il commento al vangelo della domenica

Elisabetta e Maria

così è l’arte dell’incontro


Elisabetta e Maria, così è l'arte dell'incontro
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di Avvento Anno C


In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. (…)Maria si mise in viaggio in fretta.

Appena partito l’angelo, anche lei vola via da Nazaret. Il suo cammino sembra ricalcare a ritroso le orme che Gabriele ha lasciato nell’aria per giungere da lei: «gli innamorati volano» (santa Camilla Battista da Camerino).
Appena giunta in quella casa di profeti, Maria si comporta come Gabriele con lei. «Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta»: angelo di un lieto annunzio, che il bimbo nel grembo della madre percepisce subito, con tutto se stesso, come una musica, un appello alla danza, una tristezza finita per sempre: «il bambino ha sussultato di gioia» . Il Santo non è più al tempio, è lì, nella carne di una donna, «dolce carne fatta cielo» (M. Marcolini). Nella danza dei grembi, nella carne di due donne, si intrecciano ora umanità e divinità. Nella Bibbia, quando gli uomini sono fragili, o corrotti, o mancano del tutto, entrano in gioco le donne (R. Virgili).
Da Maria ed Elisabetta impariamo anche noi l’arte dell’incontro: la corsa di Maria è accolta da una benedizione. Un vento di benedizione dovrebbe aprire ogni dialogo che voglia essere creativo. A chi condivide con me strada e casa, a chi mi porta un mistero, a chi mi porta un abbraccio, a chi mi ha dato tanto nella vita, io ripeterò la prima parola di Elisabetta: che tu sia benedetto, Dio mi benedice con la tua presenza, possa Egli benedire te con la mia presenza.
Benedetta tu fra le donne. Su tutte le donne si estende la benedizione, su tutte le figlie di Eva, su tutte le madri del mondo, su tutta l’umanità al femminile, su «tutti i frammenti di Maria seminati nel mondo e che hanno nome donna» (G. Vannucci). E beata sei tu che hai creduto. Risuona la prima delle tante beatitudini dell’evangelo, e avvolge come un mantello di gioia la fede di Maria: la fede è acquisizione di bellezza del vivere, di un umile, mite e possente piacere di esistere e di fiorire, sotto il sole di Dio.
Elisabetta ha iniziato a battere il ritmo, e Maria intona la melodia, diventa un fiume di canto, di salmo, di danza. Le parole di Elisabetta provocano una esplosione di lode e di stupore: magnificat. I primi due profeti del Nuovo Testamento sono due madri con una vita nuova, che balza su dal grembo, e afferma: «Ci sono!». E da loro imparo che la fede e il cristianesimo sono questo: una presenza nella mia esistenza. Un abbraccio nella mia solitudine. Qualcuno che viene e mi consegna cose che neppure osavo pensare.
Natale è la convinzione santa che l’uomo ha Dio nel sangue; che dentro il battito umile e testardo del mio cuore palpita un altro cuore che – come nelle madri in attesa – batte appena sotto il mio. E lo sostiene. E non si spegne più.

(Le letture: Michea 5,1-4a; Salmo 79; Lettera agli Ebrei 10,5-10; Luca 1,39-45)




il commento al vangelo della domenica

le tre regole indicate da Giovanni per cambiare


Le tre regole indicate da Giovanni per cambiare
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della terza domenica di avvento Anno C


In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». (…)

