il commento al vangelo della domenica

chi non ama vede solo il male attorno a sé


Chi non ama vede solo il male attorno a sé
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della ottava domenica del tempo ordinario  Anno C

 

(…) Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (…).

Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello? Notiamo la precisione del verbo: perché “guardi”, e non semplicemente “vedi”; perché osservi, fissi lo sguardo su pagliuzze, sciocchezze, piccole cose storte, scruti l’ombra anziché la luce di quell’occhio? Con una sorta di piacere maligno a ricercare ed evidenziare il punto debole dell’altro, a godere dei suoi difetti. Quasi a giustificare i tuoi. Un motivo c’è: chi non vuole bene a se stesso, vede solo male attorno a sé; chi non sta bene con sé, sta male anche con gli altri. Invece colui che è riconciliato con il suo profondo, guarda l’altro con benedizione. Con sguardo benedicente. Dio guardò e vide che tutto era cosa molto buona (Gen 1,31). Il Dio biblico è un Dio felice, che non solo vede il bene, ma lo emana, perché ha un cuore di luce e il suo occhio buono è come una lampada, dove si posa diffonde luce (Mt 6,22). Un occhio cattivo invece emana oscurità, moltiplica pagliuzze, diffonde amore per l’ombra. Alza una trave davanti al sole.
Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi. La morale evangelica è un’etica della fecondità, di frutti buoni, di sterilità vinta e non di perfezione. Dio non cerca alberi senza difetti, con nessun ramo spezzato dalla bufera o contorto di fatica o bucato dal picchio o dall’insetto. L’albero ultimato, giunto a perfezione, non è quello senza difetti, ma quello piegato dal peso di tanti frutti gonfi di sole e di succhi buoni. Così, nell’ultimo giorno, quello della verità di ogni cuore (Mt 25), lo sguardo del Signore non si poserà sul male ma sul bene; non sulle mani pulite o no, ma sui frutti di cui saranno cariche, spighe e pane, grappoli, sorrisi, lacrime asciugate. La legge della vita è dare. È scritto negli alberi: non crescono tra terra e cielo per decine d’anni per se stessi, semplicemente per riprodursi: alla quercia e al castagno basterebbe una ghianda, un riccio ogni 30 anni. Invece ad ogni autunno offrono lo spettacolo di uno scialo di frutti, uno spreco di semi, un eccesso di raccolto, ben più che riprodursi. È vita a servizio della vita, degli uccelli del cielo, degli insetti affamati, dei figli dell’uomo, di madre terra. Le leggi della realtà fisica e quelle dello spirito coincidono. Anche la persona, per star bene, deve dare, è la legge della vita: deve farlo il figlio, il marito, la moglie, la mamma con il suo bambino, l’anziano con i suoi ricordi. Ogni uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore. Noi tutti abbiamo un tesoro, è il cuore: da coltivare come un Eden; da spendere come un pane, da custodire con ogni cura perché è la fonte della vita (Proverbi, 4, 23). Allora, non essere avaro del tuo cuore: donalo.
(Letture: Siracide 27,5-8, (NV) [gr. 27,4-7]; Salmo 91; Prima Lettera ai Corinzi 15,54-58; Luca 6,39-45)

il commento al vangelo della domenica

amare il non amabile, perdonare l’imperdonabile
il commento di E. Bianchi al vangelo della sesta domenica del tempo ordinario, anno C
 Lc 6,27-38

²⁷Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, ²⁸benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. ²⁹A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. ³⁰Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. ³¹E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. ³²Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. ³³E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. ³⁴E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. ³⁵Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. ³⁶Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. ³⁷Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. ³⁸Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Alla proclamazione delle beatitudini, nel vangelo secondo Luca come in quello secondo Matteo, segue da parte di Gesù un discorso indirizzato a quella folla che era venuta ad ascoltarlo quando era disceso con i Dodici dalla montagna (cf. Lc 6,17). In Luca questo insegnamento è più breve e ha una tonalità diversa. In esso non è più registrato il confronto, anche polemico, con la tradizione degli scribi di Israele, ma emerge piuttosto la “differenza cristiana”che i discepoli di Gesù devono saper vivere e mostrare rispetto alle genti, ai pagani in mezzo ai quali si collocano le comunità alle quali è rivolto il vangelo.  

“A voi che ascoltate, io dico…”. Sono le prime parole di Gesù, che introducono una domanda, un comando, un’esigenza fondamentale: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano”. Certo, queste parole sono collegate alla quarta beatitudine indirizzata ai discepoli perseguitati (cf. Lc 6,22-23), ma appaiono rivolte a ogni ascoltatore che vuole diventare discepolo di Gesù. L’amore dei nemici non è dunque soltanto un invito a un’estrema estensione del comandamento dell’amore del prossimo (cf. Lv 19,18; Lc 10,27), ma è un’esigenza prima, fondamentale, che appare paradossale e scandalosa. I primi commentatori del vangelo con ragione hanno giudicato questo comando di Gesù una novità rispetto a ogni etica e sapienza umana, e gli stessi figli di Israele hanno sempre testimoniato che con tale esigenza Gesù andava oltre la Torah.  Per questo dobbiamo chiederci: è possibile per noi umani amare il nemico, chi ci fa del male, chi ci odia e vuole ucciderci? Se anche Dio, secondo la testimonianza delle Scritture dell’antica alleanza, odia i suoi nemici, i malvagi, si vendica contro di loro (cf. Dt 7,1-6; 25,19; Sal 5,5-6; 139,19-22; ecc.) e chiede ai credenti in lui di odiare i peccatori e di pregare contro di loro, potrà forse un discepolo di Gesù vivere un amore verso chi gli fa del male? Diamo troppo per scontato che questo sia possibile, mentre dovremmo interrogarci seriamente e discernere che un amore simile può solo essere “grazia”, dono del Signore Gesù Cristo a chi lo segue. Anche nel nostro vivere quotidiano non è facile relazionarci con chi ci critica e ci calunnia, con chi ci fa soffrire pur senza perseguitarci a causa di Gesù, con chi ci aggredisce e rende la nostra vita difficile, faticosa e triste. Ognuno di noi sa quale lotta deve condurre per non ripagare il male ricevuto e sa come sia quasi impossibile nutrire nel cuore sentimenti di amore per chi si mostra nemico, anche se non ci si vendica nei suoi confronti.  Con questo comando, che lui stesso ha vissuto fino alla fine sulla croce chiedendo a Dio di perdonare i suoi assassini (cf. Lc 23,34), Gesù chiede ciò che solo per grazia è possibile e, significativamente, è sempre Luca a testimoniare che con questo sentimento dell’amore verso i nemici è morto il primo testimone di Gesù, Stefano, il quale ha chiesto a Gesù suo Signore di non imputare ai suoi persecutori la morte violenta che riceveva da loro (cf. Lc 7,60). Gesù dunque qui rompe con la tradizione e innova nell’indicare il comportamento del discepolo, della discepola: ecco la giustizia che va oltre quella di scribi e farisei (cf. Mt 5,20), ecco la fatica del Vangelo, ecco – direbbe Paolo – “la parola della croce” (1Cor 1,18). Amare (verbo agapáo) il nemico significa andare verso l’altro con gratuità anche se ci osteggia, significa volere il bene dell’altro anche se è colui che ci fa del male, significa fare il bene, avere cura dell’altro amandolo come se stessi. E Gesù fornisce degli esempi, indica anche dei comportamenti esteriori da assumere, espressi alla seconda persona singolare: non fare resistenza a chi ti colpisce e neppure a chi ti ruba il mantello; dona a chi tende la mano, chiunque sia, conosciuto o sconosciuto, buono o cattivo, e non sentirti mai creditore di ciò che ti è stato sottratto. Ciò non significa però assumere una passività, una resa di fronte a chi ci fa il male, e Gesù stesso ce ne ha dato l’esempio quando, percosso sulla guancia dalla guardia del sommo sacerdote, ha obiettato: “Se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).  A questo punto Gesù formula la “regola d’oro”, che riporta il discorso alla seconda persona plurale: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”. Regola formalizzata in positivo, nella quale la reciprocità non è invocata come diritto e tanto meno come pretesa, ma come dovere verso l’altro misurato sul proprio desiderio: “fare agli altri ciò che desidero sia fatto a me”. Pochi anni prima del ministero di Gesù rabbi Hillel affermava: “Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo al tuo prossimo”. Ma Gesù conferisce a tale istanza una forma positiva, chiedendo di fare tutto il bene possibile al prossimo, fino al nemico. 

