il commento al vangelo della domenica

chi accoglie e abbraccia un bambino accoglie Dio


Chi accoglie e abbraccia un bambino accoglie Dio
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della XXV domenica tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». […] Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. […]

Un’alternanza di strade e di case: i tre anni di Galilea sono raccontati così da Marco. Sulla strada si cammina al ritmo del cuore; si avanza in gruppo; qualcuno resta un po’ indietro, qualcun’altro condivide chiacchiere leggere con un amico, lasciando fiorire parole autentiche e senza maschere. Gesù ha lasciato liberi i discepoli di stare tra loro, per tutto il tempo che vogliono, con i pensieri che hanno, con le parole che sanno, senza stare loro addosso, controllare tutto, come un genitore ansioso. Poi il Vangelo cambia ambientazione: giungono in casa, e allora cambia anche la modalità di comunicazione di Gesù: sedutosi, chiamò i dodici e disse loro (sedette, chiamò, disse sono tre verbi tecnici che indicano un insegnamento importante): di cosa stavate parlando? Di chi è il più grande. Questione infinita, che inseguiamo da millenni, su tutta la terra. Questa fame di potere, questa furia di comandare è da sempre un principio di distruzione nella famiglia, nella società, nella convivenza tra i popoli. Gesù si colloca a una distanza abissale da tutto questo: se uno vuol essere il primo sia il servo. Ma non basta, c’è un secondo passaggio: “servo di tutti”, senza limiti di gruppo, di famiglia, di etnìa, di bontà o di cattiveria. Non basta ancora: «Ecco io metto al centro un bambino», il più inerme e disarmato, il più indifeso e senza diritti, il più debole e il più amato! Proporre un bambino come modello del credente è far entrare nella religione l’inaudito. Cosa sa un bambino? Il gioco, il vento delle corse, la dolcezza degli abbracci. Non sa di filosofia, di teologia, di morale. Ma conosce come nessuno la fiducia, e si affida. Gesù ci propone un bambino come padre nella fede. «Il bambino è il padre dell’uomo» (Wordsworth). I bambini danno ordini al futuro, danno gioia al quotidiano. La casa ha offerto il suo tesoro, un cucciolo d’uomo, parabola vivente, piccola storia di vita che Gesù fa diventare storia di Dio: Chi lo abbraccia, abbraccia me! Gesù offre il suo tesoro: il volto di un Dio che è non onnipotenza ma abbraccio: ci si abbraccia per tornare interi (A. Merini), neanche Dio può stare solo, non è “intero” senza noi, senza i suoi amati. Chi accoglie un bambino accoglie Dio! Parole mai dette prima, mai pensate prima. I discepoli ne saranno rimasti sconcertati: Dio come un bambino! Vertigine del pensiero. L’Altissimo e l’Eterno in un bambino? Se Dio è come un bambino significa che devi prendertene cura, va accudito, nutrito, aiutato, accolto, gli devi dare tempo e cuore (E. Hillesum). Non puoi abbandonare Dio sulla strada. Perché Dio non sta dappertutto, sta soltanto là dove lo si lascia entrare (M. Buber).

(Letture: Sapienza 2,12.17-20; Salmo 53; Lettera di san Giacomo 3,16-4,3; Marco 9,30-37)

il commento al vangelo della domenica

la domanda di Gesù che interroga il mio cuore


La domanda di Gesù che interroga il mio cuore
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della ventiquattresima  domenica del tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. (…)

