il commento al vangelo della domenica

NON DI CONTENUTI MA DI MODALITÀ



il commento di E. Ronchi al vangelo della quindicesima domenica del tempo ordinario

Mc 6,7-13



Vangelo che mette con le spalle al muro.
Mi proteggo da questo vangelo, pensandolo rivolto agli altri, invece siamo tutti inviati, tutti sulla strada, come i Dodici, per essere un dito puntato su Gesù, un evidenziatore, un faro su di lui.
E ci viene istintiva la scusa di Mosè: ma come Signore, mandi me balbuziente a parlare alla corte, si metteranno a ridere! O di Geremia: sono troppo giovane; di Amos che protesta: sono solo un mandriano, sto dietro alle mucche.
Ma “l’annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande” (G. Vannucci).
Allora vado bene anch’io.

Perché il sacerdote Amasia non si lascia aiutare dal piccolo profeta? Forse perché Dio brucia, e se l’accogli ti cambia la vita.
Io non ero profeta; ero un bovaro, un contadino, mi occupavo della vita. Ma il Signore mi ha “preso”. Confessa una chiamata che è quasi una violazione da parte di Dio. Il vangelo di oggi ci aiuta a farci “prendere”.

Per le strade di Galilea (ogni strada del mondo è Galilea) la gente vede arrivare, sotto il sole, due tipi strani, a piedi, più poveri di un povero, senza bisaccia e con solo un bastone.
​Li vede venire a due a due, che non è la somma di uno più uno, ma è l’inizio della comunione, la prima cellula della comunità.
Ma così arriva il vangelo?
Così è venuto Cristo, senza denaro, senza borsa, nudo sulla croce.
Aveva solo un bastone, il legno della croce, piantato a sorreggere.

Più che sui contenuti da trasmettere, Gesù con i Dodici insiste sulle modalità di come si passa nel mondo: liberi e leggeri. Il come si vive, è la vita. Prima si è visti, poi si è ascoltati.
In tre anni di strade, olivi, lago, pane che non finisce, malati toccati e guariti, hanno appreso l’essenziale, hanno imparato Gesù.
Lui porteranno in giro per le strade.

Riassumo in due linee questo vangelo: l’economia della piccolezza e quella della strada.
La piccolezza attraversa l’intera Bibbia e ne rappresenta l’anima profonda. Quella di Abele, delle donne sterili e madri, di Giuseppe venduto dai fratelli, di Amos e Geremia, della stalla di Betlemme, dei “beati i poveri”, del granello di senape, dei 12 che vanno senza niente fra le cose.
L’economia della piccolezza ci fa trovare profeti là dove la grandezza vede solo piccoli contadini.
E poi l’economia della strada: che è libera ed è di tutti, che non domanda tessere, che ti apre orizzonti ed è sempre nuova. Mettersi per strada è un inno alla libertà e alla fiducia. Un salmo cantato agli incontri che farai.

E i Dodici vanno, più piccoli dei piccoli; li ha messi sulla strada che non si ferma, che verrà sempre incontro, che se li porterà con sé verso il cuore della vita.

Vanno, profeti del sogno di Dio: quello di un mondo finalmente guarito; ripulito dai demoni che invecchiano il cuore giovane della vita.

