il pastore che chiama ogni pecora per nome
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di pasqua (3 maggio 2020):
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». […]
A sera, i pastori erano soliti condurre il loro gregge in un recinto per la notte, un solo recinto serviva per diversi greggi. Al mattino, ciascun pastore gridava il suo richiamo e le sue pecore, riconoscendone la voce, lo seguivano (B. Maggioni). Su questo sfondo familiare Gesù inserisce l’eccedenza della sua visione, dettagli che sembrano eccessivi e sono invece rivelatori: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Quale pastore conosce per nome le centinaia di pecore del suo gregge e le chiama a sé a una a una? Per Gesù le pecore hanno ciascuna un nome, ognuna è unica, irripetibile; vuole te, così come sei, per quello che sei. E le conduce fuori. Anzi: le spinge fuori. Non un Dio dei recinti ma uno che apre spazi più grandi, pastore di libertà e non di paure. Che spinge a un coraggioso viaggio fuori dagli ovili e dai rifugi, alla scoperta di orizzonti nuovi nella fede, nel pensiero, nella vita. Pecore che non possono tornare sui pascoli di ieri, pena la fame, ma “gregge in uscita”, incamminato, che ha fiducia nel pastore e anche nella storia, nera di ladri e di deserti, ma bianca di sentieri e di sorgenti. Il pastore cammina davanti alle pecore. Non abbiamo un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini. Non un pastore alle spalle, che grida o agita il bastone, ma uno che precede e convince, con il suo andare tranquillo che la strada è sicura. Le pecore ascoltano la sua voce. E lo seguono. Basta la voce, non servono ordini, perché si fidano e si affidano. Perché lo seguono? Semplice, per vivere, per non morire. Quello che cammina davanti, che pronuncia il nome profondo di ciascuno, non è un ladro di felicità o di libertà: ognuno entrerà, uscirà e troverà pascolo. Troverà futuro. Io sono la porta: non un muro, o un vecchio recinto, dove tutto gira e rigira e torna sui suoi giri. Cristo è porta aperta, buco nella rete, passaggio, transito, per cui va e viene la vita di Dio. «Amo le porte aperte che fanno entrare notti e tempeste, polline e spighe. Libere porte che rischiano l’errore e l’amore. Amo le porte aperte di chi invita a varcare la soglia. Strade per tutti noi. Amo le porte aperte di Dio» (Monastero di San Magno). Sono venuto perché abbiano la vita, in abbondanza. Questo è il Vangelo che mi seduce e mi rigenera ogni volta che l’ascolto: lui è qui per la mia vita piena, abbondante, potente, vita «cento volte tanto» come dirà a Pietro. La prova ultima della bontà della fede cristiana sta nella sua capacità di comunicare vita, umanità piena, futuro; e di creare in noi il desiderio di una vita più grande, vita eterna, di una qualità indistruttibile, dove vivi cose che meritano di non morire mai.
(Letture: Atti 2,14.36–41; Salmo 22; 1 Pietro 2,20–25; Giovanni 10,1–10)