il commento al vangelo della domenica

«sedeva lungo la strada a mendicare»

il commento di Ester Abbattista al vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario

L’episodio evangelico di questa domenica si colloca a Gerico, dove probabilmente Gesù si trova di passaggio in quella che sarà la sua salita verso Gerusalemme

 Mc 10,46-52

L’episodio evangelico di questa domenica si colloca a Gerico, dove probabilmente Gesù si trova di passaggio in quella che sarà la sua salita verso Gerusalemme. E di salita propriamente si tratta, dato che Gerico si trova a circa 200 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme è a circa 800 metri sopra tale livello.

Inoltre la Gerico di Gesù è quella del tempo erodiano, contrassegnata dalla residenza estiva di Erode e da altri palazzi e ben distante dall’antica Gerico del tempo dei Giudici. I resti di tale cittadina si possono vedere ancora oggi proprio all’uscita del waddi Kelt, il letto del torrente per la maggior parte dell’anno secco, che segna il percorso che nel deserto di Giuda collegava la città a Gerusalemme. Un percorso, quindi, in pendenza (quasi mille metri di dislivello) e tortuoso, spesso e volentieri luogo privilegiato dai briganti per imboscate e rapine.

Il testo di Marco ci dice che Gesù era in partenza da Gerico, quindi sulla via principale, «insieme ai suoi discepoli e a molta folla». Probabilmente incuriosito dal calpestio di tante persone un cieco di nome Bartimeo, che letteralmente potremmo tradurre con «figlio di Timeo» o, secondo l’ipotesi di alcuni, ancora più letteralmente con «figlio di una persona onorata», chiede che cosa sta avvenendo.

Il primo dettaglio significativo è proprio il contrasto tra il suo nome e la sua condizione, dato che l’essere cieco lo ha reso un mendicante, qualcuno che è posto ai margini della società e che ha bisogno dell’aiuto e della carità degli altri per sopravvivere. Il suo posto è sedere sul ciglio della strada e mendicare. Quando, però, gli viene detto che il trambusto che sente è dovuto al fatto che sta passando di lì «Gesù Nazareno», immediatamente incomincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».

Bargil Pixner, archeologo e biblista benedettino che ha vissuto tantissimi anni sia a Gerusalemme che in Galilea, in uno dei suoi testi, Con Gesù attraverso la Galilea: secondo il quinto Vangelo (1992), fa notare come la correlazione tra «Gesù Nazareno» e «Figlio di Davide» non sia affatto scontata. In altre parole, come mai Bartimeo chiama Gesù Nazareno «figlio di Davide»? Secondo Pixner si ha qui un indizio di una possibile correlazione tra l’essere di Nazaret e l’appartenere alla discendenza davidica, dato che, secondo il benedettino, era molto probabile che il villaggio di Nazaret fosse abitato da un clan davidico soprannominato «nezer» (germoglio), termine che compare in Is 11,1 per indicare la discendenza di Iesse, padre di Davide.

Tale particolare non solo può risultare interessante dal punto storico-geografico, ma apre a un’ulteriore comprensione del racconto marciano. Chiamandolo «figlio di Davide» e chiedendogli salvezza, Bartimeo riconosce in Gesù il messia davidico atteso. Non solo: nella sua cecità egli è capace di vedere oltre, di vedere ciò che gli altri – che continuano a zittirlo e rimproverarlo – non vedono, dato che nella risposta che gli era stata data il personaggio di passaggio era semplicemente «Gesù Nazareno», mentre per lui quel nome è la «visione» di qualcosa che va ben oltre.

Il grido e la richiesta di salvezza vengono uditi da Gesù che, fermatosi e fattolo chiamare a sé, gli chiede che cosa vuole che egli faccia. La risposta del cieco è: «Rabbunì, che io veda di nuovo!».

Di fronte a questa richiesta si può notare anche un altro particolare: l’ultima volta che Gesù si è imbattuto in un cieco, nel Vangelo di Marco (Mc 8,22-26), sulla riva del lago di Galilea a Betsaida, la guarigione operata è stata – passatemi il termine – «faticosa»: per due volte ha dovuto porre le mani sugli occhi di quel non vedente per ottenere il risultato desiderato. Qui, invece, non solo non compie alcun gesto, ma semplicemente constata che Bartimeo può tornare a vederci di nuovo, grazie alla sua fede: «Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada».