il commento al vangelo della domenica

SILLABE DI DIO
Mc 6, 1-6
Dio prende da parte il suo profeta Ezechiele e gli parla duro:
“tu vai! Lo so che sono un popolo dal cuore duro, ma tu profetizza, ascoltino o non ascoltino”.
Introduzione forte e diretta al vangelo del ritorno di Gesù a Nazaret, dove si conoscono tutti.
Nazaret è il nostro paese.
Io sono Nazaret: ho detto qualche volta “sì” a Dio e tante volte “no” al vangelo.
“Ma non è il falegname? Ma che cos’ha da mettersi a fare il maestro?
E cosa ha da toccare i malati con quelle mani, che sanno solo riconoscere i nodi del legno?”
E si scandalizzavano di lui. Di lui, andato a vivere come un senza fissa dimora, un vagabondo che non sa neanche mantenersi.
Gesù, rabbi senza titoli e con i calli alle mani, si è messo a raccontare Dio con parabole nuove, che sanno di casa e di terra, dove un grano di senape diventa rivelazione.
Ma che cosa li scandalizza? L’umiltà di Dio. Non può essere questo il nostro Dio. Dov’è la gloria e lo splendore dell’Altissimo che tuonava sul Sinai?
Questo Dio che viene a tavola con noi. Anzi di più, siede in mezzo a malati e peccatori, pubblicani e indemoniate. Lo scandalo della misericordia. E Gesù lo sa: un profeta non è disprezzato che in casa sua.
Non disprezziamo mai quelli di casa!
C’è il cromosoma di Dio, in tutte le nostre case. Ascoltiamoci!
Ascoltare non è sentire, che è un fatto sensoriale, ascoltare è un fatto di cuore.
Si ascolta come bambini o come innamorati. E noi troviamo mille scuse, anziché aprirci all’ascolto.
E Dio invece si stupisce: con Ezechiele, con i paesani, con me.
Siamo circondati da profeti, magari piccoli. E come gli abitanti di Nazaret, sprechiamo i nostri profeti quotidiani, senza ascoltare l’inedito di Dio. Non mancano i profeti, manca l’ascolto!
Siamo tutti sillabe di Dio.
Ma chi ascoltare? Da chi imparare?
C’è un criterio: ascoltiamo chi ci aiuta a crescere in sapienza e grazia,
cioè nella capacità di stupore infinito.
E non quelli che ci mettono lacci alla vita, ma quelli che ci daranno ulteriori ali e la visione di nuovi cieli e una terra nuova.
I buoni maestri ci sono!
La risposta di Gesù al rifiuto dei suoi paesani è bellissima: né rancore, né condanna, tanto meno si deprime per un insuccesso, ma apre una meraviglia che rivela il cuore di luce di Dio: “Solo impose le mani a pochi malati e li guarì”.
È rifiutato ma si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’innamorato respinto continua ad amare, anche senza contraccambio.
Di noi Dio non è stanco: è solo qualche volta meravigliato.

il commento al vangelo della domenica

NELLA NATURA DELLA NATURA



il commento di E. Ronchi al vangelo della undicesima domenica del tempo ordinario

Mc 4,26-34



Quante volte non troviamo le parole adatte per dire Dio!
E Gesù ci risponde con le parabole.
Lo fa con parole laiche, di casa, di orto, di lago, di strada, per raccontarci storie di vita.

Il vangelo di Marco riassume il suo insegnamento con immagini di contadini che si affaticano nell’arte di far nascere, fiorire, fruttificare.
Il contadino nel vangelo è l’anello mancante tra l’uomo e Dio, dove le parabole non sono solo semplici pretesti per insegnare teologia e morale.
Un albero, le foglioline del fico, il granello di senape diventano una continua rivelazione del divino (Laudato si’), una sillaba del suo messaggio.

Le cose del mondo non sono sante perché ricevono l’acqua benedetta, ma sono degne di riceverla perché già benedette, santificate, e noi camminiamo in mezzo a loro come dentro un santuario.

Ezechiele aveva parlato della tenerezza di un Dio giardiniere che pianta un cedro del Libano. Gesù va oltre: parla di un semino di senape con una novità tutta sua: sceglie una pianta mai nominata nel Primo Testamento, nonostante fosse di uso comune.
Gesù sceglie l’economia della piccolezza: mette la senape al posto del cedro del Libano; l’orto al posto del monte;
parlerà di Dio con l’immagine di una chioccia con i suoi pulcini: è il linguaggio teologico portato al registro più umile, a sovvertire le gerarchie.

Gli ascoltatori di Gesù saranno rimasti sconvolti all’idea che il Regno di Dio ha inizi così piccoli, ma Gesù si concentra sulla crescita dal minuscolo al grande, dai più piccoli germogli, alla maturazione in pienezza.
Le sue parole contengono anche un appello alla meraviglia: il Regno diventa un mistero davanti al quale stupirsi.

Prendere sul serio l’economia della piccolezza ci fa guardare il mondo in un altro modo. Ci fa cercare i re di domani tra gli scartati di oggi, ci fa prendere sul serio i giovani e i bambini, e trovare meriti là dove l’economia della grandezza vede solo demeriti.

Il vangelo della terra di Gesù sovverte le norme, perché le leggi che reggono il venire del Regno di Dio e quelle che alimentano la vita naturale sono in fondo le stesse.
Spirito e realtà si abbracciano.

