il commento al vangelo della domenica

Il Vangelo

un nuovo regno, dove il più potente è colui che serve


Un nuovo regno, dove il più potente è colui che serve
Ermes Ronchi
Gesù Cristo Re dell’Universo
Anno B

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Osserviamo la scena: due poteri uno di fronte all’altro; Pilato e il potere inesorabile dell’impero; Gesù, un giovane uomo disarmato e prigioniero. Pilato, onnipotente in Gerusalemme, ha paura; ed è per paura che consegnerà Gesù alla morte, contro la sua stessa convinzione: non trovo in lui motivo di condanna.
Con Gesù invece arriva un’aria di libertà e di fierezza, lui non si è mai fatto comprare da nessuno, mai condizionare.
Chi dei due è più potente? Chi è più libero, chi è più uomo?
Per due volte Pilato domanda: sei tu il re dei Giudei? Tu sei re?
Cerca di capire chi ha davanti, quel Galileo che non lascia indifferente nessuno in città, che il sinedrio odia con tutte le sue forze e che vuole eliminare. Possibile che sia un pericolo per Roma?
Gesù risponde con una domanda: è il tuo pensiero o il pensiero di altri? Come se gli dicesse: guardati dentro, Pilato. Sei un uomo libero o sei manipolato?
E cerca di portare Pilato su di un’altra sfera: il mio regno non è di questo mondo. Ci sono due mondi, io sono dell’altro. Che è differente, è ad un’altra latitudine del cuore. Il tuo palazzo è circondato di soldati, il tuo potere ha un’anima di violenza e di guerra, perché i regni di quaggiù, si combattono. Il potere di quaggiù si nutre di violenza e produce morte. Il mio mondo è quello dell’amore e del servizio che producono vita. Per i regni di quaggiù, per il cuore di quaggiù, l’essenziale è vincere, nel mio Regno il più grande è colui che serve.
Gesù non ha mai assoldato mercenari o arruolato eserciti, non è mai entrato nei palazzi dei potenti, se non da prigioniero. Metti via la spada ha detto a Pietro, altrimenti avrà ragione sempre il più forte, il più violento, il più armato, il più crudele. La parola di Gesù è vera proprio perché disarmata, non ha altra forza che la sua luce. La potenza di Gesù è di essere privo di potenza, nudo, povero.
La sua regalità è di essere il più umano, il più ricco in umanità, il volto alto dell’uomo, che è un amore diventato visibile.
Sono venuto per rendere testimonianza alla verità. Gli dice Pilato: che cos’è la verità? La verità non è qualcosa che si ha, ma qualcosa che si è. Pilato avrebbe dovuto formulare in altro modo la domanda: chi è la verità? È lì davanti, la verità, è quell’uomo in cui le parole più belle del mondo sono diventate carne e sangue, per questo sono vere.
Venga il tuo Regno, noi preghiamo. Eppure il Regno è già venuto, è già qui come stella del mattino, ma verrà come un meriggio pieno di sole; è già venuto come granello di senapa e verrà come albero forte, colmo di nidi. È venuto come piccola luce sepolta, che io devo liberare perché diventi il mio destino.




il commento al vangelo della domenica


Il Signore è vicino: vitale e nuovo come la primavera
il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica trentatreesima (18 novembre 2018) del tempo ordinario:
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. (…) Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno (…)».

L’universo è fragile nella sua grande bellezza: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna si spegnerà, le stelle cadranno dal cielo… Eppure non è questa l’ultima verità delle parole di Gesù: se ogni giorno c’è un mondo che muore, ogni giorno c’è anche un mondo che nasce, un germoglio che spunta, foglioline di fico che annunciano l’estate.
Quante volte si è spento il sole, le stelle sono cadute a grappoli dal nostro cielo, lasciandoci vuoti, poveri, senza sogni: una disgrazia, una delusione, la morte di una persona cara, una sconfitta nell’amore. Fu necessario ripartire, un’infinita pazienza di ricominciare, guardare oltre l’inverno, all’estate che inizia con il quasi niente, una gemma su un ramo, guardare «alla speranza che viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito da festa» (P. Ricoeur).
Gesù non ama la paura (la sua umanissima pedagogia è semplice: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura), vuole raccontare non la fine ma il fine della storia: Dio è vicino, è qui; bello, vitale e nuovo come la primavera del cosmo.
Dalla pianta di fico imparate: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Gesù ci porta alla scuola delle piante, del fico, del germoglio, perché le leggi dello spirito e le leggi profonde della creazione coincidono. Così un albero e le sue gemme diventano personaggi di una rivelazione. «Ogni essere vivente, ogni cosa, perfino il granello di polvere è un messaggio di Dio» (Laudato si’).
Imparate dalla sapienza degli alberi: quando il ramo si fa tenero, l’intenerirsi del ramo lo puoi percepire toccando; l’ammorbidirsi per la linfa che riprende a gonfiare i suoi piccoli canali non è all’occhio che si rivela, ma al tatto: vai vicino, tocca con mano. I sensi sono il nostro radar per addentrarci nella sapienza del mondo. Toccate. Guardate. Anzi: contemplate.E spuntano le foglie: piccole gemme che l’albero spinge fuori, che erompono al sole e all’aria, come un minimo parto, da dentro a fuori. Voi capite che l’estate è vicina. In realtà le gemme indicano la primavera, che però in Palestina è brevissima, pochi giorni ed è subito estate. Così anche voi sappiate che egli è vicino, alle porte. Da una gemma di fico imparate il futuro del mondo: «che non compiuto così com’è, ma è qualcosa che deve svilupparsi ancora oltre, e che deve essere inteso più in profondità. Il mondo è una realtà germinante» (R. Guardini), incamminata verso una pienezza profumata di frutti.
Da una gemma imparate il futuro di Dio: che sta alla porta, e bussa; viene non come un dito puntato, ma come un abbraccio; non portando un’accusa ma un germogliare di vita.




il commento al vangelo della domenica


 “Questa povera vedova ha dato tutta la sua vita” 
il commento di E. Bianchi al vangelo della trentaduesima domenica (11 ottobre 2018) del tempo ordinario:


Mc 12,38-44

In quel tempo Gesù diceva ai suoi discepoli nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Il brano evangelico di questa domenica ci testimonia un attacco molto duro di Gesù verso gli scribi e i farisei, diventati nel mondo cristiano figure tipologiche, che incarnano perfidia, ipocrisia, orgoglio. Attenzione però, perché qui si richiede da parte nostra un esercizio ermeneutico sapiente, che sappia anche essere “giusto”.

Gli scribi erano gli esperti delle sante Scritture, uomini che fin dall’infanzia si dedicavano alla lettura e allo studio della tradizione di Israele; giunti poi all’età matura, diventavano persone autorevoli, rabbini, “maestri”, dotati di poteri giuridici nelle diverse istituzioni giudaiche. I farisei – l’abbiamo sottolineato altre volte – erano invece un “movimento ecclesiale”, un gruppo che con zelo cercava di vivere la Legge di Mosè e la precettistica elaborata dai padri rabbinici. Erano semplici fedeli, appartenenti al popolo, e rappresentavano una componente forte, molto presente e anche missionaria all’interno di Israele. Certamente gli scribi e anche alcuni farisei furono avversari di Gesù, ma la polemica di Gesù, riattualizzata dagli evangelisti in un contesto di aspro confronto e di persecuzione dei cristiani, ritenuti dai farisei una setta eterodossa, riguardava soprattutto la loro postura di “persone religiose”. Nel riprendere questa polemica gli evangelisti intendevano inoltre denunciare quelli che nella chiesa cristiana avevano ormai assunto lo stesso stile. Si faccia dunque attenzione a non finire per leggere i vangeli in modo antigiudaico: non tutti gli scribi erano arroganti, non tutti i farisei erano ipocriti, anzi a volte i vangeli testimoniano di scribi vicini al regno di Dio (cf. Mc 12,34) e di farisei retti e giusti che sono stati ben disposti verso Gesù (cf. Lc 13,31).