Come abbiamo visto, la capacità di vedere di Bartimeo era al di là di quella degli altri «vedenti», era una visione dal di dentro e, allo stesso tempo, dal «basso». Forse è proprio la sua condizione di emarginato, seduto sul ciglio della strada, che gli ha permesso di «vedere» quanto stava accadendo in un’altra prospettiva, una prospettiva capace di riconoscere la «salvezza».

E ora, riacquistata la vista anche «esteriore», non può che fare l’unica cosa che desidera davvero: seguire colui che salva, Gesù Nazareno, figlio di Davide.

Forse per capire davvero cosa sia importante fare, quale sia davvero la strada da percorrere per essere fedeli alla sequela del Signore, bisognerebbe cambiare prospettiva e guardare la realtà e i problemi che ci stanno davanti «dal ciglio della strada», seduti per terra come dei mendicanti. Lo sguardo «degli esclusi e delle escluse», a volte, è più penetrante e illuminante di coloro che sono principalmente (o forse unicamente) occupati e preoccupati a mantenere e/o salvaguardare solo la propria «inclusione».




il commento al vangelo della domenica

ANCHE NEL POCO, ANCHE IMPERFETTO
Mc 10,35-45
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario
Ma chi sono questi uomini che si sono alzati e si sono messi in cammino dietro a Gesù? Non sono eroi, sono uomini complicati, alcuni perfino imbarazzanti, proprio come me.
Due di loro sono così irruenti e rumorosi che Gesù ha confezionato per loro un soprannome forte e bello: “figli del tuono”. Un complimento. Gesù era grande nel lodare!
I due fratelli si avvicinano: Cosa volete che io faccia per voi? Lo chiederà anche al cieco di Gerico, lui non cerca potere, vuole la luce: che io veda! Siamo tutti un po’ come Bartimeo, mendicanti di luce appesi a qualcuno che ci guardi e ci paghi una piccola moneta.
I due fratelli invece non chiedono luce, ma potere: facci sedere una a destra e uno a sinistra del tuo trono.
In questa richiesta riconosco la più diffusa di tutte le nostre umane preghiere, quando invochiamo di essere esauditi in ciò che paure, fragilità o passioni generano nell’intimo: volontà di prendere, salire, comandare. Tre verbi che fanno male. Perciò tre verbi maledetti.
Ci sono anche domande benedette, che nascono da fame di luce e di gioia, da amore che manca come il pane, da verbi benedetti, come dare, scendere, servire.
Ma neppure questo basta, perché non si prega per ottenere, ma per essere trasformati. Come suggerisce David Maria Turoldo: Io non sono ancora e mai il Cristo, ma sono questa infinita possibilità.
Non si prega per aggrapparci, ma per stupirci.
Dopo tre anni di strade, di malati guariti, di pane che traboccava dalle mani e dalle ceste, dopo tre annunci di morte in croce, è come se i discepoli non avessero ancora capito niente.
E Gesù, l’incredibile Gesù, invece di scoraggiarsi, riprende a spiegare ancora una volta il suo sogno di cieli nuovi e terra nuova.
Va bene, a patto che sappiate fare quello che io farò:
– potete bere il mio stesso calice?
– Come no, certo che possiamo!
E infatti, sotto la croce non c’era né l’uno né l’altro dei due fratelli.
E Gesù li chiama a sé di nuovo, consegna loro la chiave di volta del mondo in pace, in una espressione bellissima, ribadita con forza per tre volte: tra voi non sia così. Non così tra voi!
Nel mondo vincono i più forti, i più furbi, i più ricchi; tra voi non è così;
nel mondo hanno ragione i potenti, gli intelligenti, i più numerosi, tra voi non è così. Voi siete nel mondo ma non del mondo, non omologatevi al pensiero dominante.
“I grandi del mondo si costruiscono imperi con il dominio e la forza. Non così in Dio”. Lui non ha troni, si cinge un asciugamano, s’inginocchia davanti a ciascuno, il suo impero è quel poco di spazio che basta a lavare i tuoi piedi.
Da lì, dal basso cerca gli occhi d’ogni figlio, cerca le mie ferite per fasciarle con bende di luce.
Essere sopra l’altro è la massima distanza possibile dall’altro.
Dio invece si pone alla massima vicinanza: ai tuoi piedi.



il commento al vangelo della domenica

uguale a fiorire

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventottesima domenica del tempo ordinario

Mc 10, 17-30

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. (…)

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato.