Solo così, amando gli altri senza reciprocità, facendo del bene senza calcolare un vantaggio e donando con disinteresse senza aspettare la restituzione, si vive la “differenza cristiana”. In questo comportamento c’è il conformarsi del discepolo al Dio di Gesù Cristo, quel Dio che Gesù ha narrato come amoroso, capace di prendersi cura dei giusti e dei peccatori, dei credenti e degli ingrati. Se Dio non condiziona il suo amore alla reciprocità, al ricevere una risposta, ma dona, ama, ha cura di ogni creatura, anche il cristiano dovrebbe comportarsi in questo modo nel suo cammino verso il Regno, in mezzo all’umanità di cui fa parte.  Dopo aver ribadito il comandamento dell’amore dei nemici, Gesù fa una promessa: ci sarà “una ricompensa (misthós) grande” nei cieli ma già ora in terra, qui, i discepoli diventano figli di Dio perché si adempie in loro il principio “tale Padre, tale figlio”. Imitare Dio, fino a essere suoi figli e figlie: sembra una follia, una possibilità incredibile, eppure questa è la promessa di Gesù, il Figlio di Dio che ci chiama a diventare figli di Dio. Se nella Torah il Signore chiedeva ai figli di Israele in alleanza con lui: “Siate santi, perché io sono Santo” (Lv 19,2), e questo significava essere distinti, differenti rispetto alla mondanità, in Gesù questo monito diventa: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Nella tradizione delle parole di Gesù secondo Matteo il comando risuona: “Siate perfetti (téleioi) come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Qui invece ciò che viene messo in evidenza è la misericordia di Dio; d’altronde, già secondo i profeti, la santità di Dio era misericordia, si mostrava nella misericordia (cf. Os 6,6; 11,8-9). La misericordia, l’amore viscerale e gratuito del Signore che è “compassionevole e misericordioso” (Es 34,6), deve diventare anche l’amore concreto e quotidiano del discepolo di Gesù verso gli altri, amore illustrato da due sentenze negative e due positive.  Innanzitutto: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati”, perché nessuno può prendere il posto di Dio quale giudice delle azioni umane e di quanti ne sono responsabili. Si faccia attenzione e si comprenda: Gesù non ci chiede di non discernere le azioni, i fatti e i comportamenti, perché senza questo giudizio (verbo kríno) non si potrebbe distinguere il bene dal male, ma ci chiede di non giudicare le persone. Una persona, infatti, è più grande delle azioni malvagie che compie, perché non possiamo mai conoscere l’altro pienamente, non possiamo misurare fino in fondo la sua responsabilità. Il cristiano esamina e giudica tutto con le sue facoltà umane illuminate dalla luce dello Spirito santo, ma si arresta di fronte al mistero dell’altro e non pretende di poterlo giudicare: a Dio solo spetta il giudizio, che va rimesso a lui con timore e tremore, riconoscendo sempre che ciascuno di noi è peccatore, è debitore verso gli altri, solidale con i peccatori, bisognoso come tutti della misericordia di Dio.  Al discepolo spetta dunque – ecco le affermazioni in positivo – di perdonare e donare: per-donare è fare il dono per eccellenza, essendo il perdono il dono dei doni. Ancora una volta le parole di Gesù negano ogni possibile reciprocità tra noi umani: solo da Dio possiamo aspettarci la reciprocità! Il dono è l’azione di Dio e deve essere l’azione dei cristiani verso gli altri uomini e donne. Allora, nel giorno del giudizio, quel giudizio che compete solo a Dio, chi ha donato con abbondanza riceverà dal Signore un dono abbondante, come una misura di grano che è pigiata, colma e traboccante. L’abbondanza del donare oggi misura l’abbondanza del dono di Dio domani. La “differenza cristiana” è a caro prezzo ma, per grazia del Signore, è possibile.

il commento al vangelo della domenica

Dio regala gioia a chi costruisce la pace


Dio regala gioia a chi costruisce la pace
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della sesta domenica del tempo ordinario, anno C

 

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla (…) da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo (…)».

Se non siamo come sonnambuli, questo Vangelo ci dà la scossa. «Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri», aveva detto nella sinagoga, eco della voce di Isaia. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri, Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio è la croce, le infinite croci degli uomini. E aggiunge un’antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi. Sillabe sospese tra sogno e miracolo, che erano state osate, prima ancora che da Gesù, da Maria nel canto del Magnificat: ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote (Lc 1,53).
Se Gesù avesse detto che la povertà è ingiusta, e quindi semplicemente da rimuovere, il suo sarebbe stato l’insegnamento di un uomo saggio attento alle dinamiche sociali (R. Virgili). Ma quell’oracolo profetico, anzi più-che-profetico, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, disgraziati, ai bastonati dalla vita, si oppone alla logica, ribalta il mondo, ci obbliga a guardare la storia con gli occhi dei poveri, non dei ricchi, altrimenti non cambierà mai niente.
E ci saremmo aspettati: beati voi perché ci sarà un capovolgimento, un’alternanza, diventerete ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo. Il mondo non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro. «Il vero problema del mondo non è la povertà, è la ricchezza! La povertà vuol dire libertà del cuore dai possessi; libertà come pace con le cose, pace con la terra, fonte di
ogni altra pace. Il ricco invece è un uomo sempre in guerra con gli elementi, un violento, un usurpatore, il primo soggetto di disordine del mondo. Non sono i poveri i colpevoli del disordine, non è la povertà il male da combattere; il male da combattere è la ricchezza. È l’economia del mondo ad esigerlo: senza povertà non c’è salvezza rispetto al consumo delle fonti energetiche, non c’è possibilità di pane per tutti, non rapporto armonioso con la vita, non fraternità, non possibilità di pace. Appunto, non c’è beatitudine e felicità per nessuno. Perché non v’è pace con la terra, con le cose, con la natura. Non c’è rispetto per le creature» (David Maria Turoldo).
Beati voi… Il Vangelo più alternativo che si possa pensare. Manifesto stravolgente e contromano; e, al tempo stesso, vangelo amico. Perché le beatitudini non sono un decreto, un comando da osservare, ma il cuore dell’annuncio di Gesù: sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace.
In esse è l’inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l’inizio della guarigione del mondo.
(Letture: Geremia 17,5-8; Salmo 1; 1 Corinzi 15, 12.16-20; Luca 6, 17.20-26)

il commento al vangelo della domenica

Signore avvicinati a me peccatore

il commento di E. Bianchi al vangelo della quinta domenica del tempo ordinario: 
Lc 5,1-11
 

¹Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, ²vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. ³Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; ¹⁰così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». ¹¹E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

Siamo sempre agli inizi della predicazione e dell’attività di Gesù e anche Luca colloca in questo esordio del ministero pubblico del profeta di Galilea la chiamata dei primi discepoli. Rispetto però al vangelo secondo Marco (cf. Mc 1,16-20), ripreso negli stessi termini da Matteo (cf. Mt 4,18-22), Luca dà un’altra lettura della vocazione. Il racconto si arricchisce di particolari, è espresso con un’ottica diversa, sicché già qui vi è un messaggio che allude alla missione della chiesa. 

