Questo per anticipare alcune

obiezioni che, comunque, in un momento così sembrano fuori luogo. Del resto anche il Papa ha

fatto grandi aperture in tal senso».

Allude alle frasi di papa Francesco di pochi giorni fa di bambine con due madri?

«È una grande apertura di ascolto, molto importante».

Ma lei si rende conto che siamo stati bocciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di

Strasburgo anche per una cosa semplice come il diritto della madre a dare il cognome in

esclusiva al proprio figlio?

«Questo è un problema relativamente semplice al quale il governo sta lavorando per trovare una

soluzione. E presto formalizzeremo una proposta. Anche su questo la Corte costituzionale aveva

invitato il legislatore ad occuparsi del tema. In questo caso possiamo essere veloci».

Nell’altro caso meno…

«Dobbiamo essere una società inclusiva. E capire che questo problema delle coppie omosessuali

non può davvero più aspettare. Non dico che devono essere tutti d’accordo con me, ma porsi il

problema del rispetto delle persone sì».

Famiglia e unioni gay

di Claudio Sardo

in “l’Unità” del 9 gennaio 2014

È insopportabile la continua contrapposizione tra le politiche a sostegno della famiglia e il

riconoscimento giuridico delle unioni gay. Anche perché i risultati di queste polemiche sono i tristi

primati italiani: ultimi nelle politiche familiari, ultimi nei diritti delle persone omosessuali. E si

parla ancora di rinvii, come esito inesorabile di una reciproca elisione.

Invece si potrebbe persino approfittare di un governo, eccezionalmente formato da antagonisti

politici, per cambiare direzione di marcia e togliere l’ipoteca dei pregiudizi ideologici.

A questo Paese servono politiche per la famiglia, perché il suo potenziale di solidarietà resta, al di là

delle trasformazioni economiche e culturali che ne hanno mutato la fisionomia, una risorsa

insostituibile per la coesione sociale e per la trasmissione di relazioni improntate alla gratuità. E a

questo Paese serve una disciplina di carattere pubblico, che dia stabilità alle unioni omosessuali e

che realizzi così la disposizione dell’articolo 2 della nostra Carta costituzionale, quello che

garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, non solo come singolo ma nelle formazioni sociali «ove si

svolge la sua personalità».

Scontiamo ritardi storici. Il riflesso delle politiche demografiche attuate dal fascismo ha frenato nel

tempo le misure legislative, fiscali, sociali a favore delle famiglie, e in special modo delle donne

che lavorano e dei nuclei più numerosi. Un deficit che ha prodotto diseguaglianza sostanziale, dal

momento che il carico familiare è diventato causa di povertà in misura assai maggiore che nel resto

dell’Europa. E ora paghiamo anche con gli interessi perché l’Italia è al tempo stesso la nazione con

la più bassa natalità e con la più alta inoccupazione femminile. Se non bastasse il buon senso, sono

proprio i dati reali a smentire clamorosamente i pregiudizi. Le famiglie sono oggi più forti dove è

maggiore l’occupazione delle donne e dove migliori sono gli asili-nido, i servizi per i non

autosufficienti e le politiche di conciliazione tra i tempi di lavoro e quelli di cura. Le famiglie sono

più forti – e i giovani più incoraggiati a costituirle – dove il fisco tiene in maggiore considerazione il

numero dei componenti della famiglia anagrafica. In Francia il sostegno economico alle famiglie

con bambini tra zero e tre anni è tra i più alti dell’Unione.

E sempre in Francia funziona un quoziente familiare corretto (nel senso della progressività fiscale)

che costituisce una significativa integrazione al reddito per i nuclei numerosi. Il risultato è che si

formano più famiglie, che le donne generano più figli e che l’occupazione femminile è ben

maggiore che in Italia. Ancora più evidenti sono in tal senso gli effetti del welfare dei Paesi nordici,

dove i giovani sono in grado di promuovere il loro progetto familiare molto prima che da noi. Oggi

migliori politiche familiari possono diventare anche vettori di ripresa economica dopo la crisi.

I cattolici italiani, in questo caso, devono fare autocritica. E la sinistra italiana deve porsi il

problema di migliorare quel welfare, che è nato dalle grandi lotte sindacali degli anni 70 ma che è

modellato sulla figura del lavoratore maschio e adulto. Le politiche per la famiglia, fuori da ogni

ideologia, sono le politiche redistributive più giuste e concrete. E possono favorire, oltre alla

solidarietà, un’alleanza generazionale che sconfigga la retorica liberista dei padri contro i figli.

Certo, non si cambiano le cose con un colpo di bacchetta magica. Ma si può avviare una nuova

strategia decennale. E non c’è motivo perché queste scelte vengano opposte al riconoscimento dei

diritti e dei doveri delle persone omosessuali. La società in carne e ossa non è un congresso, o un

concilio, in cui si disputa il modello ideale di famiglia. L’ordinamento non può non tener conto

della libertà, della molteplicità, del pluralismo culturale e religioso. Ed è bene che valorizzi ciò che

produce coesione, stabilità negli affetti, solidarietà umana: le derive individualiste riducono le

libertà più delle norme restrittive. La moratoria dovrebbe scattare sui pregiudizi anziché su una

nuova legge: ciò che le unioni civili tra omosessuali devono tutelare è anzitutto la centralità della

persona, la sua irriducibile dignità. E la persona, a differenza dell’individuo, si esprime attraverso

relazioni non esclusivamente economiche e attraverso i mondi vitali che riesce a costruire.

La Corte costituzionale nel 2010 ha invitato il Parlamento a dare pieno riconoscimento legislativo

alle coppie omosessuali: ci auguriamo che non si ripeta quanto è accaduto con la legge elettorale.

La stessa Corte ha sottolineato che non è necessario equiparare le unioni gay al matrimonio, definito

dall’art. 29 della Costituzione. Gli ostacoli possono e debbono essere superati. Come accadde nel

1975, quando personalità come Nilde Iotti, Maria Eletta Martini e Giglia Tedesco scrissero insieme

il nuovo diritto di famiglia. Era passato solo un anno dallo scontro epocale sul divorzio. Ma se la

politica si arrende quando sono in gioco valori costituzionali primari, allora si dà ragione a chi dice

che la politica non serve

 

maggi e antonelli commentano il vangelo

p. Maggi

SIAMO VENUTI DALL’ORIENTE PER ADORARE IL RE 

6 gennaio Epifania del Signore

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

Mt 2,1-12

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da

oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto

spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato

e con lui tutta Gerusalemme.

Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui

doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per

mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città

principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».

Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui

era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente

sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad

adorarlo».

Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché

giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono

una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si

prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e

mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro

paese.

Nella festa dell’Epifania la chiesa ci presenta il testo di Matteo nel quale si annunzia l’amore universale

di Dio per tutta l’umanità. Questo amore universale non intende soltanto l’estensione, cioè ovunque, ma

la qualità di questo amore, per tutti.

Vediamo allora il capitolo 2 di Matteo.

 

“Nato Gesù a Betlemme di Giudea al tempo del Re Erode …”, e

qui l’evangelista richiama l’attenzione. Infatti, con un avverbio, coglie la sorpresa di quanto avviene.

“Ecco”,

quando l’evangelista adopera questo avverbio ‘ecco’ è sempre per una sorpresa, “alcuni maghi

vennero da oriente”.

Questo episodio è stato talmente sconcertante e talmente imbarazzante per la

chiesa primitiva, che poi si è provveduto, man mano nel tempo, a trasformarlo quasi in un evento da

fiaba, un evento folclorico, anziché di profonda ricchezza teologica.

Perché? Con il termine mago si indicavano gli ingannatori, i corruttori, era un’attività condannata dalla

Bibbia e vista severamente dalla prima comunità cristiana. Per il dicaché, il primo catechismo della

chiesa, l’attività del mago è proibita ed è collocata tra il divieto di rubare e il divieto di abortire, e anche

nel Nuovo Testamento il mago viene visto in maniera negativa.

Eppure i primi che vengono per adorare Gesù, per accogliere Gesù, sono proprio dei maghi e per di più

pagani, quindi le persone ritenute le più lontane da Dio. I pagani non sarebbero risuscitati, i pagani non

erano degni della salvezza, e per di più sono dediti ad un’attività che la stessa Bibbia condanna. Ecco la

sorpresa.

Questo fatto è stato talmente imbarazzante che poi, nella tradizione i maghi sono diventati l’innocuo

termine ‘magi’, si è provveduto a dare loro dignità regale e a farli diventare re, in base ai doni stabilito il

numero, e stabilito anche il nome. I personaggi del presepio erano pronti a discapito della ricchezza

teologica di questo brano.

Vengono questi e dicono di aver visto spuntare la sua stella. Qual è il significato della stella? Era

credenza comune che ogni individuo, quando nasceva, aveva una stella con lui e che poi scompariva con

la sua morte. Usiamo anche noi l’espressione popolare “essere nato sotto una buona stella”, ma qui

soprattutto l’evangelista si riferisce alla profezia di Balaam, nel libro dei Numeri al capitolo 24, dove si

legge

 

“un astro sorge da Giacobbe”, una stella, “e uno scettro si eleva da Israele”.

