il commento al vangelo della domenica

così la vita fiorirà in tutte le sue forme


Così la vita fiorirà in tutte le sue forme
il commento di E. Ronchi al vangelo della sesta domenica di pasqua: Anno C

In quel tempo, Gesù disse: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. […]».

Se uno mi ama osserverà la mia parola. Amare nel Vangelo non è l’emozione che intenerisce, la passione che divora, lo slancio che fa sconfinare. Amare si traduce sempre con un verbo: dare, «non c’è amore più grande che dare la propria vita» (Gv 15,13). Si tratta di dare tempo e cuore a Dio e fargli spazio. Allora potrai osservare la sua Parola, potrai conservarla con cura, così che non vada perduta una sola sillaba, come un innamorato con le parole dell’amata; potrai seguirla con la fiducia di un bambino verso la madre o il padre. Osserverà la mia parola, e noi abbiamo capito male: osserverà i miei comandamenti. E invece no, la Parola è molto di più di un comando o una legge: guarisce, illumina, dona ali, conforta, salva, crea. La Parola semina di vita i campi della vita, incalza, sa di pane, soffia forte nelle vele del tuo veliero. La Parola culmine di Gesù è tu amerai. Custodirai, seguirai l’amore. Che è la casa di Dio, il cielo dove abita, ecco perché verremo e prenderemo dimora in lui. Se uno ama, genera Vangelo. Se ami, anche tu, come Maria, diventi madre di Cristo, gli dai carne e storia, tu «porti Dio in te» (san Basilio Magno). Altre due parole di Gesù, oggi, da ospitare in noi: una è promessa, verrà lo Spirito Santo; una è realtà: vi do la mia pace. Verrà lo Spirito, vi insegnerà, vi riporterà al cuore tutto quello che io vi ho detto. Riporterà al cuore gesti e parole di Gesù, di quando passava e guariva la vita, e diceva parole di cui non si vedeva il fondo. Ma non basta, lo Spirito apre uno spazio di conquiste e di scoperte: vi insegnerà nuove sillabe divine e parole mai dette ancora. Sarà la memoria accesa di ciò che è accaduto in quei giorni irripetibili e insieme sarà la genialità, per risposte libere e inedite, per oggi e per domani. E poi: Vi lascio la pace, vi dono la mia pace. Non un augurio, ma un annuncio, al presente: la pace “è” già qui, è data, oramai siete in pace con Dio, con gli uomini, con voi stessi. Scende pace, piove pace sui cuori e sui giorni. Basta col dominio della paura: il drago della violenza non vincerà. È pace. Miracolo continuamente tradito, continuamente rifatto, ma di cui non ci è concesso stancarci. La pace che non si compra e non si vende, dono e conquista paziente, come di artigiano con la sua arte. Non come la dà il mondo, io ve la do… il mondo cerca la pace come un equilibrio di paure oppure come la vittoria del più forte; non si preoccupa dei diritti dell’altro, ma di come strappargli un altro pezzo del suo diritto. Shalom invece vuol dire pienezza: «il Regno di Dio verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci).
(Letture: Atti 15,1-2.22-29; Salmo 66; Apocalisse 21,10-14.22-23; Giovanni 14,23-29)

il commento al vangelo della domenica

l’amore di Cristo fa sbocciare la speranza


L'amore di Cristo fa sbocciare la speranza
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quinta domenica del tempo di Pasqua – Anno C

(…) «Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Se cerchiamo la firma inconfondibile di Gesù, il suo marchio esclusivo, lo troviamo in queste parole. Pochi versetti, registrati durante l’ultima cena, quando per l’unica volta nel vangelo, Gesù dice ai suoi discepoli: «Figlioli», usa una parola speciale, affettuosa, carica di tenerezza: figliolini, bambini miei.
«Vi do un comandamento nuovo: come io ho amato voi così amatevi anche voi gli uni gli altri». Parole infinite, in cui ci addentriamo come in punta di cuore, trattenendo il fiato.
Amare. Ma che cosa vuol dire amare, come si fa?
Dietro alle nostre balbuzie amorose c’è la perdita di contatto con lui, con Gesù. Ci aiuta il vangelo di oggi. La Bibbia è una biblioteca sull’arte di amare. E qui siamo forse al capitolo centrale. E infatti ecco Gesù aggiungere: amatevi come io ho amato voi.
L’amore ha un come, prima che un ciò, un oggetto. La novità è qui, non nel verbo, ma nell’avverbio. Gesù non dice semplicemente «amate». Non basta amare, potrebbe essere solo una forma di dipendenza dall’altro, o paura dell’abbandono, un amore che utilizza il partner, oppure fatto solo di sacrifici. Esistono anche amori violenti e disperati. Amori tristi e perfino distruttivi.
Come io ho amato voi. Gesù usa i verbi al passato: guardate a quello che ho fatto, non parla al futuro, non della croce che pure già si staglia, parla di cronaca vissuta. Appena vissuta. Siamo nella cornice dell’Ultima Cena, quando Gesù, nella sua creatività, inventa gesti mai visti: il Maestro che lava i piedi nel gesto dello schiavo o della donna. Offre il pane anche a Giuda, che lo ha preso ed è uscito. E sprofonda nella notte. Dio è amore che si offre anche al traditore, e fino all’ultimo lo chiama amico. Non è amore sentimentale quello di Gesù, lui è il racconto inedito della tenerezza del Padre; ama con i fatti, con le sue mani, concretamente: lo fa per primo, in perdita, senza contare.
È amore intelligente, che vede prima, più a fondo, più lontano. In Simone di Giovanni, il pescatore, vede la Roccia; in Maria di Magdala, la donna dei sette demoni, intuisce colei che parlerà con gli angeli; dentro Zaccheo, il ladro arricchito, vede l’uomo più generoso di Gerico.
Amore che legge la primavera del cuore, pur dentro i cento inverni! Che tira fuori da ciascuno il meglio di ciò che può diventare: intere fontane di speranza e libertà; tira fuori la farfalla dal bruco che credevo di essere. In che cosa consiste la gloria, evocate per cinque volte in
due versetti, la gloria per ciascuno di noi? La gloria dell’uomo, e la stessa gloria si Dio consistono nell’amare. Non c’è altro di cui vantarsi. È lì il successo della vita. La sua verità.
«La verità rivelata è l’amore» (P. Florenski).