La predicazione di Gesù da Nazaret (cf. Lc 4,16) a Cafarnao (cf. Lc 4,31) si estende alle città attorno al lago di Tiberiade (o di Gennesaret), e Gesù quale profeta continua a dispensare la parola di Dio ad ascoltatori che aumentano ogni giorno, fino a diventare una vera e propria folla che fa ressa, premendo per stargli vicino e raccogliere le sue parole. In quella calca, Gesù vede due barche ormeggiate sulla spiaggia, perché i pescatori erano scesi e stavano pulendo le reti dai detriti risaliti dalle acque del lago insieme ai pesci. Pensa allora di salire su una delle due barche, quella appartenente a Simone, e lo prega di allontanare un po’ la barca da riva, così da farne una sorta di ambone da cui proclamare la parola di Dio. La scena è di per sé eloquente: Gesù “parla la Parola” – scrive letteralmente Luca – e come seme la getta verso terra (la spiaggia) nel cuore degli ascoltatori lì radunati (cf. Lc 8,4-15); ciò che nella sinagoga è un ambone solenne, una cattedra, qui è la barca di Simone, la barca della chiesa… 

Non appena ha terminato quell’insegnamento alla folla, Gesù passa dalle parole all’evento: chiede a Simone di “prendere il largo” (“Duc in altum!”, nella Vulgata) – cioè di abbandonare con coraggio e speranza le acque quiete dell’insenatura per inoltrarsi in mare aperto – e di gettare le reti in mare. Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha tentato la pesca senza ottenere risultati. Sa che non si pesca in pieno giorno, soprattutto se non si è preso nulla durante la notte. Tuttavia quel Gesù che ha parlato lo ha impressionato per la sua exousía; è un uomo affidabile – pensa –, che merita fiducia e obbedienza, dunque gli risponde: “Maestro, … sulla tua parola getterò le reti”. Chiama Gesù con un termine che indica più il capo che il maestro (epistátes) e, da padrone della barca, lascia che sia Gesù a guidarla. Eccolo dunque avanzare verso le acque profonde, verso l’abisso (eis tò báthos), senza timore, munito solo della fede nella parola di quel profeta. Il risultato è immediato, sbalorditivo: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”. Da dove viene questo successo, se per tutta la notte questi uomini hanno faticato invano? Dalla fede-fiducia nella parola di Gesù! C’è qui una profezia per ogni “uscita”, per ogni missione della chiesa: deve essere sempre fatta su indicazione di Gesù, va eseguita con fede piena nelle sua parola, altrimenti risulterà sterile e inutile. Non era bastata la loro competenza di pescatori, non era risultata feconda la loro fatica, ma tutto muta se è Gesù a chiedere, a guidare, ad accompagnare la missione.  

Questo successo della pesca appare come un segno che stupisce Simone: subito cade ai piedi di Gesù in atto di silenziosa adorazione; nello stesso tempo, percependosi nella condizione di uomo peccatore, chiede a Gesù di stare lontano da lui. Accade cioè nel cuore di Pietro la rivelazione che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Kýrios, il Signore, mentre egli è solo un uomo, un peccatore, indegno di tale relazione con chi è divino. È la stessa reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” (cf. Is 6,1) e si sente costretto a gridare: “Guai a me, uomo dalle labbra impure!” (Is 6,8); è la reazione di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso e hanno subito misurato la loro incapacità di stare davanti a lui.  

Qui c’è Gesù, un uomo, un profeta su una barca, eppure Pietro ha compreso la sua identità: Gesù è il Santo di Dio – come Pietro stesso confessa esplicitamente nel quarto vangelo (cf. Gv 6,69) –, mentre egli è un peccatore e tale si sentirà per tutta la vita, in tante occasioni. E quando dimenticherà di essere peccatore, il canto del gallo glielo ricorderà: il gallo, infatti, canterà tre volte, così come lui tre volte aveva gravemente peccato, dicendo di non avere mai conosciuto né avuto rapporti con l’uomo (cf. Lc 22,54-62) di cui qui riconosce la santità e che più tardi confesserà quale “Cristo, Messia di Dio” (Lc 9,20).  

Stupore e tremore per Pietro, dunque, ma anche per i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. Si intravede già quel gruppetto di tre che saranno i più vicini a Gesù: erano discepoli amati, non prediletti, non amati più degli altri, perché l’amore, quando è vivo ed è in azione, non è mai uguale nel manifestarsi. Certo, amati da Gesù come gli altri, ma partecipi all’intimità della sua vita in modo diverso, poiché muniti di doni diversi rispetto agli altri: non a caso saranno scelti da Gesù quali testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Lc 8,51-55), testimoni della gloriosa trasfigurazione dell’aspetto di Gesù sull’altro monte (cf. Lc 9,28-29), testimone della sua de-figurante passione nel giardino degli Ulivi (secondo Mc 14,33 e Mt 26,37). Saranno coinvolti con Gesù nella sua gloria e nella sua miseria, dunque sempre in ansia, sempre chiamati alla vigilanza, di cui non sono capaci (cf. Lc 22,45-46 e par.), sempre chiamati a una fedeltà che però viene meno, a causa del rinnegamento (cf. Lc 22,54-62) o della fuga (cf. Mc 14,50; Mt 26,56).  

Secondo Luca qui Gesù invita Pietro a non temere e gli consegna la vocazione-promessa: “Non temere, d’ora in poi tu prenderai, pescherai vivi degli uomini”. Ovvero, “d’ora in poi è tuo compito andare al largo, su acque profonde, per salvare uomini preda del male, per salvarli da marosi e abissi infernali, da strade perdute, e condurli alla vita!”. Non si pensi alla missione come cattura e proselitismo, ma soprattutto a un annuncio di salvezza, quello che Gesù aveva illustrato di sé nella sinagoga di Nazaret, leggendo un brano del profeta Isaia e dichiarando realizzata quella profezia: liberare i prigionieri, ridare la vista ai ciechi, redimere gli oppressi, annunciare ai poveri la buona notizia del Vangelo (cf. Lc 4,16-21; Is 61,1-2).  

La chiesa, quando va in missione, non va innanzitutto per fare cristiani, per aumentare il numero dei suoi membri, per battezzare, ma in primis per un’azione di liberazione dei bisognosi, per una manifestazione dell’amore gratuito di Dio. Così la chiesa annuncerà il Signore Gesù e, se Dio vorrà, ci saranno conversioni, sequela del Signore e partecipazione al corpo ecclesiale. Attenzione però a non capovolgere la dinamica della missione determinata dal Signore, calcolando e cercando risultati, confidando nelle opere visibili delle nostre mani. 

