il commento al vangelo della domenica

il pastore che chiama ogni pecora per nome

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di pasqua (3 maggio 2020):

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». […]

A sera, i pastori erano soliti condurre il loro gregge in un recinto per la notte, un solo recinto serviva per diversi greggi. Al mattino, ciascun pastore gridava il suo richiamo e le sue pecore, riconoscendone la voce, lo seguivano (B. Maggioni). Su questo sfondo familiare Gesù inserisce l’eccedenza della sua visione, dettagli che sembrano eccessivi e sono invece rivelatori: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Quale pastore conosce per nome le centinaia di pecore del suo gregge e le chiama a sé a una a una? Per Gesù le pecore hanno ciascuna un nome, ognuna è unica, irripetibile; vuole te, così come sei, per quello che sei. E le conduce fuori. Anzi: le spinge fuori. Non un Dio dei recinti ma uno che apre spazi più grandi, pastore di libertà e non di paure. Che spinge a un coraggioso viaggio fuori dagli ovili e dai rifugi, alla scoperta di orizzonti nuovi nella fede, nel pensiero, nella vita. Pecore che non possono tornare sui pascoli di ieri, pena la fame, ma “gregge in uscita”, incamminato, che ha fiducia nel pastore e anche nella storia, nera di ladri e di deserti, ma bianca di sentieri e di sorgenti. Il pastore cammina davanti alle pecore. Non abbiamo un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini. Non un pastore alle spalle, che grida o agita il bastone, ma uno che precede e convince, con il suo andare tranquillo che la strada è sicura. Le pecore ascoltano la sua voce. E lo seguono. Basta la voce, non servono ordini, perché si fidano e si affidano. Perché lo seguono? Semplice, per vivere, per non morire. Quello che cammina davanti, che pronuncia il nome profondo di ciascuno, non è un ladro di felicità o di libertà: ognuno entrerà, uscirà e troverà pascolo. Troverà futuro. Io sono la porta: non un muro, o un vecchio recinto, dove tutto gira e rigira e torna sui suoi giri. Cristo è porta aperta, buco nella rete, passaggio, transito, per cui va e viene la vita di Dio. «Amo le porte aperte che fanno entrare notti e tempeste, polline e spighe. Libere porte che rischiano l’errore e l’amore. Amo le porte aperte di chi invita a varcare la soglia. Strade per tutti noi. Amo le porte aperte di Dio» (Monastero di San Magno). Sono venuto perché abbiano la vita, in abbondanza. Questo è il Vangelo che mi seduce e mi rigenera ogni volta che l’ascolto: lui è qui per la mia vita piena, abbondante, potente, vita «cento volte tanto» come dirà a Pietro. La prova ultima della bontà della fede cristiana sta nella sua capacità di comunicare vita, umanità piena, futuro; e di creare in noi il desiderio di una vita più grande, vita eterna, di una qualità indistruttibile, dove vivi cose che meritano di non morire mai.
(Letture: Atti 2,14.36–41; Salmo 22; 1 Pietro 2,20–25; Giovanni 10,1–10)

il commento al vangelo della domenica

 

il viandante di Emmaus che si ferma a casa nostra

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della terza domenica di pasqua (26 aprile 2019):

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. […]