Sì, c’è stato un conflitto aspro, ma Gesù oggi potrebbe rivolgere gli stessi duri avvertimenti a tanti ecclesiastici… Basta leggere con attenzione le parole rivolte da Gesù alla folla, che si potrebbero così parafrasare e attualizzare: “Diffidate degli scribi, degli esperti di Bibbia e di teologia! Quando escono, appaiono con vesti lunghe, filettate, addirittura colorate, indossano abiti sgargianti, si ornano di catene, di croci gemmate e preziose, cercano i volti di chi passa per essere salutati e riveriti, senza discernere le persone nel loro bisogno e nella loro sofferenza: volti che non sono guardati, ma chiamati a guardare! Nelle assemblee liturgiche hanno posti eminenti, cattedre e troni simili a quelli dei faraoni e dei re, e sono sempre invitati ai banchetti di potenti”. Davvero queste invettive di Gesù sono più che mai attuali: sono parole che dovrebbero farci arrossire e spingerci a interrogarci nel cuore su dove siamo finiti…

Quando si adotta questa postura di arroganza, si assume inevitabilmente uno stile che chiede ammirazione, che desidera adepti, che esige applausi da parte di persone devote. Per mantenere un tale atteggiamento occorre poi avere molto denaro, e così si finisce per divorare le case delle vedove ed esigere soldi proprio da parte dei più poveri, soldi derubati! È stato così ed è ancora così qua e là nella chiesa, e ognuno di noi in cuor suo conosce in quali modi, magari diversi da quelli stigmatizzati da Gesù, è tentato di apparire, di mostrarsi, di ricevere riconoscimenti e applausi anche nella vita ecclesiale! Non possiamo qui non rendere testimonianza a papa Francesco per i suoi richiami e i suoi sforzi in vista di una chiesa povera, nella quale “i primi”, quelli che governano o presiedano, non ricadano nei vizi degli uomini religiosi, che chiedono agli altri di dare gloria a Dio dando gloria proprio a loro, che si pensano suoi rappresentanti…

Gesù fa questi discorsi nel tempio, di fronte alla sala del tesoro, dove i fedeli, i pellegrini saliti a Gerusalemme, mettono le loro monete in “cassette per le offerte”. Come sempre, Gesù osserva, vede, comprende e discerne: sa cosa accade accanto a sé, è vigilante e trae dalla concreta realtà lezioni di vita. Qui che cosa vede? Nota che ci sono alcuni che mettono grandi somme di denaro: sono i ricchi, quelli che senza grande fatica e senza privarsi di qualcosa di essenziale, nella loro devozione possono mettere anche molto denaro nel tesoro del tempio. Anche di questo abbiamo avuto e abbiamo esperienza nella chiesa. Solo cinquant’anni fa i primi banchi in chiesa avevano la targa in ottone con incisi i nomi dei ricchi che avevano fatto grandi offerte, e quei banchi erano loro riservati. E i poveri? In fondo alla chiesa, in piedi, perché anche le sedie messe a disposizione erano a pagamento. Nulla di nuovo dunque!

Gesù però vede e discerne tra tutti una donna – per di più vedova –, cioè una persona che non conta nulla in un mondo dominato da uomini, che sentono anche il tempio come qualcosa che appartiene a loro: le donne, infatti, non facevano assemblea davanti a Dio come loro e con loro. Questa povera donna avanza tra molti altri, nella sua umiltà, e sembra che nessuno possa notarla. Gesù invece la nota e la addita tra tutti come “la vera offerente”, la vera persona capace di fare un dono, di dare gloria al Signore. Costei getta solo due spiccioli, due piccole monete di rame, cioè un quadrante, un quarto di soldo: una somma insignificante! Ma ecco che Gesù commenta il suo gesto e lo fa in modo solenne, introducendo le sue parole con: “Amen”, cioè: “È così, è la verità e io ve la dico”. “Amen, io vi dico: questa povera vedova ha gettato nella cassetta delle offerte più di tutti gli altri. Tutti, infatti, hanno preso dal loro superfluo; lei, invece, nella sua povertà, ha dato tutto quello che aveva, tutto quello che aveva per vivere (hólon tòn bíon autês; alla lettera, ‘tutta la sua vita’)”. E così ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutti i suoi beni, come chiede lo Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,5).

Questa vedova, recatasi al tempio per dire il suo amore a Dio, non viene in contatto con Gesù, non riceve da lui nessuna parola diretta e – possiamo supporre – nemmeno si accorge che Gesù è presente e la vede. Non è una donna che conosce Gesù e crede in lui, è una figlia di Israele che cerca soltanto di osservare la volontà di Dio, che si affida totalmente a lui, che non grida sui tetti ciò che fa, che non suona la tromba davanti a sé per farsi notare (cf. Mt 6,2), ma aderisce alle parole dei profeti che proclamano i poveri privilegiati e amati da Dio. È un’icona dell’Israele povero e fedele, che dipende da Dio solo (cf. Sof 2,3; 3,12-13); è la contro-figura degli uomini religiosi che apparentemente osservano la Legge, dimenticando invece “la giustizia, la misericordia e la fedeltà” (Mt 23,23) e, anzi, divorando proprio le case delle vedove… Ma è anche simile a tanti poveri della terra che, nella loro pratica religiosa o anche nella loro “irreligiosità”, cercano di compiere ciò che è buono secondo la loro coscienza, e Gesù la indica come esemplare, come operatrice di bene, come esempio di dono totale. Questa donna, infatti, non dà, come gli altri, briciole di ciò che possiede; non dà l’offerta senza che ne consegua per lei una sofferenza; non offre denaro di cui non ha affatto bisogno, perché ne ha tanto in più: no, questa donna si spoglia di ciò che le era necessario per vivere, di tutto ciò che aveva, non di una sua porzione minima. Questa vedova è per Gesù un’immagine dell’amore che sa rinunciare anche a ciò che è necessario: ecco una donna anonima, ma una vera discepola di Gesù.

Oggi quando parliamo di “chiesa dei poveri” dovremmo fare memoriale di questa donna, discepola di Gesù nella chiesa dei poveri da lei inaugurata, e dovremmo interrogarci su cosa diamo a quelli meno muniti di noi, ai più poveri. Noi che facilmente buttiamo via il cibo, qualche volta diamo ai poveri qualcosa che ci costringe a sentire un bisogno, a fare a meno di ciò che ci piacerebbe possedere o consumare? Si fa troppo presto a dire “chiesa povera” o “di poveri”: ma noi ne facciamo parte o ne siamo esclusi?




il commento al vangelo della domenica

verso Dio e verso il prossimo: due facce dello stesso amore
 «Amerai il Signore tuo Dio… Amerai il tuo prossimo come te stesso»

il commento al vangelo della trentunesima domenica (4 novembre) del tempo ordinario:
 di Enzo Pacini cappellano del carcere di Prato

Mc 12,28-34

In quel tempo si avvicinò a Gesù uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

La liturgia di questa domenica ci presenta, attraverso il dialogo di Gesù con la scriba (Mc 12,28-34), il primo e più grande dei comandamenti, frutto di una lettura autorevole della legge di Mosè (Dt 6,2-6; 1a lettura) da parte del Messia, una lettura accolta e sottoscritta pienamente dal suo interlocutore. Non doveva infatti suonare affatto strana ai suoi orecchi, visto che questo comandamento risuona nella preghiera quotidiana recitata da ogni israelita, lo «Shemà Israel». Ma, come sappiamo, Gesù non è semplicemente un esegeta, uno studioso appartenente a una qualche corrente dottrinale, egli è colui che rivela dimensioni inaspettate del rapporto di fede, che riesprime in un quadro nuovo elementi della tradizione. Infatti non si tratta solo di sottolineare la plausibilità di questa affermazione; verrebbe infatti da dire: «è logico che amare Dio è più importante di tutto, non è una grande scoperta!», e invece lo è per diversi motivi.