Era la profezia con la quale si indicava prima il re Davide e poi era passata ad indicare il messia, quindi

l’evangelista vuol dire che questa è la stella che indica il segno divino della nascita del messia. Ebbene,

“All’udire questo Erode restò turbato”,

si capisce perché Erode era un re illegittimo, sospettoso di

chiunque potesse togliergli il regno.

Quindi qui è venuto a sapere che è nato il re dei Giudei, lui che ha ucciso addirittura tre figli suoi, ma

quello che è strano è che con lui si turba, si spaventa tutta Gerusalemme. Sia Erode che Gerusalemme

hanno paura per quello che stanno per perdere, Erode il trono, e Gerusalemme il tempio, l’egemonia e

l’esclusiva sulla figura di Dio.

Trono e tempio sono all’insegna del potere. Ebbene, dopo l’episodio dell’informazione sulla nascita di

questo messia, con l’intento di Erode di arrivare a scoprire il luogo dove andare ad adorarlo … è la

menzogna del potere, perché in effetti poi vedremo che deciderà di di ammazzare – andiamo al versetto

9 –

 

“Udito il re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva”.

La stella, segno divino, non brilla su Gerusalemme, che fin dall’inizio in questo vangelo, viene collocata in

una luce tetra, in una luce negativa. Gerusalemme è la città di morte, quella che uccide i profeti e gli

inviati da Dio, e la stella, segno divino, non brilla su Gerusalemme. Come Gesù risuscitato, in questo

vangelo, non apparirà mai a Gerusalemme.

2

La stella li precede esattamente come il Signore precedeva il popolo d’Israele nel cammino dell’esodo

della liberazione. “

 

Finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino”. L’evangelista è

cosciente di non star dando una indicazione storica, una cronaca. Non è possibile che una stella si fermi

su un luogo, quindi sono indicazioni teologiche, sono i segni divini.

E mentre Gerusalemme, ed Erode, hanno tremato per la paura di quello che stavano per perdere, ecco

che i pagani, e per di più dediti a un’attività rimproverata dalla Bibbia, provano una gioia grandissima per

quello che stanno per dare.

Infatti entrano, si prostrano, adorano. Quindi riconoscono in Gesù non solo il re, ma il figlio di Dio, quindi

riconoscono in lui la divinità, e dove vuole arrivare l’evangelista è la conclusione con i doni portati da

questi magi, doni che indicano che il privilegio esclusivo che Israele deteneva, ora è patrimonio di tutta

l’umanità.

Questi doni sono l’oro, incenso e la mirra. L’oro era simbolo di regalità. Ebbene, anche i pagani

entreranno a far parte non del regno di Israele, che non verrà risuscitato, ma del regno di Dio, cioè quel

regno senza confini, che è l’amore universale di Dio che non conosce confini. Quindi anche i pagani

entrano a far parte, a pieno diritto, del regno.

L’incenso era l’esclusiva dell’offerta dei sacerdoti nel tempio. Ebbene anche il privilegio di essere un

popolo di sacerdoti, il Signore aveva detto a Israele “Voi sarete un regno di sacerdoti, un popolo

sacerdotale”, laddove sacerdotale significa avere un rapporto diretto con il Signore, anche questo

privilegio che era di Israele, passa a tutta l’umanità.

Tutta l’umanità diventa popolo sacerdotale, cioè un popolo che può entrare in relazione immediata,

senza mediatori, con Dio. E infine la mirra. La mirra è il profumo della sposa verso il suo sposo, troviamo

questo nel Cantico dei Cantici. Uno dei privilegi di Israele era di considerarsi il popolo sposa di Dio, il

Signore era lo sposo, Israele la sposa.

Ebbene, anche questo privilegio, di essere considerata lo sposo di Dio, non è più esclusivo di Israele, ma

passa a tutta l’umanità. Questo è l’annunzio dell’Epifania, l’amore universale di Dio per tutta l’umanità,

nessuno si può sentire escluso da questo amore.

 

RE E MAGHI 

Alberto Maggi
Al tempo di Gesù chi erano le persone ritenute più lontane da Dio? Indubbiamente i pagani. I pagani erano disprezzati, dovevano essere sottomessi. Basti pensare che il pio salmista nel salmo 79 scrive “Signore, riversa lo sdegno sulle genti e sui regni che non invocano il tuo nome”. Quindi le persone più lontane da Dio sono i pagani. E tra i pagani qual era la categori…a di persone più disprezzata, la più ignobile? Indubbiamente quelli che esercitavano l’attività di mago, un’attività severamente proibita e condannata dalla Bibbia, dal libro del Levitico. E’ comprensibile quindi lo sconcerto, la sorpresa della comunità cristiana primitiva nel trovarsi di fronte a questa pagina di Matteo, al capitolo 2, nel quale si legge che i primi a riconoscere Gesù come Dio e Signore sono proprio dei pagani, cioè persone lontane, escluse da Dio, ma che esercitavano addirittura un’attività talmente condannata e maledetta che nel primo catechismo della chiesa cristiana che si chiama Didaché, cioè dottrina, insegnamento, l’attività del mago è proibita ed è situata tra il divieto di rubare e quello di abortire. E quindi creò sconcerto il fatto che fossero proprio dei maghi. Il termine “mago” all’epoca dell’evangelista significava “ingannatore, condannatore”. Nel Talmud si legge che “chi impara qualcosa da un mago, merita la morte”. E quindi creò grande sconcerto. Allora questo scandalo della misericordia che adesso vedremo, cioè l’amore universale di Dio, un amore universale per la sua estensione (ovunque), ma soprattutto per la qualità (per tutti), un amore dal quale nessuno, qualunque sia la sua condizione o la sua condotta, si possa sentire escluso. Tutto questo sconcertò la chiesa e cominciò anche qui in questa pagina un’operazione di annacquamento della portata teologica dell’evangelista. Anzitutto il nome. Il termine “mago” era sconveniente, era indecente, e si creò il termine neutro, insignificante, “magi”. Quindi non tre maghi, come scrive l’evangelista, ma “magi”. Poi in base ai doni viene definito il numero,re, per dare dignità a queste persone che erano soltanto dei pagani, degli ingannatori, dei corruttori,venne data loro la dignità regale, vennero poi suddivisi per razza, bianco, nero e meticcio, e infine trovarono i nomi Gasparre, Melchiorre e Baldassarre, e i personaggi dei presepi erano pronti, ma a scapito della portata teologica di questo brano. In questo brano l’evangelista scrive che: “E’ nato Gesù … Ecco”, suscita sorpresa, “alcuni maghi”, non magi, il termine greco è maghi, “vennero da oriente”. Quindi sono dei pagani e dicono di aver visto una stella. Si credeva a quell’epoca che ogni persona nata avesse una stella; lo diciamo anche noi nella lingua italiana, “essere nato sotto una buona stella”. (..)Vedremo che la stella dei maghi non brillerà su questa città, e Gesù risuscitato mai apparirà in questa città assassina e sinistra. Ebbene questi maghi continuano a seguire questo segno di Dio, questa stella, “e giungono sul luogo in cui si trovava il bambino”, ed ecco qui importante la logica che l’evangelista ci vuole trasmettere. Anzitutto provano una gioia grandissima, mentre Erode e Gerusalemme – cioè l’istituzione religiosa – sono turbati per quello che sanno che dovranno perdere, i maghi, questi pagani, sono entusiasti e pieni di gioia per quello che stanno per dare, hanno capito che c’è più gioia nel dare che nel ricevere.(..)

Il Bimbo che fa tremare il Re

Nella celebrazione di ieri, dopo la lettura del vangelo, là dove si legge che “Erode cerca il bambino per ucciderlo”, mi sono chiesto ed ho chiesto ai presenti: «Perché mai Erode, armato e potente, dovrebbe aver paura di un Bambino, debole e indifeso?». Il Potere ha sempre paura di un amore che non sia sdolcinata evanescenza. Il potere ha paura dell’amore “archtetto…nico” (direbbe Balducci) e combattivo. Oggi leggo, sull’ultimo numero di Qualevita dellamico pasquale, questo bello e significativo brano di un certo Pietro Verri, filosofo e scrittore milanese del fine Settecento.
«Se vuoi essere tu il padrone, poiché non puoi fare tutto da te medesimo e ti sarà forza servirti dell’opera de’ tuoi ministri, bada bene alla scelta.
Un uomo che abbia principi e che operi di conseguenza non è da sceglier¬si, perché s’opporrà alla tua volontà ogniqualvolta ella sia diversa da’ suoi principi.
Guardati dall’uomo virtuoso, fermo e che abbia l’animo libero; egli cerche¬rebbe di fare l’interesse de’ popoli, […] sacrificherebbe tutto alle sue idee e ti darebbe inciampo ad eseguire la volontà tua e ad agire da vero padrone. La superstizione è necessaria per sempre più contenere il popolo. I ministri del culto sono interessati a coltivarla, perché essa dà loro pane e considera¬zione. Bada a non screditarli, ma bada pure a contenerli.
Quanto meno ha il popolo di religione e quanto ha più di superstizione, tanto più è sicura l’obbedienza. L’uomo religioso ragiona; l’uomo fanatico odia chi ragiona, lo perseguita, lo maledice, lo sradicherebbe dal mondo se potesse. La superstizione tiene il popolo avvilito, è l’anello al naso del buffalo, non lo togliere se vuoi lunga¬mente regnare».
Aldo Antonelli

p. Maggi e p.Pagola commentano il vangelo

 

p. Maggi

II NATALE 

5 gennaio 2014

IL VERBO SI FECE CARNE E VENNE AD ABITARE IN MEZZO A NOI

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

Gv 1,1-18

[ In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è

stato fatto di ciò che esiste.