E per la strada interrogava: un’azione continuativa, prolungata, uno stile di vita: strada e domande. Gesù non è la risposta, lui è la domanda; non il punto di arrivo, ma la forza che fa salpare la vita, smontare le tende al levar delle sole. Le tante domande del vangelo funzionano come punto di incontro tra lui e noi. La gente, chi dice che io sia? Non un semplice sondaggio per misurare la sua popolarità, Gesù vuole capire che cosa del suo messaggio ha raggiunto il cuore. Si è accorto che non tutto ha funzionato nella comunicazione, si è rotto qualcosa in quella crisi galilaica che tutti gli evangelisti riferiscono. Infatti, la risposta della gente, se può sembrare gratificante, rivela invece una percezione deformata di Gesù: per qualcuno è un maestro moralizzatore di costumi (“dicono che sei Giovanni il Battista”); altri hanno percepito in lui la forza che abbatte idoli e falsi profeti (“dicono che sei Elia”); altri ancora non colgono nulla di nuovo, solo l’eco di vecchi messaggi già ascoltati (“dicono che sei uno dei profeti”). Ma Gesù non è niente fra le cose di ieri. È novità in cammino. E il domandare continua, si fa diretto: ma voi chi dite che io sia? Per far emergere l’ambiguità che abita il cuore di tutti, Gesù mette in discussione se stesso. Non è facile sottoporsi alla valutazione degli altri, costa molta umiltà e libertà chiedere: cosa pensate di me? Ma Gesù è senza maschere e senza paure, libero come nessuno. Tu sei il Cristo, si espone Pietro, il senso di Israele, il senso della mia vita. A questo punto il registro cambia e il racconto si fa spiazzante: Gesù cominciò a insegnare che il Cristo doveva molto soffrire e venire ucciso e il terzo giorno risorgere. Come fa Pietro ad accettare un messia perdente? «Tu sei il messia, l’atteso, che senso ha un messia sconfitto?». Allora lo prende in disparte e comincia a rimproverarlo. Lo contesta, gli indica un’altra storia e altri sogni. E la tensione si alza, il dialogo si fa concitato e culmina in parole durissime: va dietro di me, satana. Il tuo posto è seguirmi. Pietro è la voce di ogni ambiguità della vita, questo fiume che trasporta tutto, fango e pagliuzze d’oro, e attraversa macchie di sole e zone d’ombra; dà voce a quell’ambiguità senza colpa (G. Piccolo), per cui le cose non ci sono chiare, per cui nelle nostre parole sentiamo al tempo stesso il suono di Dio (non la carne o il sangue te l’hanno rivelato) e il sussurro del male (tu pensi secondo il mondo). La soluzione è quella indicata a Pietro («va dietro di me»). Gesù ha dato una carezza alle mie ferite, ha attraversato le mie contraddizioni e mi fa camminare proprio lì, lungo la «linea incerta che addividi la luci dallo scuru» (A. Camilleri).

(Letture: Isaia 50,5-9a; Salmo 114; Lettera di Giacomo
2,14-18; Marco 8,27-35)

il commento al vangelo della domenica

«Effatà»

quando apri la tua porta la vita viene


«Effatà»: quando apri la tua porta la vita viene
Ermes Ronchi ventitreesima domenica tempo ordinario Anno B 
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente (…).
Portarono a Gesù un sordomuto. Un uomo prigioniero del silenzio, una vita senza parole e senza musica, ma che non ha fatto naufragio, perché accolta dentro un cerchio di amici che si prendono cura di lui: e lo condussero da Gesù. La guarigione inizia quando qualcuno mette mano all’umanissima arte dell’accompagnamento.
E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare l’eccedenza e la vicinanza di Dio: lo prese in disparte, lontano dalla folla: «Io e te soli, ora conti solo tu e, per questo tempo, niente è più importante di te». Li immagino occhi negli occhi, e Gesù che prende quel volto fra le sue mani.
Seguono gesti molto corporei e delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Le dita: come lo scultore che modella delicatamente la creta che ha plasmato. Come una carezza. Non ci sono parole, solo la tenerezza dei gesti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell’uomo, insieme al respiro e alla parola, simboli della vita.
Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo d’incontro con il Signore, laboratorio del Regno. La salvezza non è estranea ai corpi, passa attraverso di essi, che non sono strade del male ma «scorciatoie divine» (J.P.Sonnet),
Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro. Un sospiro non è un grido che esprime potenza, non è un singhiozzo, ma il respiro della speranza, calma e umile, il sospiro del prigioniero (Sal 102,21), e Gesù è anche lui prigioniero con quell’uomo.
E gli disse: Effatà, apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua della madre, ripartendo dalle radici: apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole, le braccia all’amore. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, attraverso le quali vita esce e vita entra. Se apri la tua porta, la vita viene.
Una vita guarita è quella che si apre agli altri: e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Perché il primo servizio da rendere a Dio e all’uomo è sempre l’ascolto. Se non sai ascoltare, perdi la parola, diventi muto o parli senza toccare il cuore di nessuno. Forse l’afasia della chiesa dipende oggi dal fatto che non sappiamo più ascoltare, Dio e l’uomo. Dettaglio eloquente: sa parlare solo chi sa ascoltare. Dono da chiedere instancabilmente, per il sordomuto che è in noi: donaci, Signore, un cuore che ascolta (cfr 1Re 3,9). Allora nasceranno pensieri e parole che sanno di cielo.
(Letture: Isaia 35, 4-7; Salmo 145; Giacomo 2,1-5; Marco 7, 31-37)

il commento al vangelo della domenica

il segreto per avere più amore e più libertà


Il segreto per avere più amore e più libertà
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della ventiduesima domenica tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate […] lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». […]

Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano. Gesù indirizza oggi la nostra attenzione verso il cuore, quegli oceani interiori che ci minacciano e che ci generano; che ci sommergono talvolta di ombre e di sofferenze ma che più spesso ancora producono isole di generosità, di bellezza e di luce: siate liberi e sinceri. Gesù veniva dai campi veri del mondo dove piange e ride la vita, E ora che cosa trova? Gente che collega la religione a macchioline, mani e piatti lavati, a pratiche esteriori. Gesù, anziché scoraggiarsi, diventa eco del grido antico dei profeti: vera religione è illimpidire il cuore a immagine del Padre della luce (prima Lettura, Gc 1,17): è dal cuore degli uomini che escono le intenzioni cattive… È la grande svolta: il ritorno al cuore. Passando da una religione delle pratiche esteriori a una religione dell’interiorità, perché l’io esiste raccogliendosi non disperdendosi, e perché quando ti raccogli fai la scoperta che Dio è vicino: «Fuori di me ti cercavo e tu eri dentro di me» (sant’Agostino). Ritorna al tuo cuore: per quasi mille volte nella Bibbia ricorre il termine cuore, che non indica la sede dei sentimenti o dell’affettività, ma è il luogo dove nascono le azioni e i sogni, dove si sceglie la vita o la morte, dove si è sinceri e liberi, dove fa presa l’attrazione di Dio, e seduce e brucia, come a Emmaus. Il ritorno al cuore è un precetto antico quanto la sapienza umana («conosci te stesso» era scritto sul frontone del tempio di Delfi), ma non basta a salvare, perché nel cuore dell’uomo c’è di tutto: radici di veleno e frutti di luce; campi di buon grano ed erbe malate. L’azione decisiva sta nell’evangelizzare il cuore, nel fecondare di Vangelo le nostre zolle di durezza, le intolleranze e le chiusure, i desideri oscuri e i nostri idoli mascherati… Gesù, maestro del cuore, esegeta e interprete del desiderio, pone le sue mani sante nel tessuto più profondo della persona, sul motore della vita, e salva il desiderio dalle sue pulsioni di morte: dal di dentro, cioè dal cuore dell’uomo escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità… e segue un elenco impressionante di dodici cose cattive, che rendono impura e vuota la vita. Ma tu non dare loro cittadinanza, non legittimarle, non farle uscire da te, non permettere loro di galoppare sulle praterie del mondo, perché sono segnali di morte. Evangelizzare significa poi far scendere sul cuore un messaggio felice. L’annuncio gioioso che Gesù porta è questo: è possibile vivere meglio, per tutti, e io ne conosco il segreto: un cuore libero e incamminato, che cresce verso più amore, più coscienza, più libertà.
(Letture: Deuteronomio 4,1-2.6-8; Salmo 14; Giacomo 1,17-18.21-22.27; Marco 7,1-8.14-15.21-23)

il commento al vangelo della domenica

Dio

non c’è nessun altro a cui affidare la nostra vita


Dio, non c'è nessun altro a cui affidare la nostra vita
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della XXI domenica del tempo ordinario – Anno B:

In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». […]

 

