il commento al vangelo della domenica

Chi sono io per te? Gesù non cerca parole ma persone

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiquattresima domenica (16 settembre 2018) del tempo ordinario:

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In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (….).

Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. Silenzio, solitudine, preghiera: è un momento carico della più grande intimità per questo piccolo gruppo di uomini. E i discepoli erano con lui… Intimità tra loro e con Dio. È una di quelle ore speciali in cui l’amore si fa come tangibile, lo senti sopra, sotto, intorno a te, come un manto luminoso; momenti in cui ti senti «docile fibra dell’universo» (Ungaretti).
In quest’ora importante, Gesù pone una domanda decisiva, qualcosa da cui poi dipenderà tutto: fede, scelte, vita… ma voi, chi dite che io sia? Gesù usa il metodo delle domande per far crescere i suoi amici. Le sue domande sono scintille che accendono qualcosa, che mettono in moto cammini e crescite. Gesù vuole i suoi poeti e pensatori della vita. «La differenza profonda tra gli uomini non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti» (Carlo Maria Martini)
La domanda inizia con un “ma”, ma voi, una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente. Non accontentatevi di una fede “per sentito dire”, per tradizione. Ma voi, voi con le barche abbandonate, voi che avete camminato con me per tre anni, voi miei amici, che ho scelto a uno a uno, chi sono io per voi? E lo chiede lì, dentro il grembo caldo dell’amicizia, sotto la cupola d’oro della preghiera.
Una domanda che è il cuore pulsante della fede: chi sono io per te?
Non cerca parole, Gesù, cerca persone; non definizioni di sé ma coinvolgimenti con sé: che cosa ti è successo quando mi hai incontrato? Assomiglia alle domande che si fanno gli innamorati: – quanto posto ho nella tua vita, quanto conto per te?
E l’altro risponde: tu sei la mia vita. Sei la mia donna, il mio uomo, il mio amore.
Gesù non ha bisogno della opinione di Pietro per avere informazioni, per sapere se è più bravo dei profeti di prima, ma per sapere se Pietro è innamorato, se gli ha aperto il cuore. Cristo è vivo, solo se è vivo dentro di noi. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. Può fare grande o piccolo l’Immenso. Perché l’Infinito è grande o piccolo nella misura in cui tu gli fai spazio in te, gli dai tempo e cuore. Cristo non è ciò che dico di Lui ma ciò che vivo di Lui. Cristo non è le mie parole, ma ciò che di Lui arde in me. La verità è ciò che arde (Ch. Bobin). Mani e parole e cuore che ardono.
In ogni caso, la risposta a quella domanda di Gesù deve contenere, almeno implicitamente, l’aggettivo possessivo “mio”, come Tommaso a Pasqua: Mio Signore e mio Dio. Un “mio” che non indichi possesso, ma passione; non appropriazione ma appartenenza: mio Signore.
Mio, come lo è il respiro e, senza, non vivrei. Mio, come lo è il cuore e, senza, non sarei.

il commento al vangelo della domenica

«Effatà»

commento di p. E. Bianchi al vangelo della ventitreesima domenica (9 agosto 2018) del tempo ordinario: 

 

Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.  Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

 

Gesù lascia la regione di Tiro e, passando attraverso il territorio di Sidone, va oltre il lago di Tiberiade, nel territorio della Decapoli. Il suo viaggiare fuori della Galilea, della terra santa, in regioni abitate da pagani, ha un preciso significato: Gesù non fa il missionario in mezzo ai pagani, perché secondo la volontà del Padre la sua missione è rivolta al popolo di Israele, il popolo delle alleanze e delle benedizioni; ma con questo lambire o attraversare velocemente terre impure, vuole quasi profetizzare ciò che avverrà dopo la sua morte, quando i suoi discepoli si rivolgeranno alle genti.