​Il terreno produce da sé, per energia e armonia proprie: è nella natura della natura essere dono e crescita. È nella natura di Dio essere eccedenza gratuita. E anche in quella dell’uomo.
​Dio agisce in modo positivo, fiducioso, solare; e non per sottrazione, ma sempre per addizione, per aggiunta e incremento, con incrollabile fiducia nei germogli.

Dalle sue parabole sboccia una visione profetica del mondo: la nostra storia è tutto un seminare, germinare, spuntare, accestire, maturare: tutto è fiducia incamminata.

il commento al vangelo della domenica

MOLTA FOLLA, MOLTA SOLITUDINE
il commento di E. Ronchi al vangelo della decima domenica del tempo ordinario
Marco 3,20-35
Da sud, arriva per il giovane rabbi una commissione d’inchiesta, con i primi teologi dell’istituzione religiosa pronti ad accusarlo.
Dal nord scendono invece i suoi, per riportarselo a casa.
Sembra una manovra a tenaglia contro quel maestro fuori legge.
Non s’è mai visto in Israele un rabbino che cammina sempre, sempre in giro, con la strada come casa e aula scolastica, seguito da una carovana colorata di uomini e donne.
I dottori della legge arrivano a Cafarnao da Sud e da Ovest, per metterlo in riga, lui che ha fatto di dodici ragazzi il suo esercito, di una parola che guarisce, la sua arma.
E sentenziano che Gesù è figlio del diavolo, marchiato di scomunica.
Eppure la pedagogia del maestro incanta sempre: invece di offendersi, come avrei fatto io, dice Marco “ ma egli li chiamò”, chiama vicino quelli che l’hanno giudicato da lontano, e parla con loro. Gesù ha dei nemici, ma non è nemico di nessuno. Lui è l’amico della vita.
Sua madre e i suoi fratelli, da fuori mandarono a chiamarlo.
Il vangelo di Marco, concreto e asciutto, ci rimette con i piedi per terra, dopo le ultime grandi feste che ci hanno fatto volare alto.
Si riparte dalla casa, dal basso, dai problemi: il Vangelo non nasconde che durante il suo ministero pubblico le relazioni di Gesù con la madre e la famiglia siano segnate da contrasti e distanza.
E alla loro chiamata Gesù risponde, ma solo a quelli seduti attorno a lui: Chi sono i miei fratelli e le mie sorelle? Quelli la fuori? Che si vergognano di me? Del matto di casa?
Particolare drammatico, sembra una canzonatura: c’è tua madre!
E io credo che qui Marco riferisca uno dei momenti più dolorosi della vita di Maria, che si sente dire dal figlio: chi è mia madre?
Un disconoscimento. L’unica volta che Maria appare nel vangelo di Marco è qui (e non ne riporta il nome se non in una menzione indiretta nelle parole dei nazareni: “non è costui il figlio di Maria?”), ed è l’immagine di una madre e di un figlio distanti, ognuno immerso nel proprio dolore.
Anche Maria, come noi, ha dovuto cercare e faticare, affrontare dubbi e parole dure.
Chi fa la volontà del Padre, questi è per me madre, sorella, fratello.
La volontà del Padre è semplice: vuole che sorga un mondo fatto di coraggio, libertà e amore, di fratelli tutti.
Assediato, Gesù non si arrende, si oppone a ciò che è mediocre! Non si ferma, non torna indietro.
Lo immagino: molta folla e molta solitudine.
Ma dove passa lui, fiorisce un sogno di maternità, sorellanza e fraternità nel quale ci invita a entrare.
Un sogno che forse abbiamo spezzato mille volte, ma di cui non ci è concesso stancarci.

il commento al vangelo della domenica

PURO SILENZIO

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica del Corpus Domini

 

Mc 14,12-16.22-26

​Oggi, Corpus Domini, non è la festa dei tabernacoli aperti o degli ostensori dorati da venerare.
Che cosa celebriamo?
Cristo che si dona? Neppure questo è sufficiente. La festa di oggi è ancora un passo avanti.
Io che faccio la comunione?
Non basta.
E’ Lui che viene a fare comunione con noi. E’ Lui in cammino.
Lui che percorre i cieli, Lui felice di vedermi, Lui che non chiede agli apostoli e a me di venerare quel Pane, ma dice molto di più: ‘io voglio stare nelle tue mani come dono, e nella tua bocca come pane, sangue, cellula, pensiero di te.
Tua vita’. Vuole perdersi dentro noi come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo.