Gesù si avvicinò e camminava con loro. Dio si avvicina sempre, viandante dei secoli e dei giorni, e muove tutta la storia. Cammina con noi, non per correggere il nostro passo o dettare il ritmo. Non comanda nessun passo, prende il nostro. Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini. Gli basta il passo del momento. Gesù raggiunge i due viandanti, li guarda li vede tristi, rallenta: che cosa sono questi discorsi? Ed essi gli raccontano la sua storia: una illusione naufragata nel sangue sulla collina. Lo hanno seguito, lo hanno amato: noi speravamo fosse lui… Unica volta che nei Vangeli ricorre il termine speranza, ma solo come rimpianto e nostalgia, mentre essa è «il presente del futuro» (san Tommaso); come rammarico per le attese di potere tramontate. Per questo «non possono riconoscere» quel Gesù che aveva capovolto al sole e all’aria le radici stesse del potere. Ed è, come agli inizi in Galilea, tutto un parlare, confrontarsi, insegnare, imparare, discutere, lungo ore di strada. Giunti a Emmaus Gesù mostra di voler «andare più lontano». Come un senza fissa dimora, un Dio migratore per spazi liberi e aperti che appartengono a tutti. Allora nascono parole che sono diventate canto, una delle nostre preghiere più belle: resta con noi, perché si fa sera. Hanno fame di parola, di compagnia, di casa. Lo invitano a restare, in una maniera così delicata che par quasi siano loro a chiedere ospitalità. Poi la casa, non è detto niente di essa, perché possa essere la casa di tutti. Dio non sta dappertutto, sta nella casa dove lo si lascia entrare. Resta. E il viandante si ferma, era a suo agio sulla strada, dove tutti sono più liberi; è a suo agio nella casa, dove tutti sono più veri. Il racconto ora si raccoglie attorno al profumo del pane e alla tavola, fatta per radunare tanti attorno a sé, per essere circondata da ogni lato di commensali, per collegarli tra loro: gli sguardi si cercano, si incrociano, si fondono, ci si nutre gli uni degli altri. Lo riconobbero allo spezzare il pane. Lo riconobbero non perché fosse un gesto esclusivo e inconfondibile di Gesù – ogni padre spezzava il pane ai propri figli – chissà quante volte l’avevano fatto anche loro, magari in quella stessa stanza, ogni volta che la sera scendeva su Emmaus. Ma tre giorni prima, il giovedì sera, Gesù aveva fatto una cosa inaudita, si era dato un corpo di pane: prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Lo riconobbero perché spezzare, rompere e consegnarsi contiene il segreto del Vangelo: Dio è pane che si consegna alla fame dell’uomo. Si dona, nutre e scompare: prendete, è per voi! Il miracolo grande: non siamo noi ad esistere per Dio, è Dio che vive per noi.
(Letture: Atti 2,14.22-33; Salmo 15; 1 Pietro 1,17-21; Luca 24,13-35)

il commento al vangelo della domenica

le ferite del Signore e la gioia di credere

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica di Pasqua (19 aprile 2020:


La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. […]

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene. Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto. E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il Vangelo, in mezzo a loro. E dice: Pace a voi. Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, la pace qui. Pace che scende dentro di voi, che proviene da Dio. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso. Gesù e Tommaso, loro due cercano. Si cercano. Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di rimproverarli, si mette a disposizione delle loro mani. Tommaso non si era accontentato delle parole degli altri dieci; non di un racconto aveva bisogno, ma di un incontro con il suo Signore. Che viene una prima volta ma poi ritorna, che invece di imporsi, si propone; invece di ritrarsi, si espone alle mani di Tommaso: Metti qui il tuo dito; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto dell’amore, e allora resteranno eternamente aperte. Su quella carne l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come l’amore stesso. Il Vangelo non dice che Tommaso abbia davvero toccato, messo il dito nel foro. A lui è bastato quel Gesù che si propone, ancora una volta, un’ennesima volta, con questa umiltà, con questa fiducia, con questa libertà, che non si stanca di venire incontro, che non molla i suoi, neppure se loro l’hanno abbandonato. È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare: mio Signore e mio Dio. Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine per noi che non vediamo, che cerchiamo a tentoni e facciamo fatica, che finalmente sento mia. Grande educatore, Gesù: forma i suoi alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, alla ricerca personale più che alla docilità. Beati i credenti! La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici, portando le nostre piaghe di luce.

(letture: Atti 2,42–47; Salmo 117; 1 Pietro 1,3–9; Giovanni 20,19–31)

il commentoal vangelo della domenica di pasqua

non un’idea ma un fatto si è imposto agli apostoli

Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte. (…)

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica di pasqua (Anno A) (12 aprile 2020):

 