Le folle interrogavano Giovanni. Va da lui la gente che non frequenta il tempio, gente qualunque, pubblicani, soldati; vanno da quell’uomo credibile con un’unica domanda, che non tocca teologia o dottrina, ma va diritta al cuore della vita: che cosa dobbiamo fare? Perché la vita non può essere solo lavorare, mangiare, dormire, e poi di nuovo lavorare… Tutti sentiamo che il nostro segreto è oltre noi, che c’è una vita ulteriore, come appello o inquietudine, come sogno o armonia. Una fame, una voglia di partire: profeta del deserto, tu conosci la strada? Domandano cose di tutti i giorni, perché il modo con cui trattiamo gli uomini raggiunge Dio, il modo con cui trattiamo con Dio raggiunge gli uomini. Giovanni risponde elencando tre regole semplici, fattibili, alla portata di tutti, che introducono nel mio mondo l’altro da me. Il profeta sposta lo sguardo: da te alle relazioni attorno a te. Prima regola: chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto. Regola che da sola basterebbe a cambiare la faccia e il pianto del mondo. Quel profeta moderno che era il Mahatma Gandhi diceva: ciò che hai e non usi è rubato ad un altro. Giovanni apre la breccia di una terra nuova: è vero che se metto a disposizione la mia tunica e il mio pane, io non cambio il mondo e le sue strutture ingiuste, però ho inoculato l’idea che la fame non è invincibile, che il dolore degli altri ha dei diritti su di me, che io non abbandono chi ha fatto naufragio, che la condivisione è la forma più propria dell’umano. Vengono ufficiali pubblici, hanno un ruolo, un’autorità: Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato. Una norma così semplice da sembrare perfino realizzabile, perfino praticabile: una insurrezione di onestà, la semplice rivolta degli onesti: almeno non rubate! Vengono anche dei soldati, la polizia di Erode: hanno la forza dalla loro, estorcono pizzi e regalie; dicono di difendere le legge e la violano: voi non maltrattate e non estorcete niente a nessuno. Non abusate della forza o della posizione per offendere, umiliare, far piangere, ferire, spillare soldi alle persone. Niente di straordinario. Giovanni non dice “lascia tutto e vieni nel deserto”; semplici cose fattibili da chiunque: non accumulare; se hai, condividi; non rubare e non usare violenza. Il brano si conclude con Giovanni che alza lo sguardo: Viene uno più forte di me e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. È il più forte non perché si impone e vince, ma perché è l’unico che parla al cuore, l’unico che “battezza nel fuoco”. Ha acceso milioni e milioni di vite, le ha accese e le ha rese felici. Questo fa di lui il più forte. E il più amato.
(Letture: Sofonia 3,14-17; Salmo Is 12,2-6; Lettera ai Filippesi 4,4-7; Luca 3,10-18)




il commento al vangelo della domenica

se non alzi il tuo capo non vedrai l’arcobaleno


Se non alzi il tuo capo non vedrai l'arcobaleno
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della  I Domenica di Avvento Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. (…).

Ricomincia da capo l’anno liturgico, quando ripercorreremo un’altra volta tutta la vita di Gesù. L’anno nuovo inizia con la prima domenica d’Avvento, il nostro capodanno, il primo giorno di un cammino (quattro settimane) che conduce a Natale, che è il perno attorno al quale ruotano gli anni e i secoli, l’inizio della storia nuova, quando Dio è entrato nel fiume dell’umanità. Ci saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per ciò che dovrà accadere. Il Vangelo non anticipa la fine del mondo, racconta il segreto del mondo: ci prende per mano e ci porta fuori, a guardare in alto, a sentire il cosmo pulsare attorno a noi; ci chiama ad aprire le finestre di casa per far entrare i grandi venti della storia, a sentirci parte viva di una immensa vita. Che patisce, che soffre, ma che nasce. Il mondo spesso si contorce come una partoriente, dice Isaia, ma per produrre vita: è in continua gestazione, porta un altro mondo nel grembo. La terra risuona di un pianto mai finito, ma il Vangelo ci domanda di non smarrire il cuore, di non camminare a capo chino, a occhi bassi. Risollevatevi, alzate il capo, guardate in alto e lontano, la liberazione è vicina. Siamo tentati di guardare solo alle cose immediate, forse per non inciampare nelle macerie che ingombrano il terreno, ma se non risolleviamo il capo non vedremo mai nascere arcobaleni. Uomini e donne in piedi, a testa alta, occhi nel sole: così vede i discepoli il Vangelo. Gente dalla vita verticale. Allora il nostro compito è di sentirci parte dell’intero creato, avvolti da una energia più grande di noi, connessi a una storia immensa, dove anche la mia piccola vicenda è preziosa e potente, perché gravida di Dio: «Cristo può nascere mille volte a Betlemme, ma se non nasce in me, è nato invano» (Meister Eckart). Gesù chiede ai suoi leggerezza e attenzione, per leggere la storia come un grembo di nascite. Chiede attenzione ai piccoli dettagli della vita e a ciò che ci supera infinitamente: “esisterà pur sempre anche qui un pezzetto di cielo che si potrà guardare, e abbastanza spazio dentro di me per poter congiungere le mani nella preghiera” (Etty Hillesum). Chiede un cuore leggero e attento, per vegliare sui germogli, su ciò che spunta, sul nuovo che nasce, sui primi passi della pace, sul respiro della luce che si disegna sul muro della notte o della pandemia, sui primi vagiti della vita e dei suoi germogli. Il Vangelo ci consegna questa vocazione a una duplice attenzione: alla vita e all’infinito. La vita è dentro l’infinito e l’infinito è dentro la vita; l’eterno brilla nell’istante e l’istante si insinua nell’eterno. In un Avvento senza fine.
(Letture: Geremia 33,14-16; Salmo 24; Prima Lettera ai Tessalonicesi 3,12-4,2; Luca 21,25-28.34-36)