La prima parola è: prendete. Gesù parla sempre con verbi poveri, semplici, diretti: prendete, ascoltate, venite, andate, partite; “corpo e sangue”. Ignote quelle mezze parole ambigue che permettono ai potenti o ai furbi di consolidare il loro predominio.
Gesù è così radicalmente uomo, anche nel linguaggio, da raggiungere Dio e da comunicarlo attraverso le radici, attraverso gesti comuni a tutti.

Prendete. Qui è il miracolo, il batticuore, lo scopo: per essere trasformati. Quello che sconvolge, è ciò che accade nel discepolo più ancora di ciò che accade nel pane.
Allora mangiare e bere Cristo è molto più che fare la comunione, è “farci comunione”. Che Leone Magno sintetizza così: prendere il corpo e il sangue di Cristo tende a trasformarci in ciò che riceviamo.
Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola.

A che serve un Dio come pane chiuso nel tabernacolo, da esporre di tanto in tanto alla venerazione e all’incenso?
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue “ha” la vita eterna. Adesso! Non “avrà”, come una specie di futuro tfr.
La vita eterna è già qui, libera e autentica, e fa cose che meritano di non morire, con Gesù che dice: prendete il mio corpo, tutta la mia umanità, il mio modo di piangere e ridere, di sedermi alla tavola di Zaccheo, di Levi, e a casa tua.

Ma noi di cosa nutriamo anima e pensieri? Di generosità, bellezza, profondità?
O ci saziamo di intolleranze, miopie dello spirito, paure di tutto?
Se accogliamo pensieri degradati, ci faranno come loro; se accogliamo pensieri di vangelo, ci faranno creature di bellezza.

Alla Messa ecco per noi un piccolo pane bianco che non ha sapore, che è puro e profondissimo silenzio.
Dono lieve come un’ala.
Ma accade qualcosa che i padri orientali chiamano deificazione (theosis), parola che fa tremare. Un pezzo di Dio in me perché io diventi un pezzetto di Dio nel mondo.

Finita la religione dei riti e degli obblighi, ecco la religione del corpo a corpo con Dio, la religione del tu per tu con Lui, che prima che io dica: “ho fame”, mi dice: “Prendete e mangiate”.

Mi ha cercato, mi ha atteso e si dona, e io posso solo accoglierlo e ringraziare.

il commento al vangelo della domenica

IL FACCIA A FACCIA DELLA CURA
il commento di E. Ronchi al vangelo della sesta domenica di pasqua
Gv 15,9-17
Leggi questo brano e ti pare la culla dove è teneramente custodita l’essenza del cristianesimo.
Tutto inizia da un fatto: tu sei amato (come il Padre ha amato, così io ho amato), da cui consegue un altro fatto: ogni essere vivente respira non soltanto aria, ma amore e comunità (rimanete nel mio amore).
Se questo respiro cessa, non vive, e tutto converge verso una meta dolce e amica: questo vi ho detto perché la gioia vostra sia piena, perché giunga al colmo.
L’amore è un nome che brucia su tutte le labbra, e la gioia è un attimo immenso. Ma Gesù indica le condizioni per dimorarvi: osservate i miei comandamenti.
Roba grossa. Questione che riempie o svuota la vita.
L’amore è da prendere sul serio, ne va della nostra gioia.
Anzi, ognuno di noi vi sta giocando, consapevole o no, la partita della propria eternità. Io però faccio fatica a seguirlo: l’amore è sempre così poco, così a rischio, così fragile. Faccio fatica perfino a capire in cosa consista l’amore vero, dove si mescola tutto: passione, tenerezza, lacrime, paure, sorrisi, sogni e impegno concreto.
L’amore è sempre meravigliosamente complicato e sempre imperfetto, cioè incompiuto.
Sempre artigianale, e come ogni lavoro artigianale chiede mani, tempo, cura, regole: se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore.
Ma come, Signore, chiudi dentro i comandamenti l’unica cosa che non si può comandare, l’amore?
Mi scoraggi: il comandamento è regola, costrizione, sanzione. Un guinzaglio che mi strattona. L’amore invece è libertà, creatività. E’ divina follia!
Gesù non chiede semplicemente di amare, no! Non gli basta.
Ci sono anche amori violenti e disperati, amori tossici, e lui vuole di più: amatevi gli uni gli altri in reciprocità, in un faccia a faccia che si prende cura dell’altro. Non si ama l’umanità in generale, si amano le persone singolarmente, ad una ad una.
E poi scrive la parola che fa la differenza: amatevi come io vi ho amato.
Lo specifico del cristiano non è amare, questo lo fanno in tanti e in tanti modi. Ma è amare come Cristo, che cinge un asciugamano e lava i piedi di chi ama, cioè tutti.
Che non manda via nessuno; che se lo ferisco, mi guarda e mi ama. Come lui si è fatto canale dell’amore del Padre, così ognuno si farà canale libero perché l’amore circoli nel corpo del mondo.
Se ti chiudi, in te e attorno a te qualcosa muore, e la prima cosa a morire è la gioia.
Chi ti ama davvero?
Non certo chi ti riempie di coccole. L’amore vero è quello che ti spinge, ti incalza, ti obbliga a diventare tanto, infinitamente tanto, a diventare il meglio di te (Rainer Maria Rilke). Così ai figli non servono cose, ma padri e madri che diano orizzonti e grandi ali, per diventare il meglio di ciò che possono diventare.
Parola di Vangelo: se ami, non sbagli. Se ami, non fallirai la vita.
Se ami, la tua vita è stata un successo, comunque.