Il vangelo si apre con una corsa verso Gesù: un tale gli corse incontro. Come chi ha fretta, chi è in ritardo e ha fame. E non sa che sta per affrontare un grande rischio: interroga Gesù per sapere la verità su se stesso, e non sarà capace di sopportarla.

Grande rischio, ma anche grande fortuna, se qualcuno scoperchia il pozzo della nostra vita e ci mostra chi siamo davvero.

Maestro buono, è vita o no, la mia? Domanda grandiosa. Tutta la bibbia ruota attorno a questo: sapere cosa è vita e cosa no.

È un appassionato, questo giovane, è uno convinto, ci crede. E incanta Gesù, quando risponde: ‘tutto questo che dici l’ho sempre osservato. Ma non mi ha riempito la vita’. Vive quella beatitudine che conosciamo tutti, dolce e amara, ma generativa: “Beati gli insoddisfatti, gli inquieti, perché diventeranno cercatori di tesori”.

Ora il giovane fa un’esperienza da brivido, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro: Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. Per Gesù guardare e amare sono la stessa cosa. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso subisce l’incantamento del Signore, non resiste a quegli occhi.

Invece la conclusione del racconto va nella direzione che non ti aspetti: “Una cosa ti manca, va’, vendi, dona ai poveri…”

Come i veri maestri Gesù risponde alzando l’asticella, creando visioni nuove, donando ali perché quel ragazzo possa volare più alto e più lontano. Vuoi vivere davvero? Sappi che la tua vita non è garantita dal tuo patrimonio economico, ma dal tuo patrimonio relazionale.

E poi vieni con me: mettiamo in tavola la vita. E lo facciamo per amore dei poveri, non della povertà. L’ideale del maestro di Nazaret non è un pauperismo che basta a se stesso, ma riempire di volti e di nomi il cuore di ognuno. Prima le persone, dopo le cose.

Nel vangelo offre due sole regole circa i beni materiali, semplicissime e rivoluzionarie. Primo, non accumulare. Secondo, quello che hai è per condividere. Quanto basta a capovolgere la direzione della vita.

Le bilance della felicità pesano sui loro piatti la valuta più pregiata dell’esistenza: dare e ricevere segni d’amore.

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Infatti il vangelo continua: Pietro allora prese a dirgli: Signore, ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio?

Avrai in cambio cento volte tanto, avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato. Il vangelo non è rinuncia, se non della zavorra che impedisce il volo, la bella notizia è una addizione di vita.

Chi prova a farlo, solo per frammenti certo, può dire:

“con gli occhi nel sole/

a ogni alba io so/

che rinunciare per te/

è uguale a fiorire” (M. Marcolini).




il commento al vangelo della domenica

“in principio non era così”

 

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario

Mc 10,2-16

In quel tempo, alcuni farisei domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; (…) Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».(…) Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo. Allora uno più uno uguale a uno.

Alcuni farisei vanno da Gesù per metterlo alla prova. Quello che gli chiedono è risaputo: “E’ lecito a un marito ripudiare la moglie?”. Chiaro che sì, la tradizione, avallata dalla Parola di Dio, lo permetteva.

Gesù prende subito le distanze e dice: “cosa vi ha ordinato Mosè?” Da buon ebreo, avrebbe invece dovuto dire “che cosa ci ha comandato Mosè?”.

‘Mosè ha permesso l’atto di ripudio’. Ebbene, Gesù prende le distanze anche da Mosè e sottolinea: “per la durezza del vostro cuore egli scrisse questa norma.

Afferma così qualcosa di enorme: La legge che noi diciamo di Dio non sempre riflette la sua volontà. E per questo non ha valore assoluto. Gesù non si ferma a redigere altre norme, non gli interessa regolamentare la vita, ma rinnovarla; custodire il fuoco, non venerare la cenere.

Come bambini che non comprendono, ci prende per mano e ci accompagna nei territori di Dio e del suo sogno iniziale: all’inizio Dio li fece maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e i due diventeranno una carne sola.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Allora uno più uno uguale a uno.

L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome biblico del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo.

Allora il problema non è ripudio o non ripudio, separarsi o meno, ma è alla radice: si tratta della manutenzione, tenace, del sogno, perché l’amore è fragile e affamato di cure.