Giovanni mette in scena il resoconto di una crisi drammatica. Dopo il lungo discorso nella sinagoga di Cafarnao sulla sua carne come cibo, Gesù vede profilarsi l’ombra del fallimento: molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. E lo motivano chiaramente: questa parola è dura. Chi può ascoltarla? Dura era stata anche per il giovane ricco: vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri. Dure le parole sulla montagna: beati i perseguitati, beati quelli che piangono. Ma ciò che Gesù ora propone non è una nuova morale, più ardua che mai, ma una visione ancora più rivoluzionaria, una fede ancor più sovversiva: io sono il pane di Dio; io trasmetto la vita di Dio; la mia carne dà la vita al mondo. Nessuno aveva mai detto “io” con questa pretesa assoluta. Nessuno aveva mai parlato di Dio così: un Dio che non versa sangue, versa il suo sangue; un Dio che va a morire d’amore, che si fa piccolo come un pezzo di pane, si fa cibo per l’uomo. Finita la religione delle pratiche esterne, dei riti, degli obblighi, questa è la religione dell’essere una cosa sola con Dio: io in Lui, Lui in me. La svolta del racconto avviene attorno alle parole spiazzanti di Gesù: volete andarvene anche voi? Il maestro non tenta di fermarli, di convincerli, non li prega: aspettate un momento, restate, vi spiego meglio. C’è tristezza nelle sue parole, ma anche fierezza e sfida, e soprattutto un appello alla libertà di ciascuno: siete liberi, andate o restate, ma scegliete! Sono chiamato anch’io a scegliere di nuovo, andare o restare. E mi viene in aiuto la stupenda risposta di Pietro: Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Tu solo. Dio solo. Un inizio bellissimo. Non ho altro di meglio. Ed esclude un mondo intero. Tu solo. Nessun altro c’è cui affidare la vita. Tu solo hai parole: Dio ha parole, il cielo non è vuoto e muto, e la sua parola è creativa, rotola via la pietra del sepolcro, vince il gelo, apre strade e nuvole e incontri, apre carezze e incendi. Tu solo hai parole di vita. Parole che danno vita, la danno ad ogni parte di me. Danno vita al cuore, gli danno coraggio e orizzonti, ne sciolgono la durezza. Danno vita alla mente perché la mente vive di libertà e di verità, e tu sei la verità che rende liberi. Vita allo spirito, a questa parte divina deposta in noi, a questa porzione di cielo che ci compone. Parole che danno vita anche al corpo perché in Lui siamo, viviamo e respiriamo; e le sue parole muovono le mani e le fanno generose e pronte, seminano occhi nuovi, luminosi e accoglienti. Parole di vita eterna, che portano in dono l’eternità a tutto ciò che di più bello abbiamo nel cuore. Che fanno viva, finalmente, la vita.
(Letture: Giosuè 24,1-2.15-17.18; Salmo 33; Efesini 5,21-32; Giovanni 6,60-69)

il commento al vangelo della domenica

Magnificat

una finestra aperta sul futuro


Magnificat, una finestra aperta sul futuro
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della  solennità dell’Assunta
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo» (…)

Luca ci offre, in questa festa dell’Assunzione di Maria, l’unica pagina evangelica in cui protagoniste sono le donne. Due madri, entrambe incinte in modo «impossibile», sono le prime profetesse del Nuovo Testamento. Sole, nessun’altra presenza, se non quella del mistero di Dio pulsante nel grembo. Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! Elisabetta ci insegna la prima parola di ogni dialogo vero: a chi ci sta vicino, a chi condivide strada e casa, a chi mi porta luce, a chi mi porta un abbraccio, ripeto la sua prima parola: che tu sia benedetto; tu sei benedizione scesa sulla mia vita!. Elisabetta ha introdotto la melodia, ha iniziato a battere il ritmo dell’anima, e Maria è diventata musica e danza, il suo corpo è un salmo: L’anima mia magnifica il Signore!. Da dove nasce il canto di Maria? Ha sentito Dio entrare nella storia, venire come vita nel grembo, intervenire non con le gesta spettacolari di comandanti o eroi, ma attraverso il miracolo umile e strepitoso della vita: una ragazza che dice sì, un’anziana che rifiorisce, un bimbo di sei mesi che danza di gioia all’abbraccio delle madri. Viene attraverso il miracolo di tutti quelli che salvano vite, in terra e in mare. Il Magnificat è il vangelo di Maria, la sua bella notizia che raggiunge tutte le generazioni. Per dieci volte ripete: è lui che ha guardato, è lui che fa grandi cose, che ha dispiegato, che ha disperso, che ha rovesciato, che ha innalzato, che ha ricolmato, che ha rimandato, che ha soccorso, che si è ricordato….è lui, per dieci volte. La pietra d’angolo della fede non è quello che io faccio per Dio, ma quello che Dio fa per me; la salvezza è che lui mi ama, non che io lo amo. E che io sia amato dipende da lui, non dipende da me. Maria vede un Dio con le mani impigliate nel folto della vita. E usa i verbi al passato, con uno stratagemma profetico, come se tutto fosse già accaduto. Invece è il suo modo audace per affermare che si farà, con assoluta certezza, una terra e un cielo nuovi, che il futuro di Dio è certo quanto il passato, che questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Pregare il Magnificat è affacciarsi con lei al balcone del futuro. Santa Maria, assunta in cielo, vittoriosa sul drago, fa scendere su di noi una benedizione di speranza, consolante, su tutto ciò che rappresenta il nostro male di vivere: una benedizione sugli anni che passano, sulle tenerezze negate, sulle solitudini patite, sul decadimento di questo nostro corpo, sulla corruzione della morte, sulle sofferenze dei volti cari, sul nostro piccolo o grande drago rosso, che però non vincerà, perché la bellezza e la tenerezza sono, nel tempo e nell’eterno, più forti della violenza.