(Letture: Atti 14,21b-27; Salmo 144; Apocalisse 21,1-5a; Giovanni 13,31-33a.34-35)

il commento al vangelo della domenica

le parole di Gesù: voce soave e mano forte


Le parole di Gesù: voce soave e mano forte
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica del tempo di pasqua – Anno C

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Le mie pecore ascoltano la mia voce. Non comandi da eseguire, ma voce amica da ospitare. L’ascolto è l’ospitalità della vita. Per farlo, devi “aprire l’orecchio del cuore”, raccomanda la Regola di san Benedetto. La voce di chi ti vuole bene giunge ai sensi del cuore prima del contenuto delle parole, lo avvolge e lo penetra, perché pronuncia il tuo nome e la tua vita come nessuno. È l’esperienza di Maria di Magdala al mattino di Pasqua, di ogni bambino che, prima di conoscere il senso delle parole, riconosce la voce della madre, e smette di piangere e sorride e si sporge alla carezza.
La voce è il canto amoroso dell’essere: Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline (Ct 2,8). E prima ancora di giungere, l’amato chiede a sua volta il canto della voce dell’amata: la tua voce fammi sentire (Ct 2,14)…
Perché le pecore ascoltano? Non per costrizione, ma perché la voce è bellissima e ospita il futuro. Io do loro la vita eterna!(v.28). La vita è data, senza condizioni, senza paletti e confini, prima ancora della mia risposta; è data come un seme potente, seme di fuoco nella mia terra nera. Linfa che giorno e notte risale il labirinto infinito delle mie gemme, per la fioritura dell’essere.
Due generi di persone si disputano il nostro ascolto: i seduttori e i maestri. I seduttori, sono quelli che promettono vita facile, piaceri facili; i maestri veri sono quelli che donano ali e fecondità alla tua vita, orizzonti e un grembo ospitale.
Il Vangelo ci sorprende con una immagine di lotta: Nessuno le strapperà dalla mia mano (v.28). Ben lontano dal pastore sdolcinato e languido di tanti nostri santini, dentro un quadro bucolico di agnellini, prati e ruscelli. Le sue sono le mani forti di un lottatore contro lupi e ladri, mani vigorose che stringono un bastone da cammino e da lotta.
E se abbiamo capito male e restano dei dubbi, Gesù coinvolge il Padre: nessuno può strapparle dalla mano del Padre (v.29). Nessuno, mai (v.28). Due parole perfette, assolute, senza crepe, che convocano tutte le creature (nessuno), tutti i secoli e i giorni (mai): nessuno ti scioglierà più dall’abbraccio e dalla presa delle mani di Dio. Legame forte, non lacerabile. Nodo amoroso, che nulla scioglie.
L’eternità è la sua mano che ti prende per mano. Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani; come un bambino stringo forte la mano che non mi lascerà cadere.
E noi, a sua immagine piccoli pastori di un minimo gregge, prendiamo schegge di parole dalla voce del Pastore grande, e le offriamo a quelli che contano per noi: nessuno mai ti strapperà dalla mia mano.
E beato chi sa farle volare via verso tutti gli agnellini del mondo.
(Letture: Atti 13,14.43-52; Salmo 99; Apocalisse 7,9.14b-17; Giovanni 10,27-30)

il commento al vangelo della domenica

sorpresi da Gesù

«mi ami più di tutti?»


Sorpresi da Gesù: «Mi ami più di tutti?»
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della terza domenica del tempo di pasqua Anno C

(…) Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. (…)