Ecco allora avvenire il mutamento decisivo per Simone e gli altri compagni che sono con lui, i quali, da pescatori di pesci, diventano discepoli; e da discepoli, per la promessa di Gesù, diventeranno pescatori di uomini nella missione della chiesa: 

“Tirate le barche a terra,

lasciarono tutto

e lo seguirono”. 

Ormai non sono più addetti alla barca, alla pesca, al loro mestiere, ma tutte queste cose (ecco la radicalità evangelica!) sono abbandonate per sempre sulla riva del lago. Ora Simone e gli altri hanno detto il loro il “sì”, l’“amen” al profeta e Signore Gesù, affidabile e dunque autorevole. Hanno preso la decisione: vale la pena seguirlo e fondare la propria vita sulla sua parola. Luca ha utilizzato la metafora della pesca – come accade altre volte nei vangeli – per dirci una cosa semplice: quando Gesù chiama, trasforma quello che facciamo, e questa trasformazione richiede un abbandono di ciò che eravamo e una novità di vita, di forma di vita, nel futuro che si apre davanti a noi. 

In ogni vocazione c’è sempre la chiamata, ma anche la promessa più o meno esplicita. Perché quando chi è chiamato risponde alla parola del Signore, egli intraprende un cammino, una sequela che sta sempre sotto la promessa della fedeltà di Dio. Dio resta fedele anche quando il chiamato diventa infedele (cf. 2Tm 2,13). Così avverrà per Simone-Pietro (cf. Lc 22,61) e così avviene anche per noi.

il commento al vangelo della domenica

nessuno è riconosciuto profeta dai suoi
il commento di E. Bianchi al vangelo della quarta domenica del tempo ordinario, anno C
Lc 4,21-30
 

²¹Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». ²²Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». ²³Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!»». ²⁴Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. ²⁵Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ²⁶ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. ²⁷C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». ²⁸All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. ²⁹Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. ³⁰Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

 

Il brano evangelico odierno è il seguito di quello di domenica scorsa (cf. Lc 4,14-21). Siamo sempre nella sinagoga di Nazaret, il villaggio dove Gesù è stato allevato e dove era tornato all’inizio della sua predicazione in Galilea. Partecipando al culto sinagogale in giorno di sabato, Gesù ha ascoltato la lettura della Torah e, invitato a leggere la seconda lettura tratta dal profeta Isaia (cf. Is 61,1-2), ha fatto un commento, un’omelia sintetizzata da Luca nelle parole: “Oggi si è realizzata questa Scrittura (ascoltata) nei vostri orecchi”.  

Ed ecco la reazione dell’uditorio: “Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”. Con la sua omelia Gesù ha colpito l’uditorio, ha saputo destare l’interesse e la meraviglia perché le sue erano anche “parole di grazia” (lógoi tês cháritos). Come il Messia del salmo 45, Gesù è lodato perché “la grazia è sparsa sulle sue labbra” (v. 3). Potremmo dunque dire che la prima predicazione di Gesù al ritorno nel suo villaggio d’origine inizialmente è sembrata un successo, ha destato stupore, ma subito è parsa “segno di contraddizione” (Lc 2,34). 

Infatti il racconto subisce una svolta improvvisa. Quelli che hanno appena approvato e “applaudito” Gesù, dicono: “Costui è il figlio di Giuseppe, il carpentiere che ben conosciamo come nostro concittadino. È un uomo, nient’altro che un semplice uomo ordinario, nulla di più!”. Le parole di Gesù hanno meravigliato quella gente: il messaggio che egli ha dato è buono – pensano gli abitanti di Nazaret – ma è il messaggio di un uomo ordinario, come lo si vedeva e lo si poteva descrivere conoscendo bene suo padre Giuseppe. L’entusiasmo e la meraviglia non conducono alla fede in Gesù, perché i presenti, per riconoscergli autorità, non si accontentano di parole: vogliono segni, miracoli che garantiscano la sua missione! 

Gesù, conoscendo i pensieri del loro cuore (cf. Gv 2,24-25), passa all’attacco duro, frontale. Non evita il conflitto, non lo tace, ma anzi lo fa esplodere. “Certamente” – dice – “alla fine dei vostri ragionamenti vi verrà in mente un proverbio: ‘Medico, cura te stesso’. Ovvero, se vuoi avere autorità e non solo pronunciare parole, fa’ anche qui a Nazaret, tra quelli che conoscono la tua famiglia, ciò che hai fatto a Cafarnao!”. È una tentazione che Gesù sentirà più volte rivolta a sé: qui tra i suoi, più tardi a Gerusalemme (cf. Lc 11,16) e infine addirittura sulla croce (cf. Lc 23,35-39). È la domanda di segni, di azioni straordinarie, di miracoli: ma tutta la Scrittura ammonisce che proprio questo atteggiamento è il primo atteggiamento degli uomini religiosi che, tentando Dio, in realtà lo rifiutano. Sempre, come scrive Paolo, “gli uomini religiosi chiedono segni” (cf. 1Cor 1,22)… In verità a Cafarnao Gesù aveva compiuto azioni di liberazione da malattia e peccato, ma queste erano, appunto, soltanto “segni” per manifestare la sua volontà: la liberazione da tutti i mali, la liberazione per tutti, come Gesù ha appena letto nel profeta Isaia. 

Di fronte a questo repentino cambiamento di umore dell’uditorio nei suoi confronti, dallo stupore all’indignazione, Gesù pronuncia alcune parole cariche di mitezza e, insieme, di rincrescimento, parole suggerite dalla sua assiduità alle Scritture, soprattutto ai profeti. Con un solenne “amen” emette una sentenza breve ma efficace, acuta come una freccia: “Nessun profeta è bene accetto nella sua patria, nella sua terra”. Gesù la pronuncia con rincrescimento per il rifiuto patito ma anche con una gioia interiore indicibile, perché proprio da quel rifiuto riceve una testimonianza. Lodandolo per le sue parole di grazia non gli davano testimonianza, ma paradossalmente ora, rigettandolo, sì: perché questo accade a chi è profeta, a chi porta sulla sua bocca una parola di Dio e la consegna a chi ascolta. Gesù dunque in quel momento riceve la testimonianza dello Spirito santo che sempre lo accompagna e che gli dice: “Tu sei veramente profeta, per questo conosci il rigetto!”. Sì, profeta a caro prezzo, e solo chi conosce il rifiuto per le sue parole – che possono essere cariche di grazia ma non vengono accolte per il mancato riconoscimento della sua autorevolezza (exousía) – conosce anche la mite e serena certezza di svolgere un servizio non in nome proprio, ma in nome del Signore; non per interesse personale, ma in obbedienza a una vocazione e a una missione vissute e sentite come più forti della propria disposizione interiore e dei propri desideri umani. Questo è l’atteggiamento degli uomini di Dio, dei profeti. 