La Pasqua è arrivata a noi attraverso gli occhi e la fede delle donne che avevano seguito Gesù, in un’alba ricca di sorprese, di corse, di paure. Maria di Magdala e Maria di Giacomo escono di casa nell’ora tra il buio e la luce, appena possibile, con l’urgenza di chi ama. E andarono a visitare la tomba. A mani vuote, semplicemente a visitare, vedere, guardare, soffermarsi, toccare la pietra. Ed ecco ci fu un gran terremoto e un angelo scese: concorso di terra e di cielo, e la pietra rotola via, non perché Gesù esca, ne è già uscito, ma per mostrarlo alle donne: venite, guardate il posto dove giaceva. Non è un sepolcro vuoto che rende plausibile la risurrezione, ma incontrare Lui vivente, e l’angelo prosegue: So che cercate Gesù, non è qui! Che bello questo: non è qui!
C’è, esiste, vive, ma non qui. Va cercato fuori, altrove, diversamente, è in giro per le strade, è il vivente, un Dio da cogliere nella vita. Dovunque, eccetto che fra le cose morte. È dentro i sogni di bellezza, in ogni scelta per un più grande amore, dentro l’atto di generare, nei gesti di pace, negli abbracci degli amanti, nel grido vittorioso del bambino che nasce, nell’ultimo respiro del morente, nella tenerezza con cui si cura un malato. Alle volte ho un sogno: che al Santo Sepolcro ci sia un diacono annunciatore a ripetere, ai cercatori, le parole dell’angelo: non è qui, vi precede. È fuori, è davanti. Cercate meglio, cercate con occhi nuovi. Vi precede in Galilea, là dove tutto è cominciato, dove può ancora ricominciare. L’angelo incalza: ripartite, Lui si fida di voi, vi aspetta e insieme vivrete solo inizi. Vi precede: la risurrezione di Gesù è una assoluta novità rispetto ai miracoli di risurrezione di cui parla il Vangelo. Per Lazzaro si era trattato di un ritorno alla vita di prima, quasi un cammino all’indietro. Quella di Gesù invece è un cammino in avanti, entra in una dimensione nuova, capofila della lunga migrazione dell’umanità verso la vita di Dio. La risurrezione non è un’invenzione delle donne. Mille volte più facile, più convincente, sarebbe stato fondare il cristianesimo sulla vita di Gesù, tutta dedita al prossimo, alla guarigione, all’incoraggiamento, a togliere barriere e pregiudizi. Una vita buona, bella e felice, da imitare. Molto più facile fondarlo sulla passione, su quel suo modo coraggioso di porsi davanti al potere religioso e politico, di morire perdonando e affidandosi. La risurrezione, fondamento su cui sta o cade la Chiesa (stantis vel cadentis ecclesiae) non è una scelta degli apostoli, è un fatto che si è imposto su di loro. Il più arduo e il più bello di tutta la Bibbia. E ne ha rovesciato la vita.

(Letture della domenica di Pasqua: Atti 10,34a.37–43; Salmo 117; Colossesi 3,1–4; Giovanni 20,1–9. Il Vangelo commentato in questa rubrica è quello della Veglia pasquale Matteo 28,1-10)

il commento al vangelo della domenica

la croce è l’innesto del cielo nella terra

In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù. […]

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica delle palme (5 aprile 2020):

Entriamo in un tempo che ci fa pensosi. «Tutti gli uomini vanno a Dio nella loro sofferenza, piangono per aiuto, chiedono felicità e pane, salvezza dalla malattia, dalla morte. Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani… Uomini vanno a Dio nella sua sofferenza, lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane, consunto… I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza» (D. Bonhoeffer). Quella sofferenza che allora bruciò nella passione di Gesù e oggi brucia nelle croci innumerevoli dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Questa è la settimana della suprema vicinanza, vi entriamo come cercatori d’oro. Anche isolati nelle loro case, i cristiani stanno vicino, sono in empatia vicini alla sofferenza di quanti chiedono vita, salute, pane, conforto; vicini come rabdomanti di dolore e di amore. E dove respirano meglio è la croce. Guardo il Calvario, e vedo un uomo nudo, inchiodato e morente. Un uomo con le braccia spalancate in un abbraccio che non rinnegherà mai. Un uomo che non chiede niente per sé, non grida da lì in cima: ricordatemi, cercate di capire, difendetemi… Si dimentica, e si preoccupa di chi gli muore a fianco: oggi, con me, sarai nel paradiso. Fondamento della fede cristiana è la cosa più bella del mondo: un atto di amore totale. La suprema bellezza della storia è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio di Dio si lascia inchiodare, povero e nudo come un verme nel vento, per morire d’amore. La croce è l’innesto del cielo dentro la terra, il punto dove un amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa. E scrive il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, l’unico che non inganna. Da qui la commozione, lo stupore, l’innamoramento. Dopo duemila anni sentiamo anche noi come le donne, il centurione, il ladro, che nella Croce sta la suprema attrazione di Dio. So anche di non capire. Ma alla fine mi convince non un ragionamento sottile, ma l’eloquenza del cuore: «Perché la croce/ il sorriso/ la pena inumana ?/ Credimi/ è così semplice/ quando si ama» (J. Twardowski). Tu che hai salvato gli altri, salva te stesso, se sei il Cristo. Lo dicono tutti, capi, soldati, il ladro: fa’ un miracolo, conquistaci, imponiti, scendi dalla croce, e ti crederemo. Qualsiasi uomo, qualsiasi re, potendolo, scenderebbe dalla croce. Lui, no. Solo un Dio non scende dal legno (D.M. Turoldo), il nostro Dio. Perché i suoi figli non ne possono scendere. Io cercatore trovo qui la vicinanza assoluta: di Dio a me, di me a Dio; sulla croce trema quella passione di comunione che ha la forza di far tremare la pietra di ogni nostro sepolcro e di farvi entrare il respiro del mattino.
(Letture: Isaia 50,4–7; Salmo 21; Filippesi 2,6–11; Matteo 26,14– 27,66)