Attorniato da dodici uomini e da alcune donne, Gesù fa strada insegnando ai discepoli e vivendo un essere in disparte rispetto alle folle della Galilea, il che permette a lui e al suo gruppo una certa vita raccolta, intima, più adatta alla formazione e a una più efficace trasmissione della parola di Dio. In questa terra pagana Gesù aveva già guarito la figlia di una donna siro-fenicia, cioè realmente e pienamente pagana, dopo aver opposto un iniziale rifiuto che però non aveva placato l’insistenza della donna: sua figlia era stata liberata dal male che la attanagliava, dietro al quale stava una forza demoniaca (cf. Mc 7,24-30). Ora gli viene presentato un sordo balbuziente, con la preghiera che egli compia il gesto che comunica la benedizione, le energie salutari di Dio: l’imposizione delle mani. Quest’uomo sperimenta una menomazione fisica che è anche simbolica, vera immagine della condizione dei pagani: è sordo alla parola di Dio, che non può ascoltare perché a lui non è rivolta, ed è balbuziente perché tenta di lodare, di confessare Dio, ma non ci riesce pienamente. Ma è soprattutto un uomo menomato nelle facoltà della comunicazione: non può parlare chiaramente a un altro né può ascoltarlo.

Gesù incontra dunque anche quest’uomo. Volendo liberarlo dal male, lo porta in disparte, lontano dalla folla, e con le sue mani agisce su quel corpo altro dal suo, il corpo di un uomo malato. Gli pone le dita negli orecchi, quasi per aprirli, per circonciderli e renderli capaci di ascolto, sicché quest’uomo è reso come il servo del Signore descritto da Isaia: un uomo al quale Dio apre gli orecchi ogni mattina, in modo che possa ascoltare senza ostacoli la sua parola (cf. Is 50,4-5). Poi Gesù prende con le dita un po’ della propria saliva e gli tocca la lingua: è un gesto audace, equivalente a un bacio, dove la saliva dell’uno si mescola con quella dell’altro. C’è qualcosa di straordinario in questo “fare di Gesù”: Gesù tocca gli orecchi e apre la bocca dell’altro per mettervi la sua saliva, compie gesti di grande confidenza, quasi per forzare il sordo balbuziente a sentire le sue mani, il suo lavoro, carne contro carne, corpo a corpo…

L’azione di Gesù è accompagnata da un’invocazione rivolta a Dio: egli guarda verso il cielo ed emette un sospiro, che indica contemporaneamente il suo sdegno per la malattia, l’invocazione della salvezza, la fatica nel guarire. Gesù sta gemendo insieme e tutta la creazione, a tutte le creature imbrigliate nella sofferenza, nella malattia, nella morte (cf. Rm 8,22-23). Qui viene mostrata la capacità di solidarietà di Gesù, che con-soffre con il sofferente, entra in empatia con chi è malato e si pone dalla sua parte per invocare la liberazione. Tutto ciò è accompagnato da una parola emessa da Gesù con forza: “Effatà, apriti!”, che è molto di più di un comando agli orecchi e alla lingua, ma è rivolto a tutta la persona. Aprirsi all’altro, agli altri, a Dio, non è un’operazione che va da sé, occorre impararla, occorre esercitarsi in essa, e solo così si percorrono vie umane terapeutiche, che sono sempre anche vie di salvezza spirituale. Gesù ci insegna che tutta la nostra persona, il nostro corpo deve essere impegnato nel servizio dell’altro: non bastano sublimi pensieri spirituali, non bastano parole, fossero pure le più sante; occorre l’incontro delle carni, dei corpi, degli organi malati, per poter intravedere la guarigione che va sempre oltre quella meramente fisica. Ed ecco che quel sordo balbuziente è guarito, parla correttamente e ascolta senza ostacoli! Gesù però lo rimanda a casa e gli chiede di tacere, così come comanda a quanti avevano visto di non divulgare l’accaduto. Ma i pagani, che non sono giudei e non attendono né il Messia né il profeta escatologico, sono costretti ad ammettere: “Tutto ciò che Gesù fa è ammirabile: fa ascoltare i sordi e fa parlare i muti!”.