il commento al vangelo della domenica

è l’amore disarmato che cambia il mondo


È l'amore disarmato che cambia il mondo
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della solennità di Cristo Re (Anno B)
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». (…) Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Pilato, l’uomo che detiene il maggior potere in Gerusalemme, e il giovane rabbi disarmato: l’uno di fronte all’altro, di fronte alla storia del mondo.
Tu sei il re dei giudei? Possibile che quel galileo dallo sguardo limpido e diritto sia a capo di una rivolta, che ne nasca un pericolo per Roma? No, quell’uomo inerme è un pericolo per i complotti del sinedrio, per i giochi dei politici: ti hanno consegnato a me, vogliono ucciderti. Cosa hai fatto? Gesù mi commuove con il suo coraggio, con la sua statura interiore, mentre fa alzare sul pretorio un vento regale di libertà e fierezza. E adesso apre il mondo di Pilato, lo dilata, fa irrompere un’altra dimensione, un’altra latitudine del cuore: il mio regno non è di questo mondo, dove si combatte, si fa violenza, si abusa, si inganna, ci si divora. Nel mio regno non ci sono legioni, né spade, né predatori. Per i regni di quaggiù, per il cuore di quaggiù, l’essenziale è vincere, nel mio Regno la cosa più importante è servire. Il mio regno appartiene ai poveri, ai limpidi, ai liberi, agli artigiani della pace e della giustizia… Sono venuto per far sorgere i re di domani tra i piccoli di oggi. «Sono venuto nel mondo, per testimoniare un’altra verità». La parola di Gesù è vera proprio perché disarmata, non ha altra forza che la sua luce. È lì davanti, la verità; è quell’uomo in cui le parole più belle del mondo sono diventate carne e sangue, sono diventate vere. Oggi non celebriamo la salita al trono del padrone del mondo, Gesù non è questo: lui è l’autore e il servitore della vita. Che ci cambia la logica della storia attraverso la rivoluzione della tenerezza, parola ultima sul senso della nostra esistenza e, insieme, sul cuore di Dio. Allora, chi è il mio re? Chi il mio Signore? Chi da ordini al mio futuro? Io scelgo lui, ancora lui, il nazareno, con la certezza che il nostro contorto cuore, questa storia aggrovigliata, stanno percorrendo, nonostante tutte le smentite, un cammino di salvezza. Perché Dio è coinvolto, è qui, ha le mani impigliate per sempre nel folto di ogni vita. Pilato prende l’affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l’iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei. Voleva deriderlo, e invece è stato profeta: il re è visibile là, sulla croce, con le braccia aperte, dove dona tutto di sé e non prende niente di nostro. Potere vero, quello che cambia il mondo, è la capacità di amare così, di disarmato amore, fino all’ultimo, fino all’estremo, fino alla fine.
Venga il tuo Regno, Signore, e sia bello come tutti i sogni, sia intenso come tutte le lacrime di chi visse e morì nella notte per forzarne l’aurora.

(Letture: Daniele 7,13-14; Salmo 92; Apocalisse 1,5-8; Giovanni 18,33b-37)