Qui va inoltre messa in risalto la tensione tra Nazaret, la patria, e Cafarnao, città straniera per Gesù, ma dove egli incontrerà proprio stranieri, non ebrei che hanno una fede da lui mai vista in Israele, all’interno del popolo di Dio (cf. Lc 7,9): è più facile per Gesù operare in spazi stranieri che in quelli propri del popolo di Dio. Egli sa bene che le Scritture attestano che questo rifiuto avvenne anche per i profeti Elia ed Eliseo, e lo dice. Fu una vedova straniera, di Sarepta di Sidone, ad accogliere il primo e a dargli cibo nel tempo della carestia e della fame (cf. 1Re 17,7-16). Quanto a Eliseo, egli guarì uno straniero, Naaman il siro (cf. 2Re 5), mentre non riuscì a purificare nessuno dei lebbrosi appartenenti al popolo eletto. Con queste parole Gesù, nella sua missione, fa cadere ogni frontiera, ogni muro di separazione: non c’è più una terra santa e una profana; non c’è più un popolo dell’alleanza e gli altri esclusi dall’alleanza. No, c’è un’offerta di salvezza rivolta da Dio a tutti. Anzi, il Dio di Gesù ama i pagani perché ha come nostalgia di loro, che durante i secoli sono rimasti lontani da lui. Gesù dunque li va a cercare, a incontrare e trova in loro una fede-fiducia che gli permettono quell’azione liberatrice per la quale era stato inviato da Dio. 

Queste parole di Gesù, che attestano la fine dei privilegi di Israele e l’accoglienza delle genti, non potevano che aumentare il rigetto nei suoi confronti e scatenare ulteriormente la collera contro di lui: “si alzarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù”. È la violenza che non sopporta chi svela la sua fonte nel cuore umano… In tal modo Gesù fa una prima esperienza di ciò che gli accadrà quando verrà il tempo del suo ministero a Gerusalemme. Gesù è perseguitato per la collera di uomini religiosi che non accettano il volto di Dio predicato e rivelato da lui, un uomo non investito di autorità da parte delle istituzioni sacre: tentano di farlo fuori già all’inizio del suo ministero, già in Galilea, a casa sua. 

Ma per Gesù non è ancora venuto il tempo della passione e così semplicemente, con coraggio e libertà, “passando in mezzo a loro, se ne andò”, in direzione di Cafarnao (cf. Lc 4,31). “Transiens per medium illorum ibat”, attesta la Vulgata. Gesù che “passa in mezzo”, che “passa facendo il bene” (cf. At 10,38), che passa causando entusiasmo ma anche rigetto. Ieri come oggi, “Gesù passa in mezzo e va”, ma noi non ce ne accorgiamo… Passa in mezzo alla sua chiesa ma va oltre la chiesa; come Elia, come Eliseo, va tra i pagani che Dio ama. A Luca è cara questa immagine: Gesù passa e va. E a Erode che glielo vorrebbe impedire, manda a dire: “Andate a dire a quella volpe – Gesù non nomina mai il nome di costui! –: Ecco, io scaccio demoni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno sarò alla fine. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente me ne vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (Lc 13,32-33). Fino a che giunga l’ora degli avversari, “il potere delle tenebre” (Lc 22,53), Gesù cammina, va, ma già ora è pronto! Nel quarto vangelo ciò che accade qui a Nazaret è sintetizzato nelle parole del prologo: “La Parola venne tra i suoi, e i suoi non l’hanno accolta” (Gv 1,11).

il commento al vangelo della domenica

i destinatari della buona notizia
il commento di E. Bianchi al vangelo della terza domenica del tempo ordinario, anno C
Lc 1,1-4.4,14-21
 

¹Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, ²come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, ³così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.

¹⁴Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. ¹⁵Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. ¹⁶Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. ¹⁷Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: 

18Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
19a proclamare l’anno di grazia del Signore.

20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Nel dare forma alla buona notizia, il Vangelo, attraverso il racconto, Luca ha la consapevolezza di una propria responsabilità davanti a Dio e agli uomini. Davanti a Dio deve essere un “servo della Parola”, capace di tenere conto di altri scrittori precedenti a lui e più autorevoli di lui: “i testimoni oculari”, quelli che hanno vissuto nell’intimità e nella vita pubblica con Gesù (cf. At 1,21-22); davanti agli uomini sente il dovere di rispondere a quei primi cristiani della sua comunità, dando loro una parola come cibo capace di nutrire e confermare la loro fede. Per questo ha composto quello che chiamiamo il terzo vangelo, attingendo con cura alla tradizione apostolica ma nello stesso tempo scrivendo con le sue capacità e la sua sensibilità a dei cristiani di lingua greca negli anni 70-80 della nostra era. Il Vangelo è un canto a quattro voci, quattro racconti, quattro memorie: ma il canto polifonico resta un solo canto, e uno solo è il Vangelo fatto carne, uomo (cf. Gv 1,14), Gesù di Nazaret. 

Luca è molto attento a testimoniare la presenza dello Spirito di Dio in Gesù. Gesù – che è la Parola di Dio (cf. Gv 1,1) – e lo Spirito santo sono “compagni inseparabili” (Basilio di Cesarea), dunque dove Gesù parla e agisce là c’è anche lo Spirito. Nei capitoli precedenti del vangelo, quelli riguardanti la venuta nel mondo del Figlio di Dio, Luca ha mostrato che egli è stato concepito nell’utero di Maria grazie alla potenza dello Spirito santo (cf. Lc 1,35), e la sua apparizione pubblica quale discepolo di Giovanni il Battista, che lo ha immerso nel Giordano, è stata sigillata dalla discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,22). Proprio questo Spirito conduce Gesù nel deserto, dove viene tentato dal demonio (cf. Lc 4,1-2a), e lo accompagna – è l’inizio del nostro brano liturgico – quando ritorna in Galilea, la sua terra, dalla quale si era allontanato per andare nel deserto e mettersi alla sequela del profeta battezzatore. Con questa insistenza Luca è intenzionato a far comprendere al lettore che Gesù è “ispirato”, che la sua sorgente interiore, il suo respiro profondo è lo Spirito di Dio, il Soffio del Padre. Non è un profeta come gli altri, sui quali lo Spirito scendeva momentaneamente, perché in lui lo Spirito riposava, sostava, dimorava (cf. Gv 1,32), lo riempiva di quella forza (dýnamis) che non è potere, ma partecipazione all’azione e allo stile di Dio. 

E cosa fa Gesù nel suo ritorno alla “Galilea delle genti” (Mt 4,15; Is 8,23), terra periferica e impura? Va a “insegnare nelle sinagoghe”. Per iniziare la sua missione non ha scelto né Gerusalemme né il tempio, ma quelle umili sale in cui si riunivano i credenti per ascoltare le sante Scritture e offrire il loro servizio liturgico al Signore. Nelle sinagoghe di sabato si facevano preghiere, poi si leggeva la Torah (una pericope, una parashah del Pentateuco), la Legge, quindi si pregavano Salmi e, a commento della Torah, si proclamava un brano (haftarah) tratto dai Profeti. Non era una liturgia diversa da quella che ancora oggi noi cristiani compiamo ogni domenica. Gesù è ormai un uomo di circa trent’anni, non appartiene alla stirpe sacerdotale, quindi non è un sacerdote, è un semplice credente figlio di Israele ma, diventato a dodici anni “figlio del comandamento” (cf. Lc 2,41-42), è abilitato a leggere pubblicamente le sante Scritture e a commentarle, facendo l’omelia. 