Innanzitutto l’affermazione dello scriba per cui amare Dio val più di tutti gli olocausti e i sacrifici potrebbe sollevare qualche problema: ma gli olocausti e i sacrifici, ovvero il culto, la liturgia, non sono modalità per amare Dio? Non sono gesti di dedizione e adorazione? Non è questa la differenza fra Caino e Abele, dove quest’ultimo offre a Dio un sacrificio a lui gradito (Cf. Gen 4,1-6)? Certo è vero che anche il culto può inaridirsi nelle secche del rubricismo, anche i profeti lo sottolineano con forza: «Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?… Smettete di presentare offerte inutili…non posso sopportare delitto e solennità» (Is 1,11-13). Ciò non toglie che il fascino del rito stia proprio lì, nel codificare un rapporto, entrare in un modello precostituito senza stare troppo a domandarsi quale sia il contenuto personale che esso dovrebbe veicolare.

Diventa perciò fondamentale l’inserimento compiuto da Gesù Cristo di una seconda parte nell’annuncio del primo comandamento, quella riguardante l’amore del prossimo. Non si tratta di un’aggiunta posticcia ma della traduzione esistenziale (diremmo oggi) dell’amore verso Dio. Anche qui Cristo non inventa nulla prende pari pari il comandamento dal libro del Levitico (cf. Lv 19,18), ma lo incastra in modo indissolubile nell’altro, rendendolo una sorta di test di autenticità di tutto. Non credo, affermando questo, di peccare di «orizzontalismo» (come si diceva qualche anno fa): anche Giovanni afferma che «chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). E del resto Gesù stesso si oppone decisamente ai cultori dei diritti di Dio a spese del prossimo: «se uno dichiara al padre o alla madre: è Korbàn, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla» (Mc 7,11-12), e anche «se ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti» (Mt 5,23). E’ vero che il secolarismo può aver prodotto diversi guai rendendo difficile la comprensione della «grammatica della fede» ma è molto rischioso reagire ad esso ricercando una sacralità rassicurante.

In fondo, come dice la seconda lettura (Eb 7,23-28), la fragilità del celebrante e della sua comunità è inscritta nel profondo di ciascuno, di modo che non possa esserci nessun vanto, ma solo la ricerca di un cammino di comunione e sintonia con Cristo.

fonte:/www.toscanaoggi.it/




il commento al vangelo della domenica

 “La tua fede ti ha salvato” 
il commento di E. Bianchi al vangelo della trentesima domenica (28 ottobre 2018) del tempo ordinario:


Mc 10,46-52

In quel tempo 46 Gesù e i suoi discepoli giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Con il brano che leggiamo in questa domenica il vangelo secondo Marco conclude il racconto della salita di Gesù a Gerusalemme, ossia l’itinerario del discepolato durante il quale Gesù ha dato insegnamenti, ha formato quanti lo seguivano, nella consapevolezza che giunti a Gerusalemme sarebbe avvenuta “la fine del profeta”, mediante la sua condanna a morte. Subito dopo Gesù entrerà nella città santa, scortato festosamente e acclamato figlio di David, cioè Messia (cf. Mc 11,7-11), evento in qualche modo anticipato nella nostra pagina.

Siamo a Gerico, la porta della Giudea a oriente. Mentre non solo i discepoli ma molti altri seguono Gesù, un cieco che porta il nome di Bar-Timeo (figlio di Timeo), un uomo marginale, ridotto a mendicare sulla strada, uno “scarto” di cui nessuno si prende cura, sente dire che sta per passare Gesù di Nazaret. Essendo cieco, non l’aveva ovviamente mai visto, né l’aveva incontrato, ma la fama di questo rabbi galileo l’aveva raggiunto. Nel suo cuore era certamente presente almeno il desiderio di vedere, la speranza di avere la vista, per poter uscire dalla notte. Udito che Gesù sta passando, inizia dunque a gridare: “Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me!”. In questo grido vi è una grande spontaneità, vi è la sua fede giudaica nel Messia veniente, vi è l’attesa di una guarigione, della salvezza, vi è la forza di gridare e di farsi sentire, nella personale convinzione che quel rabbi può fare qualcosa per lui, dunque è un maestro capace di cura e di amore verso chi incontra. Bartimeo ripete con altre parole quanto aveva affermato Pietro: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). In quel caso però Pietro era stato immediatamente rimproverato da Gesù per la sua incapacità di comprendere la sua vera messianicità (cf. Mc 8,30-34). Il figlio di Timeo sta invece di fronte al figlio di David, animato dalla fiducia che il Messia avrebbe aperto gli occhi ai ciechi, compiendo anche in questo le sante Scritture (cf. Is 35,5; 42,7).

Ma allora come adesso, tra Gesù e chi lo cerca ci sono altri: qui è la folla, in altri casi sono i discepoli stessi, cioè la sua comunità, a diventare ostacolo, barriera tra Gesù e chi desidera incontrarlo. Attenzione, ciò accade anche per ragioni “sante”: paura di disturbare il maestro, volontà di proteggerlo dagli assalti della gente… Bartimeo, però, non desiste, si mette a gridare più forte, e così la sua invocazione raggiunge Gesù. Questi si ferma e lo manda a chiamare. Ciò avviene puntualmente, con le parole che tante volte i discepoli di Gesù avevano udito durante i suoi incontri con chi si trovava nella sofferenza o nel peccato: “Coraggio, alzati!”. Nell’invito espresso con “Coraggio!” (cf. Mt 9,2-22; 14,27; Mc 6,50) c’è il cuore di Gesù, che dice innanzitutto: “Coraggio, non temere, abbi fiducia!”. Questo il primo atteggiamento necessario all’incontro con Gesù: occorre uscire dal timore, dalla sfiducia, dalla mancanza di attesa, dalla visione di se stessi come non degni di essere da lui amati. A quel punto si tratta di alzarsi – verbo egheíro, che esprime anche il risorgere (cf. Mc 5,41; 6,14.16; 12,26; 14,28; 16,6)! – dal giaciglio alla postura dell’uomo che ha speranza (homo spe erectus). Una volta in piedi, si può ascoltare e comprendere che il Signore chiama ciascuno in modo personalissimo e pieno di affetto (“Chiama te”).