il commento al vangelo della domenica

la povera vedova vera maestra di generosità


La povera vedova vera maestra di generosità
il commento di Ermes Ronchi  al vangelo della XXXII domenica del tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Gesù (…) seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Una donna senza nome, sola, vedova, povera, è l’ultimo personaggio che Gesù incontra nel vangelo di Marco, l’ultima maestra. Gesù ha sempre mostrato una predilezione particolare per le donne sole. Appartengono alla triade biblica dei senza difesa: vedove, orfani e stranieri. E allora Dio interviene e prende le loro difese: “sono miei!”. Una maestra senza parole e senza titoli, sapiente di lacrime e di coraggio, e “se tu ascoltassi una sola volta la lezione del cuore faresti lezione agli eruditi” (Rumi).
Seduto nel locale delle offerte, Gesù osserva: il suo sguardo si è fatto penetrante e affilato come quello dei profeti, come chi ama e ha cura della vita in tutti i suoi dettagli. Vede un gesto da nulla in cui si cela il divino, vede l’assoluto balenare nel dettaglio di due centesimi. Lei ha gettato nel tesoro due spiccioli, ma ha dato più di tutti gli altri. Perché di più di tutti gli altri? Perché le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. Le sue bilance non pesano la quantità, ma il cuore. Quella donna non dà qualcosa del suo superfluo, getta tutto, si spende fino in fondo nella sua relazione con Dio, ci mette tutto quello che ha per vivere.
Non cercate nella vita persone sante, forse le troverete forse no (infatti non sappiamo se la vita morale della donna fosse retta o meno), non cercate persone perfette, cercate piuttosto persone generose, che danno tempo e affetti, quelle dei piccoli gesti con dentro tanto cuore. Non è mai irrisorio o insignificante un gesto di bontà cavato fuori dalla nostra povertà. Affidiamoci ai generosi, non ai perfetti o ai potenti.
Le parole originarie di Marco sono geniali: gettò nel tesoro intera la sua vita. Quella donna ha messo in circuito nelle vene del mondo molto cuore e l’intero patrimonio della sua vita. E tutto questo circola nell’universo come una energia mite e possente, perché ogni gesto umano compiuto con tutto il cuore ci avvicina all’assoluto di Dio. Ogni atto umano “totale” contiene qualcosa di divino.
Questa donna ha dato di più. La domanda dell’ultima sera risuonerà con lo stesso verbo: hai dato poco o hai dato molto alla vita? Dove tu passavi, dietro di te, rimaneva più vita o meno vita? I primi posti appartengono a quelli che, in ognuna delle nostre case o città, danno ciò che fa vivere, regalano cuore con gesti piccoli e grandi, gesti di cura, accudimento, attenzione, gentilezza, rivolti ai genitori o ai figli o a sconosciuti. Fossero anche solo due spiccioli di bontà, solo briciole, solo un sorriso o una carezza, chi li compie con tutto il cuore crede nel futuro. La notte comincia con la prima stella, il mondo nuovo con il primo gesto di un piccolo samaritano buono.

(Letture: Primo libro dei Re 17,10-16; Salmo 145; Lettera agli Ebrei 9,24-28; Marco 12,38-44)




il commento al vangelo della domenica


amare Dio e il prossimo: un unico amore!
il commento di E. Bianchi al Vangelo della trentunesima domenica del tempo ordinario: anno B
Mc 12,28-34
 

²⁸Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». ²⁹Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; ³⁰amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. ³¹Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». ³²Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; ³³amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». ³⁴Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Uno scriba che ha appena ascoltato la discussione di Gesù con i sadducei a proposito della resurrezione dei morti (cf. Mc 12,18-27) e ha apprezzato la sua sapienza, si avvicina a lui per chiedergli: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Domanda che nasce da un’esigenza assai diffusa nell’ambiente religioso del tempo di Gesù: operare una sintesi dei precetti di Dio presenti nella Torah (613, secondo il Talmud babilonese), così da giungere all’essenziale, a ciò che costituisce l’intenzione profonda del cuore di Dio, della sua offerta di vita e di senso a tutta l’umanità. 

Gesù risponde citando come primo comandamento l’inizio dello Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,4-9) ossia la grande professione di fede nel Signore Dio ripetuta tre volte al giorno dal credente ebreo, centrale in tutta la tradizione rabbinica: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è uno. Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,4-5). Questa preghiera rivela che l’ascolto ha un primato assoluto, è la modalità di relazione decisiva dell’uomo nei confronti di Dio: l’ascolto obbediente è il fondamento dell’amore. Anzi, le parole del Deuteronomio riprese da Gesù sembrano addirittura tracciare un movimento che dall’ascolto (“Ascolta, Israele”) conduce alla fede (“Il Signore è il nostro Dio”), dalla fede alla conoscenza (“Il Signore è uno”) e dalla conoscenza all’amore (“Amerai il Signore”)… Al Dio che ci ama di un amore eterno (cf. Ger 31,3), che ci ama per primo gratuitamente (cf. 1Gv 4,19), si risponde con un amore libero e pieno di gratitudine, che si radica nell’ascolto obbediente della sua Parola, fonte della fede. Fidarsi di Dio significa fidarsi del suo amore della sua capacità di amare, del suo essere amore (cf. 1Gv 4,8.16). Questo significa credere in Dio e dunque anche, inseparabilmente, amarlo. 

Qui possiamo e dobbiamo approfondire la nostra meditazione, chiedendoci cosa significhi amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Che amore è mai questo verso un tu invisibile, “tre volte santo” (cf. Is 6,3), cioè altro, distinto da chi ama? Nella tradizione cristiana incontriamo almeno due risposte diverse a tale questione. In Agostino e in una lunga tradizione spirituale dietro a lui, l’amore verso Dio da parte del credente è un amore di desiderio, un sentimento, una dinamica per cui il credente va alla ricerca dell’amore e dunque ama l’amore. Il linguaggio di questo amore è sovente quello presente nel Salterio: 

Io ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia rupe, mia difesa, mio liberatore (Sal 18,2-3).