In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre

non l’hanno vinta. ]

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per

dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.

Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.

[ Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo

è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.

Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.

A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono

nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da

Dio sono stati generati.

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la

sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. ]

Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di

me è avanti a me, perché era prima di me».

Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.

Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù

Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è

lui che lo ha rivelato.

1

Nel prologo al suo vangelo Giovanni riassume e formula tutto il contenuto della sua opera. Quindi sonodiciotto versetti preziosi e molto molto ricchi. Per comprenderli iniziano dall’affermazione clamorosa chel’evangelista mette alla fine del prologo. Scrive l’evangelista:“Dio nessuno lo ha mai visto”. Questa è un’affermazione grave, perentoria, che, tra l’altro, contraddice la stessa Bibbia, perché nella Bibbia si afferma che Mosè ed altri personaggi hanno visto io.Giovanni non è d’accordo,“Dio nessuno lo ha mai visto”. Pertanto le descrizioni che si sono fatte di Dio,anche da parte di Mosè, sono limitate, sono incomplete, a volte devianti, o addirittura false. Quindi Dio nessuno lo ha mai visto.“Il figlio unigenito”, unigenito nel senso dell’unicità di questo figlio, “che è Dio”,che è Dio lui stesso,“ed è nel seno del Padre”, cioè nella piena intimità del Padre, “è lui che lo ha rivelato”.con questa affermazione l’evangelista conclude il prologo invitando quindi a porre tutta l’attenzione sulla figura di Gesù. Cosa vuole dire che Dio nessuno lo ha mai visto e solo il figlio ce lo ha rivelato? Che Gesù non è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù. Se noi diciamo che Gesù è uguale a Dio significa che abbiamo un’immagine, un’idea di Dio. Ebbene l’evangelista ci invita a sospendere questa immagine e a centrare tutta la nostra attenzione su Gesù. Tutto quello che vediamo in Gesù questo è Dio. Quindi non Gesù è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù, e molte immagini e molte idee su Dio, vedendo il comportamento e l’insegnamento di Gesù, inevitabilmente verranno a cadere. Quindi l’evangelista ci invita a porre tutta l’attenzione su Gesù perché in lui si manifesta Dio. E proprio perché in Gesù si manifesta la divinità, e andiamo a ritroso in questa lettura del prologo, c’è stato bisogno di una nuova relazione tra gli uomini e Dio. Mosè, il servo di Dio, aveva imposto una relazione tra i servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza; ebbene Gesù, che non è il servo di Dio, ma il figlio di Dio, propone una nuova relazione tra dei figli e il loro Padre, non basata sull’obbedienza, ma sulla somiglianza e l’accoglienza del suo amore. Ecco perché allora nel versetto che precede l’evangelista ha scritto“Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità”,‘grazia e verità’ è un’espressione che indica l’amore fedele, l’amore vero,“vennero per mezzo di Gesù Cristo”. Quindi una nuova relazione non più basata sulla legge, masull’accoglienza del suo amore. E, sempre andando a ritroso nella lettura di questo prologo, scrive l’evangelista  dalla sua pienezza”,cioè dalla pienezza di questo uomo nel quale si manifesta la condizione divina,“noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia”. Cosa vuol dire l’evangelista? E’ il dinamismo della vita del credente e della omunità cristiana.

All’amore ricevuto dal Padre corrisponde un amore comunicato ai fratelli, questo è il dinamismo di crescita dei credenti. Più sarà grande la risposta di questo amore al fratello e più, a sua volta, sarà grande da parte di Dio la risposta del suo amore. Quindi più noi comunichiamo quest’amore ai fratelli e più da Dio riceviamo amore. Questo in un crescendo senza fine.

Questa crescita nell’amore è quello che realizza l’individuo e il credente. E, andando ancora indietro saltando qualche versetto, l’affermazione importante dell’evangelista che“il Verbo’, ‘il Verbo’ significa la parola creatrice, la sapienza creatrice“si fece …”, l’evangelista non scrive che si fece uomo, ma usa il termine carne che indica l’uomo nella sua piena debolezza. Il progetto di Dio non si realizza in un superuomo, difficile da imitare, soltanto da ammirare, ma si realizza nella debolezza umana. Questo vuol dire che Dio si manifesta nell’umanità. Più l’uomo diventa umano più manifesta il divino che è in lui. E questo Verbo che si fece carne, questo progetto di Dio, che si fa carne, è la pienezza dell’amore di Dio che si manifesta in un uomo che diventa l’unico vero santuario dal quale si irradia l’amore del Padre.

E questo Verbo che si è fatto carne, si è fatto uomo nella sua debolezza, scrive l’evangelista,“E’ pieno, di grazia e verità”, cioè completo. La caratteristica che distingue Gesù è l’amore fedele. L’amore quando è vero? Quando è fedele. E questo Verbo che si è fatto carne, che si è fatto uomo, ci rimanda allora all’inizio del prologo, dove l’evangelista scrive,“In principio era il Verbo”.Giovanni prende le distanze dalla teologia del libro del Genesi, dove si affermava che“In principio Dio creò il cielo e la terra”.

No, l’evangelista non è d’accordo, in principio, prima ancora di creare il cielo e la terra, c’era questo Verbo, cioè questa parola creatrice, sapienza creatrice, una parola che ha un progetto e, prima ancora della creazione, questo progetto interpellava Dio.

E qual’era questo progetto? Donare all’uomo la condizione divina. Questo è il progetto di Dio

sull’umanità, quindi possiamo definire il prologo l’inno d’amore di Dio per tutta l’umanità, l’inno

dell’ottimismo di Dio. Dio è talmente innamorato degli uomini che, prima ancora di creare il mondo, aveva il progetto di dare agli uomini la sua stessa condizione, la condizione divina.

E per questo, proprio al centro del prologo, quindi il versetto più importante di tutta questa

composizione, l’evangelista scrive che “Mentre questo progetto venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto”, questo è un monito sempre presente per tutte le comunità,“A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”.

Figli di Dio non si nasce, ma si diventa, accogliendo Gesù come progetto d’amore di Dio per la propria esistenza. Questo fatto di poter diventare figli di Dio a chi accoglie Gesù, significa che Dio non assorbe quindi l’uomo, non lo distoglie o lo distrae dagli altri, è un Dio che potenzia l’uomo, gli comunica la sua stessa capacità d’amore perché con lui e come lui vada verso gli altri.

La novità portata da Gesù è che non si vive più per Dio, ma si vive di Dio. Questo è il prologo di Giovanni, quindi un inno all’ottimismo di Dio sull’umanità e una proposta per ogni uomo di diventare figlio di Dio. Figli di Dio non si nasce, ma si diventa, per una scelta continua e quotidiana dell’amore fedele come quello che il Padre ci comunica.

anche p. Pagola commenta il brano odierno del vangelo:

RECUPERARE LA FRESCHEZZA DELL’EVANGELO

Nel prologo dell’Evangelo di Giovanni si fanno due affermazioni fondamentali che ci obbligano a rivedere in maniera radicale il nostro modo d’intendere e di vivere la fede cristiana, dopo venti secoli di non poche deviazioni, riduzionismi e impostazioni poco fedeli all’Evangelo di Gesù.
La prima affermazione è questa: La Parola di Dio si fece carne. Dio non è rimasto in silenzio, chiuso per sempre nel suo mistero. Ci ha parlato. Ma non… ci si è rivelato per mezzo di concetti e dottrine sublimi. La sua Parola si è incarnata nella vita concreta di Gesù perché la possano intendere e accogliere fino i più semplici.
La seconda affermazione dice così: Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. Come teologi parliamo molto di Dio, ma nessuno di noi lo ha visto. Capi religiosi e predicatori parliamo di lui con sicurezza, ma nessuno di noi ha visto il suo volto. Solo Gesù, il Figlio unico del Padre, ci ha raccontato come è Dio, come ci ama e come cerca di costruire un mondo più umano per tutti.
Queste due affermazioni sono lo sfondo del programma rivelatore del Papa Francesco.
Per questo cerca “una Chiesa radicata nell’Evangelo di Gesù, senza complicarci con dottrine o abitudini “non legate direttamente al nucleo dell’Evangelo”.Se non facciamo così, “non sarà l’Evangelo a essere annunciato, ma qualche sottolineatura dottrinale o morale che procede da certe opzioni ideologiche”.
L’atteggiamento del Papa è chiaro. Solo in Gesù ci è stata rivelata la misericordia di Dio. Per questo dobbiamo tornare alla forza trasformatrice del primo annunzio evangelico senza eclissare la Buona Notizia di Gesù e “senza ossessionarci con una moltitudine di dottrine che si cerca d’imporre a forza d’insistenza”.
Il Papa pensa a una Chiesa nella quale l’Evangelo possa recuperare la sua forza di attrazione, senza che sia oscurata da altri modi di intendere e vivere oggi la fede cristiana. Per questo, ci invita a “recuperare la freschezza originale dell’Evangelo” come la cosa più bella, la più grande, la più attraente e, nello stesso tempo, la più necessaria, senza chiudere Gesù “nei nostri noiosi schemi”.
In questi momenti non possiamo permetterci di vivere la fede senza sollecitare nelle nostre comunità cristiane la conversione a Gesù Cristo e al suo Evangelo, alla quale ci chiama il Papa. Egli stesso chiede a tutti noi che “applichiamo con generosità e coraggio i suoi orientamenti senza proibizioni né paure”
José Antonio Pagola.