Un’alba sul lago di Galilea. Quante albe nei racconti pasquali! Ma tutta «la nostra vita è un albeggiare continuo (Maria Zambrano), un progressivo sorgere della luce. Pietro e gli altri sei compagni si sono arresi, sono tornati indietro, alla vita di prima. Chiusa la parentesi di quei tre anni di strade, di vento, di sole, di parole come pane e come luce, di itineranza libera e felice, conclusa nel modo più drammatico. E i sette, ammainata la bandiera dei sogni, sono tornati alla legge del quotidiano. «Ma in quella notte non presero nulla». Notte senza stelle, notte amara, in cui in ogni riflesso d’onda pare loro di veder naufragare un sogno, un volto, una vita. In quell’albeggiare sul lago il miracolo non sta nel ripetersi di un’altra pesca straordinaria, sta in Pietro che si butta in acqua vestito, che nuota più forte che può, nell’ansia di un abbraccio, con il cuore che punta diritto verso quel piccolo fuoco sulla riva. Dove Gesù, come una madre, ha preparato una grigliata di pesce per i suoi amici. Poteva sedersi, aspettare il loro arrivo, starsene ad osservare, arrivare dopo, invece no, non trattiene la cura, non frena le attenzioni per loro: fuoco, braci, pesce, il tempo, le mani, il cibo. Si preoccupa di accoglierli bene, stanchi come sono, con qualcosa di buono.
Gli incontri pasquali sono veri, è davvero Gesù, perché quelli che compie sono solo gesti d’amico! Sulla spiaggia, attorno a pane e pesce alla griglia, il più bel dialogo del mondo. Tre brevissime, fulminanti domande, rivolte a un pescatore bagnato come un pulcino, e l’alba è fredda; a Pietro che trema vicino alle braci di un fuocherello, trema per il freddo e per la domanda bruciante: Simone di Giovanni, mi ami più di tutti?
Gesù non si interessa di aspetti dottrinali (hai capito il mio messaggio? ti è chiara la croce?), per lui ciò che brucia sono i legami interpersonali. Vuol sapere se dietro di sé ha lasciato amore, solo allora può tornare dal Padre. Teresa d’Avila, in un’estasi, sente: «Per un “ti amo” detto da te, Teresa, rifarei da capo l’universo». «Simone, mi ami?». Gesù vuol rifare Pietro da capo, lui non si interessa di rimorsi, di sensi di colpa, di pentimenti, ma di cuori riaccesi di nuovo.
E Gesù abbassa le sue richieste e si adegua alla fragilità di Pietro, contento di quel piccolo: «ti sono amico», di quella briciola di «ti voglio bene». Non vuole imporsi, Gesù, vuole vedere il mondo con gli occhi di Pietro, vederlo con il cuore del debole, con gli occhi del povero, da incarnato, o non cambierà mai niente. Non dall’alto di un trono, ma all’altezza della canzone che cantano gli occhi dell’apostolo stanco. E ogni cuore umano è stanco.
(Letture: Atti degli Apostoli 5,27b-32.40b-41; Salmo 29; Apocalisse 5,11-14; Giovanni 21,1-19)

il commento al vangelo della domenica

pasqua di risurrezione

la tomba vuota segno di ripartenza per ognuno


La tomba vuota segno di ripartenza per ognuno
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della Domenica di Pasqua

Il primo giorno della settimana, al mattino presto [le donne] si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù.

Pasqua ci viene incontro con un intrecciarsi armonioso di segni cosmici: primavera, plenilunio, primo giorno della settimana, prima ora del giorno. Una cornice di inizi, di cominciamenti: inizia una settimana nuova (biblica unità di misura del tempo), inizia il giorno, il sole è nuovo, la luce è nuova.
Il primo giorno, al mattino presto, esse si recarono al sepolcro. Luca si è dimenticato il soggetto, ma non occorre che ci dica chi sono, lo sanno tutti che sono loro, le donne, le stesse che il venerdì non sono arretrate di un millimetro dal piccolo perimetro attorno alla croce. Quelle cui si è fermato il cuore quando hanno udito fermarsi il battito del cuore di Dio. Quelle che nel grande sabato, cerniera temporale tra il venerdì della fine e la prima domenica della storia, cucitura tra la morte e il parto della vita, hanno preparato oli aromatici per contrastare, come possono, la morte, per toccare e accarezzare ancora le piaghe del crocifisso. Le donne di Luca sono una trinità al femminile (R. Virgili): vanno a portare al Signore la loro presenza e la loro cura. Presenza: l’altro nome dell’amore.
Davanti alla tomba vuota, davanti al corpo assente, è necessaria una nuova annunciazione, angeli vestiti di lampi: perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui. È risorto. Una cascata di bellezza. Il nome prima di tutto: “il Vivente”, non semplicemente uno fra gli altri viventi, ma Colui che è la pienezza dell’azione di vivere. E poi: “non è qui”! Lui c’è, ma non qui; è vivo e non può stare fra le cose morte; è dovunque, ma non qui. Il Vangelo è infinito proprio perché non termina con una conclusione, ma con una ripartenza.
Pasqua vuol dire passaggio: abbiamo un Dio passatore di frontiere, un Dio migratore. Non è festa per residenti o per stanziali, ma per migratori, per chi inventa sentieri che fanno ripartire e scollinare oltre il nostro io.
Ed esse si ricordarono delle sue parole. Le donne credono, perché ricordano. Credono senza vedere; per la parola di Gesù, non per quella degli angeli; ricordano le sue parole perché le amano. In noi resta vivo solo ciò che ci sta a cuore: vive ciò che è amato, vive a lungo ciò che è molto amato, vive per sempre ciò che vale più della vita stessa. Anche per me, credere comincia con l’amore della Parola, di un Uomo.
Quello che occorre è un uomo / un passo sicuro e tanto salda / la mano che porge, che tutti / possano afferrarla (C. Bettocchi). Quello che occorre è l’umanità di Dio, che non se ne sta lontano, me entra nel nostro panico, nel nostro vuoto, visita il sepolcro, ci prende per mano e ci trascina fuori. E fuori è primavera.
Ecco il cuore di Pasqua: il bene è più profondo del male.