Quel cieco, allora, “getta via il suo mantello, balza in piedi e viene da Gesù”. È un povero che non ha nulla, se non il mantello, segno della sua identità di escluso, unica sua inalienabile proprietà (cf. Dt 24,13). Al contrario dell’uomo ricco che non aveva saputo liberarsi della zavorra dei suoi beni, e dunque se ne era andato triste (cf. Mc 10,21-22), Bartimeo si spoglia di ogni pur minima sicurezza, del suo passato, della sua stessa vita, e balzando in piedi si mette in movimento a tentoni e viene da Gesù. Grande è l’ardire di quest’uomo, che nasce dalla sua libertà: nella sua nuda povertà e nella sua cecità sta di fronte a Gesù, attendendo tutto da lui… Quest’ultimo non presume il bisogno di chi lo ha invocato, non si rivolge a lui in modo meccanico e anonimo, ma proprio per conoscere dalle sue parole il bisogno che lo abita gli domanda: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E Bartimeo risponde, con un tono di confidenza umile e audace: “Rabbunì, mio maestro, che io veda di nuovo!”. La preghiera è desiderio espresso davanti a Gesù, e Bartimeo desidera vedere, ben oltre la semplice visione con gli occhi: vuole vedere anche con il cuore, vuole vedere nella fede, vuole essere nella luce e non nella tenebra…

Gesù, sempre attento a ogni singolo uomo o donna che incontra, sempre capace di comunicare “in situazione”, si accorge di ciò che Bartimeo sta vivendo. Per questo si rivolge a lui con un’affermazione straordinaria: “Va’, la tua fede ti ha salvato”, parole che egli ha ripetuto spesso di fronte a chi gli chiedeva salvezza (cf. Mc 5,34 e par.; Lc 7,50; 17,19; 18,42). Innanzitutto gli dice: “Va’”, lo invita cioè a mettersi in cammino, senza chiedergli nulla. Alla libertà di chi entra in relazione con lui, Gesù risponde potenziando questa stessa libertà, invitando il suo interlocutore a esercitare la libertà. E questa prassi di liberazione si radica in un atteggiamento che contraddistingue Gesù, al punto che possiamo intenderlo come il suo tratto specifico, peculiare: la sua capacità di cogliere e di far emergere nelle persone la fede-fiducia che le anima. Ecco come Gesù fa emergere la fede già presente nell’altro: attraverso la sua presenza di uomo affidabile e ospitale, che non dice di essere lui a guarire e a salvare, ma la fede di chi a lui si rivolge. Fede-fiducia nella vita, negli altri, prima ancora che in Dio: non è infatti possibile, per parafrasare la Prima lettera di Giovanni, “credere in Dio che non si vede, se non sappiamo credere all’altro, al fratello che si vede” (cf. 1Gv 4,20)…

Guarigione non solo fisica quella di Bartimeo, ma salvezza che lo investe interamente: infatti, “subito si mette a seguire Gesù lungo la strada”. La salvezza viene sperimentata dal credente non tanto come condizione in cui installarsi, ma come cammino perseverante dietro a Gesù, come relazione quotidiana con lui. Bartimeo si pone alla sequela di Gesù, come i discepoli che sempre lo seguono (cf. Mc 1,18; 2,14.15; 5,37, 6,1; 8,34; 10,21.28.32; 11,9; 14,51.54; 15,41), vanno dietro a lui (cf. Mc 1,17.20; 8,33.34). Colui che era cieco, ai bordi della strada, mendicante, dopo l’incontro con Gesù è capace di seguirlo come un discepolo, verso Gerusalemme. Di più, il suo grido rivolto a Gesù – “Figlio di David!” – subito dopo viene ripreso dalla folla, durante l’ingresso di Gesù nella città santa: “Benedetto il Regno veniente di David nostro padre!” (Mc 11,10). Si potrebbe dire che è questo cieco ad aver intonato per primo le grida di gloria nei confronti di Gesù…

Questo episodio è molto di più di un semplice racconto di miracolo, come il lettore di Marco può ormai capire. Gesù sta per entrare nella città santa per la sua passione e morte, ma i suoi Dodici discepoli lungo tutto quel cammino sono rimasti ciechi. Ascoltavano le sue parole ma non capivano, mostrando di essere ben lontani dal vedere gli eventi come li vedeva Gesù: prima Pietro (cf. Mc 8,32), poi tutti e Dodici (cf. Mc 9,34), infine Giacomo e Giovanni (cf. Mc 10,35-37) sono sembrati ciechi di fronte a ogni rivelazione fatta loro da Gesù. Ma ora ogni lettore può identificarsi con questo cieco di Gerico; deve solo prendere coscienza della propria cecità, gridare al Signore: “Abbi pietà di me!” e avere fede che egli può strapparlo dalla tenebra e fargli vedere ciò che i suoi occhi non riescono a vedere. Sì, in quel mettersi in cammino dietro a Gesù, Bartimeo è per noi più esemplare dei Dodici. Dunque? Ognuno di noi si metta davanti al Signore Gesù e, guardando a lui con fede e attesa, si scoprirà non vedente. Abbia allora la forza e il coraggio di gridargli solo: “Signore, abbi pietà di me”, “Kýrie eleison”, questa invocazione brevissima eppure così completa rivolta a lui, con piena fiducia che egli può salvarci.




il commento al vangelo della domenica


 Tra voi non è così 


Mc 10,35-45

In quel tempo Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, si avvicinarono a Gesù dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Nel vangelo secondo Marco dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù nella sua salita verso Gerusalemme è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio (cf. Mc 8,31), è Pietro che arriva a contestare le parole di Gesù (cf. Mc 8,32), facendosi “ostacolo” – “Satana” (Mc 8,33), come lo chiama Gesù – sul cammino che Dio ha assegnato a suo Figlio. Quando Gesù afferma per la seconda volta la necessitas passionis (cf. Mc 9,31), tutti i discepoli, come intontiti, non comprendono, anzi si mettono a discutere su chi tra loro può essere considerato il più grande (cf. Mc 9,32-34).

Nel brano evangelico di questa domenica, dopo il terzo annuncio della sua sofferenza e morte, passaggio inevitabile verso la resurrezione (cf. Mc 10,32-34), sono Giacomo e Giovanni che mostrano quanto sono distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli hanno seguito Gesù fin dall’inizio del suo ministero pubblico, sono i suoi primi compagni insieme a Pietro e ad Andrea, hanno abbandonato tutto, famiglia e professione, per stare con lui (cf. Mc 1,16-20), e in qualche modo si sentono gli “anziani” della comunità. Essendo figli di Salome, probabilmente sorella di Maria, la madre di Gesù (cf. Mc 15,40; Mt 27,56; Gv 19,25), sono cugini di Gesù, dunque suoi parenti, appartenenti alla famiglia, al clan, e per questo pensano di vantare precedenze sugli altri.

Eccoli allora presentarsi a Gesù per dirgli ciò che pensano di “meritare” per l’avvenire, quando Gesù, il Re Messia, stabilirà il suo regno: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È una pretesa più che una domanda, fatta da chi ragiona esattamente come tante volte facciamo noi nel quotidiano: le relazioni contano, dunque occorre rivendicare il loro peso… E questo non avviene solo tra noi uomini e donne, fratelli e sorelle, perché anche nei confronti di Dio vantiamo pretese: siamo noi i credenti, siamo noi i cristiani, dunque presso Dio dobbiamo avere una precedenza sugli altri…

Gesù replica a Giacomo e Giovanni con infinita pazienza: “Non sapete quello che chiedete”. Risposta anche ironica, perché Gesù sa che nella sua vera gloria, quella sulla croce, alla sua destra e alla sua sinistra ci saranno due malfattori, crocifissi e suppliziati come lui (cf. Mc 15,27). Vi è qui lo scontro tra due visioni della gloria: i due discepoli la intendono come successo, potere, splendore, mentre Gesù l’ha appena indicata nel servizio, nel dono della vita, nell’essere rigettato in quanto obbediente alla volontà di Dio. Per questo egli tenta ancora una volta di portare i discepoli a guardare non alla gloria come termine finale, ma al cammino che conduce alla vera gloria, quella che essi neppure riescono a immaginare. E lo fa ponendo loro una domanda: “Potete bere il calice che io sto per bere, o ricevere l’immersione nella quale io devo essere immerso?”.