Se non ti impegni a fondo per le tue relazioni, se non dai loro tempo, se non le custodisci con fedeltà, con timore e tremore, le hai già ripudiate nel tuo cuore.

‘Portavano dei bambini a Gesù perché li toccasse. Ma i discepoli li rimproverarono. Al vedere questo, Gesù si indignò’. L’indignazione è un sentimento proprio dei profeti davanti all’ingiustizia o all’idolatria; è la reazione di Gesù per la profanazione del tempio (Gv 2,14).

Qui reagisce allo stesso modo, perché i bambini sono cosa sacra: a chi è come loro appartiene il regno di Dio.

Chi è come loro? I bambini non sono più buoni degli adulti, ma sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, sanno giocare tutto il giorno come i delfini, incuriositi da ciò che porterà loro, facili al sorriso e all’abbraccio. Il bambino fino ai 12 anni non ha obblighi verso la Legge, è ai margini, non ha riti da osservare, e Gesù lo addita a modello! Prima la persona e poi la legge!

Nessuno ama la vita più appassionatamente di un bambino che si rialza da terra.

Prendendoli fra le braccia li benediceva: perché nei loro occhi il sogno di Dio brilla non contaminato ancora.




il commento al vangelo della domenica

di fuoco o di cenere?

 il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiseiesima domenica del tempo ordinario

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

Mc 9,38-43.45.47-48

 

La vera distinzione non è tra chi va in chiesa e chi no, ma tra chi si ferma presso l’uomo bastonato e versa olio e vino, e chi invece tira dritto.

Maestro, quello là non è dei nostri!

Quel forestiero che fa miracoli ma che non è nel gruppo, che trasmette vita senza mandato ufficiale, dev’essere bloccato.

“Non ti è lecito guarire gente se non sei dei nostri!

Non puoi migliorare il mondo se non sei del nostro partito!”

La tessera prima del bene, la tristezza dell’ideologia prima della realtà.

La risposta di Gesù è molto articolata e molto “alla Mosè” della prima lettura: Lascialo fare! Magari fossero tutti profeti del Regno!

Chiunque fa del bene è dei nostri, chiunque regala un sorso di vita è di Dio. Tutti sono dei nostri e noi siamo di tutti.

Questo ci pone tutti serenamente sullo stesso piano con tanti diversamente credenti o anche non credenti, ma che lottano contro i démoni moderni di inquinamento, violenza, fake news, corruzione, economia che uccide.

Si può essere uomini secondo il cuore di Dio senza essere uomini di Chiesa, perché il Regno la scavalca e va oltre, molto oltre tutte le Chiese.

In un contesto come la provincia italiana, dove quasi tutto è ancora cattolico: segni, simboli, linguaggi, cerimonie, il rischio che corriamo è di essere cattolici senza essere cristiani, cioè di essere senza Gesù.

Cattolici non cristiani siamo noi quando obbediamo alle regoline ma non all’amore, quando esigiamo misericordia e poi non perdoniamo, quando andiamo a messa e non spezziamo il pane con i poveri. Non c’è più il fuoco, c’è solo tiepida cenere che si va spegnendo.

La vera distinzione non è tra chi va in chiesa e chi no, ma tra chi si ferma presso l’uomo bastonato e versa olio e vino, e chi invece tira dritto.

Chiunque avrà dato un bicchiere d’acqua.

Tutto il vangelo in un bicchiere d’acqua. Di fronte all’invasione del male, all’eccedenza del male cronaca, Gesù ci conforta: al male contrapponi il tuo bicchiere d’acqua.

Conclude il Vangelo: Se il tuo occhio, la tua mano, il tuo piede ti sono di scandalo, tagliali… Ma la mano non può scandalizzare, è simbolo dell’uomo che opera. Tu operi per la vita o per la morte? Allora taglia ciò che in te opera per la morte.

Il piede: Tu, uomo, per chi stai camminando?

Se il tuo occhio.. L’occhio porta con sé il cuore. E dove ti porta il cuore? Cavalo, gettalo via! Guarda altrimenti, con occhi nuovi, per non fallire la vita.

La geenna di cui parla Gesù era un burrone a sud del tempio, fatto discarica, dove il fuoco ardeva costante innalzando un fumo maleodorante.