(Letture Messa del giorno: Atti 10,34a.37-43; Salmo 117; Prima Lettera Corinzi 5, 6-8; Giovanni 20,1-9
La riflessione è sul Vangelo di Luca 24,1-12 della Veglia pasquale nella Notte Santa)

il commento al vangelo della domenica

quel silenzio di Gesù che spiazza i violenti


Quel silenzio di Gesù che spiazza i violenti
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quinta domenica di avvento, Anno C

(…) Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. (…)

Gli scribi e i farisei gli condussero una donna… la posero in mezzo, quasi non fosse una persona ma una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene, anche a morte. Sono scribi che mettono Dio contro l’uomo, il peggio che possa capitare alla fede, lettori di una bibbia dimezzata, sordi ai profeti («dice il Signore: io non godo della morte di chi muore», Ez 18,32).
La posero in mezzo. Sguardi di pietra su di lei. La paura che le sale dal cuore agli occhi, ciechi perché non hanno nessuno su cui potersi posare. Attorno a lei si è chiuso il cerchio di un tribunale di soli maschi, che si credono giusti al punto di ricoprire al tempo stesso tutti i ruoli: prima accusatori, poi giudici e infine carnefici.
Chiedono a Gesù: È lecito o no uccidere in nome di Dio? Loro immaginano che Gesù dirà di no e così lo faranno cadere in trappola, mostrando che è contro la Legge, un bestemmiatore.
Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… nella furia di parole e gesti omicidi, introduce una pausa di silenzio; non si oppone a viso aperto, li avrebbe fatti infuriare ancora di più.
Poi, spiazza tutti i devoti dalla fede omicida, dicendo solo: chi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei.
Peccato e pietre? Gesù scardina con poche parole limpide lo schema delitto/castigo, quello su cui abbiamo fondato le nostre paure e tanta parte dei nostri fantasmi interiori. Rimangono soli Gesù e la donna, e lui ora si alza in piedi davanti a lei, come davanti a una persona attesa e importante. E le parla. Nessuno le aveva parlato: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno, vai. E non le chiede di confessare la colpa, neppure le domanda se è pentita. Gesù, scrive non più per terra ma nel cuore della donna e la parola che scrive è: futuro.
Va’ e d’ora in poi non peccare più. Sette parole che bastano a cambiare una vita. Qualunque cosa quella donna abbia fatto, non rimane più nulla, cancellato, annullato, azzerato. D’ora in avanti: «Donna, tu sei capace di amare, puoi amare ancora, amare bene, amare molto. Questo tu farai…». Non le domanda che cosa ha fatto, le indica che cosa potrà fare. Lei non appartiene più al suo sbaglio, ma al suo futuro, ai semi che verranno seminati, alle persone che verranno amate.
Il perdono è qualcosa che non libera il passato, fa molto di più: libera il futuro. E il bene possibile, solo possibile, di domani, conta di più del male di adesso. Nel mondo del vangelo è il bene che revoca il male, non viceversa.
Il perdono è un vero dono, il solo dono che non ci farà più vittime, che non farà più vittime, né fuori né dentro noi.

(Letture: Isaia 43,16-21; Salmo 125; Filippesi 3,8-14; Giovanni 8,1-11)

il commento al vangelo della domenica

un padre che intorno vuole figli non servi


Un Padre che intorno vuole figli non servi
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di quaresima, in “Laetare”

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto (…)».

La parabola più famosa, più bella, più spiazzante, si articola in quattro sequenze narrative.
Prima scena. Un padre aveva due figli. Un incipit che causa subito tensione: nel Libro le storie di fratelli non sono mai facili, spesso raccontano di violenza e di menzogne. E sullo sfondo il dolore muto dei genitori, di questo padre così diverso: non ostacola la decisione del ragazzo; lo dà in sposo alla sua propria libertà, e come dote non dovuta cede la metà dei beni di famiglia.
Secondo quadro. Il giovane inizia il viaggio della vita, ma le sue scelte sbagliate (sperperò il denaro vivendo da dissoluto) producono una perdita di umanità: il principe sognatore diventa servo, un porcaio che ruba ghiande per sopravvivere. Allora rientra in sé, e rivede la casa del padre, la sente profumare di pane. Ci sono persone nel mondo con così tanta fame che per loro Dio (o il padre) non può che avere la forma di un pane (Gandhi). Decide di tentare, non chiederà di essere il figlio di ieri, ma uno dei servi di adesso: trattami come un salariato! Non osa più cercare un padre, cerca solo un buon padrone. Non torna perché ha capito, torna per fame. Non per amore, ma per la morte che gli cammina a fianco paziente.
Terza sequenza. Il ritmo della storia cambia, l’azione si fa incalzante.
Il figlio si incammina e il padre, che è attesa eternamente aperta, lo vede che era ancora lontano e gli corre incontro. L’uomo cammina, Dio corre. L’uomo si avvia, Dio è già arrivato.
E ha già perdonato in anticipo di essere come siamo, prima ancora che apriamo bocca. Il tempo dell’amore è prevenire, buttare le braccia al collo, fretta di carezze dopo la lunga lontananza.
Non domanda: da dove vieni, ma: dove sei diretto?
Non chiede: perché l’hai fatto? ma: vuoi ricostruire la casa?
La Bibbia sembra preferire storie di ricomposizione a storie di fedeltà infrangibile. Non ci sono personaggi perfetti nella Bibbia, il Libro è pieno di gente raccolta dalle paludi, dalle ceneri, da una cisterna nel deserto, da un ramo di sicomoro, e delle loro ripartenze sotto il vento di Dio.
L’ultima scena si svolge attorno a un altro figlio, che non sa sorridere, che non ha la musica dentro, che pesa e misura tutto con un cuore mercenario.
Ma il padre, che vuole figli intorno e non servi, esce e lo prega, con dolcezza, di entrare: vieni, è in tavola la vita. E la modernità di un finale aperto.
È giusto il padre della parabola? Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così oltre? Sì, immensa rivelazione per cui Gesù darà la vita: Dio è amore, esclusivamente amore. L’amore non è giusto, è sempre oltre, centuplo, eccedenza. Ma è proprio questo il Dio di Gesù, il Dio che mi innamora.
(Letture: Giosuè 5, 9-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5, 17-21; Luca 15, 1-3.11-32).

il commento al vangelo della domenica

Dio non castiga mai e aspetta la conversione
il commento di E. Bianchi al vangelo della terza domenica di Quaresima, anno C
Lc 13,1-9
 

¹In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. ²Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? ³No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»».