il commento al vangelo della domenica

le lacrime di chi ama, una lente sul mondo

 

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quinta domenica di quaresima (29 marzo 2020):

 In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». […]

Il racconto della risurrezione di Lazzaro è la pagina dove Gesù appare più umano. Lo vediamo fremere, piangere, commuoversi, gridare. Quando ama, l’uomo compie gesti divini; quando ama, Dio lo fa con gesti molto umani. Una forza scorre sotto tutte le parole del racconto: non è la vita che vince la morte. La morte, nella realtà, vince e ingoia la vita. Invece ciò che vince la morte è l’amore. Tutti i presenti quel giorno a Betania se ne rendono conto: guardate come lo amava, dicono ammirati. E le sorelle coniano un nome bellissimo per Lazzaro: Colui–che–tu–ami. Il motivo della risurrezione di Lazzaro è l’amore di Gesù, un amore fino al pianto, fino al grido arrogante: vieni fuori! Le lacrime di chi ama sono la più potente lente d’ingrandimento della vita: guardi attraverso una lacrima e capisci cose che non avresti mai potuto imparare sui libri. La ribellione di Gesù contro la morte passa per tre gradini: 1. Togliete la pietra. Rotolate via i macigni dall’imboccatura del cuore, le macerie sotto le quali vi siete seppelliti con le vostre stesse mani; via i sensi di colpa, l’incapacità di perdonare a se stessi e agli altri; via la memoria amara del male ricevuto, che vi inchioda ai vostri ergastoli interiori. 2. Lazzaro, vieni fuori! Fuori nel sole, fuori nella primavera. E lo dice a me: vieni fuori dalla grotta nera dei rimpianti e delle delusioni, dal guardare solo a te stesso, dal sentirti il centro delle cose. Vieni fuori, ripete alla farfalla che è in me, chiusa dentro il bruco che credo di essere. Non è vero che «le madri tutte del mondo partoriscono a cavallo di una tomba» (B. Brecht), come se la vita fosse risucchiata subito dentro la morte, o camminasse sempre sul ciglio di un abisso. Le madri partoriscono a cavallo di una speranza, di una grande bellezza, di un mare vasto, di molti abbracci. A cavallo di un sogno! E dell’eternità. Ad ogni figlio che nasce, Cristo e il mondo gridano, a una voce: vieni, e portaci più coscienza, più libertà, più amore! 3. Liberatelo e lasciatelo andare! Sciogliete i morti dalla loro morte: liberatevi tutti dall’idea che la morte sia la fine di una persona. Liberatelo, come si liberano le vele al vento, come si sciolgono i nodi di chi è ripiegato su se stesso, i nodi della paura, i grovigli del cuore. Liberatelo da maschere e paure. E poi: lasciatelo andare, dategli una strada, e amici con cui camminare, qualche lacrima, e una stella polare. Che senso di futuro e di libertà emana da questo Rabbi che sa amare, piangere e gridare; che libera e mette sentieri nel cuore. E capisco che Lazzaro sono io. Io sono Colui–che–tu–ami, e che non accetterai mai di veder finire nel nulla della morte.