Oggi questo compito spetterebbe ai cristiani, alla chiesa: non tanto guarire i malati nell’udito o nella mente, dove stanno gli impedimenti alla parola… Ma cosa sarebbe una chiesa che sa dare l’ascolto a quelli che ne sono privi, che sa parlare a coloro ai quali nessuno parla? Cosa sarebbe una chiesa che sa dare la parola, che autorizza a prendere la parola il semplice fedele, a volte non istruito e incapace di prendere la parola in assemblea? Perché noi cristiani noi diventiamo capaci di “logoterapia”, della quale vi è tanto bisogno nelle nostre comunità sovente mute, incapaci di esprimere un’opinione pubblica e, ancor più, incapaci di dare eloquenza alla loro fede, di annunciare la buona notizia che è nel cuore dei credenti? Sono troppi oggi i sordi balbuzienti che non sanno ascoltare gli altri e parlare loro, comunicando e instaurando una relazione. Nella comunità cristiana occorrerebbe pensare a questo elementare servizio di carità, prima di inventarsene altri (e sono molti nella chiesa!) che Gesù non si è mai sognato di comandarci…

E tu, lettore, esercitati a dire con il tuo cuore: “Effatà, apriti!”, a esprimerlo con il tuo atteggiamento, con il tuo volto capace di dare fiducia all’altro. Ripeti con convinzione: “Effatà, apriti!”, non restare chiuso, entra nella vita, entra nella danza, apriti a ciò che ogni giorno come novità spunta e fiorisce!

Fonte:MONASTERO DI BOSE

il commento al vangelo della domenica

📖 Che cosa è impuro?” 
il commento di E. Bianchi al vangelo della ventiduesima domenica  (2 settembre 2018) del tempo ordinario:


Mc 7,1-8.14-15.21-23

 In quel tempo si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate  i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:

Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.

Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». [ Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

Dopo la lettura del capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni, lungo cinque domeniche, lettura che è stata una vera catechesi su Gesù quale “parola e pane della vita”, ritorniamo alla proclamazione cursiva del vangelo secondo Marco. Lo avevamo lasciato con il racconto della prima moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,30-44), lo riprendiamo al capitolo settimo, dove Gesù entra in controversia con alcuni scribi e farisei.
Costoro sono “venuti da Gerusalemme” in Galilea, come già era avvenuto quando, durante una discussione con Gesù sul suo potere di scacciare i demoni, lo avevano giudicato posseduto dal principe dei demoni e ne avevano condannato l’operare (cf. Mc 3,22-30). Ora invece contestano la condotta concreta dei discepoli di Gesù e ne chiedono conto alla loro rabbi. Il problema riguarda l’halakah, la pratica di precetti e prescrizioni ricevuti dalla tradizione e, nello specifico, il fatto che i discepoli prendono il loro pasto (lett.: “mangiano dei pani”) senza essersi lavati le mani, dunque con mani impure (aggettivo koinós). In verità la Torah, la Legge, rivolgeva il comando dell’abluzione rituale delle mani solo ai sacerdoti che al tempio facevano l’offerta, il sacrificio (cf. Es 30,17-21). Ma al tempo di Gesù vi erano movimenti che radicalizzavano la Torah e moltiplicavano le prescrizioni della Legge, con una particolare ossessione per il tema della purità. Tra questi vi erano gli chaverim (compagni, amici) e i perushim (separati, farisei), i quali consideravano molto importante la prassi del lavarsi le mani e di altre abluzioni in vista della purità, che poteva essere infranta a causa di contatti con persone o realtà impure.