Gesù chiede innanzitutto se sono disposti a bere “il calice della sofferenza”, espressione biblica per indicare la sofferenza da subire (cf. Sal 75,9; Is 51,17.22, ecc.). Si ricordi che Gesù stesso nell’agonia del Getsemani sarà tentato di allontanare da sé quel calice: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36)… Nella sequela di Gesù, nel condividere la sua strada e la sua sorte, vi è per i discepoli una sofferenza da accogliere, senza rivolte e senza la tentazione di esserne esenti. Non solo, c’è anche un’immersione, un “andare sotto”, un affogare momentaneo nei “flutti della morte” (Sal 18,5), che sarà un evento prima per Gesù, ma che poi dovrà essere condiviso da chi si sente coinvolto nella sua vita e vuole stare con lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4). Viene qui impiegato il termine greco báptisma (e il verbo corrispondente baptízein), di cui non comprendiamo più il significato: battesimo è immersione, è andare sott’acqua, è affogare come creatura vecchia per uscire dall’acqua come creatura nuova. Si noti l’insistenza del testo originale, come appare da una traduzione alla lettera: “Potete voi con l’immersione con cui sono immerso essere immersi?”. Ecco il battesimo, che dà inizio sacramentalmente alla vita cristiana, ma che deve diventare esperienza, vita concreta, fino al momento finale della morte, quando i flutti ci travolgeranno, e poi dopo la morte, quando Dio ci chiamerà alla vita eterna attraverso la resurrezione.

Giacomo e Giovanni, sempre “boanèrghes, cioè ‘figli del tuono’” (Mc 3,17), rispondono affermativamente alla domanda di Gesù, e capiranno solo più tardi il prezzo di questa disponibilità: quando Marco scrive il vangelo, intorno all’anno 70, sa che nel 44 Giacomo era stato martirizzato da Erode a Gerusalemme (cf. At 12,2) e Giovanni secondo la tradizione vivrà nell’isola di Patmos una lunga passione di prigioniero esiliato… In ogni caso, Gesù accoglie questa loro spontanea professione di disponibilità alla croce, ma ricorda anche che non spetta a lui concedere di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, ma “è per coloro per i quali è stato preparato” dal Padre (passivo divino). Sta di fatto che questa richiesta dei due fratelli – che Matteo, per riguardo a Giacomo e a Giovanni, pone in bocca alla loro madre (cf. Mt 20,20) – suscita subito una reazione sdegnata negli altri con-discepoli, che li contestano per gelosia e perché infastiditi dalla loro pretesa.

E qui va detto con franchezza e senza ingenuità che la comunità di Gesù è immagine delle nostre comunità: uomini e donne chiamati da Gesù e scelti da lui; uomini e donne che sovente mostrano di avere poca fede o addirittura apistía, incredulità (cf. Mc 9,24; 16,14); uomini e donne fragili e deboli che a volte non riescono a comprendere le parole di Gesù, le esigenze della sequela, e dunque contraddicono la loro vocazione e la loro identità. La comunità, peraltro scelta, istruita e formata dal Signore presente e operante in mezzo a essa, appare una povera comunità. Marco ha l’audacia di metterci davanti agli occhi la tragica parabola di questa comunità: quelli che

“abbandonata la barca, le reti e il padre, seguirono Gesù” (cf. Mc 1,18-20),

nell’ora della passione “abbandonarono Gesù e fuggirono tutti” (Mc 14,50).

Ecco, non dimentichiamo la debolezza e la fragilità della comunità del Signore, perché se tale era la comunità i cui membri erano stati scelti e istruiti personalmente da Gesù, come potrebbero le nostre comunità essere migliori?

Allora Gesù li chiama tutti e dodici intorno a sé e dà loro una lezione molto istruttiva, perché è un’apocalisse del potere mondano, politico. Dice: “Voi sapete”, perché basta guardare, osservare, “che coloro i quali sono considerati i governanti delle genti dominano, spadroneggiano su di esse, e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così (Non ita est autem in vobis)”. Attenzione, Gesù non dice: “Tra voi non sia così”, facendo un augurio o impartendo un comando, ma: “Tra voi non è così”, ovvero, “se è così, voi non siete la mia comunità!”. Non è possibile che la comunità cristiana abbia come modello il potere mondano, che si lasci conformare a ciò che fanno i governi, quasi sempre ingiusti e spesso totalitari: il governo nella comunità cristiana è “altro”, oppure non è governo, ma dominio. D’altra parte, Gesù non nega la necessità di un governo nella società umana, ma lo legge nella sua realtà, come si manifesta in concreto. Sì, a volte c’è qualcuno che merita il governo perché sa esercitarlo nella giustizia, ma è evento raro, perché le forze mondane, i poteri oscuri lo rimuovono presto…

Ecco dunque la vera “costituzione” data alla chiesa: una comunità di fratelli e sorelle, che si servono gli uni gli altri, e tra i quali chi ha autorità è servo di tutti i servi. Nella chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle, e basta! Il fondamento di questa comunità è proprio l’evento nel quale il Figlio dell’uomo, Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il Servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano che in questa domenica ascoltiamo come prima lettura: “Dopo il suo intimo tormento”, cioè dopo aver conosciuto la sofferenza, “il giusto mio Servo” – dice il Signore – “giustificherà le moltitudini (rabbim), egli si addosserà le loro iniquità” (Is 53,11). Questa la gloria del Messia, di Gesù, quindi la gloria del cristiano: non riconoscimenti mondani, non posizioni o posti di successo e di trionfo, ma la gloria di chi serve i fratelli e le sorelle e dà la vita nella libertà e per amore al seguito di lui, Gesù.

Questo vangelo non riguarda solo la comunità storica di Gesù, i Dodici, ma riguarda soprattutto noi, la chiesa oggi. In particolare, riguarda quelli che nella comunità cristiana esercitano un servizio, sempre tentati di farlo diventare dominio, potere, sempre tentati di lavorare per sé e non per il bene della comunità. E sia chiaro: nella chiesa il servizio non è finalizzato ad assicurare una dinamica di gruppo positiva ed efficace secondo schemi psicologici. No, il servizio è una legge per la comunità cristiana, perché realizza concretamente il nostro amore fraterno, perché questa è la posizione del Kýrios, del Signore. Al cuore della comunità c’è il Kýrios che si fa nostro servo e ci dice: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,14).




il commento al vangelo della domenica

beati gli insoddisfatti, se diventano cercatori di tesori

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentesima domenica (14 0ttobre 2018) del tempo ordinario:

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In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. […]