il commento al vangelo della domenica

LA PIANTAGIONE PREFERITA

il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica di pasqua:

La bibbia è un libro pieno di olivi, di fichi e di viti. Pieno di uomini di cui Dio si prende cura e dai quali riceve un vino di gioia. Con le parole di oggi Gesù ci comunica Dio, cose da capogiro, attraverso lo specchio delle creature più semplici.

Ci porta a scuola in un vigneto, a lezione dalla sapienza della vite e da un Dio contadino, profumato di sole e di terra.

All’inizio della primavera mio padre mi portava nella vigna dietro casa. Sui tralci potati affiorava, in punta, una goccia di linfa che tremava e luccicava al vento di marzo. E mi diceva: guarda, è la vite che va in amore!

C’è un amore che muove il sole e le altre stelle, che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, e l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.

Dobbiamo salvare la linfa di Dio, il cromosoma divino in noi.

Che Dio sia descritto come creatore non ci sorprende, l’abbiamo sentito. Ma Gesù afferma oggi una cosa mai udita prima: io sono la vite, voi i tralci. Io e voi la stessa cosa! Stesso tronco, stessa vita, unica radice, una sola linfa.

E mentre nei profeti antichi Dio appariva piantatore, coltivatore, vendemmiatore, ma sempre altro rispetto alle viti, oggi ascoltiamo una parola inaudita: Dio e io siamo la stessa vite; lui tronco, io tralcio; lui mare, io onda; lui fuoco, io fiamma. Il creatore si è fatto creatura. Dio è in me, non come padrone, ma come linfa vitale. E’ in me, per meglio prendersi cura di me.

Rimanete in me e io in voi. Non è da conquistare l’unione con Dio, è cosa di cui prendere consapevolezza: siamo già in Dio, ci avvolge con il suo affetto, lo respiri, lo urti! E Dio è in noi, è qui, è dentro, scorre nelle vene della vita. Dio che vivi in me, nonostante tutte le distrazioni e i miei inverni, e tutte le forze che ci trascinano via. Ma via da lui non c’è niente.

Questa comunione precede ogni liturgia, è energia che sale, cromosoma divino che scorre in noi.

Ed ogni tralcio che porta frutto, egli lo pota perché porti più frutto.

Il grande e coraggioso dono della potatura! Potare non è sinonimo di amputare ma di dare vita, ogni contadino lo sa. Togliere il superfluo equivale a fare molto frutto.

Il filo d’oro che cuce il brano e illumina ogni dettaglio è “frutto”. Sei volte viene ribadito ribadisce, perché sia ben chiaro: il vangelo sogna mani di vendemmia e non mani perfette, magari pulite ma vuote, che non si sono volute mischiare con la materia incandescente e macchiante della vita.

Per il vangelo la santità non risiede nella perfezione ma nella fecondità. Dov’è mai questa perfezione nei discepoli di Gesù, pronti alla fuga e alla bugia, duri a capire…

La morale evangelica ha la colonna sonora delle canzoni della vendemmia, di una festa sull’aia; sogna fecondità e non osservanze. Più generosità, più pace, più coraggio.