Gesù lasciava liberi i suoi discepoli da queste osservanze che non erano state richieste da Dio, ma imposte dagli interpreti delle sante Scritture, i quali le dichiaravano “la tradizione”, attribuendole la stessa autorità riservata alla parola di Dio. Gesù faceva un’attenta operazione di discernimento, distinguendo bene ciò che era espressione della volontà di Dio e ciò che invece era consuetudine umana, norma forgiata dagli uomini religiosi che, assolutizzata, diventa un ostacolo alla stessa parola di Dio e una perversione della sua immagine. La Legge deve ispirare il comportamento ma, con il passare del tempo, le consuetudini e le osservanze rischiano di contraddire il primato della Parola, la sua centralità nella vita del credente. E sovente quanti invocano le tradizioni, rendendole “la tradizione”, lo fanno perché sono proprio loro ad averle pensate e create. In questo caso, però, anziché essere a servizio dell’uomo e della sua relazione di comunione con Dio, queste norme finiscono per essere alienanti, soffocano la libertà dei credenti, erigono barriere e tracciano confini tra gli esseri umani.
Di fronte a queste contestazioni di scribi e farisei, Gesù risponde attaccandoli: “Ipocriti, Isaia ha detto bene di voi, come sta scritto: ‘Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono solo precetti umani’ (Is 29,13). Sì, voi trascurate il comandamento di Dio per aderire alla tradizione degli uomini”. Gesù conferma l’ammonizione rivolta dal profeta al popolo di Gerusalemme e denuncia l’ipocrisia della distanza tra labbra che aderiscono a Dio e cuore che invece ne resta lontano. In quegli scribi e farisei vi era certamente la frequenza al culto, l’assiduità alla liturgia, la confessione verbale del Dio vivente, ma mancava un’autentica adesione del cuore, quella che chiede di realizzare ciò che si dice con le parole. È questione di unità della persona, di un cuore unito, non diviso, non doppio (cf. Sal 12,3)!
La critica di Gesù si fa aspra e radicale: “Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7,13). La volontà di Dio è misconosciuta, messa da parte, contraddetta, mentre il primato viene riservato alla pretesa tradizione. Proprio per questo il discernimento si fa urgente anche da parte del cristiano, e tale operazione si compie innanzitutto passando ogni osservanza e ogni prescrizione al vaglio del Vangelo, della parola e dell’azione di Gesù, e, di conseguenza, non dimenticando mai che è la carità il criterio ultimo capace di determinare la bontà o la perversione di ciò che viene richiesto. Scriveva Isacco della Stella, il grande abate cistercense del XII secolo: “Il criterio ultimo di ciò che deve essere conservato o cambiato nella vita della chiesa è sempre l’agápe, la carità”.

Gesù non ha mai contraddetto la Legge e le sue esigenze sulla volontà di Dio, anzi è sempre risalito all’intenzione del Legislatore, di Dio stesso, come già i profeti, affinché la Legge fosse accolta con il cuore e osservata nella libertà, con convinzione e amore. Ma di fronte alla tradizione e al moltiplicarsi dei suoi precetti, Gesù chiede ciò che egli stesso ha operato: il discernimento. La moltiplicazione dei precetti, infatti, accresce la possibilità di non osservarli, aumentando le occasioni di ipocrisia. “La parola del Signore rimane in eterno” (1Pt 1,22; Is 40,8), mentre le tradizioni evolvono in base ai mutamenti culturali e alle generazioni; e, seppur venerabili a causa dell’antichità, restano umane, involucro e rivestimento della parola di Dio.

Dopo aver indicato alcuni casi di contraddizione alla legge di Dio compiuti in nome dell’osservanza di precetti umani (cf. Mc 7,10-13), Gesù torna a rivolgersi alla folla chiamata attorno a sé e dice: “Ascoltatemi tutti e comprendete in profondità!”. Apertura autorevole e solenne che, in parallelo all’avvertimento conclusivo (“Se qualcuno ha orecchi per ascoltare, ascolti!”: Mc 7,16), mette in rilievo le parole rivelative di Gesù: “Non c’è nulla di esterno all’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Sono invece le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. Parole brevi e apodittiche. Non c’è niente che possa rendere impuro il discepolo tra le realtà che sono fuori del suo corpo: né il cibo, né il contatto, né le relazioni. Ciò che invece rende impuro l’uomo viene dal suo interno e si manifesta nel suo comportamento. Si faccia attenzione e non si finisca per opporre, sulla base di queste parole di Gesù, interiorità ed esteriorità, che in ogni essere umano sono dimensioni inseparabili. Per Gesù, come per tutte le Scritture, “il male, il peccato è accovacciato alla porta” (cf. Gen 4,7) del cuore di ogni uomo e dal cuore è generato fino a manifestarsi nei sentimenti, nelle parole e nelle azioni.

Questo insegnamento di Gesù appare però in contrasto con le preoccupazioni di molti scribi, che insistevano soprattutto sul comportamento esteriore. Le sue parole non sono facilmente comprensibili, dunque egli è costretto, una volta ritornato in casa, lontano dalla folla, a rimproverare i discepoli perplessi e a esplicitare i nomi delle pulsioni, dei pensieri e dei propositi che rendono impuri: una lista impressionante di peccati, una delle più dettagliate di tutto il Nuovo Testamento. Significativamente, però, essa riguarda i peccati consumati contro l’amore, contro il prossimo, perché il peccato si innesta sempre nei rapporti tra ciascuno di noi e gli altri (cf. Mt 25,31-46), nelle relazioni: è nei rapporti umani che la legge di Dio chiede carità, misericordia, sincerità e fedeltà. Il male, l’impurità non sta nelle realtà terrene ma sta in noi, là dove noi affermiamo solo noi stessi e non riconosciamo gli altri.