Gesù uscito sulla strada, e vuol dire: Gesù libero maestro, aperto a tutti gli incontri, a chiunque incroci il suo cammino o lo attenda alla svolta del sentiero. Maestro che insegna l’arte dell’incontro.
Ed ecco un tale, uno senza nome, gli corre incontro: come uno che ha fretta, fretta di vivere. Come faccio per ricevere la vita eterna? Termine che non indica la vita senza fine, ma la vita stessa dell’Eterno. Gesù risponde elencando cinque comandamenti e un precetto (non frodare) che non riguardano Dio, ma le persone; non come hai creduto, ma come hai amato. Questi trasmettono vita, la vita di Dio che è amore.
Maestro, però tutto questo io l’ho già fatto, da sempre. E non mi ha riempito la vita. Vive quella beatitudine dimenticata e generativa che dice: “Beati gli insoddisfatti, perché diventeranno cercatori di tesori”.
Ora fa anche una esperienza da brivido, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro: Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso subisce l’incantamento del Signore, non resiste a quegli occhi… Invece la conclusione del racconto va nella direzione che non ti aspetti: Una cosa ti manca, va’, vendi, dona ai poveri… Sarai felice se farai felice qualcuno; fai felici altri se vuoi essere felice.
E poi segui me: capovolgere la vita. Le bilance della felicità pesano sui loro piatti la valuta più pregiata dell’esistenza, che sta nel dare e nel ricevere amore. Il maestro buono non ha come obiettivo inculcare la povertà in quell’uomo ricco e senza nome, ma riempire la sua vita di volti e di nomi.
E se ne andò triste perché aveva molti beni.
Nel Vangelo molti altri ricchi si sono incontrati con Gesù: Zaccheo, Levi, Lazzaro, Susanna, Giovanna. Che cosa hanno di diverso questi ricchi che Gesù amava, sui quali con il suo gruppo si appoggiava? Hanno saputo creare comunione: Zaccheo e Levi riempiono le loro case di commensali; Susanna e Giovanna assistono i dodici con i loro beni (Luca 8,3). Le regole del Vangelo sul denaro si possono ridurre a due soltanto: a) non accumulare, b) quello che hai, ce l’hai per condividerlo. Non porre la tua sicurezza nell’accumulo, ma nella condivisione.
Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Infatti il Vangelo continua: Pietro allora prese a dirgli: Signore, ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio cento volte tanto, avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato. Non rinuncia, se non della zavorra che impedisce il volo, il Vangelo è addizione di vita.




il commento al vangelo della domenica

” il sogno di Dio è che nessuno sia solo, senza sicurezza”

il commento di E. Ronchi alla ventisettesima domenica (7 ottobre 2028) del tempo ordinario:

Visualizza Mc 10,2-16  

Alcuni farisei si avvicinarono a Gesù per metterlo alla prova: «è lecito a un marito ripudiare la moglie?». Chiaro che sì, è pacifico, non solo la tradizione religiosa, ma la stessa Parola di Dio lo legittimava. Gesù invece prende le distanze dalla legge biblica: «per la durezza del vostro cuore Mosè scrisse per voi questa norma». Gesù afferma una cosa enorme: non tutta la legge, che noi diciamo di Dio, ha origine divina, talvolta essa è il riflesso di un cuore duro. Qualcosa vale più della lettera scritta. Simone Weil lo dice in modo luminoso: «Mettere la legge prima della persona è l’essenza della bestemmia». E per questo Gesù, infedele alla lettera per essere fedele allo spirito, ci «insegna ad usare la nostra libertà per custodire il fuoco e non per adorare la cenere!» (G. Mahler). La Bibbia non è un feticcio, vuole intelligenza e cuore.

Gesù non intende redigere altre norme, piantare nuovi paletti. Non vuole regolamentare meglio la vita, ma ispirarla, accenderla, rinnovarla. E allora ci prende per mano e ci accompagna dentro il sogno di Dio, sogno sorgivo, originario, a guardare la vita non dal punto di vista degli uomini, ma del Dio della creazione. Dio non legifera, crea: «dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà il padre e la madre, si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola». Il sogno di Dio è che nessuno sia solo, nessuno senza sicurezza, più che di padre, senza tenerezza, più che di madre. Gesù ci porta a respirare l’aria degli inizi: l’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Il nome di Dio è dal principio “colui-che-congiunge”, la sua opera è creare comunione.

La risposta di Gesù provoca la reazione non dei farisei, ma dei discepoli che trovano incomprensibile questo linguaggio e lo interrogano di nuovo sullo stesso argomento. «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei». Gesù risponde con un’altra presa di distanza dalla legislazione giudaica: «E se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio». Nella legge non c’era parità di diritti; alla donna, la parte più debole, non era riconosciuta la possibilità di ripudiare il marito. E Gesù, come al suo solito, si schiera dalla parte dei più deboli, e innalza la donna a uguale dignità, senza distinzioni di genere. Perché l’adulterio sta nel cuore, e il cuore è uguale per tutti. Il peccato vero più che nel trasgredire una norma, consiste nel trasgredire il sogno di Dio. Se non ti impegni a fondo, se non ricuci e ricongiungi, se il tuo amore è duro e aggressivo invece che dolce e umile, tu stai ripudiando il sogno di Dio, sei già adultero nel cuore.

fonte:www.qumran2.net




il commento al vangelo della domenica


il Signore conosce i suoi
il commento di E. Bianchi al vangelo della ventiseiesima domenica (30 settembre 2018) del tempo ordinario:

Mc 9,38-43.45.47-48

In quel tempo Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue.

Il testo evangelico di questa domenica si presenta composito, riportando una serie di parole di Gesù appartenenti a contesti diversi ed eterogenei, eppure legate da alcune espressioni ricorrenti: “nel tuo/mio nome”, “scandalizzare”, “fuoco e sale”. Mi soffermerò dunque più ampiamente sull’episodio dell’esorcista che compie azioni di liberazione pur non seguendo Gesù, poi cercheremo una comprensione generale delle “sentenze”, degli ammonimenti raccolti da Marco in questo contesto.

Gesù sta continuando il cammino verso Gerusalemme insieme ai suoi discepoli, ma il clima comunitario non è pacifico. Egli fa annunci della sua passione e i discepoli non capiscono (cf. Mt 9,32) o si ribellano, come Pietro (cf. Mc 8,31-33); quando, in assenza di Gesù, viene chiesto ai discepoli di guarire un ragazzo epilettico, forse giudicato posseduto da uno spirito impuro, essi si mostrano incapaci di liberarlo dalla malattia (cf. Mc 9,14-29); infine, tutti i Dodici si mettono a discutere su “chi tra loro fosse più grande” (Mc 9,34). Sì, ormai tra Gesù e la sua comunità vi è distanza, incomprensione. Se il passo di Gesù è sempre convinto, con uno scopo preciso che gli richiede una radicale obbedienza, quello dei discepoli è invece incerto e sbandato. Nel vangelo secondo Marco tutto il viaggio verso la città santa sarà caratterizzato da questa tensione tra Gesù e i suoi, dall’incomprensione da parte di tutti, nessuno escluso.

Ed ecco, puntualmente, un nuovo episodio che attesta tale stato di cose: Giovanni, “il figlio del tuono” (cf. Mc 3,17) il fratello di Giacomo, uno dei primi quattro chiamati (cf. Mc 1,16-20), uno dei discepoli più intimi di Gesù, testimone privilegiato della sua trasfigurazione (cf. Mc 9,2), vede un tale che scaccia demoni, compie azioni di liberazione sui malati nel nome di Gesù, pur non facendo parte della comunità, dunque non seguendo Gesù con gli altri discepoli. Allora si reca da Gesù e dichiara risolutamente: “Lo abbiamo visto fare ciò e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Cosa c’è in questa reazione di Giovanni? Certamente uno zelo mal riposto, ma uno zelo che rivela un amore per Gesù, una gelosia nei suoi confronti: se uno usa il nome di Gesù, dovrebbe seguirlo e dunque fare corpo con la sua comunità… Mescolato a questo sentimento vi è però anche uno spirito di pretesa, il pensiero che solo i Dodici siano autorizzati a compiere gesti di liberazione nel nome di Gesù; c’è un senso di appartenenza che esclude la possibilità del bene per chi è fuori dal gruppo comunitario; c’è la volontà di controllare il bene che viene fatto, affinché sia imputato all’istituzione alla quale si appartiene.