L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente (Sal 42,3).

La mia anima ha sete di te, a te, mio Dio, anela la mia carne (Sal 63,2). 

Sì, Dio è oggetto di amore da parte dell’essere umano, perché è il “tu” che con il suo amore preveniente desta l’amore del credente come risposta; l’amore per Dio può essere un amore più forte di quello nutrito per se stessi o per qualche altra persona. Si faccia però attenzione: non si tratta di un amore totalitario che esclude altri amori, ma è un amore appassionato, un amore in cui non c’è timore (cf. 1Gv 4,18). In breve, un amore che supera e ri-orienta tutti gli altri amori. 

Ma nella spiritualità cristiana è presente anche un’altra interpretazione dell’amore per Dio. È quella che legge nell’amore per Dio un amore obbediente, nel senso di un amore che nasce dall’ascolto (ob-audire), di un amore che risponde “amen” alla parola del Signore e all’amore stesso del Signore sempre preveniente. È un amore non di desiderio, di ricerca, di nostalgia, ma di adesione; è un amore con cui il credente cerca di realizzare pienamente la volontà di Dio, cerca di vivere come vuole il suo Signore e così mostra di amarlo. Ci sono parole di Gesù anche a questo proposito: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15); “se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). E ancora, nella Prima lettera di Giovanni: “Questo è l’amore di Dio, osservare i suoi comandamenti” (1Gv 5,3). In questa seconda ottica l’accento cade quindi sull’amore del prossimo comandato da Dio: realizzare questo comando, sintesi di tutta la Legge e i Profeti (cf. Rm 13,10; Gal 5,14), significa amare Dio. Dunque amare Dio è innanzitutto amare l’altro come Dio lo ama, perché – come ha chiarito una volta per tutte il discepolo amato – “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). 

È in questo senso che possiamo comprendere la decisiva innovazione compiuta da Gesù, il quale accosta il comandamento dell’amore per Dio a quello dell’amore per il prossimo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). L’innovazione consiste per l’appunto nell’abbinamento di questi due passi della Torah, dato senza paralleli nella letteratura giudaica antica, ripreso invece con frequenza dai successivi scritti cristiani. Basti pensare al brano di un antichissimo scritto cristiano delle origini, la Didaché: “La via della vita è questa: innanzitutto amerai il Dio che ti ha plasmato e poi il prossimo tuo come te stesso; e tutto ciò che non vorresti fosse fatto a te, neppure tu fallo a un altro” (1,2). 

È importante riflettere sulla novità a livello dei contenuti della fede che questo accostamento di passi biblici porta con sé. È indubbio che Gesù stabilisca una precisa gerarchia tra i due precetti, ponendo l’amore per Dio al di sopra di tutto. Nello stesso tempo, però, risalendo alla volontà del Legislatore, egli discerne che amore di Dio e del prossimo sono in stretta connessione tra loro: la Legge e i Profeti sono riassunti e dipendono dall’amore di Dio e del prossimo, non l’uno senza l’altro. Non a caso nella versione di Matteo il secondo comandamento è definito simile al primo (cf. Mt 22,39), mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo … e il prossimo tuo” (Lc 10,27). In altre parole, se è vero che ogni essere umano è creato da Dio a sua immagine (cf. Gen 1,26-27), non è possibile pretendere di amare Dio e, contemporaneamente, disprezzare la sua immagine sulla terra: ecco la profonda unificazione del pensare, parlare e agire alla quale Gesù invita. Una comprensione riassuntiva delle sante Scritture porta dunque Gesù – il cui parere è condiviso dal suo interlocutore – ad affermare che l’uomo compiuto, l’uomo “non lontano dal regno di Dio” è colui che, amando Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze sa amare il prossimo come se stesso. E il prossimo è colui al quale ci facciamo prossimi, vicini, come Gesù ha affermato a commento della parabola del samaritano (cf. Lc 10,36-37). 

Nel quarto vangelo, quando dà l’ultimo e definitivo comandamento, che per questo si chiama “il comandamento nuovo”, Gesù compie un ulteriore passo avanti: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12), ossia senza misura, “fino alla fine” (Gv 13,1). In questa ardita sintesi, Gesù non ha neppure esplicitato la richiesta di amare Dio, perché sapeva bene che quando gli umani si amano in verità, quando si amano come lui li ha amati, nel fare questo vivono già l’amore di Dio. Ecco perché l’apostolo Giovanni, che nel prologo del vangelo ha scritto: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito lo ha raccontato” (Gv 1,18), è lo stesso che nella sua Prima lettera afferma: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma se ci amiamo gli uni gli altri Dio dimora in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza” (1Gv 4,12). Amando gli altri noi amiamo anche Dio e ne abbiamo una conoscenza autentica, mentre chi dice di credere in Dio senza amare i fratelli è un illuso e un bugiardo (cf. 1Gv 4,20-21)! 