(Le letture Messa del giorno: Apocalisse 11,19a; 12,1–6a.10ab; Salmo 44; Prima Lettera ai Corinzi 15,20–27a; Luca 1,39-56)

il commento al vangelo della domenica

l’opera del Signore è nutrire la vita


L'opera del Signore è nutrire la vita
il commento di E- Ronchi al vangelo della  XVIII domenica del tempo ordinario -Anno B

In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». (…)

Gesù ha appena compiuto il “segno” al quale tiene di più, il pane condiviso, ed è poi quello più frainteso, il meno capito. La gente infatti lo cerca, lo raggiunge e vorrebbe accaparrarselo come garanzia contro ogni fame futura. Ma il Vangelo di Gesù non fornisce pane, bensì lievito mite e possente al cuore della storia, per farla scorrere verso l’alto, verso la vita indistruttibile. Davanti a loro Gesù annuncia la sua pretesa, assoluta: come ho saziato per un giorno la vostra fame, così posso colmare le profondità della vostra vita! E loro non ce la fanno a seguirlo. Come loro anch’io, che sono creatura di terra, preferisco il pane, mi fa vivere, lo sento in bocca, lo gusto, lo inghiotto, è così concreto e immediato. Dio e l’eternità restano idee sfuggenti, vaghe, poco più che un fumo di parole. E non li giudico, quelli di Cafarnao, non mi sento superiore a loro: c’è così tanta fame sulla terra che per molti Dio non può che avere la forma di un pane. Inizia allora un’incomprensione di fondo, un dialogo su due piani diversi: Qual è l’opera di Dio? E Gesù risponde disegnando davanti a loro il volto amico di Dio: Come un tempo vi ha dato la manna, così oggi ancora Dio dà. Due parole semplicissime eppure chiave di volta della rivelazione biblica: nutrire la vita è l’opera di Dio. Dio non domanda, Dio dà. Non pretende, offre. Dio non esige nulla, dona tutto. Ma che cosa di preciso dà il Dio di Gesù? Niente fra le cose o i beni di consumo: «Egli non può dare nulla di meno di se stesso. Ma dandoci se stesso ci dà tutto» (Caterina da Siena). Siamo davanti a uno dei vertici del Vangelo, a uno dei nomi più belli del Signore: Egli è, nella vita, datore di vita. Il dono di Dio è Dio che si dona. Uno dei nomi più belli di Gesù: Io sono il pane della vita. Dalle sue mani la vita fluisce illimitata e inarrestabile. Pietro lo confermerà poco più avanti: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole che fanno viva la vita». Che danno vita a spirito, mente, cuore, agli occhi e alle mani. L’opera di Dio è una calda corrente d’amore che entra e fa fiorire le radici di ogni essere umano. Perché diventi, come Lui, nella vita donatore di vita. Questa è l’opera di Dio, credere in colui che Egli ha mandato. Al cuore della fede sta la tenace, dolcissima fiducia che l’opera di Dio è Gesù: volto alto e luminoso dell’umano, libero come nessuno, guaritore del disamore, che ti incalza a diventare il meglio di ciò che puoi diventare. Nessun aspetto minaccioso in lui, ma solo le due ali aperte di una chioccia che protegge e custodisce i suoi pulcini (Lc 13,34), e li fa crescere con tenerezza combattiva, contro tutto ciò che fa male alla vita.
(Letture: Esodo 16,2-4.12-15; Salmo 77; Efesini 4,17.20-24; Giovanni 6,24-35)

il commento al vangelo della domenica

quel pane moltiplicato che chiama alla fraternità


Quel pane moltiplicato che chiama alla fraternità
il commento diErmes Ronchi al vangelo della XVII domenica del tempo ordinario – Anno B:

In quel tempo, (…) Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». (…) Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». (…) Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». (…).