Dice Gesù: non fare immondizia della tua vita; guarda che se dai scandalo a un piccolo, sei come la spazzatura del mondo. Non buttarti via come un rifiuto, come uno scarto. Immagini durissime…

Se il tuo occhio, se la tua mano ti scandalizzano, tagliali… metafore inquietanti per riproporre un sogno, quello di mani che sanno solo donare

e di piedi che vanno incontro,

un mondo dove gli occhi sono più luminosi del giorno,

dove tutti sono dei nostri, tutti amici della vita

e quindi tutti profeti, secondo il cuore di Dio.




il commento al vangelo della domenica

IL TEPORE DI UN ABBRACCIO

 Mc 9, 30-37

il commento di E. Ronchi al vangelo della venticinquesima domenica del tempo ordinario

Il vangelo introduce tre nomi di Gesù totalmente sbagliati e impossibili: ultimo, servo, bambino.
E i dodici non capiscono, proprio come noi.
Gesù sta dicendo loro che tra poco sarà assassinato e quelli parlano d’altro, parlano di carriere: chi è più grande tra noi?
Il rabbi li stravolge con quel limpidissimo pensiero: chi vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti.
Di cosa stavate parlando?
Di chi è il più grande.
Questione infinita, che inseguiamo da millenni. Questa fame di potere, questa furia di comandare è da sempre annuncio di distruzione.
Gesù si colloca a una distanza abissale da tutto questo: se uno vuol essere il primo sia il servo.
Ma non basta: Servo di tutti, senza limiti. E non basta ancora: prese un bambino, lo pose in mezzo e lo abbracciò.

Un bambino!

E’ il modo magistrale di Gesù, che s’inventa qualcosa di inedito come un abbraccio all’ultimo della fila, grande schiaffo in faccia ad ogni potere.

Tutto il vangelo in un abbraccio è rivelazione, è altissima teologia sulla verità di Dio.

In quella casa di Cafarnao c’è una parabola in azione: è Dio che si scioglie in un abbraccio al più piccolo perché nessuno sia perduto, non una briciola di pane, non un agnellino in fondo al gregge, non due spiccioli di un tesoro.

Proporre il bambino come modello del credente è l’impensato.
Cosa ne sa lui? Solo la tenerezza degli abbracci, l’emozione delle corse, il vento sul viso. Non sa niente di filosofia, di teologia, di morale, ma conosce come nessuno il senso della fiducia, da cui imparare.

Chi accoglie un bambino accoglie me! Gesù compie un enorme passo avanti, lo indica come sua immagine. Vertigine del pensiero. Il Re dei re, il Creatore, l’Eterno, l’infinito, l’assoluto, l’immenso, sta in un cucciolo d’uomo.
E questo vuol dire che come ogni bambino anche Dio va protetto, accudito, custodito, aiutato, accolto, perché “chi accoglie un bambino accoglie me, accoglie il Padre”.

Accogliere, verbo che plasma il mondo come Dio lo sogna.
Avremo un futuro buono solo quando l’accoglienza sarà il nome nuovo della civiltà; quando accogliere o respingere i disperati, i piccoli, sarà considerato accogliere o respingere Dio stesso. Se vogliamo un mondo che stia in piedi davvero non c’è altra strada che ripartire dal più bisognoso.
Questa è la fede, che poggia sulla giustizia.
Il bambino conosce la speranza perché sa aprire la bocca in un sorriso quando ancora non ha smesso di asciugarsi le lacrime.

I bambini danno ordini al futuro.
Loro sì, sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo.
Proviamoci anche noi: quando ci sentiamo senza appoggio e speranza, ricordiamo quel bambino abbracciato, e anche noi come lui sentiremo lo stupore tiepido delle braccia di Dio.




il commento al vangelo della domenica

“voi chi dite che io sia?”

Mc 8,27-35

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiquattresima domenica del tempo ordinario


In quel tempo, Gesù interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». (…) 

 

Il miracolo è che la debolezza, la fatica, l’ambiguità, le notti senza frutto, i rinnegamenti, non sono un’obiezione, ma un’occasione per essere fatti nuovi e per ricominciare, attraverso inizi sempre nuovi: Tu seguimi!

Ambiguità, incoerenza.

Gesù preferisce le storie rotte a quelle perfette,

le vite incamminate a quelle stanziali.