Gesù ha vissuto la sua intera esistenza come capolavoro d’amore e in questo ha compiuto pienamente la volontà di Dio, è stato “l’uomo secondo il cuore di Dio”. Così facendo ha tracciato una via ben precisa per chi vuole seguirlo, semplificando all’estremo il cammino per andare a Dio: il comandamento che deve orientare la vita del cristiano è quello dell’amore per tutti, fino ai nemici (cf. Mt 5,44). Sì, l’amore concreto e quotidiano per i fratelli e le sorelle è il segno da cui si riconoscono i discepoli di Gesù Cristo, i cristiani, come ha indicato una volta per tutte Gesù stesso: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).




il commento al vangelo della domenica

siamo tutti mendicanti di amore e di luce


Siamo tutti mendicanti di amore e di luce
il commento di E. Ronchi al vangelo dell trentesima domenica del tempo ordinario:

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». (…) E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato» (…).

Vangeli di strade e di incontri, in queste settimane. «Mentre partiva da Gerico…». Siamo alle porte della città, dove le carovane dei pellegrini si ricompongono, dove si aggirano i mendicanti, sperando in una monetina tra i tanti che si danno appuntamento alle porte. Un cieco, seduto, a terra, immobile, sta lì a mendicare la sua sopravvivenza da chi passa. Ma ecco che «sentendo che era Gesù il Nazareno» Bartimeo è come investito da un brivido, da una scossa: alza la testa, si rianima, comincia a gridare il suo dolore. Non si vergogna di essere il più povero di tutti, anzi è la sua forza. Siamo tutti come lui, mendicanti di affetto o di amore o di luce. La mendicanza è la sorgente della preghiera: Kyrie eleison, grida. Tra tutte, la preghiera più cristiana ed evangelica, la più antica e la più umana. Che nelle nostre liturgie abbiamo confinato all’atto penitenziale, mentre è la richiesta di nascere di nuovo. La ripetono lebbrosi, donne, ciechi e non è richiesta di perdono per i peccati, ma di luce per gli occhi spenti, di una pelle nuova che riceva carezze ancora.
Come un bambino che grida alla madre lontana, chiedono a Dio: mostrati padre, sentiti madre di questo figlio naufrago, fammi nascere di nuovo, ridammi alla luce! Bartimeo cerca un Dio che si intrecci con la sua vita a pezzi, con i suoi stracci. Ma la folla attorno fa muro al suo grido: taci! disturbi! Terribile pensare che la sofferenza possa disturbare. Disturbare Dio! Bartimeo allora fa l’unica cosa che si può fare in questi casi: grida più forte. È il suo combattimento, con le tenebre e con la folla.
Il Nazareno ascolta il grido e risponde in un modo tutto nuovo: coinvolge la folla che prima voleva zittire il mendicante, si fida della folla, anche se è così facile a cambiare di umore: chiamatelo! E la folla va, portavoce di Cristo, e si rivolge al cieco con parole bellissime, da brivido, dove è custodito il cuore dell’annuncio evangelico. Parole facili e che vanno diritte al cuore, da imparare, da ripetere, sempre, a tutti: «Coraggio, alzati, ti chiama». Coraggio, la virtù degli inizi. Alzati, dipende da te, lo puoi fare, riprendi in mano la tua vita. Ti chiama, è qui per te, non sei solo, il cielo non è muto. Ed ecco che si libera l’energia compressa, e fioriscono gesti quasi eccessivi: non parla, grida; non si toglie il mantello, lo getta; non si alza da terra, ma balza in piedi. Guarisce in quella voce che lo accarezza, lo chiama e diventa la strada su cui cammina. Noi, che siamo al tempo stesso mendicanti e folla, nelle nostre Gerico, lungo le nostre strade, ad ogni persona a terra, portiamo in dono, senza stancarci mai, queste tre parole generanti: «Coraggio, alzati, ti chiama».
(Letture: Geremia 31, 7-9; Salmo125; Lettera agli Ebrei 5, 1-6; Marco 10, 46-52).




il commento al vangelo della domenica

 così Gesù ci spiazza

‘sono venuto per servire’


Così Gesù ci spiazza: sono venuto per servire
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della XXIX domenica tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».[…]