E mi piace tanto il Dio di Gesù, che si affatica attorno a me perché io porti frutto, che non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.

il commento al vangelo della domenica

DISARMATO AMORE
il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di pasqua
Gv 10,11-18
Io sono il pastore buono: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro lupi e predatori.
In che cosa consiste la sua bontà? Nell’essere pastore mite, gentile, paziente, delicato? No, per ben 5 volte il vangelo oggi lo spiega con il gesto di dare, offrire, donare, porre in gioco la propria vita.
Il lavoro di Dio è offrire vita, alimentare la vita del gregge. Un Dio pastore che non chiede, ma offre; che non prende niente e dona tutto; non toglie vita, offre la sua anche a coloro che gliela tolgono. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre. Non un comando ma “il” comando, l’unico, l’essenziale.
Io sono il pastore bello, dice il testo originario. E noi capiamo che ‘bellezza’ è un nome di Dio; non estetica ma forza di seduzione; forza che crea ogni comunione.
«Il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore».
Al pecoraio salariato Gesù oppone parole che amo e che sorreggono la mia fede: “a me, pastore vero, le pecore importano, tutte, l’una e le novantanove”.
A ciascuno ripete: tu mi importi. Verbo bellissimo: importare, essere importanti per Dio!
Signore, non ti importa che moriamo? Gridano li apostoli spaventati dalla tempesta. E il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Non temere!
Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo ma tu vali di più. Mi importano i gigli del campo ma tu conti più di tutti i gigli del mondo.
Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che ti oscura il cuore.
Per te do la mia vita. E non so domandare migliore avventura.
A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l’assenza di Dio, o turbati per il suo silenzio.
Il comandamento che impariamo dal pastore bello è che la vita è dono. “Dare vita” significa contagiare d’amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.
Se non dai vita attorno a te, entri nella malattia. Se non dai amore, un’ombra invecchia il cuore.
Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. E di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino, mi metto nelle sue mani e gli affido tutti gli agnellini del mondo.
Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi, pastori tutti di un pur minimo gregge, siamo chiamati a diventare racconto della tenerezza di Dio, della sua combattiva tenerezza.

il commento al vangelo della domenica

LE PORTE CHIUSE DI GESU’
il commento di E. Ronchi al angelo della seconda domenica di pasqua
La sera di quel giorno mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Tommaso, uno dei Dodici, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo il segno dei chiodi io non credo». (…)
Gv 20,19-31
Aria di paura in quella casa.
Paura dei Giudei ma anche e soprattutto paura di se stessi, della propria viltà nella notte del tradimento.
Venne Gesù a porte chiuse.
La sua prima venuta sembra senza effetto, e otto giorni dopo tutto è come prima.
Eppure lui è di nuovo lì, ad aprire le porte della paura nonostante i cuori inaffidabili: venne Gesù e stette in mezzo a loro.
Secoli dopo è ancora qui, irremovibile davanti alle mie porte chiuse.
La fede non è nata dal ricordo del Risorto. Il ricordo non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola. La Chiesa è nata da una presenza, e non da una rievocazione: “e stette in mezzo a loro”.
Il Vangelo parla di ferite che Gesù non nasconde, che a Tommaso quasi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo! Il costato, puoi entrarci con la mano!
Piaghe che non ci saremmo aspettati, convinti che la risurrezione avrebbe rimarginato, cancellato per sempre il dolore del venerdì santo.
E invece no.
Perché la Pasqua non è il superamento festoso della Passione, ne è la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza.
Le piaghe restano, per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è risorto.
L’amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazareno con la scrittura delle ferite, indelebili, come l’amore. Dalle piaghe non sgorga più sangue ma luce, le ferite non sfigurano ma trasfigurano.
Allora capiamo che proprio attraverso i colpi duri della vita diventiamo capaci di aiutare altri attraversando le stesse tempeste, nella condivisione.
La nostra debolezza, come quella di Pietro, dei discepoli, di Maddalena, non è un ostacolo, ma una risorsa per meglio seguire il Signore. La debolezza non è più un limite, perché nonostante i nostri dubbi si trasfigura in un’opportunità da cogliere.
Per tre volte il Vangelo parla di pace donata da Gesù.
Ed è a questa esperienza di pace che Tommaso alla fine si arrende, e neppure sappiamo se abbia toccato o meno il corpo del Risorto.
Si arrende non al toccare, non ai suoi sensi, ma alla pace, passando dall’incredulità all’estasi, si arrende a questa parola che da otto giorni lo accompagna e che ora dilaga: Pace a voi!
La pace è una voce silenziosa, non grida, non si impone, si propone, come il Risorto; con piccoli segni umili, un brivido nell’anima, una gioia che cresce, sogni senza più lacrime. E ad essa ci consegniamo anche se appare come poca cosa, perché «se in noi non c’è pace non daremo pace, se in noi non è ordine non creeremo ordine» (G.Vannucci).
Non un augurio, ma una certezza: la pace è qui, è in voi, è iniziata.
Cerca aiuto per scendere su ogni cuore stanco, sulle nostre guerre, su ogni storia di dubbi e sconfitte.
Scende come benedizione gioiosa, immeritata e felice che mi spinge a osare di più; così inizia la mia sequela, la mia porta che si spalanca al rischio di essere felice.