E così accade che quel sabato, proprio nella sinagoga in cui la sua fede era stata nutrita fin dall’infanzia, quando abitava a Nazaret, mediante le liturgie comunitarie, Gesù sale sull’ambone e, aperto il rotolo che gli viene dato, legge la seconda lettura il brano previsto per quel sabato: il capitolo 61 del profeta Isaia. Questo testo è l’autopresentazione di un profeta anonimo che testimonia la sua vocazione e la sua missione: 

Lo Spirito del Signore è sopra di me,

per questo mi ha unto (échrisen)

e mi ha inviato per annunciare la buona notizia ai poveri,

per proclamare ai prigionieri la liberazione

e ai ciechi la vista,

per rimandare in libertà gli oppressi,

per proclamare l’anno di grazia del Signore (Is 61,1-2a). 

Chi è questo profeta senza nome, presentato da Isaia? Quale la sua identità? Quale sarà la sua missione? Quando la sua venuta tanto attesa? Queste certamente le domande che sorgevano alla lettura di quel testo. 

Gesù, dopo aver letto il brano tralasciando i versetti finali che annunciavano “un giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 62,2b), lo commenta con pochissime parole, così riassunte da Luca: 

Oggi si è realizzata questa Scrittura

(ascoltata) nei vostri orecchi. 

Oggi, oggi (sémeron) Dio ha parlato e ha realizzato la sua Parola. Oggi, perché quando un ascoltatore accoglie la parola di Dio, è sempre oggi: è qui e adesso che la parola di Dio ci interpella e si realizza. Non c’è spazio alla dilazione: oggi! È proprio Luca a forgiare questa teologia dell’“oggi di Dio”. Per ben dodici volte nel suo vangelo risuona questo avverbio, “oggi”, di cui queste le più significative:  

per la rivelazione fatta dagli angeli a Betlemme (cf. Lc 2,11);

per la rivelazione ad opera dalla voce celeste nel battesimo (cf. Lc 3,22; variante che cita Sal 2,7);

nel nostro brano, come affermazione programmatica (cf. Lc 4,21);

durante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (cf. Lc 13,32.33);

come annuncio della salvezza fatto da Gesù a Zaccheo (cf. Lc 19,5.9);

come parola rivolta a Pietro quale annuncio del suo rinnegamento (cf. Lc 22,34.61);

come salvezza donata addirittura sulla croce, a uno dei due malfattori (cf. Lc 23,43). 

Oggi è per ciascuno di noi sempre l’ora per ascoltare la voce di Dio (cf. Sal 95,7d), per non indurire il cuore (cf. Sal 95,8) e poter così cogliere la realizzazione delle sue promesse. La parola di Dio nella sua potenza risuona sempre oggi, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti” (Lc 8,8; cf. Mc 4,9; Mt 13,9). Oggi si ascolta e si obbedisce alla Parola o la si rigetta; oggi si decide il giudizio per la vita o per la morte delle nostre vicende; oggi è sempre parola che possiamo dire come ascoltatori autentici di Gesù: “Oggi abbiamo visto cose prodigiose” (Lc 5,26). E possiamo dirla anche dopo un passato di peccato: “Oggi ricomincio”, perché la vita cristiana è andare “di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine” (Gregorio di Nissa). 

Gesù è dunque il profeta atteso e annunciato dalle sante Scritture, il profeta ultimo e definitivo, ma questo non lo proclama apertamente, bensì lascia ai suoi ascoltatori di comprendere la sua identità facendo discernimento sulle azioni che egli compie, accogliendo la novità della buona notizia da lui annunciata. Gesù è il Cristo, il Messia unto da Dio (échrisen), non con un’unzione di olio ma attraverso lo Spirito santo; è l’inviato per portare ai poveri, sempre in attesa della giustizia, il Vangelo; per proclamare ai prigionieri di ogni potere la liberazione; per dare la vista ai ciechi; per liberare gli oppressi da ogni forma di male; per annunciare l’anno di grazia del Signore, il tempo della misericordia, dell’amore gratuito di Dio. 

Missione profetica questa, che Gesù ha inaugurato con segni e parole, ma missione affidata ai discepoli nel loro abitare la storia nella compagnia degli uomini. Sì, queste parole di Gesù ci possono sembrare una promessa mai realizzata, perché i poveri continuano a gridare, gli oppressi e i prigionieri continuano a gemere e neppure i cristiani sanno vivere la misericordia di Dio annunciata da Gesù. Eppure questa liturgia della Parola, che ha avuto in Gesù non solo il lettore e l’interprete, ma soprattutto colui che l’ha compiuta e realizzata, illumina tutto il suo ministero: da Nazaret, dove egli l’ha inaugurata nella sinagoga, a Gerusalemme, dove in croce porterà a compimento la sua missione.

il commento al vangelo della domenica

senza vino non c’è festa

il commento di E. Bianchi al Vangelo della seconda domenica del tempo ordinario anno C
Gv 2,1-11

¹Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. ²Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. ³Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo ¹⁰e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
¹¹Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Comprendere nelle sue profondità il racconto giovanneo delle nozze di Cana non è un’operazione facile, anche se lo si legge sovente soprattutto in occasione della celebrazione del matrimonio cristiano. La vera domanda che sorge, infatti, è: “Che nozze sono queste?”. E anche: “Chi è lo sposo, chi è la sposa?”.

Il vero protagonista, in effetti, è solo Gesù e i diversi personaggi – la madre, i discepoli, i servi – sono presentati solo in riferimento a lui. I due coniugi che celebrano quelle nozze non appaiono mai e lo sposo al quale si rivolge il maestro di tavola non parla neppure per dare una risposta. In questo modo il quarto vangelo vuole rivelarci che Gesù, radunata la comunità dei discepoli chiamati a sé nel precedente capitolo, celebra le nozze con lei, la sposa con cui stringe la nuova alleanza nuziale. 

Resta molto significativo che “la madre di Gesù”, mai chiamata con il suo nome di Maria in questo vangelo, “era già la” (ên ekeî), quale presenza che precede sia Gesù sia i discepoli invitati a quelle nozze. È già là, perché è innanzitutto la figlia di Sion, la figura di Israele che attende l’ora del Messia, e significativamente sta là “all’inizio dei segni” di Gesù, come starà là presso la croce, al compimento di tutti i segni operati da Gesù (cf. Gv 19,25). 

Giovanni precisa anche che queste nozze avvengono alla fine della settimana inaugurale del ministero simbolico di Gesù, tre giorni dopo i quattro giorni indicati in precedenza. Così quello delle nozze è il terzo giorno, giorno che evoca l’epifania del Signore al Sinai e la celebrazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo (cf. Es 19,10.16), giorno della gloria di Gesù, giorno in cui si è rivelato quale Signore risorto e vivente (cf. 1Cor 15,4).  Ed ecco che tutti sono ormai al banchetto nuziale, ma manca il vino! In questa situazione di mancanza di un elemento necessario alla festa, la madre di Gesù, attenta a quello svolgimento, interviene presso il figlio dicendogli: “Non hanno vino!”. In tal modo afferma una situazione reale e, nel contempo, invita rispettosamente Gesù a fare qualcosa. Se non vi è vino, come si potranno celebrare le nozze con la gioia necessaria alla festa? Penso sovente che se la chiesa, come la madre di Gesù, in mezzo all’umanità svolgesse anche solo questa funzione di far notare al Signore che “non c’è vino”, non c’è gioia, questo sarebbe già da parte sua assolvere un ministero essenziale…  Nelle Scritture il vino è innanzitutto promessa di Dio stesso, dono della beatitudine e della gioia fatto al suo popolo. È il vino che rallegra il cuore dell’uomo (cf. Sal 104,15), ma anche il cuore di Dio (cf. Gdc 9,13: ’Elohim), ed è proprio il vino che segnerà il banchetto escatologico promesso, attraverso il profeta, a tutti i popoli della terra, quel banchetto in cui si celebrerà la liberazione definitiva dalla morte (cf. Is 25,8): “Il Signore dell’universo imbandirà un banchetto, lo preparerà per tutti i popoli sul monte Sion, un banchetto di vivande scelte e vini eccellenti, di cibi gustosi e vini raffinati” (Is 25,6). È il vino che celebra il clima dell’amore tra lo sposo e la sposa nella “cella vinaria” (Ct 2,4) del Cantico dei cantici, vino che scenderà come rigagnoli dalle colline della terra benedetta (cf. Gl 4,18). È il vino della gratuità, che fa trascendere la vita sotto il segno della necessità del pane (cf. Sal 104,15), in un eccesso che chiama l’uomo e la donna fuori di sé. Per questo nel pasto lasciato da Gesù come suo memoriale ci sono il pane necessario e il vino gratuito (cf. Mc 14,22-24 e par.; 1Cor 11,23-25), perché l’umano deve sempre affermare l’uno e l’altro, sentirsi creatura bisognosa ma anche capace di creazione, di bellezza, di canto e di danza.  