Sono qui ritratte le nostre patologie ecclesiali, che a volte emergono fino ad avvelenare il clima nella chiesa, fino a creare al suo interno divisioni e opposizioni, fino a fare della chiesa una cittadella che si erge contro il mondo, contro gli altri uomini e donne, ritenuti tutti nello spazio della tenebra. Dobbiamo confessarlo con franchezza: negli ultimi decenni il clima della chiesa è stato avvelenato in questo modo e tale malattia, nonostante i continui ammonimenti di papa Francesco, non è ancora stata vinta. Vi sono porzioni ecclesiali che si ergono a giudici degli altri, che si ritengono una chiesa migliore di quella degli altri. Vi sono cristiani che, con certezze granitiche, giudicano gli altri fuori della tradizione o della chiesa cattolica e aspettano di poter ascoltare da parte dell’autorità ecclesiastica condanne verso quanti non somigliano a loro o non fanno parte del loro gruppo, soggetto a tentazioni settarie.

Guai alla comunità cristiana che pensa di essere chiesa perfetta, guai all’autoreferenzialità e all’autarchia spirituale, atteggiamenti di chi pensa di non avere bisogno delle altre membra, perché crede se stesso membro del corpo di Cristo (cf. 1Cor 12,12-27). Gesù non ha mai mostrato di essere totalitario, escludente, né ha mai obbligato nessuno a seguirlo e a far parte della sua comunità. Nessun proselitismo! Nel contempo, quale Cristo risorto Gesù è il Signore di tutta la chiesa e lui solo conosce i suoi (cf. 2Tm 2,19): non spetta dunque ai suoi, o ai pretesi suoi, giudicare altri come zizzania, fino a tentare di estirparli (cf. Mt 13,24-30). Cristo trascende le frontiere di ogni comunità cristiana e può operare il bene in molte forme attraverso la potenza del suo Spirito santo, che “soffia dove vuole” (Gv 3,8). Nella chiesa, purtroppo, si soffre di questa malattia dell’“esclusivismo” e facilmente non si riconosce all’altro la capacità di compiere il bene, di operare per la liberazione dell’uomo dai mali che lo opprimono.

Papa Francesco in questi pochi anni di pontificato è tornato più volte a denunciare questi mali ecclesiastici, chiedendo soprattutto ai cristiani appartenenti ai movimenti di rifuggire derive settarie e di imparare a camminare insieme agli altri cristiani, non separati, non al di sopra, non con itinerari in opposizione. La diversità è ricchezza, è multiforme grazia dello Spirito che rende policroma la chiesa (cf. Ef 3,10), la sposa del Signore, la rende più bella e pronta per le nozze con il Messia (cf. Ap 19,7; Ef 5,27). Se uno fa il bene in nome di Cristo, questo bene va innanzitutto riconosciuto, non negato, e poi occorre avere fiducia in lui: se compie il bene in nome di Gesù, potrà forse subito dopo parlare male di lui? “Chi non è contro di noi è per noi”, chiosa lo stesso Gesù. Ovvero, egli esorta ad accettare di non essere i soli a compiere il bene, ad accettare che altri, diversi da noi, che neppure conosciamo, possano compiere azioni segnate dall’amore. Si tenga anche presente che vi sono molti che apparentemente seguono Gesù, profetizzano, scacciano demoni e compiono miracoli nel suo nome (cf. Mt 7,22), che magari hanno anche una pratica di ascolto della sua parola e una pratica sacramentale eucaristica (“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e ti abbiamo ascoltato”: cf. Lc 13,26). Tutti costoro, però, non sono garantiti dalla loro appartenenza e potranno risultare estranei al Signore, che dirà loro: “Non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me, voi che avete operato il male!” (Mt 7,23; cf. Lc 13,27).

La vera domanda che dobbiamo porci non è dunque: “Chi è contro di me, contro di noi?”, bensì: “Sono io, siamo noi di Cristo?”. Scrive l’Apostolo Paolo: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23). Ovvero: se non siamo di Cristo, se non abbiamo i suoi “modi” (cf. Didaché 11,8), se non assumiamo i suoi comportamenti e il suo pensiero (cf. 1Cor 2,16), non siamo nulla: non abbiamo sale in noi stessi, ma siamo come il sale insipido (cf. Mc 9,50), che “serve solo ad essere gettato via e calpestato” (Mt 5,13). La nostra responsabilità è quella di lottare ogni giorno contro noi stessi, non contro presunti nemici esterni, perché niente e nessuno può impedirci di vivere il Vangelo, se non noi!

Quanto alle sentenze di Gesù riguardanti lo scandalo (vv. 42-50), oggi proviamo una certa difficoltà ad accettare la loro radicalità. Dobbiamo però vigilare per non rimuoverle o annacquarle. È verissimo che non possono essere compiute alla lettera attraverso atti di mutilazione fisica, per impedire l’azione malvagia, ma devono essere accolte come severi ammonimenti. Scandalizzare significa mettere ostacoli sul cammino di “questi piccoli che sono credenti” (mikrôn toúton tôn pisteuónton) e compiere un’azione che per loro è mortifera. Meglio, in questo caso, dare la morte a se stessi!

Il discepolo deve vigilare sul suo comportamento, sugli organi della comunicazione di cui è dotato (mani, piedi, occhi, cioè il fare, l’andare, il vedere), che possono essere ostacoli sulla via delle Regno, soprattutto per i piccoli, i fragili e i deboli, i poveri e gli ultimi. Tagliare un membro del corpo o cavare un occhio sono indicazioni di una lotta molto determinata nella logica del perdere la propria vita (bíos) per guadagnare la vita autentica ed eterna (zoé), cioè quella con Cristo nel Regno. E non si compia una facile attualizzazione delle parole di Gesù, restringendole allo scandalizzare i bambini, ma si tenga conto che i mikroí, i piccoli individuati da Gesù, sono tutti quelli che rispetto al discepolo sono meno muniti, più esposti e deboli…

Tutti i discepoli sono così posti da Gesù davanti a due esiti opposti: la vita eterna con Cristo risorto nel regno di Dio, oppure la Gheenna (letteralmente una valle vicina a Gerusalemme, utilizzata come discarica dei rifiuti), cioè la morte, la tenebra, il caos: Gheenna o inferno più volte evocati da Gesù come separazione dall’amore, dalla vita. Come i profeti, come Isaia (cf. 66,24, fine del libro), Gesù ricorre all’immagine della Gheenna non per condannare, ma per avvertire e ammonire i credenti.




il commento al vangelo della domenica


“se uno vuole essere il primo …”
il commento di E. Bianchi al vangelo della ventiquattresima domenica (23 settembre) del tempo ordinario:
In quel tempo Gesù con i suoi discepoli 30attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
La confessione di Pietro che proclamava Gesù quale Messia (cf. Mc 8,29) rappresenta nel vangelo secondo Marco una svolta nella vita e nella predicazione di Gesù. A partire da quell’evento, Gesù cerca di raggiungere Gerusalemme discendendo dalle pendici dell’Hermon e passando per Cafarnao in Galilea.
Questa è l’unica salita di Gesù verso la città santa testimoniata da Marco, e quindi dagli altri sinottici, una salita durante la quale Gesù intensifica l’insegnamento rivolto ai suoi discepoli, alla sua comunità itinerante, continuando ad annunciare loro la necessitas della sua passione e morte. Come già aveva detto all’inizio del viaggio, a Cesarea di Filippo (cf. Mc 8,31), qui ribadisce: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”; e lo farà ancora poco dopo per la terza volta (cf. Mc 10,33-34). Gesù sta per essere consegnato (paradídomi), verbo forte che indica un essere dato in balìa, in potere di qualcuno. Così avverrà, e Gesù sarà sempre un soggetto passivo di tale azione: consegnato da Giuda ai sacerdoti (cf. Mc 14,10), dai sacerdoti a Pilato (cf. Mc 15,1), consegnato da Pilato perché fosse crocifisso (cf. Mc 15,15).