Quando sono vero sono debole. Quando siamo veri siamo tutti feriti. Ma quando sono debole è allora che sono forte,

perché entra in me il vasaio che mi rimette sul tornio e

fa dei miei cocci un canale per altre seti.

E per la strada interrogava.

Gesù non è la risposta alle nostre domande, è lui la domanda; ogni sua parola porta scritto: più in là! La sua dimora è sempre oltre.

Ma la gente, chi dice che io sia? Gesù non vuole un sondaggio per misurare la sua popolarità, vuole capire cosa del suo messaggio ha raggiunto il cuore.

Infatti la risposta della gente rivela un’idea sbagliata di lui: per qualcuno è un moralizzatore di costumi, tipo Giovanni il Battista; per altri è forza che abbatte i falsi profeti, come Elia; altri ancora colgono solo l’eco di vecchi messaggi già ascoltati, lui è “uno dei profeti”.

Ma Gesù non è niente fra le cose di ieri. È novità in cammino.

E il domandare si fa più diretto: ma voi chi dite che io sia?

Innanzitutto mette in discussione se stesso. Sottoporsi alla valutazione altrui costa molta umiltà e libertà, e con questa domanda Gesù si comporta da innamorato: Quanto conto io per te?

Non ha bisogno di sapere se lo ritengono più bravo dei profeti di prima, lui vuole sapere se Pietro è innamorato, se l’ha accolto nel cuore, se gli da tempo e passione.

Tu sei il Cristo, Pietro è irruente, sei il senso di Israele e della mia vita.

A questo punto Gesù cominciò a insegnare che il Cristo doveva soffrire e venire ucciso, per poi risorgere il terzo giorno.

Ma come fa Pietro ad accettare un messia perdente? “Tu sei il messia, l’atteso, che senso ha un messia sconfitto?”

Allora Gesù lo prende in disparte. E qui la tensione si alza, fino a che il dialogo culmina in parole durissime: va dietro di me, satana. Il tuo posto è seguirmi.

Pietro è la voce di ogni ambiguità umana, e la soluzione è quella indicatagli: va dietro di me.

Gesù ha accarezzato le mie ferite e contraddizioni, e mi fa camminare proprio lì, lungo la “linea incerta che addividi la luci dallo scuru” (A. Camilleri).

Il miracolo è che la debolezza, la fatica, l’ambiguità incolpevole, grano e zizzania intrecciati, le notti senza frutto, i rinnegamenti, non sono un’obiezione, ma un’occasione per essere fatti nuovi, per stare bene con il Signore, per rinnovare la nostra passione per lui e per ricominciare, attraverso inizi sempre nuovi: Tu seguimi!

Ti seguirò, Signore. Con le parole più belle che ho per te: tu sei per me quello che è la primavera per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone.

Sei venuto con il soffio di un bacio sulla fronte, e hai aperto la mia strada.




il commento al vangelo della domenica

VANGELO DI SENSI IN ASCOLTO
Mc 7,31-37
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario
Ancora un miracolo. Uno dei tanti.
Portano da Gesù un uomo prigioniero del silenzio, mentre la parola era murata dentro di lui.
Una vita senza musica e senza voce, un sordomuto come noi che non ci si capisce, che non si sa ascoltare, sordi come lui.
Siamo invasi da social che ci fanno comunicare con tutti, anche quando nessuno ci ascolta; ci piace essere conosciuti da un mucchio di sconosciuti.
Quel sordomuto è fortunato e non per la guarigione, ma perché attorniato da amici che si prendono cura di lui: e lo condussero da Gesù.
La guarigione inizia quando nel volto di qualcuno vediamo spuntare un germoglio di amore compassionevole.
‘E lo pregarono di imporgli la mano’. Ma Gesù fa molto di più: lo prende in disparte, lontano dalla folla: Io e te soli, per questo tempo niente conta più di te.
Non importa se è santo o peccatore. Soffre e basta.
E noi? Quando invece di dire: sei malato, sei nevrotico, si dirà: vieni a cena da me, al riparo della mia amicizia?
Li immagino occhi negli occhi, con Gesù che prende quel volto fra le mani, con poche parole e gesti molto intimi.
Lo tocca, e pone le dita sugli orecchi del sordo. Come lo scultore sulla creta che sta plasmando, come in una carezza. A parlare è la tenerezza dei gesti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Spirito e parola condensati, in un vangelo di contatti, di odori, di sapori.
Gesù opera la guarigione dei sensi, e per farlo li usa tutti; mani, occhi, orecchi, bocca, per ricondurci all’essenza della vita, perché è attraverso i sensi che percepiamo il mondo.
Guardando verso il cielo, emise un sospiro, e gli disse: Effatà! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua della madre, ripartendo dalle radici.
Apriti e non “apritevi”, si rivolge così all’uomo intero, e non ai suoi orecchi. Apriti, come si apre una porta all’ospite, come le braccia all’amore.
Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, attraverso le quali vita esce e vita entra.
Una vita guarita è quella che si apre sul mondo: e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. In realtà non è l’organo fisico dell’orecchio, in realtà è scritto che si aprirono ‘gli ascolti’. Si aprì la comprensione, non gli orecchi.
Se non sai ascoltare, perdi la parola. E sa parlare solo chi sa ascoltare. Dono da chiedere instancabilmente, per il sordomuto che è in noi:
donaci, Signore, un cuore che ascolta (cfr 1Re 3,9).
Allora nasceranno pensieri e parole che ci faranno uscire dall’assurdo di parole non dette e non ascoltate, dall’assurdo che è l’uomo chiuso.
Che l’unica nostra parola sia: ‘apriti’.
Se apri la tua porta, vita viene (Jaki Petrovic).