Tra voi non è così! Bellissima espressione che mette a fuoco la differenza cristiana. Gli altri dominano, non così tra voi. Voi vi metterete a fianco delle persone, o ai loro piedi, e non al di sopra. Gli altri opprimono. Voi invece solleverete le persone, le tirerete su per un’altra luce, altro sole, altro respiro. La storia gloriosa di ciascuno non è scritta da chi ha avuto la capacità di dominarci, ma da chi ha avuto l’arte di amarci: gloria della vita. Sono venuto per dare la mia vita in riscatto per la moltitudine… Gesù riscatta l’umano, ridipinge l’icona di cosa sia la persona, cosa sia vita e cosa no, tira fuori un tesoro di luce, di sole, di bellezza da ciascuno. Libera il volto nuovo dell’umanità, riscatta l’umano dagli artigli del disumano; riscatta il cuore dell’uomo dal potere mortifero della indifferenza. Gesù è il guaritore del peccato del mondo, che ha un solo nome: disamore. Giacomo e Giovanni, i “figli del tuono”, gli avevano chiesto, con quel tono da bambini: Vogliamo che tu ci faccia quello che vogliamo noi… Gli altri apostoli si indignano, lo fanno per rivalità, per gelosia, perché i due fratelli hanno tentato di manipolare la comunità. Ma Gesù non li segue, va avanti, salva la domanda dei due e anche l’indignazione degli altri: Li chiama a sé, nell’intimità, cuore a cuore, e spiega, argomenta. Perché dietro ad ogni desiderio umano, anche i più storti, c’è sempre una matrice buona, un desiderio di vita, di bellezza, di armonia. Ogni desiderio umano ha sempre dietro una parte sana, piccolissima magari. Ma quella è la parte da non perdere. Gli uomini non sono cattivi, sono fragili e si sbagliano facilmente. «Anche il peccato è spesso un modo sbagliato per cercarti» (D. M. Turoldo). L’ultima frase del Vangelo è di capitale importanza: Sono venuto per servire. La più spiazzante autodefinizione di Gesù. La più rivoluzionaria e contromano. Ma che illumina di colpo il cuore di Dio, il senso della vita di Cristo, e quindi della vita di ogni uomo e ogni donna. Un Dio che, mentre nel nostro immaginario è onnipotente, nella sua rivelazione è servo. Da onnipotente a servo. Novità assoluta. Perché Dio ci ha creati? Molti ricordiamo la risposta del catechismo: Per conoscere, amare e servire Dio in questa vita, e goderlo nell’altra. Gesù capovolge la prospettiva, le dà una bellezza e una profondità che stordiscono: siamo stati creati per essere amati e serviti da Dio, qui e per sempre. Dio esiste per te, per amarti e servirti, dare per te la sua vita, per essere sorpreso da noi, da questi imprevedibili, liberi, splendidi, creativi e fragili figli. Dio considera ogni figlio più importanti di se stesso.
(Letture: Isaia 53,10-11; Salmo 32; Lettera agli Ebrei 4,14-16; Marco 10,35-45)




il commento al vangelo della domenica

sarai felice se renderai felice qualcuno


Sarai felice se renderai felice qualcuno
il commento di E. Ronchi al vangelo della  XXVIII Domenica del  Tempo ordinario,  Anno B


In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: (…) «Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”» (…).

«Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri». (...)

Gesù è sulla strada, il luogo che più amava: la strada, che è di tutti, collega i lontani, è libera e aperta, una breccia nelle mura, ama gli orizzonti. Ed ecco un tale, uno senza nome ma ricco (la sua identità rubata dal denaro) gli corre incontro. Corre, come uno che ha fretta, fretta di vivere, di vivere davvero. L’uomo senza nome sta per affrontare un grande rischio: interroga Gesù per sapere la verità su se stesso. «Maestro buono, è vita o no la mia? Cosa devo fare per essere vivo davvero?». Domanda eterna. Universale.
Gesù risponde elencando cinque comandamenti e un precetto. «Maestro, tutto questo io l’ho già fatto, da sempre. Eppure…. Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. Lo amò per quel “eppure”, che racconta fame e sete d’altro: osservare la legge non ha riempito la vita.

Gesù lo fissa. Quell’uomo fa una esperienza da brividi, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso è preso dall’incantamento, dal fascino del Signore, non resiste…

Invece la conclusione cammina nella direzione che non ti aspetti: «Una cosa ti manca, va’, vendi, dona ai poveri…». Dona. Sarai felice se farai felice qualcuno. Tu non sei ciò che hai, ma ciò che dai.