lettera a papa Francasco sul ‘questionario’

 

il papa

 

Verso il Sinodo

Tutto cambia, anche la famiglia

 

il teologo basco José Arregui sul suo blog ha postato una ‘lettera’ a papa Francesco (‘caro papa Francesco’) nella quale evidenzia il coraggio del papa di interpellare tutti, col ‘questionario’ in vista del sinodo straordinario sulla famiglia, su tematiche importantissime che riguardano la vita e le modalità di vivere l’amore e le relazioni umane in declinazione anche diversa e difforme dalle modalità classiche della tradizione ‘cattolica’ data la sensibilità odierna cambiata radicalmente rispetto ai paradigmi precedenti

risponderà papa Francesco a questa lettera o, più plausibilmente, terrà conto papa Francesco del contesto radicalmente nuovo così ben delineato e problematizzato dalla lettera?

Caro papa Francesco,
(…) è già arrivato nelle nostre mani il questionario sulla famiglia che ha inviato ai vescovi di tutto il mondo (…). Comprendiamo di non essere solo l’oggetto ma anche i destinatari di queste domande (…). Per questo ci permettiamo di risponderle direttamente, per l’amore e la fiducia che ci ispira. Grazie per averci interpellato su tante questioni scomode che sono state e continuano a essere tabù! (…).
Prima questione: se l’insegnamento della Sacra Scrittura e del Magistero della Chiesa circa sessualità, matrimonio e famiglia è conosciuto e accettato tra i credenti.
Forse non è molto conosciuto, ma di sicuro non è ben accetto o è semplicemente ignorato. Negli ultimi decenni si è fatto sempre più profondo il solco (…) tra la dottrina ufficiale e il sentire della maggioranza dei credenti e delle credenti. Questo è grave e ci fa soffrire. Però crediamo sinceramente che la ragione non sia l’ignoranza e ancor meno l’irresponsabilità dei credenti, ma il ripiegarsi della gerarchia su schemi del passato.
I tempi sono molto cambiati, e in fretta, per quanto attiene alla famiglia, al matrimonio, alla procreazione e alla sessualità in generale. Sappiamo che sono temi delicati (…), ma non si può aver cura della vita riproponendo il passato. Crediamo profondamente che lo Spirito della vita continui a parlarci dal cuore della vita (…). Crediamo che la Ruah vivente non possa essere rinchiusa in nessuna dottrina né testo del passato, e che continui a ispirare il sentire di tutti i credenti e tutte le donne e gli uomini di oggi. (…).
Papa Francesco, ci congratuliamo per la sua volontà di ascoltare la voce dello Spirito negli uomini e nelle donne di oggi e osiamo chiederle: continui a pronunciare parole di misericordia e incoraggiamento, non torni a “verità” e “norme” obsolete che non hanno senso. (…)

Seconda questione: sul posto che occupa tra i credenti il concetto di “legge naturale” in relazione al matrimonio.
Lo diremo con franchezza: per l’immensa maggioranza dei pensatori, degli scienziati e dei credenti della nostra società, il concetto di “legge naturale” non occupa alcun posto. Sì, la natura che siamo ha un ordine meraviglioso, leggi meravigliose (…). Ma la legge suprema della natura è la sua capacità di trasformazione (…). La natura è creatrice, ingegnosa. Di questa capacità, di questa creatività sacra, sono frutto tutti gli atomi e le molecole, tutti gli astri e le galassie. Di essa sono frutto tutti gli esseri viventi, tutte le lingue e le culture, tutte le religioni. Di questa saranno frutto, tra migliaia di milioni di anni, infinite nuove forme che non conosciamo.
La natura è abitata dallo Spirito, dalla santa Ruah che aleggiava sulle acque della Genesi, che continua a vibrare nel cuore di tutti gli esseri, nel cuore di ogni atomo e di ogni particella.
Tutto vive, tutto si muove. Tutto cambia. Anche la famiglia ha subìto un’evoluzione continua, dai primi clan alla famiglia nucleare, passando per quella patriarcale (…).
Il modello familiare continua a cambiare sotto i nostri occhi: famiglie senza figli, famiglie monoparentali, famiglie con figli e figlie di genitori diversi… E continuerà a cambiare, non sappiamo come. (…). Chiediamo alla Chiesa di non parlare male delle nuove forme di famiglia, che già ogni giorno devono affrontare le minacce che vengono da un sistema economico crudele, inumano. Alla Chiesa non spetta sentenziare ma accompagnare, alleviare come lei stesso ha detto.

Terza questione: come si vive e come si trasmette nelle famiglie la fede, la spiritualità, il Vangelo.
Questione decisiva. Vediamo con dolore che le famiglie non sono più “Chiese domestiche” dove si prega, si coltiva, si respira, si trasmette la buona notizia di Gesù. Ma non crediamo sia giusto incolparle di questo. La crisi della religione e della trasmissione della fede nella famiglia ha a che vedere in primo luogo con la profonda trasformazione culturale che stiamo vivendo. E costituisce una grande sfida non solo, né forse in prima istanza, per le famiglie stesse, ma per l’istituzione ecclesiale che deve far proprie le nuove chiavi spirituali e forme religiose che lo Spirito sta inspirando negli uomini e nelle donne di oggi.

Quarta questione: come affrontare nella Chiesa alcune “situazioni matrimoniali difficili” (convivenze, “unioni libere”, divorziati risposati…).
Papa Francesco! Grazie ancora anche solo per il fatto di proporre tali questioni! (…). Conosce bene la complessa e mutevole storia, a partire dagli albori della Chiesa, del “sacramento del matrimonio”. La storia è stata molto variabile e continuerà ad esserlo. Guardi per esempio ciò che succede tra di noi, in questa Europa ultramoderna. I nostri giovani non hanno casa né risorse economiche per sposarsi e vivere in coppia fino ai 30 anni (nel migliore dei casi): come può la Chiesa chiedere loro di astenersi da relazioni sessuali fino a quest’età?
Le forme cambiano ma crediamo che il criterio sia molto semplice e che Gesù sarebbe d’accordo: “Dove c’è amore c’è sacramento, ci si sposi o meno; e dove non c’è amore non c’è sacramento, per quanto sposati canonicamente si possa essere”. (…). E se la coppia, come succede spesso, è in difficoltà è solo da Dio che verrà ciò che aiuterà a risolvere le difficoltà, se possibile; e solo da Dio verrà ciò che l’aiuterà a separarsi in pace se non è possibile risolvere le difficoltà né tornare ad amarsi.
Che si eliminino quindi, è la nostra preghiera, gli impedimenti canonici, affinché coloro il cui matrimonio è fallito possano rifarsi una vita con un altro amore. Che la Chiesa non aggiunga dolore a dolore. E che in alcun modo sia loro impedito di condividere il pane alla mensa di Gesù, perché Gesù a nessuno lo impedì.

Quinta questione: sulle unioni tra persone dello stesso sesso.
Il danno causato dalla Chiesa alle persone omosessuali è immenso e un giorno la Chiesa dovrà chiedere loro perdono.
Speriamo che papa Francesco, in nome della Chiesa, chieda loro perdono per la vergogna, il disprezzo e il sentimento di colpa instillati in loro per secoli!
La gran parte degli uomini e delle donne della nostra società non può comprendere questa ossessione, questa ostilità. Come si può continuare a sostenere che l’amore omosessuale non è naturale, se è così comune e naturale (…) tra tanti uomini e donne di tutti i tempi e tutti i continenti, e anche tra tante altre specie animali?
In questo, come in tanti altri casi, la Chiesa dovrebbe indicare la via ma è invece la società a farlo.
Ci rallegriamo che sempre più Paesi riconoscano alle coppie omosessuali gli stessi diritti delle coppie eterosessuali. Cosa impedisce che vengano chiamati “matrimoni”? Non si chiamano forse così quelle unioni eterosessuali che non hanno dato figli? Si cambi allora il dizionario e il Diritto canonico in modo che sia aggiornato ai tempi e vicino alle persone.
E cosa impedisce che il matrimonio omosessuale sia chiamato sacramento? È l’amore ciò che ci fa umani e che ci fa divini. È l’amore che fa il sacramento. (…).

Sesta questione: sull’educazione dei figli in seno alle situazioni matrimoniali irregolari.
Crediamo che questo linguaggio – “regolare”, “irregolare” – sia fuorviante. Di più: dannoso. Causa danno a un bambino sentire che è nato o vive in una famiglia “irregolare”. E causa danno ai suoi genitori. Ciò che causa danno non è l’essere un’eccezione, ma l’essere censurato per questo. (…) La Chiesa non è chiamata a definire ciò che è regolare e ciò che non lo è, ma ad accompagnare, animare, sostenere ciascuno così com’è.