il commento al vangelo della domenica

l’odore della Vita

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica di pasqua

 

Maria di Màgdala si recò al sepolcro quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (…). Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo giunse per primo al sepolcro. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario. Allora entrò anche l’altro discepolo, e vide e credette.

Giovanni 20,1-9

Se noi tutti formiamo il corpo di Cristo, allora come mi è contemporanea la croce, così lo è anche la Risurrezione. 

Chi vive in lui, è lui com-preso, cioè preso-dentro il suo risorgere.

Pasqua è il tema più arduo e bello di tutta la Bibbia. Arduo perché va contro ogni evidenza, bello perché rotola via i massi dall’imboccatura del cuore.

Pasqua non porta solo la salvezza che ci estrae dalle acque limacciose, ma la redenzione, che è molto di più, che trasforma la debolezza in forza, la maledizione in benedizione, il rinnegamento di Pietro in atto di fede, il mio difetto in energia nuova, la mia fuga in corsa intrepida.

Maria di Magdala esce di casa avvolta nel buio, del cielo e del cuore. Non ha niente tra le mani, non aromi come le altre donne, ma soltanto il suo amore impastato al dolore, che si ribella all’assenza di Gesù.

E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.

Nel fresco dell’alba il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente, affacciato sulla primavera. Un sepolcro aperto come il guscio di un seme, che prima di posarsi ha imparato a volare.

Maria corse da Simone e dall’altro discepolo, che Gesù amava… correvano insieme Pietro e Giovanni.

Perché tutti corrono in quel mattino di Pasqua?

Perché tutto ciò che riguarda Gesù non sopporta mezze misure, e si merita tutta la fretta dell’amore, che è sempre in ritardo sulla fame di abbracci. Corrono perché hanno ansia di luce che sia vita.

L’altro discepolo, quello che Gesù amava, corse più veloce. Giovanni arriva prima di Pietro a capire il senso della risurrezione, e a crederci. Il discepolo amato ha «intelletto d’amore» (Dante), l’intelligenza del cuore. Chi ama capisce di più, capisce prima, capisce più a fondo. Infatti i sapienti camminano, i giusti corrono ma gli innamorati volano.

Vide i teli posati là.

Giovanni entrò, vide e credette. Anche di Pietro è detto che vide, ma non che credette. Giovanni crede perché i segni sono eloquenti solo per il cuore che sa leggerli, e il suo brucia la distanza tra Gerusalemme e il giardino, tra i segni e il loro significato, tra i teli posati là e il corpo assente.

È pronto alla fede perché si sa amato: «ti vedrò nell’amore avuto e dato./ Ma se altro è il tuo cielo/ non ti vedrò Signore» (C. Cremonesi).

Il primo segno di Pasqua è il corpo assente. Nella storia umana manca un corpo, per pareggiare il conto degli uccisi. Ma Gesù non è semplicemente il Risorto, non è l’attore di un evento che si è consumato una volta per tutte nel giardino di fronte Gerusalemme. Pasqua non è conclusa. Se noi tutti formiamo il corpo di Cristo, allora come mi è contemporanea la croce, così lo è anche la Risurrezione. Chi vive in lui, è lui com-preso, cioè preso-dentro il suo risorgere.

Pasqua solleva allora questo nostro pianeta di tombe verso un mondo dove il male non vince, dove il carnefice non ha ragione della sua vittima in eterno, dove le piaghe della vita possono distillare luce.

Pasqua: “Il buon profumo di Cristo è odore di vita per la vita” (2 Cor 2,16).

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