Infine, tenendo conto del fatto che l’intera controversia nasce da una questione relativa alla tavola, si può trarre dall’intero ragionamento di Gesù un importante monito: non possiamo escludere nessuno dalla tavola e, se lo faremo, saremo esclusi noi dalla tavola del Regno! Quanto poi alla tavola eucaristica, non ne è escluso chi è peccatore, si ritiene tale e porge umilmente la mano come un mendicante verso il corpo del Signore, mentre ne dovrebbe essere escluso chi non sa discernere il corpo di Cristo (cf. 1Cor 11,29) nel fratello e nella sorella, nel povero, nel peccatore, nell’ultimo, nel senza dignità.

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il commento al vangelo della domenica

Gesù è maestro di libertà, non di «imposizioni»

il commento de E. Ronchi al vangelo della ventunesima domenica (26 agosto 2018) del tempo ordinario:

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In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Il Vangelo riporta la cronaca di un insuccesso di Gesù, e proprio nella sua terra, tra i suoi, non tra i farisei o i funzionari della vecchia religione. Succede a Cafarnao, teatro di tanti miracoli e insegnamenti: molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
E motivano l’abbandono: questa parola è dura. Chi può ascoltarla? Dura non perché indichi un’altra parete vertiginosa da scalare (sul tipo: amate i vostri nemici), ma perché ti chiama a pensare in grande, a volare alto, a capovolgere l’immagine di Dio: un Dio che si fa lieve come un’ala o una parola, piccolo come un pezzo di pane, che ama l’umiltà del pane, e il suo silenzio e il suo scomparire… Un Dio capovolto.
La svolta del racconto avviene attorno alla domanda: forse volete andarvene anche voi? Gesù non suggerisce risposte, non impartisce ordini o lezioni: “ecco cosa devi oppure non devi fare”, ma ti porta a guardarti dentro, a cercare la verità del cuore: che cosa vuoi veramente? Qual è il desiderio che ti muove? Sono le domande del cuore, le sole che guariscono davvero. Appello alla libertà ultima di ogni discepolo: siete liberi, andate o restate; io non costringo nessuno; ora però è il momento di decidersi.
Meravigliosa la risposta di Pietro, che contiene l’essenza gioiosa della mia fede: Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna.
Attorno a te ricomincia la vita, tu tocchi il cuore e lo fai ripartire, con la delicatezza potente della tua parola. Che è povera cosa, un soffio, una vibrazione nell’aria, una goccia d’inchiostro, che puoi ascoltare o rifiutare, fare tua o relegare nel repertorio delle follie. Tu hai parole: qualcosa che non schiaccia e non si impone, ma si propone e ti lascia libero. Gesù è maestro di libertà. E se l’accogli spalanca sepolcri, accende il cuore, insegna respiri, apre strade e carezze e incendi. Mette in moto la vita.
Parole che danno vita ad ogni parte di me. Danno vita al cuore, allargano, dilatano, purificano il cuore, ne sciolgono la durezza. Danno vita alla mente, perché la mente vive di verità altrimenti si ammala, vive di libertà altrimenti patisce. Danno vita allo spirito, perché custodiscono il nostro cromosoma divino. Danno più vita anche al corpo, agli occhi, alle mani, all’andare e al venire. Al dono e all’abbraccio.
Parole di vita eterna, che è la vita dell’Eterno, che ora è qui a creare con noi cose che meritano di non morire.
Volete andarvene anche voi? Io no, io non me ne vado, Signore. Io non ti lascio, io scelgo te.
Come Pietro, pronuncio anch’io la mia dichiarazione di amore: io voglio te, voglio vivere, e tu solo hai parole che fanno viva, finalmente, la vita.

il commento al vangelo della domenica


📖 Mangiare la carne e bere il sangue di Cristo 
il commento di p. E. Bianchi al vangelo della domenica ventesima (19 agosto 2019) del  tempo ordinario:


Gv 6,51-58

In quel tempo Gesù disse si suoi discepoli:« Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Questa pagina del vangelo secondo Giovanni è tra le più scandalose di tutti i vangeli, può addirittura risultare ripugnante a chi non sta nello spazio “dentro” (éso), lo spazio dell’intimità con il Signore. Chi l’ha scritta ha faticato per far comprendere ciò che doveva affermare, di fronte a una fede gnostica che non accettava l’umanità, la carne umana nella sua debolezza quale luogo in cui incontrare Dio. Eppure, secondo il quarto vangelo, Dio ha scelto che la sua manifestazione definitiva, la sua rivelazione decisiva fosse l’umanità come carne debole di Gesù (cf. Gv 1,14.18), un galileo che andava verso la morte. Tentiamo dunque con molta umiltà di leggere questa pagina.

Gesù aveva detto: “Io sono il pane vivente, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Questo annuncio appariva una pretesa intollerabile, un’affermazione irricevibile e, come tale, aveva suscitato mormorazione e discussione (cf. Gv 6,41-42). Qui nasce un’aspra discussione, una vera e propria battaglia verbale tra gli ascoltatori di Gesù: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Ed egli risponde loro con espressioni ancora più scandalose, rendendo il suo annuncio più duro e urtante, in modo da togliere ogni possibilità di comprendere le sue parole in modo semplicemente parabolico, in modo intellettuale, raffinato ma gnostico: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita eterna”.

Era già uno scandalo pensare di poter mangiare la carne del Figlio dell’uomo, ma bere il sangue è un’azione gravemente peccaminosa, vietata dalla Legge e dunque ripugnante per i credenti nell’alleanza sancita da Mosè. Su questo non c’erano dubbi. Nella Torah, infatti, sta scritto: “Ogni uomo, figlio di Israele o straniero, che mangi qualsiasi tipo di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò il mio volto e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita (nephesh) della carne è nel sangue” (Lv 17,10-11). L’ebreo sapeva che l’umanità fino ai giorni di Noè non si era nutrita della carne di animali ma unicamente di vegetali e che solo nell’economia dopo il diluvio Dio aveva permesso e tollerato le carni animali come nutrimento, ma a una precisa condizione: “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita (nephesh), cioè con il suo sangue” (Gen 9,4). Questo comando, che indica un rispetto della vita, rappresentata dal sangue, era talmente importante che gli apostoli lo manterranno anche per i cristiani provenienti dalle genti (cf. At 15,20.29; 21,25).

Eppure Gesù annuncia che per avere parte alla vita eterna, alla vita di Dio, per conoscere la salvezza, è necessario mangiare – o meglio “masticare”, stando al verbo greco utilizzato (trógo) – la carne del Figlio dell’uomo e bere il suo sangue? Perché questo realismo nelle parole di Gesù secondo il quarto vangelo, parole che non risuonano né negli altri vangeli né nel resto del Nuovo Testamento? Perché questo linguaggio proprio nel vangelo che non ricorda l’istituzione eucaristica, ma la sostituisce con il racconto della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-17)? Certamente l’autore di questo racconto si serve di un linguaggio che vuole affermare come la partecipazione al pane e al calice di Gesù Cristo sia partecipazione al suo corpo e al suo sangue. Questo avviene sacramentalmente, cioè attraverso il mangiare i segni del pane e del vino, ma ciò che si riceve è tutta la vita del Figlio fattosi carne e sangue, nato da donna, manifestatosi uomo veramente uomo come noi che siamo suoi fratelli.

Lo sappiamo, fin dall’inizio della fede cristiana, non fu facile confessare la reale umanità di Gesù, e il corpo di Gesù fu immaginato solo apparenza e la sua carne come del tutto provvisoria. Un mero strumento per mostrarsima da abbandonare al più presto con la resurrezione. E invece “chi non riconosce Gesù nella carne, non è da Dio” (1Gv 4,3).