(Letture: Ezechiele 37,12–14; Salmo 129; Romani 8,8–11; Giovanni 11,1–45)

il commento al vangelo della domenica

SEI FATTO PER LA LUCE

 Passando vide un uomo cieco dalla nascita  e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.  Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo».  Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco  e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di quaresima (22 marzo 2020):

Il vangelo racconta la conquista della luce.
Quanti occhi intelligenti e acutissimi ho visto spegnersi, occhi che dicevano di vedere lontano, ma ci basta una lacrima, un fatto doloroso e gli orizzonti si spengono, il cielo si fa nero e ogni strada è senza uscita.
La vista che va lontano viaggia oltre le apparenze, e va conquistata. Gesù non cessa di dirlo: il Vangelo è per coloro che imparano oltre la superficie dei fatti e delle cose.
È successo che per la seconda volta Gesù guarisce di sabato. Di sabato non si può, si trasgredisce il più santo dei precetti. Io spero tanto di essere diverso dai farisei di questo Vangelo. Perché di fronte alla gioia di chi vede per la prima volta il sole e gli occhi di sua madre, anche gli alberi, se potessero, applaudirebbero, anche i fiumi batterebbero le mani, come dice il salmo.
Loro, no. I farisei sanno la teologia e dimenticano la vita, vedono il caso morale e dottrinale, non l’uomo! Per loro l’unico criterio di giudizio è l’osservanza della legge.
Sono i puri che non si commuovono.
E’ facile essere credenti senza bontà. Facile e mortale.
C’è un’infinita tristezza in tutto questo.
E cosa fanno? Avviano un processo per eresia: da miracolato a imputato. E nessuno che provi pena per gli occhi vuoti del cieco; nessuno che si entusiasmi per i nuovi, poveri ma ricchi, occhi illuminati.
Il dramma che si consuma in quella sala è questo: il Dio della vita e il Dio della religione si sono separati e non si incontrano più. La dottrina è separata dall’esperienza della vita.
Ma il cieco è diventato libero, è diventato forte, tiene testa ai sapienti: voi parlate e parlate, ma intanto io ci vedo!
Lui dice a noi che se un’esperienza ti comunica Vita, allora è per forza buona, è benedetta.
Nel brano regna una religione immiserita a questioni di peccato, innalzato a teoria che spiega il mondo e pretende di interpretarne la realtà. Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori? Gesù non ci sta. Si allontana subito, immediatamente, da questa visione che rende ciechi. Dio lotta con te contro il male, è compassione e futuro, amore che fa ripartire, che preferisce la felicità dei suoi figli, al loro obbedire.
Legge suprema di Dio è che l’uomo viva. E gloria di Dio è un uomo che torna a vedere, e il suo sguardo lucente, dà lode a Dio più di tutti i sabati!
L’uomo non coincide con il suo peccato, ma con il possibile bene futuro. Gesù non parlerà di peccato se non per dire che è perdonato; che Dio non spreca la sua eternità in castighi, che non si appiattisce sul nostro moralismo. Egli è compassione, approccio ardente, mano viva che tocca il cuore e lo apre.
Egli vive per te. Senti dalle sue mani fluire la vita come fiume e sole: gioiosa, inarrestabile, eterna.
E il tuo cuore leggero ti dirà, sottovoce, che sei fatto per la luce.

(Giovanni 9,1-41)

il commento al vangelo della domenica

il Signore mette in tutti una sorgente di bene

 

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani (…). 

 

il commento di Ermes Ronchi al vangelo delle terza domenica di avvento (15 marzo 2020):