Settima questione: sull’apertura degli sposi alla vita.
Fortunatamente si possono contare sulle dita di una mano i credenti al di sotto dei sessant’anni che hanno sentito parlare dell’Humanae Vitae, l’enciclica di Paolo VI (1968) che dichiarò peccato mortale l’uso di ogni metodo contraccettivo “non naturale”, ogni metodo che non fosse l’astinenza o l’adeguamento al ciclo. Ma fece soffrire quasi tutti i nostri genitori. Questa dottrina, adottata contro il parere di molta parte dell’episcopato, era fuori luogo allora e non lo è meno il fatto che sia stata mantenuta fino ad oggi.
Oggi nessuno la comprende e quasi nessuno, tra gli stessi cattolici, la mette in pratica. E pochi, tra sacerdoti e vescovi, si azzardano ancora a proporla. Non ha senso affermare che la relazione sessuale debba essere aperta necessariamente alla riproduzione. Non ha senso continuare a distinguere tra metodi artificiali e naturali e ancor meno ha senso condannare un metodo perché “artificiale”, poiché, per la stessa ragione, dovremmo condannare un vaccino o una qualsiasi iniezione. (…)
Per la prima volta da molti millenni la relazione sessuale non è più necessaria per la riproduzione. È un cambiamento tecnologico che comporta un cambiamento antropologico e richiede un nuovo paradigma morale.

(…) Ottava questione: sulla relazione tra la famiglia, la persona e l’incontro con Gesù.
Crediamo che Gesù venga a noi per strade diverse, in ogni situazione. In qualsiasi tipo di famiglia, in qualsiasi situazione familiare. Crediamo che Gesù non faccia distinzioni tra famiglie regolari e irregolari (…). Che ripiegarci su noi stessi (sulle nostre idee e leggi, sulle nostre ombre e paure) sia l’unica cosa che ci allontana dall’altro e da Dio. E crediamo che l’umiltà, la fiducia ci avvicinino ogni giorno al prossimo, e ogni giorno ci aprano alla presenza del vivente, stando dove stiamo ed essendo come siamo. E crediamo che una Chiesa che annunci questo, come Gesù, sia una benedizione per l’umanità (…).

di José Arregui, teologo basco. Articolo tratto dal suo blog (www.periodistadigital.com/religion)

2013 addio

addio 2013 non tornerai mai più

 

anno 2013
(non ricordo più dove ho trovato quest’addio al tempo che fugge : merita che venga diffuso come opportunità di riflessione, all’autore un grazie!)
trecentosessantacinque giorni che hanno dato il tempo agli eventi della vita. Episodi che in un qualche modo si intrecciano e tracciano quel tessuto che è la società. Nessuno è escluso da questo processo collettivo anche chi crede di essere solo, ininfluente e di sentire la propria solitudine nel cuore.

Il tessuto sociale è un qualcosa che si nutre di tutti e che influenza inconsciamente o consciamente tutti, nessuno escluso. Le parole ascoltate, le immagini assorbite, le paure, i dolori, le difficoltà, le gioie, le illusioni, le verità, le bugie, le idee, i giusdizi, i pregiudizi, i pensieri, i ragionamenti, le emozioni, la rabbia, l’odio, il raconcore, l’amore, la felicità, l’amicizia, i valori, l’etica, la morale, le emozioni, si fondono fino a creare quel quadro d’insieme che è la vita.

La vita non va giudicata va vissuta. Ognuno liberamente pone l’attenzione sulle cose belle o brutte che ha vissuto, noi crediamo che la vita è sempre bella.

Trecentosessantacinquegiorni possono essere tanti o pochi a seconda delle singole percezioni e di come noi intendiamo il tempo. La testa vive nel tempo certificato dalle convenzioni, l’anima vive nel senza tempo. Questi due mondi hanno regole, leggi, manifestazioni diverse, opposte e solo talvolta coincidenti. Siamo la società del materialismo, del tutto e subito, del più forte e del più debole, del ricco e del povero, del conti se hai potere e denaro e non vali niente se non hai nulla da dare. Siamo la società dell’apparenza e delle sovrastrutture dove ci crediamo tutti eroi, santi e navigatori.

Siamo giudici, allenatori di calcio, politici, dotti e sapienti. Siamo tutti abbastanza simili e totalmente diversi. La diversità per me è crescita a molti fa paura. L’ignoto fa paura ma stimola anche la curiosità. Il coraggio non è incoscienza ma voglia di vivere. La realtà apparente non sempre è verità dell’anima. Quante cose abbiamo vissuto. Quante cose abbiamo rfiutato di vivere. Una certezza sola c’è tra poche ore quest’anno sarà archiviato ma noi saremo sempre, qui, pronti, ad affrontare nuove sfide, nuove avventure, consapevoli degli errori, pronti a pagarne le conseguenze, a cadere ed a rialzarci. Siamo uomini non super eroi. Siamo esseri umani non robot.

profonda gioia, nonostante tutto!

 

ha senso essere contenti? anzi ha senso addirittura gioire? : nonostante le contraddizioni, il malessere generale tipico di un mondo, come il nostro, in rapide mutazioni, in inesorabile superamento, anzi distruzione, demolizione. di equilibri culturali, sociali, politici passati, che inevitabilmente non può non suscitare in molti smarrimento, crisi di identità, incertezze esistenziali … prova a rispondere a questa grande domanda il teologo L. Boff nell’articolo a seguire:

il posto della gioia

di Leonardo Boff (*)
In mezzo a un innegabile malessere mondiale, quest’anno ha fatto irruzione a sorpresa una figura che ci ha regalato speranza, allegria e piacere della bellezza: Papa Francesco. Il suo primo scritto ufficiale porta il titolo di Pontificia esortazione “La gioia del Vangelo”, richiama l’allegria, le categorie dell’incontro, la vicinanza, la misericordia, la centralità dei poveri, la bellezza, la “rivoluzione della tenerezza” e la “mistica del vivere insieme”. Tale messaggio fa da contrappunto alla delusione e al fallimento delle promesse di un progetto di modernità che avrebbe portato benessere e felicità per tutti e che invece sta mettendo a rischio il futuro della specie umana a causa dell’assalto devastante che continua a fare a danno di beni e servizi scarsi della Madre Terra. Dice bene Papa Francesco: “La società tecnica ha moltiplicato le possibilità di piacere ma ha grande difficoltà quando si tratta di generare allegria” (Es.,n.7). Il piacere ha a che fare con i sensi. La gioia ha a che fare con il cuore. E il nostro modo di essere, purtroppo, è senza cuore. Questa gioia non è quella dell’idiota che è tutto giulivo senza un perché. Essa sgorga dall’incontro con una Persona concreta che ti ha suscitato entusiasmo, ti ha dato una spinta e semplicemente ti ha affascinato. È la figura di Gesù di Nazaret. Non si tratta di quel Cristo, coperto di titoli, di trionfo e di gloria che la teologia posteriore gli ha assegnato. E’ il Gesù del popolo, semplice e povero, delle strade polverose della Palestina, che portava parole di freschezza e di fascino. Papa Francesco è la prova dell’incontro con questa Persona: è stata tanto trascinante che ha cambiato la sua vita gli ha creato una fonte inesauribile di gioia e bellezza. Per lui evangelizzare è rifare questa esperienza e la missione della Chiesa è riscattare la freschezza e il fascino per la figura di Gesù. Evita la parola diventata ormai ufficiale di “nuova evangelizzazione”. Preferisce ”conversione pastorale” fatta di allegria, bellezza, fascino, vicinanza, incontro, tenerezza, amore e misericordia. Che differenza con i suoi predecessori di secoli. Presentavano il cristianesimo come dottrina, dogma e norma morale. Si esigeva adesione senza limiti e senza un qualsiasi straccio di dubbio perché partecipava alle caratteristiche dell’infallibilità. Papa Francesco vede il cristianesimo da un altro punto di vista. Non è una dottrina. È incontro personale con una Persona, con la sua causa, con la sua lotta, con la sua capacità di affrontare le difficoltà senza fughe. Fanno piacere oltremodo le parole contenute nell’epistola agli Ebrei dove si dice che Gesù “è passato attraverso le stesse prove che abbiamo avuto anche noi… Lui è stato circondato di debolezza… tra grida e lacrime ha supplicato colui che poteva salvarlo dalla morte e non è stato ascoltato nella sua angustia”.
Preferisco questa versione che è stata avvallata da due grandi conoscitori delle sacre scritture come Harnack e Bultmann, a quella che traduce il testo con l’espressione: “e fu ascoltato nella sua pietà – Eusebeia, infatti, in greco, può significare oltre che pietà, anche angustia – e che ha dovuto imparare a ubbidire mediante la sofferenza” (Eb 4,15;5,2.7-8). Nella evangelizzazione tradizionale tutto passava attraverso l’intelligenza intellettuale (intellectus fidei) espressa dal credo e dal catechismo. Nella sua esortazione apostolica, il papa Francesco arriva a dire che “abbiamo imprigionato Cristo in schemi noiosi e così priviamo il cristianesimo della sua creatività”(cfr. 11). Nella sua versione, l’evangelizzazione passa attraverso l’intelligenza cordiale (intellectus cordis), perché lì hanno la loro sede l’amore, la misericordia, la tenerezza e la freschezza della persona di Gesù. Questa si esprime anche attraverso la vicinanza, l’incontro, il dialogo e l’amore. È  un cristianesimo-casa aperto a tutti, “senza i supervisori  della dottrina”, non un cristianesimo-fortezza chiusa e timorosa. Ora è di questo cristianesimo che abbiamo bisogno, capace di produrre gioia, perché tutto quello che nasce sul serio da un incontro profondo e vero genera allegria e nessuno ce la può togliere. È come l’allegria dei sudafricani nella sepoltura di Mandela: nasceva nel fondo del cuore e muoveva tutto il corpo. Nella nostra cultura mediatica, appartenente all’era dei Media e di Internet, manca questo spazio di incontro: occhi negli occhi, faccia a faccia, pelle a pelle. Per questo dobbiamo realizzare, per dirla come il papa, delle “uscite”: “uscita” da noi stessi per l’altro, “uscita” in direzione delle periferie esistenziali (le solitudini e gli abbandoni), “uscita” verso l’universo dei poveri. Questa “uscita” è un vero “Esodo” che ha portato allegria agli ebrei liberi dal giogo del faraone. Niente di meglio che ricordare la testimonianza di Dostoievski quando “usciva” dalla Casa dei Morti in Siberia. “A volte – scrive – Dio mi invia istanti di pace; in questi istanti, amo e sento di essere amato; è stato in uno di questi momenti che ho composto per me stesso un credo, dove tutto è chiaro e sacro. Questo credo è molto semplice. Eccolo: credo che non esiste niente di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più umano, di più perfetto del Cristo; e io dico a me stesso, con un amore geloso che non esiste e non può esistere. Ancora più di questo: se qualcuno mi provasse che il Cristo sta fuori della verità e che questa non si trova in lui, preferisco rimanere con il Cristo piuttosto che rimanere nella verità”. Il Papa Francesco farebbe sue queste parole di Dostoievski. Non è una verità astratta che riempie la vita, ma l’incontro vivo con una persona, con Gesù, il Nazareno. È a partire da lui che la verità si fa verità.
Se il 2014 porterà un poco di questo incontro (chiamatelo Cristo, Profondo, Mistero dentro di noi, Sacro di ogni essere) allora avremo scavato una fonte da cui sgorga gioia infinitamente superiore a qualsiasi piacere indotto dal consumo.
(*) traduzione di Romano Baraglia