il commento al vangelo della domenica

LA SORGENTE PULITA
Marco 7,1-8.14-15.21-23
Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano.
Gesù indirizza la nostra attenzione verso il cuore, quegli oceani interiori che ci minacciano e che ci generano; che ci sommergono talvolta di ombre e di sofferenze ma che più spesso ancora producono isole di generosità, di bellezza e di luce.
Gesù veniva dai campi del mondo dove piange e ride la vita, veniva dai villaggi dove il suo andare era un perenne bagno nel dolore.
Dovunque arrivava, gli portavano i malati sulle piazze, sulle porte, li calavano dai tetti. E mendicanti ciechi lo chiamavano, donne piagate di Tiro e da Sidone cercavano di toccargli la frangia del mantello, o almeno che la sua ombra passasse sopra di loro come una carezza.
E ora che cosa trova?
Gente che collega la religione a macchioline, a mani e piatti lavati, a oggetti esteriori, che collocano il male all’esterno e non nell’interiorità.
Gesù, anziché scoraggiarsi, diventa eco del grido antico dei profeti: è dal cuore degli uomini che escono le intenzioni cattive. E inaugura così la religione dell’interiorità, proponendo una radicale “ecologia del cuore”: curare il cuore per guarire la vita.
Il problema centrale è pulire non le mani, ma la sorgente.
Che vuol dire attenzione, premura, terapia intensiva del nostro piccolo Eden interiore, dove nascono i sogni, dove intrecciano le loro radici energie bellissime e generative, piante guaritrici e le spine di vecchie ferite, l’infinito e il quotidiano, attorno all’albero sempre verde della vita.
La nostra sorgente è sana; l’uomo non è cattivo, solo che si sbaglia facilmente. Ma non esiste vicenda umana senza un grammo di luce: perché ogni cosa è “tôv”, bella e buona, illuminata, l’intero creato è un atto d’amore sussurrato.
Che aria di libertà! Apri il vangelo e senti che ti riporta a casa. Senti una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, piccoli discorsi, uno spruzzo d’acqua fresca e buona come l’essenziale.
Qual è la differenza tra superfluo ed essenziale?
Non ho più dimenticato un antico professore che me lo spiegava così: superfluo è tutto ciò che va dalla pelle in fuori; essenziale è tutto ciò che va dalla pelle in dentro. I farisei andavano dalla pelle in fuori: lava, pulisci risciacqua, spolvera. Gesù va dalla pelle in dentro.
Ritorna al tuo cuore: per quasi mille volte nella Bibbia ricorre il termine cuore, che non indica la sede dei sentimenti o delle emozioni, ma il luogo dove nascono le azioni e i sogni, dove si sceglie la vita o la morte, dove si è felici oppure no. Dove ci sono campi di grano e anche erbe cattive.
Gesù vuole evangelizzare il cuore, far scendere vangelo sulle nostre zolle di durezza e sui desideri oscuri.
Tu non concederai loro il diritto di sedere alla tua tavola, non permettere loro di galoppare sulle praterie del tuo cuore, perché tracciano strade di morte.
Evangelizzare significa far scendere sul cuore un messaggio felice, e quello di Gesù ribadisce che la sorgente è pura, ma ha bisogno della tua cura.
Custodisci con ogni cura il tuo cuore,
perché da esso sgorga la vita (Proverbi 4,23)
Bellissimo compito profetico: chiamati tutti a bypassare tanta polvere, tanto fumo, tanta apparenza.
Liberiamo la Parola di Dio dai sequestri anche ecclesiastici, da regoline, da piccolezze polverose che rubano luce al messaggio, e il vangelo ci darà ali per volare su un mondo bello, su un mondo nato buono.