Dare: verbo pauroso. Noi vogliamo prendere, trattenere, accumulare. Dare ai poveri… Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con il verbo dare. Ma l’uomo ricco se ne va triste. Noi tutti abbiamo due vite in guerra tra loro: una è fatta di cose e di quotidiano e la seconda si nutre di richiami e appelli, di vocazione e sogno.

L’uomo ricco cammina triste: hanno vinto le cose e il denaro; non seguirà più la vita come appello, ma solo la vita come esistenza ordinaria, ostaggio delle cose.

Per tre volte oggi si dice che Gesù “guardò”: con amore, con preoccupazione, con incoraggiamento. La fede altro non è che la mia risposta al corteggiamento di Dio, un’avventura che nasce da un incontro, quando Dio entra in te e io gli do tempo e cuore.
Ecco allora una delle parole più belle di Gesù: tutto è possibile presso Dio. Egli è capace di far passare un cammello per la cruna di un ago. Dio ha la passione dell’impossibile. Dieci cammelli passeranno.

Don Milani sul letto di morte lo ha capito: adesso finalmente vedo il cammello passare per la cruna dell’ago. Era lui, il cammello, lui di famiglia ricca e potente, che passava per la cruna della piccolezza.

Signore, ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio cento fratelli e un cuore moltiplicato.

«Con gli occhi nel sole
a ogni alba io so
che rinunciare per te
è uguale a fiorire» (M. Marcolini).
(Letture: Sapienza 7,7-11; Salmo 89; Lettera agli ebrei 4, 12-13; Marco 10, 17-30).




il commento al vangelo della domenica

è di Dio chi regala un sorso di vita


È di Dio chi regala un sorso di vita
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della 26 domenica  tempo ordinario Anno B


In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. (…)».

Maestro, quell’uomo non è dei nostri. Quel forestiero che fa miracoli, ma che non è iscritto al gruppo; che migliora la vita delle persone, ma forse è un po’ eretico o troppo libero, viene bloccato. E a capo dell’operazione c’è Giovanni, il discepolo amato, il teologo fine, “il figlio del tuono”’, ma che è ancora figlio di un cuore piccolo, morso dalla gelosia. «Non ti è lecito rendere migliore il mondo se non sei dei nostri!». La forma prima della sostanza, l’iscrizione al gruppo prima del bene, l’idea prima della realtà! Invece Mosè, nella prima lettura, dà una risposta così liberante a chi gli riferisce di due che non sono nell’elenco eppure profetizzano: magari fossero tutti profeti…

La risposta di Gesù, l’uomo senza frontiere, è molto articolata e molto alla Mosè: Lascialo fare! Non tracciare confini. Il nostro scopo non è aumentare il numero di chi ci segue, ma far crescere il bene; aumentare il numero di coloro che, in molti modi diversi, possano fare esperienza del Regno di Dio, che è gioia, libertà e pienezza.

È grande cosa vedere che per Gesù la prova ultima della bontà della fede non sta in una adesione teorica al “nome”, ma nella sua capacità di trasmettere umanità, gioia, salute, vita. Chiunque regala un sorso di vita, è di Dio. Questo ci pone tutti, serenamente e gioiosamente, accanto a tanti uomini e donne, diversamente credenti o non credenti, che però hanno a cuore la vita e si appassionano per essa, che sono capaci di inventarsi miracoli per far nascere un sorriso sul volto di qualcuno. Il vangelo ci chiama a «stare accanto a loro, sognando la vita insieme» (Evangelii gaudium, 74).

Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua… non perderà la sua ricompensa.

Un po’ d’acqua, il quasi niente, una cosa così semplice e povera che nessuno ne è privo.

Gesù semplifica la vita: tutto il vangelo in un bicchiere d’acqua. Di fronte all’invasività del male, Gesù conforta: al male opponi il tuo bicchiere d’acqua; e poi fidati: il peggio non prevarrà.

Mosè e Gesù, maestri della fede, ci invitano a non piantare paletti ma ad amare gli orizzonti, a guardare oltre il cortile di casa, a tutto l’accampamento umano, a tutta la strada da percorrere: alzate gli occhi, non vedete quanti semi dello Spirito volano dappertutto? Quante persone lottano per la vita dei fratelli contro i démoni moderni: inquinamento, violenza, fake news, corruzione, economia che uccide? E se anche sono fuori dal nostro accampamento, sono comunque profeti. Sono quelli che ascoltano il grido dei mietitori non pagati (Giacomo 5,4) e ridanno loro parola, perché tutto ciò che riguarda l’avventura umana riguarda noi. Perché tutti sono dei nostri e noi siamo di tutti.

(Letture: Numeri 11, 25-29; Salmo 18; Giacomo 5,1-6; Marco 9, 38-43.45.47-48)