Dopo le prime due domeniche di Quaresima, che fanno sempre memoria delle tentazioni di Gesù nel deserto e della sua trasfigurazione sul monte, la chiesa ci fa percorrere un itinerario diverso in ogni ciclo. Quest’anno (ciclo C), seguendo il vangelo secondo Luca, il tema dominante nei brani evangelici è quello della misericordia-conversione, cammino da rinnovarsi soprattutto nel tempo di preparazione alla Pasqua. 

Questa pagina contiene due messaggi: il primo sulla conversione, il secondo sulla misericordia di Dio. Gli ascoltatori di Gesù sono stati raggiunti da una notizia di cronaca, relativa a una strage avvenuta in Galilea: mentre venivano offerti sacrifici per chiedere a Dio aiuto e protezione, la polizia del governatore Pilato aveva compiuto un eccidio, mescolando il sangue delle vittime offerte con quello degli offerenti. I presenti vogliono che Gesù si esprima sull’oppressivo e persecutorio dominio romano, sulla situazione di quei galilei forse rivoluzionari, sulla colpevolezza di quei loro concittadini che erano stati massacrati tragicamente. La mentalità corrente, infatti, considerava ogni disgrazia avvenuta come castigo per una colpa commessa. 

Ma Gesù, che dà un giudizio negativo sui dominatori di questo mondo – i quali opprimono, dominano e si fanno chiamare benefattori (cf. Lc 22,25 e par.) –, risponde coinvolgendo l’uditorio su un altro piano, indicando come decisiva non la morte fisica ma l’ora escatologica. Dice infatti: “Credete che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Egli replica sul piano della fede e della conoscenza di Dio. È come se dicesse: “Voi pensate che il peccato commesso dall’uomo scateni automaticamente il castigo da parte di Dio, ma non è così. In tal modo date a Dio un volto perverso!”. Gesù, infatti, sa che ogni essere umano è abitato in profondità da un ancestrale senso di colpa, che emerge prepotentemente ogni volta che accade una disgrazia o appare la forza del male. Quando ci arriva una malattia, quando ci capita un fatto doloroso, subito ci poniamo la domanda: “Ma cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”. È radicata in noi la dinamica ben espressa dal titolo del celebre romanzo di Fëdor Dostoevskij, “delitto e castigo”: dove c’è il delitto, il peccato, deve giungere il castigo, la pena, pensiamo… 

Gesù vuole distruggere questa immagine del Dio che castiga, tanto cara agli uomini religiosi di ogni tempo, in Israele come nella chiesa. Per farlo, menziona lui stesso un altro fatto di cronaca, non dovuto alla violenza e alla responsabilità umana, ma accaduto per caso, e lo accompagna con il medesimo commento: “Quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Qual è dunque il cammino indicato da Gesù? Innanzitutto egli ci insegna ad avere uno sguardo diverso sulla vita: ogni vita è precaria, è contraddetta dalla violenza, dal male, dalla morte. Dietro a questi eventi non bisogna vedere Dio come castigatore e giudice – perché Dio potrà eventualmente fare questo solo nel giudizio finale, quando saremo passati attraverso la morte – ma discernere le nostre fragilità, i nostri errori inevitabili, la precarietà della vita. Nessuno è tanto peccatore da meritare tali disgrazie inviate da Dio, il quale non è uno spione in attesa di vedere il nostro peccato per castigarci! Tra peccato commesso e responsabilità nella colpa c’è però una relazione che sarà manifestata nel giudizio finale. Quelle uccisioni e quelle morti sono comunque un segno di un’altra morte possibile, che attende chi non si converte, perché chi continua a fare il male cammina su una strada mortifera e, di conseguenza, si procura da solo il male che incontrerà già qui sulla terra e poi nel giudizio ultimo di Dio. Oltre la morte biologica del corpo, che ci può sempre sorprendere, c’è un’altra perdizione, eterna, provocata dal male che scegliamo di compiere nella nostra vita. Gesù, come profeta, non fornisce dunque una spiegazione teologica al male ma invita alla conversione. Non si dimentichino i significati di questa parola. Secondo l’Antico Testamento convertirsi (shuv/teshuvah) significa “tornare”, cioè ritornare al Signore, ritornare alla legge infranta, per rinnovare l’alleanza con Dio. Il cammino richiesto riguarda la mente e l’agire e si manifesta anche come pentimento/penitenza nel tempo presente, ultimo spazio prima del giudizio. Per questo Gesù ha predicato: “Convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15; cf. Mt 4,17), ovvero “convertitevi credendo e credendo convertitevi”. Gesù è un profeta e, come tale, sa che gli umani sono peccatori, commettono il male; per questo chiede loro di aderire alla buona notizia del Vangelo e di accogliere la misericordia di Dio che va loro incontro, offrendo il perdono. 