Gesù e una donna straniera, occhi negli occhi. Non una cattedra, non un pulpito, ma il muretto di un pozzo, per uno sguardo ad altezza di cuore.
Con le donne Gesù va diritto all’essenziale: «Vai a chiamare colui che ami». Conosce il loro linguaggio, quello dei sentimenti, della generosità, del desiderio, della ricerca di ragioni forti per vivere.
Hai avuto cinque mariti. Gesù non istruisce processi, non giudica e non assolve, va al centro. Non cerca nella donna indizi di colpa, cerca indizi di bene; e li mette in luce: hai detto bene, questo è vero.
Chissà, forse quella donna ha molto sofferto, forse abbandonata, umiliata cinque volte con l’atto del ripudio. Forse ha il cuore ferito. Forse indurito, forse malato. Ma lo sguardo di Gesù si posa non sugli errori della donna, ma sulla sete d’amare e di essere amata.
Non le chiede di mettersi in regola prima di affidarle l’acqua viva; non pretende di decidere per lei, al posto suo, il suo futuro. È il Messia di suprema delicatezza, di suprema umanità, il volto bellissimo di Dio.
Lui è maestro di nascite, spinge a ripartire! Non rimprovera, offre: se tu sapessi il dono di Dio. Fa intravedere e gustare un di più di bellezza, un di più di bontà, di vita, di primavera, di tenerezza: Ti darò un’acqua che diventa sorgente!
Gesù: lo ascolti e nascono fontane. In te. Per gli altri.
Come un’acqua che eccede la sete, che supera il tuo bisogno, che scorre verso altri. E se la nostra anfora, incrinata o spezzata, non sarà più in grado di contenere l’acqua, quei cocci che a noi paiono inutili, invece che buttarli via, Dio li dispone in modo diverso, crea un canale, attraverso il quale l’acqua sia libera di scorrere verso altre bocche, altre seti. «Dio può riprendere le minime cose di questo mondo senza romperle, meglio ancora, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» (Fabrice Hadjaji), attraverso cui l’acqua arrivi e scorra, il vino scenda e raggiunga i commensali, seduti alla tavola della mia vita.
Ed è così che attorno alla samaritana nasce la prima comunità di discepoli stranieri. «Venite, c’è al pozzo uno che ti dice tutto quello che c’è nel cuore, che fa nascere sorgenti». Che conosce il tutto dell’uomo e mette in ognuno una sorgente di bene, fontane di futuro. Senza rimorsi e rimpianti. Dove bagnarsi di luce.
In questi nostri giorni “senza” (senza celebrazioni, senza liturgie, senza incontri) sentiamo attuale la domanda della Samaritana: Dove andremo per adorare Dio? Sul monte o nel tempio? La risposta è diritta come un raggio di luce: non su un monte, non in un tempio, ma dentro. In spirito e verità.
Sono io il Monte, io il Tempio, dove vive Dio (M. Marcolini).
(Letture: Esodo 17,3-7; Salmo 94; Romani 5, 1-2. 5-8; Giovanni 4,5-42).

il commento al vangelo della domenica

Dio semina la bellezza in ogni sua creatura

 

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio,  ‘amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (…).

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica di quaresima (8 marzo 2020):

La Quaresima ci sorprende: la subiamo come un tempo penitenziale, mortificante, e invece ci spiazza con questo vangelo vivificante, pieno di sole e di luce. Dal deserto di pietre (prima domenica) al monte della luce (seconda domenica); da polvere e cenere, ai volti vestiti di sole. Per dire a tutti noi: coraggio, il deserto non vincerà, ce la faremo, troveremo il bandolo della matassa. Gesù prese con sé tre discepoli e salì su di un alto monte. I monti sono come indici puntati verso il mistero e le profondità del cosmo, raccontano che la vita è ascensione, con dentro una fame di verticalità, come se fosse incalzata o aspirata da una forza di gravità celeste: e là si trasfigurò davanti a loro, il suo volto brillò come il sole e le vesti come la luce.
Tutto si illumina: le vesti di Gesù, le mani, il volto sono la trascrizione del cuore di Dio. I tre guardano, si emozionano, sono storditi: davanti a loro si è aperta la rivelazione stupenda di un Dio luminoso, bello, solare. Un Dio da godere, finalmente, un Dio da stupirsene. E che in ogni figlio ha seminato la sua grande bellezza.
Che bello qui, non andiamo via… lo stupore di Pietro nasce dalla sorpresa di chi ha potuto sbirciare per un attimo dentro il Regno e non lo dimenticherà più. Vorrei per me la fede di ripetere queste parole: è bello stare qui, su questa terra, su questo pianeta minuscolo e bellissimo; è bello starci in questo nostro tempo, che è unico e pieno di potenzialità. È bello essere creature: non è la tristezza, non è la delusione la nostra verità.
San Paolo nella seconda lettura consegna a Timoteo una frase straordinaria: Cristo è venuto ed ha fatto risplendere la vita. È venuto nella vita, la mia e del mondo, e non se n’è più andato. È venuto come luce nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta (Gv 1,5). In lui abitava la vita e la vita era la luce degli uomini (Gv 1,4), la vita era la prima Parola di Dio, bibbia scritta prima della bibbia scritta.
Allora perdonate «se non sono del tutto e sempre / innamorata del mondo, della vita / sedotta e vinta dalla rivelazione / d’esserci d’ogni cosa (….)/ Questo più d’ogni altra cosa perdonate / la mia disattenzione» (Mariangela Gualtieri). A tutte le meraviglie quotidiane.
La condizione definitiva non è monte, c’è un cammino da percorrere, talvolta un deserto, certamente una pianura alla quale ritornare. Dalla nube viene una voce che traccia la strada: «questi è il figlio mio, l’amato. Ascoltatelo”. I tre sono saliti per vedere e sono rimandati all’ascolto. La voce del Padre si spegne e diventa volto, il volto di Gesù, «che brillò come il sole». Ma una goccia della sua luce è nascosta nel cuore vivo di tutte le cose.
(Letture: Genesi 12, 1-4; Salmo 32; 2 Timoteo 1, 8-10; Matteo 17, 1-9)