il commento al vangelo della domenica

IL SILENZIO UMILE DEL PANE
Gv 6,51-58
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinari
Il vangelo continua il racconto del durissimo conflitto di Cafarnao, quando, di fronte alla crisi, il Rabbi alza la posta e scopre le carte, con una pretesa che gli fa dire: solo io so chi è Dio.
Non lo sanno i profeti, non lo sanno i rabbini.
“Io solo, perché io e Dio siamo una cosa sola”.
E ce ne rovescia l’immagine:
Ti avvicini a lui diventando umano, toccando piaghe e dolori e non riempendo la vita di riti, preghiere e pensieri devoti.
Ma facendoti a tua volta pane, un pezzo di pane buono spezzato per la fame e la pace del mondo.
Poi, in otto versetti, ripete altrettante volte: chi mangia la mia carne vivrà in eterno.
L’eternità è qualcosa che interessa sempre meno i credenti di oggi, forse perché vista come durata e non come intensità.
La vita eterna non è quella misurata su una lunghezza indefinita e che può apparire un po’ noiosa, la vita eterna è la vita stessa “dell’Eterno”.
E allora tu capisci che nella vita dell’Eterno ritrovi il pulsare delle stelle, gli abissi dei mari, l’esultanza degli amanti, il grido vittorioso del bambino che nasce, i tamburelli di Miriam mentre il popolo attraversa il mar Rosso.
E c’è il volto stupefatto di tua madre quando ti ha preso in braccio la prima volta, e il sorriso del povero che tu hai soccorso.
Gesù ha scelto il pane come suo simbolo perché se c’è una cosa che sa di vita, è proprio il pane.
E perché allora ci deve supplicare per otto volte: prendete e mangiate?
Perché abbiamo mangiato male prima!
Perché la vita ci ha regalato traumi da togliere il fiato, e sotto sotto pensiamo che nessuno dia niente per niente, che l’amore vada meritato.
Cosa dovrò dare in cambio a Dio?
Che prezzo devo pagare, in fatiche, sacrifici, impegni?
Non c’è nessun prezzo da pagare, niente da dargli in cambio, niente!
Dio non si compra e non si merita, si accoglie.
E’ vederlo mentre sorridente mi viene incontro, felice che io sia lì!
Non mi chiede in cambio nulla, se non un cuore largo e il mio fiorire in pienezza, e magari un piccolo grazie per la danza fatta insieme.
E poi di nutrirmi di lui, di carne e sangue, due termini che racchiudono la sua umanità e le sue mani di carpentiere profumate di legno, le sue lacrime, le sue passioni, gli abbracci dati e ricevuti.
E mi dice: prendete il mio modo di abitare la terra, di entrare nelle case, di chiedere acqua alla samaritana e di far scendere Zaccheo dall’albero, di toccare gli intoccabili, di non mandare mai via nessuno.
Mi ha cercato, mi ha atteso. Si dona. ​
Io posso solo accoglierlo, stupito e confuso, perché prima che io gli dica “ho fame”, sento lui dirmi: prendi! Mangia! Nutriti di me, come un bimbo che nel grembo della madre si nutre del suo sangue.
Egli entra in me come pane, si trasforma in me e mi trasforma in lui, e diventiamo una cosa sola.
Noi ci attendiamo segni grandiosi e Gesù ce ne rovescia l’idea: Dio viene e non si impone, scompare nel silenzio, si dissolve nell’umiltà del pane.
Quel suo pane che sa di vita, perché la nostra vita sappia di pane.
Il nostro compito è non andarcene da questo mondo senza essere prima diventati un pezzo di pane buono, spezzato per la fame di qualcuno, per la pace di tutti.