Il passivo usato negli annunci della passione e la medesima necessitas espressa in tutti e tre i casi indica tuttavia che, sebbene questa consegna avvenga per mano di uomini responsabili delle loro azioni, essa però non accade come un semplice accidente (“a Gesù è andata male…”) o come frutto di un cieco destino, bensì secondo ciò che è conforme alla volontà di Dio. Ovvero, che un giusto non si vendichi, non si sottragga a ciò che gli uomini vogliono e possono fare nella loro malvagità: rigettare, odiare, perseguitare, mettere a morte chi è giusto, perché gli ingiusti non lo sopportano.
Ne abbiamo già parlato, ma vale la pena tornarci ancora una volta, più in breve, perché siamo davvero al cuore della vita di Gesù, dunque del Vangelo: di quale necessitas si tratta? Necessitas umana innanzitutto: in un mondo di ingiusti, il giusto non può che patire ed essere condannato. È stato sempre così, in ogni tempo e luogo, e ancora oggi è così… Dio non vuole la morte di Gesù, ma la sua volontà è che il giusto resti tale, fino a essere consegnato alla morte, continuando ad “amare fino alla fine” (cf. Gv 13,1). Il giusto mai e poi mai consegna un altro alla morte ma, piuttosto di compiere il male, si lascia consegnare: ecco la necessitas divina della passione di Gesù. È il continuare ad “amare fino alla fine” (cf. Gv 13,1), anche i nemici, in risposta alla volontà del Padre, che mette nel cuore umano per grazia la possibilità di questo amore che può sgorgare solo da lui.

E che questo amore sia difficile, a caro prezzo, lo dimostra la reazione della comunità di Gesù, di quanti hanno condiviso la vita con lui, dunque dovrebbero essere in sintonia con il suo insegnamento. Come Pietro al primo annuncio (cf. Mc 8,32-33), qui tutti i discepoli si rifiutano di comprendere le parole di Gesù e, chiusi nella loro cecità, neppure osano interrogarlo. Ma ecco che, giunti nella loro casa di Cafarnao, Gesù e i suoi sostano per riposarsi. In quell’intimità Gesù domanda loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. La risposta è un silenzio pieno di imbarazzo e vergogna. I discepoli, infatti, sanno di che cosa hanno parlato, sanno che in quella discussione si era manifestato in loro un desiderio e un atteggiamento in contraddizione con l’insegnamento di Gesù: ognuno era stato tentato – e forse lo aveva anche espresso a parole – di aspirare e di pensarsi al primo posto nella comunità. Avevano rivaleggiato gli uni con gli altri, avanzando pretese di riconoscimento e di amore. In risposta alla rivelazione del Messia servo e alla prospettiva della sua andata verso la morte ignominiosa, i discepoli non hanno saputo fare di meglio – magari pensando al “dopo Gesù” – che discutere su chi tra di loro fosse il più grande. Nel Vangelo di Tommaso, al loghion 12, sta scritto: “I discepoli dissero a Gesù: ‘Sappiamo che presto ci lascerai: chi sarà allora il più grande tra di noi?’”. Sì, dobbiamo confessarlo: se la comunità cristiana non fa propria la logica pasquale di Gesù, finisce inevitabilmente per fomentare al proprio interno la mentalità mondana della competizione e della rivalità. Si scatenano allora logiche di potere e di forza nello spazio ecclesiale e, come accecati, si finisce per leggere il servizio come potere, come occasione di onore.

Gesù allora chiama a sé i discepoli, chiama soprattutto i Dodici, quelli che dovranno essere i primi responsabili della chiesa, e compie un gesto. Prende un piccolo (paidíon), un povero, uno che vive la condizione di dipendenza e non conta nulla, lo mette al centro, e abbracciandolo teneramente, afferma: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Un bambino, un piccolo, un povero, un escluso, uno scarto è posto in mezzo al cerchio di un’assemblea di primi, di uomini destinati ad avere il primo posto nella comunità, per insegnare loro che se uno vuole il primo posto, quello di chi governa, deve farsi ultimo e servo di tutti.

Stiamo attenti alla radicalità espressa da Gesù nel vangelo secondo Marco. Se c’è qualcuno che pensa di poter giungere al primo posto della comunità, allora per lui il cammino da seguire è semplice: si faccia ultimo, servo di tutti, e si troverà a essere al primo posto della comunità. Non ci sono qui dei primi designati ai quali Gesù chiede di farsi ultimi e servi di tutti, ma egli traccia il cammino opposto: chi si fa ultimo e servo di tutti si troverà ad avere il primo posto, a essere il primo dei fratelli. Sì, un giorno nella chiesa si dovrà scegliere che deve stare al primo posto, chi deve governare: si tratterà solo di riconoscere come primo colui che serve tutti, colui che sa anche stare all’ultimo posto. Gesù confermerà e anzi amplierà questo stesso annuncio poco più avanti: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servo, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,42-44).

E invece sappiamo cosa accadrà spesso nelle comunità cristiane: si sceglierà il più brillante, il più visibile, quello che s’impone da sé, magari il più munito intellettualmente e il più forte, addirittura il prepotente, lo si acclamerà primo e poi gli si faranno gli auguri di essere ultimo e servo di tutti. Povera storia delle comunità cristiane, chiese o monasteri… Non a caso gli stessi vangeli successivi prenderanno atto che le cose stanno così, e allora Luca dovrà esprimere in altro modo le parole di Gesù: “Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). Ma se la parola di Gesù fosse realizzata secondo il tenore del vangelo più antico, allora saremmo più fedeli al pensiero e alla volontà di Gesù!

Al termine di questo brano evangelico, soprattutto chi è pastore nella comunità si domandi se, tenendo il primo posto, essendo chi presiede, il più grande, sa anche tenere l’ultimo posto e sa essere servo dei fratelli e delle sorelle, senza sogni o tentativi di potere, senza ricerca di successo per sé, senza organizzare il consenso attorno a sé e senza essere prepotente con gli altri, magari sotto la forma della seduzione. Da questo dipende la verità del suo servizio, che potrà svolgere più o meno bene, ma senza desiderio di potere sugli altri o, peggio ancora, di strumentalizzarli. Nessuno può essere “pastore buono” come Gesù (Gv 10,11.14), e le colpe dei pastori della chiesa possono essere molte: ma ciò che minaccia in radice il servizio è il non sentirsi servi degli altri, il fare da padrone sugli altri. D’altronde questa deriva è visibile: l’autorità che non sa stare accanto agli ultimi, non sa dar loro la sua presenza, non sa ascoltare quelli che apparentemente non contano nella comunità cristiana è un’autorità che ha cura di se stessa, impedita dal proprio narcisismo ad accorgersi di quelli che deboli, marginali e nascosti sono pur sempre membra del corpo di Cristo.