Domenica del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste, che sembra non finire mai. E mentre lo distribuivano, non veniva a mancare; e mentre passava di mano in mano, restava in ogni mano.
C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci… Un pane d’orzo, il primo cereale che matura; un ragazzo, in cui matura un uomo. Quella primizia d’umanità ha capito tutto, nessuno gli ha chiesto nulla e il ragazzo mette tutto a disposizione. È questa la prima scintilla della risposta alla fame della folla.
Ma che cosa sono cinque pani per 5.000: uno a mille. Il Vangelo sottolinea la sproporzione tra il poco di partenza e la fame innumerevole che assedia. Sproporzione però è anche il nome della speranza, che ha ragioni che la ragione non conosce. E il cristiano non può misurare le sue scelte solo sul ragionevole, sul possibile. Perché dovremmo credere a un Risorto, se siamo legati al possibile? La stessa sproporzione la sentiamo di fronte ai problemi immensi del nostro mondo. Io ho solo cinque pani, e i poveri sono legioni. Eppure Gesù non bada alla quantità, ne basta anche meno, molto meno, una briciola. E la follia della generosità. E infatti, non appena gli riferiscono la poesia e il coraggio di questo ragazzo, sente scattare dentro come una molla: Fateli sedere! Adesso sì che è possibile cominciare ad affrontare la fame!
Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie li diede… Giovanni non riferisce come accade. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Sono perfino troppi. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità: poco pane spezzato con gli altri è misteriosamente sufficiente; il nostro pane tenuto gelosamente per noi è l’inizio della fame: «Nel mondo c’è pane sufficiente per la fame di tutti, ma insufficiente per l’avidità di pochi» (Gandhi).
Prese i pani e dopo aver reso grazie li diede… Tre verbi benedetti: prendere, ringraziare, donare. Gesù non è il padrone del pane, lo riceve, ne è attraversato, semplice luogo di passaggio. Quando noi ci consideriamo i padroni delle cose, ne profaniamo l’anima, roviniamo l’aria, l’acqua, la terra, il pane. Niente è nostro, noi riceviamo e doniamo, siamo attraversati da una vita, che viene da prima di noi e va oltre noi.
Rese grazie: al Padre e al ragazzo senza nome, alla suolo e alla pioggia d’autunno, alla macina e al fuoco, madre e padre del pane. Tutto ci viene incontro, è vita che ci ospita, dono che viene «da un divino labirinto di cause ed effetti» (M. Gualtieri). Che fa della vita un sacramento di comunione.
E li diede. Perché la vita è come il respiro, che non puoi trattenere o accumulare; è come una manna che per domani non dura. Dare è vivere.
(Letture: 2 Re 4,42-44; Salmo 144 (145); Efesini 4,1-6; Giovanni 6,1-15)

il commento al vangelo della domenica

finché c’è compassione il mondo può sperare


Finché c'è compassione il mondo può sperare
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della  XVI domenica del tempo ordinario – Anno B:

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Venite in disparte e riposatevi un po’. I suoi sono ritornati felici da quell’invio a due a due, da quella missione in cui li aveva lanciati, un pellegrinaggio di Parola e di povertà.

I Dodici hanno incontrato tanta gente, l’hanno fatto con l’arte appresa da Gesù: l’arte della prossimità e della carezza, della guarigione dai demoni del vivere. Ora è il tempo dell’incontro con se stessi, di riconnettersi con ciò che accade nel proprio spazio vitale. C’è un tempo per ogni cosa, dice il sapiente d’Israele, un tempo per agire e un tempo per interrogarsi sui motivi dell’agire. Un tempo per andare di casa in casa e un tempo per “fare casa” tra amici e con se stessi. C’è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove di Nain, lacrime, eppure Gesù, invece di buttare i suoi discepoli dentro il vortice del dolore e della fame, li porta via con sé e insegna loro una sapienza del vivere.