2014 anno nuovo?

 

 

2014

“Comincia un anno nuovo. Se solleviamo lo sguardo incontriamo orizzonti appesantiti da grosse

nuvole che minacciano tempesta. Che fare? Arrendersi, scappare, deprimersi, disperare? La

tentazione c’è, ma pure qualcosa ci dice che dobbiamo dare un calcio ai lamenti e ai mugugni se

vogliamo entrare nell’anno nuovo col piede giusto”

così D. Maraini che ci invita, nonostante tutto a guardare con speranza al futuro e al nuovo anno che oggi inizia; ha delle parole convincenti:

2014 anno nuovo

Quando la speranza ci fa rischiare

 

di Dacia Maraini

in “Corriere della Sera” del 31 dicembre 2013

 

Comincia un anno nuovo. Se solleviamo lo sguardo incontriamo orizzonti appesantiti da grosse

nuvole che minacciano tempesta. Che fare? Arrendersi, scappare, deprimersi, disperare? La

tentazione c’è, ma pure qualcosa ci dice che dobbiamo dare un calcio ai lamenti e ai mugugni se

vogliamo entrare nell’anno nuovo col piede giusto. Vogliamo cominciare con una parola desueta e

impopolare? Una parola screditata perché apparentemente morbida e fragile. Ma che pure ha un

cuore di ferro. La parola speranza. Che ad alcuni suscita un risolino beffardo, ad altri uno sbadiglio

di noia. Ma pure bisogna riconoscere che senza speranza la realtà la si imbalsama come fosse un

corpo morto. Un corpo dal cervello piatto che, nell’euforia dell’onnipotenza tecnologica, teniamo in

vita pompando sangue dentro vene inerti.

2014 fiorito

Ma davvero è quello che vogliamo? Eraclito, che non era certo un ottimista, diceva che «senza

speranza è impossibile trovare l’insperato». Sperare infatti non vuol dire mettersi a braccia conserte

ad aspettare la manna dal cielo, ma rimboccarsi le maniche e darsi da fare. «Se ti trovi davanti due

strade», scrive Terzani, «una che va in su e una che va in giù, prendi sempre quella che sale». La

discesa è più facile, certo, ma di solito ti porta in un buco. Andare in salita è faticoso, ma è una sfida

e ti porta in alto. Pur sapendo che la speranza, come dice Bernanos, è piena di rischi. È addirittura

«il rischio dei rischi». Ma se non rischi e ti fermi impaurito, alla fine sarai travolto. Perché, come ci

suggerisce quella piccola cosa poetica che è l’orologio, tutto corre e si muove e chi resta fermo

viene spazzato via dalla gran scopa della storia. «La speranza è una cosa dotata di ali», pare di

sentire la voce maliziosa e intelligente di Emily Dickinson, «che mette su casa nello spirito e canta

un canto senza parole e non si ferma mai». Con quel poco di voce che ci è rimasta, ci tocca cantare,

se vogliamo che qualcosa in noi voli. Il pericolo della stasi, suggerisce Naomi Klein, sta nel creare

vuoti. «La politica odia il vuoto. Se non è pieno di speranza, qualcuno lo riempirà di paura». E la

paura fa sognare draghi dalle mille teste che soffiano fuoco. Per tagliare quelle teste, ci armiamo e

partiamo verso guerre inutili e micidiali. La paura arma la mano del razzista, del fanatico, del

guerrafondaio.

Faccio gli auguri alle persone che sanno sperare, come suor Rita e le sorelle di Casa Rut che

raccolgono le prostitute minorenni per le strade di Caserta, come gli organizzatori del teatro del

carcere di Latina guidate dal generoso Giorgio Maulucci, come il magistrato Di Matteo che sfida la

mafia e le sue minacce oscene, come a tutti coloro che, anziché nascondersi dietro il luogo comune

«tanto non c’è niente da fare, tanto sono tutti uguali», prendono per mano la vita come fosse un

bambino e si incamminano verso una salita impervia con cuore allegro

Scalfari e la ‘rivoluzione’ di papa Francesco

 

papa-francesco

è decisamente contento E. Scalfari degli atteggiamenti e degli interventi di papa Francesco: a lui il papa ha  fatto delle telefonate e gli ha concesso un’ampia intervista; Scalfari a più riprese ha espresso la sua soddisfazione e su ‘la Repubblica’ odierna ne parla come di un papa ‘rivoluzionario’: pur non rinnegando la dottrina tradizionale esprime un approccio col messaggio evangelico in modo radicalmente diverso dalle impostazioni tradizionali che mettevano al centro il peccato anzjché la misericordia:

La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato

 

di Eugenio Scalfari

in “la Repubblica” del 29 dicembre 2013

 

Si cercano con insistenza le novità e le innovazioni con le quali papa Francesco sta modificando la

Chiesa. Alcuni sostengono che le novità sono di pura fantasia e le innovazioni del tutto inesistenti;

altri al contrario sottolineano le innovazioni organizzative che non turbano tuttavia la tradizione

teologica e dottrinaria; altri ancora definiscono Francesco, Vescovo di Roma come egli ama

soprattutto definirsi, un Pontefice rivoluzionario.

Personalmente mi annovero tra questi ultimi. È rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve

pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il peccato.

Un Papa che abbia modificato la Chiesa, anzi la gerarchia della Chiesa, su una questione di questa

radicalità, non si era mai visto, almeno dal terzo secolo in poi della storia del cristianesimo e l’ha

fatto operando contemporaneamente sulla teologia, sulla dottrina, sulla liturgia, sull’organizzazione.

Soprattutto sulla teologia.

I critici di papa Francesco sottovalutano le sue capacità e inclinazioni teologiche, ma commettono

un grossolano errore. Il peccato è un concetto eminentemente teologico, è la trasgressione di un

divieto. Quindi è una colpa.

La legge mosaica condensata nei dieci comandamenti ordina e impone divieti. Non contempla

diritti, non prevede libertà. Il Dio mosaico descrive anzitutto se stesso: «Onora il tuo Dio, non

nominare il nome di Dio invano, non avrai altro Dio fuori di me».

Poi, per analogia, ordina di onorare il padre e la madre. Infine si apre il capitolo dei divieti, dei

peccati e delle colpe che quelle trasgressioni comportano: «Non rubare, non commettere atti impuri,

non desiderare la donna d’altri (attenzione: il divieto è imposto al maschio non alla femmina perché

la femmina è più vicina alla natura animale e perciò la legge mosaica riguarda gli uomini)».

Il Dio mosaico è un giudice e al tempo stesso un esecutore della giustizia. Almeno da questo punto

di vista non somiglia affatto all’ebreo Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe della stirpe di

David. Non contempla alcun Figlio il Dio mosaico; non esiste neppure il più vago accenno alla

Trinità. Il Messia – che ancora non è arrivato per gli ebrei – non è il Figlio ma un Messaggero che

verrà a preannunciare il regno dei giusti. Né esistono sacramenti né i sacerdoti che li amministrano.