E affinché i suoi ascoltatori comprendano la novità portata dal Vangelo, Gesù racconta loro una bellissima parabola. Un uomo ha piantato con fatica un fico nella propria vigna e con tanta fiducia ogni estate viene e cercare i suoi frutti ma non ne trova, perché quell’albero pare sterile. Spinto da quella delusione ripetutasi per ben tre anni, pensa dunque di tagliare il fico, per piantarne un altro. Chiama allora il contadino che sta nella vigna e gli esprime la sua frustrazione, intimandogli di tagliare l’albero: perché deve sfruttare inutilmente il terreno e rubare il nutrimento ad altre piante? Tutti noi comprendiamo questa decisione del padrone della vigna, ispirata dal nostro concetto di giustizia retributiva e meritocratica: non si paga chi non dà frutto, mentre gli altri si pagano proporzionalmente al frutto che ciascuno dà! 

Ma il contadino, che lavora quella terra, ama ciò che ha piantato, sarchiato, innaffiato e concimato. Il vignaiolo, si sa, ama la vigna come una sposa; per questo osa intercedere presso il padrone: “Signore (Kýrie), lascia il fico per un altro anno, perché io possa ancora sarchiarlo e concimarlo, con una cura più attenta e delicata. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, tu lo taglierai!”. Straordinario l’amore del vignaiolo per il fico: ha pazienza, sa aspettare, gli dedica il suo tempo e il suo lavoro. Promette al padrone di prendersi particolare cura di quell’albero infelice; in ogni caso, lui non lo taglierà, ma lo lascerà tagliare al padrone, se vorrà: “Tu lo taglierai, non io!”. Questo “tu lo taglierai” è un’ulteriore intercessione, che equivale a dire: “Io sono pronto ad aspettare ancora e ancora che esso dia frutto”. Qui stanno l’una di fronte all’altra la giustizia umana retributiva e la giustizia di Dio, che non solo contiene in sé la misericordia, ma è sempre misericordia, pazienza, attesa, sentire in grande (makrothymía). Il contadino accorda la fiducia, sa aspettare i tempi degli altri. 

Questo contadino è Gesù, venuto nella vigna (cf. Lc 20,13 e par.) di Israele vangata, liberata dai sassi, piantata da Dio come vite eccellente: “e Dio aspettò che producesse uva” (Is 5,2)… Sì, è venuto il Figlio di Dio nella vigna, si è fatto vignaiolo tra gli altri vignaioli, ha amato veramente la vigna e se n’è preso cura, innalzando per lei intercessioni in ogni situazione, ponendosi tra la vigna-Israele e il Dio vivente, facendo un passo, compromettendo se stesso nella cura della vigna, aumentando il suo lavoro e la sua fatica per amore della vigna, facendo tutto il possibile perché dia frutto e viva. È stando “in medio vineae”, in mezzo alla vigna, che dice a Dio: “Lasciala, lasciala ancora, attendi i suoi frutti; io, intanto, me ne assumo la cura, che è responsabilità!”. Così la vigna-Israele e la vigna-chiesa, a volte colpite dalla sterilità, sono conservate anche quando non danno i frutti sperati da Dio, perché Gesù il Messia è il vignaiolo in mezzo a loro (cf. Gv 15,1-8), è il loro sposo (cf. Lc 5,34-35 e par.) e sa attendere con quell’attesa che è la “pazienza di Cristo” (2Ts 3,5). 

Giovanni il Battista aveva predicato: “Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,9; Mt 3,10). Ciò avverrà alla fine dei tempi, nel giorno del giudizio, ma ora, nel frattempo, Gesù continua a dire a Dio: “Abbi pazienza, abbi misericordia, aspetta ancora a sradicare il fico. Io lavorerò e farò tutto il possibile perché esso porti frutto”. Attenzione però: il frattempo termina per ciascuno di noi con la morte.

il commento al vangelo della domenica

il vivere la bellezza è liberare la luce in noi


Il vivere la bellezza è liberare la luce in noi
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica di avvento -Anno C

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme (…).

Molte chiese orientali custodiscono sulle pareti un percorso di fede per immagini, alla fine del quale campeggia, o dipinta sulla cupola centrale nel punto più alto, o raffigurata come mosaico dorato a riempire di luce l’abside dietro l’altare, vertice e traguardo dell’itinerario, l’immagine della Trasfigurazione di Gesù sul Tabor, con i tre discepoli a terra, vittime di stupore e di bellezza. Un episodio dove in Gesù, volto alto e puro dell’uomo, è riassunto il cammino del credente: la nostra meta è custodita in una parola che in Occidente non osiamo neppure più pronunciare, e che i mistici e i Padri d’Oriente non temono di chiamare “theosis”, letteralmente “essere come Dio”, la divinizzazione. Qualche poeta osa: Dante inventa un verbo bellissimo “l’indiarsi” dell’uomo, in parallelo all’incarnarsi di Dio; oppure: “io non sono/ancora e mai/ il Cristo/ ma io sono questa/infinita possibilità”. (D.M.Turoldo). Ci è data la possibilità di essere Cristo. Infatti la creazione intera attende la rivelazione dei figli di Dio, attende che la creatura impari a scollinare oltre il proprio io, fino a che Cristo sia tutto in tutti. Salì con loro sopra un monte a pregare. La montagna è il luogo dove arriva il primo raggio di sole e vi indugia l’ultimo. Gesù vi sale per pregare come un mendicante di luce, mendicante di vita. Così noi: il nostro nascere è un “venire alla luce”; il partorire delle donne è un “dare alla luce”, vivere è un albeggiare continuo. Nella luce, che è il primo, il più antico simbolo di Dio. Vivere è la fatica, aspra e gioiosa, di liberare tutta la luce sepolta in noi. Rabbì, che bello essere qui! Facciamo tre capanne. L’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! ci mostrano chiaramente che la fede per essere visibile e vigorosa, per essere pane e visione nuova delle cose, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un ‘che bello!’ gridato a pieno cuore. È bello per noi stare qui. Esperienza di bellezza e di casa, sentirsi a casa nella luce, che non fa violenza mai, si posa sulle cose e le accarezza, e ne fa emergere il lato più bello. “Tu sei bellezza”, pregava san Francesco, “sei un Dio da godere, da gustare, da stupirsene, da esserne vivi”. È bello stare qui, stare con Te, ed è bello anche stare in questo mondo, in questa umanità malata eppure splendida, barbara e magnifica, nella quale però hai seminato i germi della tua grande bellezza. Questa immagine del Tabor di luce deve restare viva nei tre discepoli, e in tutti noi; viva e pronta per i giorni in cui il volto di Gesù invece di luce gronderà sangue, come allora fu nel Giardino degli Ulivi, come oggi accade nelle infinite croci dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Madre della grande speranza.
(Letture: Genesi 15,5-12.17-18; Salmo 26; Filippesi 3,17-4,1; Luca 9,28b-36)