il commento al vangelo della domenica

gli angeli inviati dal Signore per sorreggerci

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della prima domenica di quaresima (29 febbraio 2020):

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». […]

È bella la Quaresima. Non si impone come la stagione penitenziale, ma si propone come quella dei ricominciamenti: della primavera che riparte, della vita che punta diritta verso la luce di Pasqua. Un tempo di novità, di nuovi, semplici, solidali, concreti stili di vita, a cura della “Casa comune” e di tutti i suoi abitanti. Dì che queste pietre diventino pane! Il pane è un bene, un valore indubitabile, santo perché conserva la cosa più santa, la vita. Cosa c’è di male nel pane? Ma Gesù non ha mai cercato il pane a suo vantaggio, si è fatto pane a vantaggio di tutti. Non ha mai usato il suo potere per sé, ma per moltiplicare il pane per la fame di tutti. Gesù risponde alla prima sfida giocando al rialzo, offrendo più vita: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Il pane dà vita, ma più vita viene dalla bocca di Dio. Dalla sua bocca è venuta la luce, il cosmo, la creazione. È venuto il soffio che ci fa vivi, sei venuto tu fratello, amico, amore mio, che sei parola pronunciata dalla bocca di Dio per me e che mi fa vivere. Seconda tentazione: Buttati giù dal pinnacolo del tempio, e Dio manderà un volo d’angeli. La risposta di Gesù suona severa: non tentare Dio, non farlo attraverso ciò che sembra il massimo della fiducia in lui, e invece ne è la caricatura, esclusiva ricerca del proprio vantaggio. Il più astuto degli spiriti non si presenta a Gesù come un avversario, ma come un amico che vuole aiutarlo a fare meglio il messia. E in più la tentazione è fatta con la Bibbia in mano: fai un bel miracolo, segno che Dio è con te, la gente ama i miracoli, e ti verranno dietro. E invece Gesù rimanderà a casa loro i guariti dalla sua mano con una raccomandazione sorprendente: bada di non dire niente a nessuno. Lui non cerca il successo, è contento di uomini ritornati completi, liberi e felici. Nella terza tentazione il diavolo alza la posta: Adorami e ti darò tutto il potere del mondo. Adora me, segui la mia logica, la mia politica. Prendi il potere, occupa i posti chiave, imponiti. Così risolverai i problemi, e non con la croce. La storia si piega con la forza, non con la tenerezza. Vuoi avere gli uomini dalla tua parte, Gesù? Assicuragli tre cose: pane, spettacoli e un leader, e li avrai in pugno. Ma per Gesù ogni potere è idolatria. Lui non cerca uomini da dominare, vuole figli che diventino liberi e amanti. Allora angeli si avvicinarono e lo servivano. Il Signore manda angeli ancora, in ogni casa, a chiunque non voglia accumulare e dominare: sono quelli che sanno inventare una nuova carezza, hanno occhi di luce, e non scappano. Sono quelli che mi sorreggeranno con le loro mani, instancabili e leggere, tutte le volte che inciamperò.
(Letture: Genesi 2,7-9; 3,1-7; Salmo 50; Romani 5,12-19; Matteo 4,1-11)

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