Viviamo oggi in una cultura in cui il reddito che deve crescere e la produttività che deve sempre aumentare ci hanno convinti che sono gli impegni a dare valore alla vita. Gesù ci insegna che la vita vale indipendentemente dai nostri impegni (G. Piccolo).
La gente ha capito, e il flusso inarrestabile delle persone li raggiunge anche in quel luogo appartato. E Gesù anziché dare la priorità al suo programma, la dà alle persone. Il motivo è detto in due parole: prova compassione. Termine di una carica bellissima, infinita, termine che richiama le viscere, e indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro. La prima reazione di Gesù: prova dolore per il dolore del mondo. E si mise a insegnare molte cose. Forse, diremmo noi, c’erano problemi più urgenti per la folla: guarire, sfamare, liberare; bisogni più immediati che non mettersi a insegnare. Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi che continuiamo a mortificare, ad affamare, a disidratare.

A questa Gesù si rivolge, come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via. Questo Gesù che si mette a disposizione, che non si risparmia, che lascia dettare agli altri l’agenda, generoso di sentimenti, consegna qualcosa di grande alla folla: «Si può dare il pane, è vero, ma chi riceve il pane può non averne bisogno estremo. Invece di un gesto d’affetto ha bisogno ogni cuore stanco. E ogni cuore è stanco» (Sorella Maria di Campello). È il grande insegnamento ai Dodici: imparare uno sguardo che abbia commozione e tenerezza. Le parole nasceranno. E vale per ognuno di noi: quando impari la compassione, quando ritrovi la capacità di commuoverti, il mondo si innesta nella tua anima, e diventiamo un fiume solo. Se ancora c’è chi sa, tra noi, commuoversi per l’uomo, questo mondo può ancora sperare.
(Letture: Geremia 23, 1-6; Salmo 22; Efesini 2,13-18; Marco 6, 30-34)

il commento al vangelo della domenica

mai da soli, sempre insieme
il commentodi E.Bianchi al vangelo della  XV domenica del tempo Ordinario, anno B:
Mc 6,7-13 
 

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. ¹⁰E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. ¹¹Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». ¹²Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, ¹³scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

 

Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta.  Rifiutato e contestato dai suoi a Nazaret, Gesù percorre i villaggi d’intorno per predicare la buona notizia (cf. Mc 6,6) in modo instancabile, ma a un certo momento decide di allargare questo suo “servizio della parola” anche ai Dodici, alla sua comunità. Per quali motivi? Certamente per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli; ma anche per prendersi un po’ di tempo in cui non operare, restare in disparte e così poter pensare e rileggere ciò che egli desta con il suo parlare e il suo operare. Per questo li invia in missione nei villaggi della Galilea, con il compito di annunciare il messaggio da lui inaugurato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona notizia” (Mc 1,15). Li manda “a due a due”, perché neppure la missione può essere individuale, ma deve sempre essere svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. In particolare, per gli inviati essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.  Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. Il messaggio, infatti, non è isolato da chi lo dona e dal suo modo di vivere. Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama? L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive: solo così è affidabile, altrimenti proprio chi predica diventa un inciampo, uno scandalo per l’ascoltatore. In questo caso sarebbe meglio tacere e di-missionare, cioè dimettersi dalla missione!  Per queste ragioni Gesù non si attarda sul contenuto del messaggio da predicare, mentre entra addirittura nei dettagli sul “come” devono mostrarsi gli inviati e gli annunciatori. Povertà, precarietà, mitezza e sobrietà devono essere lo stile dell’inviato, perché la missione non è conquistare anime ma essere segno eloquente del regno di Dio che viene, entrando in una relazione con quelli che sono i primi destinatari del Vangelo: poveri, bisognosi, scartati, ultimi, peccatori… Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica. Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!   Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù. È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo. Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16). Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento. Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?   Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”. E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno soltanto annunciare il Vangelo con le parole… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.   No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù, come lui ha vissuto: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva e che la morte non è più l’ultima parola. Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere, dello sperare, dell’amare e dunque vivere ancora… L’invio in missione da parte di Gesù non crea militanti e neppure propagandisti, ma forgia testimoni del Vangelo, uomini e donne capaci di far regnare il Vangelo su loro stessi a tal punto da essere presenza e narrazione di colui che li ha inviati. Attesta uno scritto cristiano delle origini, la Didaché: “L’inviato del Signore non è tanto colui che dice parole ispirate ma colui che ha i modi del Signore” (11,8).   Noi cristiani dobbiamo sempre interrogarci: viviamo il Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra parola e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non innanzitutto una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io!

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