Non c’è dunque celebrazione di nozze senza vino, e la madre di Gesù per questo interviene. Ma la risposta enigmatica di Gesù avviene tramite parole che creano una distanza, che le chiedono di restare al suo posto, perché in quanto madre fisica di Gesù non può pretendere nulla: “Che cosa c’è tra me e te, o donna?”. In altri termini, Gesù le sta dicendo che, se c’è una sua relazione primaria con lui, non è il suo averlo generato fisicamente, ma è una relazione più profonda e decisiva con Dio stesso. Poi aggiunge: “Non è ancora giunta la mia ora!”. Anche questa è una parola enigmatica, che forse allude a quell’ora che né lui stesso né sua madre possono decidere. È e sarà l’ora di Gesù come e quando la vuole il Padre, e Gesù ne riceverà il segno dal Padre stesso. Perciò Maria da madre si mostra subito discepola che ascolta, obbedisce al figlio e chiede agli altri di fare lo stesso: “Tutto quello che vi dirà, fatelo”. La madre si manifesta innanzitutto quale discepola e perciò chiede che siano riservati a Gesù ascolto e obbedienza, nient’altro. Non ha un messaggio proprio, non può dire altre parole, perché è una donna credente, capace di ascolto, obbediente al Signore: è la prima discepola tra i discepoli, che invita tutti a diventare discepoli di Gesù!

A questo punto Gesù dà un segno in cui anticipa la sua ora, non ancora venuta, ma che giungerà solo alla croce, dove si celebreranno nozze di sangue. I servi di tavola subito gli obbediscono: portano sei giare piene di acqua, che serviva per la purificazione. Quest’acqua, che secondo i padri della chiesa è segno di tutta l’economia dell’antica alleanza, a causa della presenza di Gesù diventa la bevanda messianica della nuova alleanza. È significativo che il maestro di tavola, colui che la presiedeva, in realtà “non sapeva da dove (póthen) venisse quel vino”, mentre i servi che hanno obbedito alla parola di Gesù sanno che quel vino messianico viene da lui. Così “è avvenuta la manifestazione (ephanérosen) della gloria di Gesù” e i discepoli hanno creduto in lui. Il segno di Cana è simbolico: nozze e alleanza tra Gesù e la sua chiesa.  Quell’acqua così abbondante, più di seicento litri, diventa il vino per le nozze! Quantità e qualità eccezionali dicono che quel vino e più di un semplice vino, è il vino dell’amore donato da Gesù ai suoi, è l’amore che non può più mancare. Noi ancora oggi continuiamo a bere di quel vino di Cana donatoci da Gesù, e alla sua tavola, quando celebriamo l’incontro con lui, l’adesione a lui, la fede in lui, celebriamo le nozze tra lui e la comunità cristiana, la chiesa, suo corpo. Come nelle nozze i due diventano “una sola carne” (Gen 2,24; Mc 10,7.8; Mt 19,5.6; Ef 5,31), così nell’eucaristia i credenti diventano corpo di Cristo, Signore e Sposo, Sposo che si dà totalmente alla sua comunità, alla sua sposa.  

Perché è così potente e intrigante la metafora delle nozze? Perché più di altre esprime la verità dell’incarnazione: corpi che diventano un solo corpo, comunione e comunicazione nel canto dell’amore, nella sobria ebbrezza del vino. Il nostro linguaggio umano è limitato, soprattutto quando vuole alludere a realtà invisibili, e allora fa ricorso alle realtà più umane, umanissime: il mangiare, il bere vino, l’incontro dei corpi nella celebrazione dell’amore reciproco e della reciproca appartenenza. Siamo sempre invitati al banchetto di Cana, non per cercare uno sposo e una sposa che non ci sono, ma per essere noi coinvolti in questo incontro tra Cristo, Signore e Sposo, e la sua comunità. Si tratta di andare a Cana,

di cercare di vedere con occhi di fede,

di ascoltare le parole della fede,

di eseguire le parole dette da Gesù,

di gustare il vino del Regno

e di toccare, sì di toccare il corpo di Gesù. 

Allora sentiremo che lui è in attesa di bere presto con noi il vino nuovo del Regno (cf. Mc 14,25 e par.): l’ha bevuto sulla terra, l’ha lasciato a noi in dono eucaristico, ma lo berrà di nuovo con noi nella terra nuova, nel cielo nuovo (cf. Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1).

il commento al vangelo della domenica

sul Giordano Gesù è nido della colomba del cielo


il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica del Battesimo del Signore
Anno C

In quel tempo (…) Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il Battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Il popolo era in attesa e tutti si domandavano, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo. Siamo così, creature di desiderio e di attesa, con dentro, sulla via del cuore, questo “tendere-a”, appassionato e attento, dato che il presente non basta a nessuno. L’attesa è così forte che fa nascere sentieri, e la gente è spinta fuori, sulla strada. Lascia il tempio e Gerusalemme dalle belle pietre, per cercare un luogo di sabbia e acqua, a decine di chilometri, dove si alzava una voce libera come il vento del deserto.
Sei tu il Messia? E Giovanni scende dall’altare delle attese della gente per dire: no, non sono io. Viene dopo di me colui che è più forte di me». In che cosa consiste la sua forza? Lui è il più forte perché ha il fuoco, perché parla al cuore del popolo, come aveva profetizzato Osea: la condurrò al deserto e là parlerò al suo cuore. Due soli versetti raccontano il Battesimo di Gesù, quasi un inciso, in cui però il grande protagonista è lo Spirito Santo.
Sul Giordano la colomba del cielo cerca il suo nido, e il suo nido è Gesù. Lo Spirito ancora adesso cerca il suo nido, e ognuno di noi è nido della colomba di Dio.
Gesù stava in preghiera, e il cielo si aprì. Bellissima questa dinamica causa-effetto. Gesù sta in preghiera, e la meravigliosa risposta di Dio è di aprire il cielo. E non è vuoto e non è muto. Per ogni nostra preghiera la dinamica è sempre la stessa: una feritoia, una fenditura che si apre nel cielo chiuso e ne scende un volo di parole: Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento.
Ogni preghiera non fa che ripetere incessantemente questo: «Parlami / aspetto a carne aperta / che mi parli./ Noi non siamo qui per vivere / ma perché qualcuno / deve parlarci» (Franco Arminio).
E la prima parola è “Figlio”. La “parola” scende e si fa, nel deserto, e qui, un “figlio”. Dio è forza di generazione, che come ogni essere genera secondo la propria specie. Siamo specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro. Posta in principio a tutte, “figlio” è parola che sta all’inizio perché sta anche alla fine di tutto.
“Tu sei amato” è la seconda parola. Di immeritato amore, asimmetrico, unilaterale, incondizionato. Qui è posto il fondamento di tutta la legge. “Tu sei amato” è il fondamento; “tu amerai” è il compimento. Chi esce da questo, amerà il contrario della vita.
Mio compiacimento è la terza parola, l’ultima. Un termine che non ci è abituale, eppure parola lucente, pulsante: c’è in Dio una vibrazione di gioia, un fremito di piacere; non è un essere freddo e impersonale, senza emozioni, ma un Padre apritore di cieli, felice di essere padre, in festa davanti a ognuno dei suoi figli.
(Letture: Isaia 40, 1-5.9-11; Salmo 103; Tito 2, 11-14; 3, 4-7; Luca 3, 15-16. 21-22).