il commento al vangelo della domenica

Gesù è stato tentato come noi
il commento di E. Bianchi al vangelo della I domenica di Quaresima, anno C
Lc 4,1-13
 

¹Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, ²per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. ³Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; ¹⁰sta scritto infatti:

Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo
affinché essi ti custodiscano;

¹¹e anche:

Essi ti porteranno sulle loro mani
perché il tuo piede non inciampi in una pietra».

¹²Gesù gli rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
¹³Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. 

E’ la prima domenica del tempo di Quaresima, tempo severo ma “favorevole” (2Cor 6,2) per il cristiano: soprattutto, tempo di lotta contro le tentazioni. Per questo la chiesa all’inizio di questo tempo ci offre sempre il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto, tentazioni che secondo Luca saranno sempre presenti nella sua vita, fino alla fine (cf. Lc 23,35-39). Anche Gesù sapeva che sta scritto: “Figlio, se vuoi servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2,1). 

Gesù era stato immerso nel Giordano dal suo maestro Giovanni il Battista, e durante quell’immersione lo Spirito santo era sceso su di lui dal cielo aperto, mentre la voce del Padre gli diceva: “Tu sei il mio Figlio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,22). È stato l’evento che ha cambiato la vita di Gesù, le ha dato una nuova forma, perché da quel momento egli non è più solo il discepolo del Battista, ma è unto come profeta, ripieno dello Spirito. Per questo lascia Giovanni e gli altri membri della comunità e si allontana dal Giordano, inoltrandosi nel deserto di Giuda. Proprio lo Spirito che è sceso su di lui lo spinge a questo ritiro, alla solitudine, per pensare innanzitutto alla missione che lo attende. Lo Spirito lo ha abilitato, lo ha spinto con forza verso questa nuova forma di vita, che vedrà Gesù quale predicatore e profeta, ma egli deve fare opera di discernimento: come attuerà la sua missione? Con quale stile realizzerà la sua vocazione? Come continuerà a essere in ascolto di Dio, il Padre che lo ha generato (cf. Sal 2,7, che secondo alcuni codici costituisce il contenuto della voce del Padre al battesimo)? Come si opporrà a tutto ciò che contraddice la volontà divina? 

Il ritiro nel deserto è dunque necessario: un ritiro di quaranta giorni, lungo, ma con un limite temporale perché in vista di qualcos’altro. Gesù sa che andare nel deserto significa in primo luogo spogliazione di tutto ciò che uno ha; sa che la solitudine è dimenticare ciò che uno è per gli altri; sa che la penuria di cibo è verifica dei propri limiti umani, della propria condizione di fragilità, dunque di mortalità. Ma solo nella radicale nudità l’uomo conosce la verità profonda di se stesso e del mondo in cui è venuto: e in questa spogliazione la prova, la tentazione è necessaria, da essa non si può essere esenti. Già questo passo di Gesù indica come egli avesse alla base della sua scelta l’adesione alla realtà, alla condizione umana. Quel tempo di quaranta giorni – già vissuto da Mosè (cf. Es 24,18; 34,28; Dt 9,9-11.18.25) e da Elia (cf. 1Re 19,8), già sperimentato nei quarant’anni di Israele nel deserto (cf. Nm 14,33-34; 32,13; Dt 2,7; 8,2-4; 29,4), dopo l’uscita in libertà dall’immersione nel mar Rosso – è un tempo di prova che implica fatica, rinuncia, scelta.