Quel Dio è unico, è giudice, è vendicatore ed è anche, ma assai raramente, misericordioso, ammesso

che si possa definire chi premia l’uomo suo servo se e quando ha eseguito la sua legge.

È Creatore e padrone delle cose create. Nulla è mai esistito prima di lui e quindi da quando esiste

comincia la creazione. Questo Dio i cristiani l’hanno ereditato trasformandolo fortemente nella sua

essenza ma facendone propri alcuni aspetti importanti: il divieto e quindi il peccato e la colpa.

Adamo ed Eva peccarono e furono puniti, Caino peccò e fu punito, e anche i suoi discendenti

peccarono e furono puniti. L’umanità intera peccò e fu punita dal diluvio universale.

Questo è il Dio di Abramo, il Dio della cattività egizia e babilonese, di Assiria, di Babele, di

Sodoma e Gomorra. Nella sostanza è il Dio ebraico o molto gli somiglia salvo che nella

predicazione di alcuni profeti e poi soprattutto in quella evangelica di Gesù.

Nei secoli che seguirono, fino all’editto di Costantino che riconobbe l’ufficialità del culto cristiano,

il popolo che aveva seguito Gesù offrì martiri alla verità della fede, fondò comunità, predicò amore

verso Dio e soprattutto verso Cristo che trasferì quell’amore alle creature umane affinché lo

scambiassero con il loro prossimo. Nacquero così l’agape, la carità e l’esortazione evangelica «ama

il tuo prossimo come te stesso».

Questo è il Dio che predicò Gesù e che troviamo nei Vangeli e negli Atti degli apostoli. Un Dio

estremamente misericordioso che si manifestò con l’amore e il perdono.

Nella dottrina dei Concili e dei Papi restano tuttavia le categorie del Dio giudice, del Dio esecutore

di giustizia, del Dio che ha edificato una Chiesa e man mano l’ha distaccata dal popolo dei fedeli.

Dall’editto di Costantino sono passati 1700 anni, ci sono stati scismi, eresie, crociate, inquisizioni,

potere temporale. Novità e innovazioni continue su tutti i piani, teologia, liturgia, filosofia,

metafisica. Ma un Papa che abolisse il peccato ancora non si era visto. Un Papa che facesse della

predicazione evangelica il solo punto fermo della sua rivoluzione ancora non era comparso nella

storia del cristianesimo.

Questa è la rivoluzione di Francesco e questa va esaminata a fondo, specie dopo la pubblicazione

dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, dove l’abolizione del peccato è la parte più

sconvolgente di tutto quel recentissimo documento.

***

Francesco abolisce il peccato servendosi di due strumenti: identificando il Dio cristiano rivelato da

Cristo con l’amore, la misericordia e il perdono. E poi attribuendo alla persona umana piena libertà

di coscienza. L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il sottinteso di questa

affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la scelta del Bene

sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro scelta del Bene

sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero, la sua anima è

libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia

di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla,

calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante

eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure

nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se ha

scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?

Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre. Può abolire l’Inferno, ma ancora

non l’ha fatto anche se l’esistenza teologica dell’Inferno è discussa ormai da secoli. Può affidare al

Purgatorio una funzione “post mortem” di ravvedimento, ma si entrerebbe allora nel giudizio

sull’entità della colpa e anche questo è un tema da tempo discusso.

Papa Francesco indulge talvolta a ricordare ai fedeli la dottrina tradizionale anche se il suo dialogo

con i non credenti è costante e rappresenta una delle novità di questo pontificato che ha trovato i

suoi antecedenti in papa Giovanni e nel Vaticano II.

Francesco non mette in discussione i dogmi e ne parla il meno possibile. Qualche volta li

contraddice addirittura. È accaduto almeno due volte nel dialogo che abbiamo avuto e che spero

continuerà.

Una volta mi disse, di sua iniziativa e senza che io l’avessi sollecitato con una domanda: «Dio non è

cattolico». E spiegò: Dio è lo Spirito del mondo. Ci sono molte letture di Dio, quante sono le anime

di chi lo pensa per accettarlo a suo modo o a suo modo per rifiutarne l’esistenza. Ma Dio è al di

sopra di queste letture e per questo dico che non è cattolico ma universale.

Alla mia domanda successiva a quelle sue affermazioni sconvolgenti, papa Francesco precisò: «Noi

cristiani concepiamo Dio come Cristo ce l’ha rivelato nella sua predicazione. Ma Dio è di tutti e

ciascuno lo legge a suo modo. Per questo dico che non è cattolico perché è universale». Infine ci fu

in quell’incontro un’altra domanda: che cosa sarebbe accaduto quando la nostra specie fosse estinta

e non ci sarà più sulla Terra una mente capace di pensare Dio?

La risposta fu questa: «La divinità sarà in tutte le anime e tutto sarà in tutti». A me sembrò un arduo

passaggio dalla trascendenza all’immanenza, ma qui entriamo nella filosofia e vengono in mente

Spinoza e Kant: «Deus sive Natura» e «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».

«Tutto sarà tutto in tutti». A me, l’ho già detto, è sembrata una classica immanenza ma se tutti

hanno tutto dentro di sé potrebbe essere concepita anche come una gloriosa trascendenza.

Resta comunque assodato che per Francesco Dio è misericordia e amore per gli altri e che l’uomo è

dotato di libera coscienza di sé, di ciò che considera Bene e di ciò che considera Male.

Ma qui si pone un’altra e fondamentale domanda: che cos’è il Bene e che cosa è il Male? Credo sia

impossibile dare una definizione a questi due concetti. Una soltanto è possibile: sono necessari

l’uno all’altro per poter reciprocamente esistere di fronte ad un essere vivente che ha conoscenza di

sé. Gli animali non hanno il problema del Male e del Bene perché non possiedono una mente che si

guarda e si giudica. Noi sì, quella mente l’abbiamo. Se ci fosse solo il Bene, come definirlo? Ma se

c’è anche il Male l’esistenza di uno fa la differenza dell’altro come accade tra la luce e il buio, tra la

salute e la malattia, e se volete, tra esistenza e inesistenza. Il nulla non è definibile né pensabile

perché privo di alternativa.

***

Evangelii Gaudium non parla soltanto di teologia. Anzi parla molto più a lungo di altre cose,

concrete, organizzative, rivoluzionarie anch’esse. Parla del ruolo positivo e creativo delle donne

nella Chiesa. Parla dell’importanza dei Sinodi dei quali il Papa fa parte in quanto Vescovo di Roma,

“primus inter pares”. Parla dell’autonomia delle Conferenze episcopali. Parla dell’importanza delle

parrocchie e degli oratori sul territorio. Parla perfino di politica, non certo nel senso del politichese,

ma della politica come visione del bene comune e della libertà per chiunque di utilizzare lo spazio

pubblico per diffondere e confrontarsi con le idee altrui. Parla delle diseguaglianze che vanno

diminuite. «Io non ce l’ho con i ricchi, ma vorrei che i ricchi si dessero direttamente carico dei

poveri, degli esclusi, dei deboli». Così papa Francesco. E parla infine della Chiesa missionaria che

rappresenta il punto centrale della sua rivoluzione. La Chiesa missionaria non cerca proselitismo ma

cerca ascolto, confronto, dialogo.

Concludo con una frase che dice tutto su questo Papa, gesuita al punto d’aver canonizzato pochi

giorni fa Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia più nobile e più discussa tra gli Ordini della

Chiesa e contemporaneamente d’aver assunto il nome di Francesco che nessun Pontefice prima di

lui aveva mai usato. I gesuiti mettono al servizio della Chiesa la loro proverbiale e non sempre

apprezzabile flessibilità. Francesco d’Assisi era invece integrale nella sua visione d’un Ordine

mendicante e itinerante. L’Ordine francescano fu rivoluzionario ma la sua potenza fu molto limitata;

la Compagnia di Gesù al contrario fu potentissima e molto flessibile.

Questo Papa riunisce in sé le potenzialità degli uni e degli altri e conclude con due righe che

rappresentano la sintesi di questo storico connubio: «È necessaria una conversione del Papato

perché sia più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli. Non bisogna aver paura di

abbandonare consuetudini della Chiesa non strettamente legate al Vangelo. Bisogna essere audaci e

creativi abbandonando una volta per tutte il comodo proverbio “Si è sempre fatto così”. Bisogna

non più chiudere le porte della Chiesa per isolarci, ma aprirle per incontrare tutti e prepararci al

dialogo con altri idiomi, altri ceti sociali, altre culture. Questo è il mio sogno e questo intendo fare».

Questo dialogo riguarda anche e forse soprattutto i non credenti, la predicazione di Gesù ci

riguarda, l’amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa

rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda.

Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito

è stato , da diverse parti, e comprensibilmente – soprattutto in riferimento all’affermazione perentoria contenuta nel titolo sull’ ‘abolizione del peccato’ – commentato l’articolo di E. Scalfari qui riportato (acuni, da parte tradizionalista e sterilmente critica ha accusato Scalfari di voler “insegnare il catechismo al papa” (cfr. ‘il Foglio’)

è intervenuto anche il portavoce  vaticano stesso, padre Lombardi per puntualizzare diverse cose e mettere meglio a fuoco il pensiero di papa Francesco

E. Scalfari risponde così alle puntualizzazioni di p. Lombardi:

Francesco e il peccato

 

di Eugenio Scalfari

in “la Repubblica” del 31 dicembre 2013

 

Padre Lombardi ha rilasciato ieri alla Radio Vaticana una lunga dichiarazione sul mio articolo uscito

l’altroieri suRepubblica e ne segnala l’importanza come l’espressione da parte del mondo laico non

credente su come Papa Francesco sta modificando la struttura stessa della Chiesa. Lo ringrazio per

l’attenzione che pone al mio lavoro e al mio pensiero. C’è però nella sua dichiarazione alla Radio

Vaticana una netta smentita all’ipotesi da me formulata che il Papa abbia abolito il peccato. Questa

ipotesi è ovviamente una mia interpretazione la quale tuttavia è da me accompagnata da una

constatazione che qui trascrivo: “L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il

sottinteso di questa affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la

scelta del Bene sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro

scelta del Bene sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero,

la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime.

Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla,

ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono

una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia

pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se

ha scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?

Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre”.

Da questa citazione di quanto ho scritto risulta evidente che il Papa non abolisce il peccato se la

persona umana, sia pure in punto di morte, non si pente e la mia conclusione, come già citato sopra,

è appunto quella che “un Papa cattolico non può andare oltre”. Da questo punto di vista Padre

Lombardi ed io la pensiamo allo stesso modo. Perché tuttavia io penso che Papa Francesco abbia

abolito di fatto il peccato? Ho cercato di spiegarlo subito dopo sottolineando che nel momento

stesso in cui il Papa pone come condizione alla conquista della grazia il pentimento, riafferma

tuttavia la libertà di coscienza e cioè il libero arbitrio che Dio riconosce all’uomo. Se, a differenza

di tutte le altre creature viventi, la nostra specie è consapevole della propria libertà, è il Creatore che

gliel’ha consentita. La libertà di coscienza fa dunque parte integrante del disegno divino. Il Dio

mosaico punisce chi esercita la sua libertà. punisce Adamo ed Eva cacciandoli dal Paradiso

terrestre, punisce Caino e i suoi discendenti, punisce l’umanità intera con il diluvio universale.

Quanto a Gesù (che sia figlio di Dio o figlio dell’uomo) è comunque incarnato e sente dentro di sé

le virtù, i dolori e le tentazioni della carne, altrimenti non si misurerebbe col demonio nei quaranta

giorni che passa nel deserto per respingerle. Ma soprattutto non accetterebbe il martirio e la

crocifissione assumendosi tutte le colpe degli uomini per ripristinare l’alleanza con Dio. Il Papa

cattolico ha come limite tradizionale la punizione di chi non si pente ma a mio avviso la supera nel

momento in cui l’uomo esercita la sua libertà di coscienza. La libertà di coscienza fa parte dunque

del disegno divino. Sua Santità ha rivendicato come suo autore preferito il Dostoevskij dei

FratelliKaramazov. 

Padre Lombardi certamente ben conosce le pagine sul Grande Inquisitore e certamente le conosce

Papa Francesco. Il rapporto tra il Bene e il Male è dunque molto aperto in chi discute con i non

credenti. Mi permetto tuttavia di segnalare a Padre Lombardi la chiusura del mio articolo di

domenica che qui desidero riportare testualmente: “La predicazione di Gesù ci riguarda, l’amore per

il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci

riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda. Questa è la nostra

vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito”.

 

anche V. Mancuso ha voluto commentare l’articolo di Scalfari su riportato, puntualizzando, con maggiore senso e linguaggio teologico appropriato, in quale maniera precisa può parlarsi di ‘rivoluzione’ teologica ed ecclesiale di papa Francesco:

Il peccato nella Chiesa di Francesco

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 3 gennaio 2014

Nell’editoriale di domenica scorsa Eugenio Scalfari ha sostenuto che papa Francesco è un Pontefice

«rivoluzionario » e che la sua rivoluzione consiste nella «abolizione del peccato». A mio avviso si

tratta di una tesi che contiene un’intuizione importante ma che ultimamente non può sussistere. Non

lo può anzitutto perché è troppo presto per stabilire se Francesco sia davvero rivoluzionario o anche

solo schiettamente riformista visto che la sua azione si deve ancora sostanziare in concreti atti di

governo (in primis nomine dei vescovi e reale libertà di insegnamento teologico) e in concrete

decisioni disciplinari (in primis effettiva promozione della donna e concessione dei sacramenti ai

divorziati risposati). Ma la tesi di Scalfari a mio avviso non regge soprattutto perché l’ipotetica

rivoluzione bergogliana non potrà mai consistere nella abolizione del peccato. «Confesso a Dio

onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato»: così comincia, dopo il saluto del celebrante, la

Messa cattolica, ricordando a ogni fedele di percepirsi anzitutto come peccatore, anzi, come uno che

ha «molto» peccato «in pensieri, parole, opere e omissioni». Lutero a sua volta insegnava

pecca

fortiter sed crede fortius

(pecca forte, ma più forte credi), legando l’atto di fede all’esperienza del peccato. E secondo il Vangelo le prime parole di Gesù furono: «Il regno di Dio è vicino,convertitevi» (Marco 1,15). Per il cristianesimo quanto più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, tanto più aumenta la percezione dell’indegnità per il male prodotto dall’ego, unasituazione molto simile al chiaroscuro di Caravaggio e di Rembrandt.

L’abolizione del peccato venne tentata un secolo e mezzo fa in piena modernità da un filosofo molto

amato da Scalfari ma nemico mortale del cristianesimo, Nietzsche, il quale promosse una filosofia

che intendeva condurre gli uomini in un territorio «al di là del bene e del male» (il saggio omonimo

è del 1886). Si tratta però solo di un sogno, non privo peraltro di immensi pericoli, perché questa

terra promessa al di là del bene e del male purtroppo non esiste. Per noi uomini, qui e ora, tutto è “al

di qua” del bene e del male. C’è una politica buona e una politica che non lo è. C’è un’economia

buona, e una che non lo è. C’è una cronaca buona, e una che non lo è. A partire dalle più elementari

esperienze vitali quali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino alle

più elevate produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell’uomo è sempre

invalicabilmente “al di qua” del bene e del male. La libertà umana esiste, ed esistendo opera, e

quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione. Volenti o nolenti, siamo così rimandati

all’esperienza del peccato, e ovviamente anche del merito. E infatti non c’è tradizione spirituale che

non conosca il concetto di peccato, sorto nella coscienza per il bisogno di segnalare le azioni che

producono una diminuzione del grado di ordine o di armonia. Da qui le catalogazioni ora secondo

l’oggetto come nel caso dei peccati (per esempio i cosiddetti “quattro peccati che gridano vendetta

al cospetto di Dio”), ora invece secondo la disposizione soggettiva come nel caso dei vizi (per

esempio i cosiddetti “sette vizi capitali”).

Si aprirebbe a questo punto la questione accennata anche da Scalfari sul perché tanto spesso l’uomo

sia attratto dal male, un interrogativo che incombe sul pensiero fin dalla notte dei tempi. La dottrina

cattolica risponde mediante il dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il

problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e

moralmente indegna, al cui riguardo ha scritto Kant: «Qualunque possa essere l’origine del male

morale nell’uomo, non c’è dubbio che il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male

come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori».

Dicevo all’inizio che l’articolo di Scalfari contiene un’intuizione importante e a mio avviso essa

consiste nell’auspicabile superamento del cosiddetto amartiocentrismo, cioè di quella visione che fa

del peccato il perno della vita spirituale (amartíain greco significa peccato). Se il peccato infatti non

potrà (purtroppo) mai essere abolito, il suo primato sì, lo può, anzi lo deve essere, se il cristianesimo

vuole tornare a essere fedele al Vangelo e alla sua gioia — la quale va detto, diversamente da quanto

sostenuto da Scalfari, non si contrappone all’ebraismo, ma senza l’ebraismo non avrebbe potuto

sorgere.

Ma la cosa a mio avviso più preziosa dell’editoriale di Scalfari è quanto scrive alla fine, cioè che la

predicazione di Gesù «riguarda anche e forse soprattutto i non credenti». Rimane infatti da chiedersi

come la coscienza laica percepisca oggi il peccato, e come i non credenti possano anche loro

arrivare a dire «confesso a voi fratelli che ho molto peccato» (tralasciando ovviamente la prima

parte del Confiteor che si rivolge «a Dio onnipotente»). Penso infatti che lo scoprirsi inadempienti

di fronte all’imperativo etico sia inevitabile in chiunque conosca se stesso e penso altresì che la

percezione delle proprie colpe abbia precise implicazioni sociali. Penso inoltre che la dimensione

giuridica, la quale ritrascrive il peccato mediante il concetto di reato, non sia sufficiente a esprimere

tutta la densità umana del fenomeno. Come la legalità è solo una pallida immagine della giustizia,

così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione che manifesta la coscienza del peccato. Forse chi

ha espresso al meglio questa dialettica è stato Dostoevskij in Delitto e castigo, il romanzo che nel

1866 inaugurava il ciclo narrativo che l’ha reso immortale

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