il commento al vangelo della domenica

la vertigine del Natale, la vita di Dio in noi


La vertigine del Natale, la vita di Dio in noi
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica dopo natale


In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce […].

Giovanni, unico tra gli evangelisti, comincia il Vangelo non con un racconto, ma con un inno che opera uno sfondamento dello spazio e del tempo: in principio era il Verbo e il Verbo era Dio. In principio “bereshit”, prima parola della Bibbia, punto sorgivo da cui tutto ha inizio e senso. Un principio che non è solo cronologico, ma fondamento, base e destino. Senza di lui nulla di ciò che esiste è stato fatto. Un’esplosione di bene, e non il caos, ha dato origine all’universo. Non solo gli esseri umani, ma anche la stella e il filo d’erba e la pietra e lo scricciolo appena uscito dal bosco, tutto è stato plasmato dalle sue mani. Siamo da forze buone miracolosamente avvolti, scaturiti da una sorgente buona che continua ad alimentarci, che non verrà mai meno, fonte alla quale possiamo sempre attingere. E scoprire così che in gioco nella nostra vita c’è sempre una vita più grande di noi, e che il nostro segreto è oltre noi. Mettere Dio ‘in principio’, significa anche metterlo al centro e alla fine. Veniva nel mondo la luce vera quella che illumina ogni uomo. Ogni uomo, e vuol dire davvero così: ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni anziano è illuminato; nessuno escluso, i buoni e i meno buoni, i giusti e i feriti, sotto ogni cielo, nella chiesa e fuori dalla chiesa, nessuna vita è senza un grammo di quella luce increata, che le tenebre non hanno vinto, che non vinceranno mai. In Lui era la vita… Cristo non è venuto a portare una nuova teoria religiosa o un pensiero più evoluto, ma a comunicare vita, e il desiderio di ulteriore vita. Qui è la vertigine del Natale: la vita stessa di Dio in noi. Profondità ultima dell’Incarnazione.. Il verbo si è fatto carne. Non solo si è fatto uomo, e ci sarebbe bastato; non solo si è fatto Gesù di Nazaret, il figlio della bellissima, e sarebbe bastato ancor di più; ma si è fatto carne, creta, fragilità, bambino impotente, affamato di latte e di carezze, agnello inchiodato alla croce, in cui grida tutto il dolore del mondo. Venne fra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto. Dio non si merita, si accoglie. Parola bella che sa di porte che si aprono, parola semplice come la mia libertà, parola dolce di grembi che fanno spazio alla vita e danzano: si accoglie solo ciò che da gioia. A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. Il potere, l’energia felice, la potenza gioiosa di diventare ciò che siamo: figli dell’amore e della luce, i due più bei nomi di Dio. Cristo, energia di nascite, nasce perché io nasca. Nasca nuovo e diverso. La sua nascita vuole la mia nascita a figlio. Perché non c’è altro senso, non c’è altro destino, per noi, che diventare come lui.
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Lettera agli Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)

il commento al vangelo della domenica

BEATA LA CASA DOVE SI IMPARA A SCONFINARE
il commento di E Ronchi al vangelo della domenica della Santa Famiglia
Maria e Giuseppe cercano per tre giorni il loro ragazzo, avanti e indietro per la città.
Quel padre e quella madre angosciati ci sono vicini in questa fragilità che conosciamo bene.
Maria più che rimproverare il figlio, vuole capire: perché ci hai fatto questo?
Perché una spiegazione c’è sempre, e forse più bella e semplice di quanto temevi.
Un dialogo senza accuse: di fronte ai genitori, che ci sono e si vogliono bene – le due cose che importano ai figli – c’è un ragazzo che ascolta e risponde.
Grande cosa il dialogo, anche faticoso! Se le cose sono difficili a dirsi, a non dirle si scavano buie gallerie.
Non sapevate che devo occuparmi d’altro da voi?
I figli non sono nostri, appartengono a Dio, al mondo, alla loro vocazione, ai loro sogni. Un figlio non deve impostare la propria vita in funzione dei genitori, si fermerebbe così la ruota della creazione.
Non lo sapevate? Ma come, me lo avete insegnato voi il primato di Dio! Madre, tu mi hai insegnato ad ascoltare angeli! Padre, tu mi hai raccontato che talvolta la vita dipende dai sogni!
Ma essi non compresero.
Famiglia santa per definizione, eppure in cammino. Santi e profeti che non capiscono neppure la loro stessa casa. Ma ecco il tesoro nascosto: «sua madre conservava con cura tutte queste cose», serbava attenta le parole di Dio e i fatti della vita, li teneva nel cuore perché si dipanasse un giorno, dal loro confronto, il filo d’oro che li avrebbe spiegati e illuminati, legandoli assieme.
Gesù lascia i maestri della Legge e torna a casa con i genitori, suoi maestri di vita. Per anni impara l’arte di essere uomo guardandoli vivere: lei teneramente forte, mai passiva; lui padre non autoritario, che sa anche tirarsi indietro.
Come poteva altrimenti trattare le donne con quel suo modo sovranamente libero?
E inaugurare relazioni nuove tra uomo e donna, paritarie e senza paure?
Le beatitudini Gesù le ha viste tutte in quella casa, le ha imparate da loro: erano poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pace, con viscere di misericordia per tutti. E il loro parlare era: sì, sì; no, no. Stava così bene con loro, che con Dio adotta il linguaggio di casa, e lo chiama: abbà, papà.
Un amore vivo e potente, incarnato e quotidiano, che vive nella carezza, nel cibo preparato, nel nomignolo affettuoso, nella parola scherzosa che scioglie le tensioni, nella pazienza di ascoltare, nel desiderio di abbracciarsi.
A questo vangelo non chiederò consigli spiccioli per vivere, chiederò invece le cose di Dio: non vantare diritti di possesso sui figli, conservando nel cuore ciò che oggi non si capisce, perché un giorno la risposta verrà, e sarà luce.
Beata la famiglia dove si impara a sconfinare, verso gli uomini e verso Dio.
Beata la casa dove i figli imparano l’arte più importante quella di amare, l’arte che li farà felici.
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