Luca esemplifica in numero di tre le tentazioni che in realtà per Gesù devono essere state molte, e con sapienza antropologica le riassume in quelle del mangiare, del possedere, del dominare. Ma mettiamoci in ascolto puntuale del testo. “Gesù non mangiò nulla per quaranta giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: ‘Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane’”. Gesù ha fame, e nel bisogno ecco sorgere la tentazione: sottrarsi alla condizione umana e ricorrere al miracolo, misconoscendo la propria realtà di essere umano. Se sperimento un bisogno impellente, una pulsione forte, quella della fame che morde lo stomaco e provoca le vertigini, come uscirne? Facendo qualsiasi cosa pur di sfuggire al bisogno, si sarebbe tentati di rispondere: una tentazione tanto più forte, quanto più imperioso è il bisogno. Ma Gesù ha digiunato liberamente, non costretto, volendo imparare a dire dei no, a fare una rinuncia. Certamente la tentazione del cibo è unica per Gesù, uomo come noi ma in una vocazione e missione uniche ricevute da Dio, che lo ha appena proclamato suo Figlio amato. Se Gesù può partecipare alla potenza di Dio, perché non ricorrere al miracolo, mutando un sasso del deserto in pane, e così potersi saziare? Con quel miracolo, però, rinuncerebbe a ciò che ha scelto divenendo uomo: spogliarsi degli attributi della sua divinità, condizione che condivideva quale Figlio di Dio, per essere radicalmente in tutto un uomo, un terrestre come ciascuno di noi (cf. Fil 2,6-8). La tentazione è dunque quella di dimenticare l’umanizzazione scelta, di rinunciarvi, e di usare la potenza di Dio per saziare la fame e riempire l’estrema spogliazione. Ma Gesù resiste, perché conosce la parola: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Dt 8,3a). Sì l’uomo non è solo fame di pane, ma anche – come evidenzia il parallelo matteano che cita per intero il passo del Deuteronomio – “di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3b; Mt 4,4). E non si dimentichi: Gesù moltiplicherà il pane per le folle affamate, per gli altri, mai per sé (cf. Lc 9,12-17)! 

Nella seconda tentazione Gesù vede dall’alto tutti i regni della terra, la loro gloria (dóxa), la loro ricchezza, la loro arroganza, la loro scena mondana. Tutta questa ricchezza può essere a sua disposizione, tutto questo potere (exousía) che è dominio sugli umani e sulla terra può essere da lui esercitato, a una sola condizione: che Gesù adori la ricchezza e il potere, personificati dal diavolo. Se Gesù si sottometterà agli idoli della ricchezza e del potere, questi in cambio saranno nelle sue mani, come strumenti per la sua missione, come garanzia di efficacia: egli riuscirà, riuscirà, in “un’inarrestabile ascesa” (Sal 49,19)… Ma anche di fronte a questa pulsione che abita tutti gli umani Gesù sa dire no. È venuto per servire non per dominare (cf. Mc 10,45; Mt 20,28), è venuto nella povertà, non nella ricchezza (cf. 2Cor 8,9). Ciò non solo non faciliterà la sua missione, ma ne segnerà visibilmente il fallimento secondo l’evidenza mondana; Gesù, però, non pensa alla sua missione come a una conquista, a un grande raduno di credenti su cui dominare. Per questo è libero di rispondere, citando ancora la Torà: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto” (Dt 6,13). Ma qui il diavolo fa anche una rivelazione: a lui sono stati consegnati il potere e la gloria di questo mondo ed egli li può dare a chi vuole, a una condizione: diventare suoi ministri. Dunque, chi ha potere e gloria mondani, lo sappia o no, è un ministro del diavolo! 

Segue poi la tentazione più alta, per questo l’ultima, la grande tentazione che per pudore non spiego pienamente ma alla quale solo alludo. Non è solo la tentazione di mettere Dio alla prova, forzandogli la mano, ma è anche la tentazione della “nientità”. Dal punto più alto della costruzione religiosa per eccellenza, il tempio, Gesù vede sotto di sé l’abisso, che è anche il nulla, il vuoto, perché la ragione ci dice che nell’abisso non c’è niente, neanche Dio, ma si è abbandonati per sempre, come se non si fosse mai nati: l’abisso dà le vertigini… Cosa deve fare Gesù davanti a questo buco nero? Gettarsi giù, costringendo il Dio che lo ha dichiarato Figlio a fare il miracolo, cioè inviando angeli a salvarlo per impedirgli la caduta, come lo tenta il diavolo citando la Scrittura (cf. Sal 91,11-12)? Oppure accettare la sua situazione, quella di chi vede il fallimento, il vuoto, ma resta fedele a Dio e non lo tenta, non lo provoca (cf. Dt 6,16)? Sì, questa è la tentazione delle tentazioni, già provata da Israele nel deserto quando, di fronte alle difficoltà, alle contraddizioni e all’apparente smentita delle promesse di Dio, si domandava sgomento: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). Ciò avviene anche nei nostri cuori, quando il sentimento del fallimento dell’intera nostra vita ci coglie, ci sorprende e ci confonde, fino a farci dire dentro di noi: “È stato tutto un inganno! Dio non c’era nei nostri inizi, oppure, Dio ci ha abbandonato!”. Questa è la tentazione che vuole contraddire la fede, la fiducia posta in Dio: non bestemmiandolo, non litigando con lui, ma semplicemente negandolo, cioè estromettendolo dal proprio orizzonte e dalla vita. 

Gesù ha subito queste tentazioni in quanto uomo come noi. Non ci ha dato una finzione esemplare, ma ha veramente vissuto questi abissi, imparando così ad aderire alla realtà: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Dopo questa prova del deserto, Gesù ormai sa come svolgere la missione e come portare a termine la sua vocazione, consapevole che lo Spirito santo è con lui e che della forza dello Spirito è ripieno. Questa però non è per Gesù una vittoria definitiva: il diavolo tornerà a tentarlo, “al momento fissato”, cercando sempre di renderlo diviso, in modo che la sua volontà sia in contraddizione con la volontà del Padre. Ma Gesù realizzerà sempre la parola di Dio e sarà sempre vincitore su ogni tentazione! Uguale a noi in tutto, eccetto che nel peccato (cf. Eb 2,17; 4,15): per questo trionferà sulla morte e, quale Risorto, vivrà per sempre quale Signore del mondo.

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