Ciò che questo linguaggio duro tenta di farci comprendere è che l’incarnazione, cioè l’umanizzazione di Dio, va accolta seriamente, senza riserve e senza pensieri che rispondono più al bisogno religioso dell’umanità che all’azione di Dio. La verità è che Dio si è fatto uomo in Gesù affinché lo cercassimo e lo trovassimo, per quanto ci è possibile, nella condizione umana. Dio ha voluto condividere con noi proprio la nostra umanità, la nostra stessa carne, perché noi potessimo realmente conoscere il suo amore, non come qualcosa da credere, ma come qualcosa che comprendiamo e sperimentiamo attraverso e nella nostra carne. Gesù è questa carne che possiamo incontrare nella nostra carne, è questo corpo che possiamo incontrare solo nella nostra corporeità. Perché noi potessimo partecipare alla vita di Dio – “diventare Dio”, come si esprimevano gli antichi padri della chiesa d’oriente – era necessario che Dio diventasse uomo e che carne e carne, corpo e corpo si incontrassero realmente. L’amore espresso solo a parole, anche nella rivelazione non era sufficiente: occorreva una carne umana che raccontasse (exeghésato: Gv 1,18) Dio, una carne umana che, amando la nostra umanità, ci narrasse l’amore di Dio, o meglio il “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16). Questa nostra carne, che ci dice la nostra debolezza, la nostra fragilità, la nostra morte, questa carne che a volte pensiamo di negare o dimenticare in favore di una “vita spirituale”, per poter incontrare Dio, proprio questa carne è stata assunta da Dio e non è un ostacolo alla comunione con lui, ma anzi è il luogo ordinario dell’incontro con Dio.

Le parole eucaristiche di Gesù, in questo sesto capitolo di Giovanni, in profondità ci dicono che incarnazione di Dio, resurrezione della carne ed eucaristia esprimono insieme il mistero della nostra salvezza. Nella nostra povera carne, nel “corpo di miseria” (Fil 3,21) che noi siamo, proprio lì noi incontriamo Dio, perché in Gesù “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Carne da masticare e sangue da bere sono la condizione in cui Gesù si consegna a noi, in cui Dio si dà a noi, raggiungendoci là dove siamo e non chiedendo a noi di salire alla sua condizione divina, azione per noi impossibile e solo frutti di un orgoglio religioso malato. Entrando in noi, la carne e il sangue di Cristo ci trasformano, per partecipazione in carne e sangue di Cristo, producendo ciò che a noi è impossibile: diventare il Figlio di Dio in Cristo stesso, l’Unigenito amato dall’amante, il Padre, con un amore infinito, lo Spirito santo. Chi mangia la carne e beve il sangue di Cristo conoscerà la resurrezione, vivrà per sempre, in una salda comunione con Cristo per la quale rimane, dimora (verbo méno) in Cristo, così come Cristo rimane, dimora in lui: corpo nel Corpo e Corpo nel corpo!

Lo stesso Giovanni nel prologo della sua Prima lettera, parlando dell’esperienza di Gesù da lui fatta, scrive: “Ciò che noi abbiamo ascoltato, visto e toccato del Verbo della vita…” (cf. 1Gv 1,1), cioè di Gesù. E in questa pagina del vangelo è come se arrivasse a dire: “Ciò che abbiamo mangiato, gustato di Gesù”, attraverso l’eucaristia, è la nostra vita!

Proprio per questo non dobbiamo isolare l’eucaristia come fosse un principio di riferimento, un realtà autosufficiente cui attribuire un potere proprio. No! L’eucaristia non è un secondo Gesù Cristo, non c’è un Cristo eucaristica separato dal Cristo della storia che è nato, è vissuto, è morto ed è risorto! Gesù Cristo è unico, e nell’eucaristia è totalmente presente, e se non si è capaci nella fede di cogliere questa unica soggettività, allora si cosifica l’eucaristia, la si riduce a cosa, a oggetto, attentando all’unica vita di Gesù Cristo! Ricevendo dunque l’eucaristia, come ammonisce con intelligenza cristiana il teologo Giuseppe Colombo, al cristiano è data la possibilità di vivere la vita come l’ha vissuta Gesù perché non vive più lui ma Cristo vive in lui (cf. Gal 2,20).

il commento al vangelo della domenica


tutta la vita del Figlio
il commento di E. Bianchi al vangelo della diciannovesima domenica (12 agosto 2018) del tempo ordinario:

Gv 6,41-51

In quel tempo  i Giudei si misero a mormorare contro di Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: «Sono disceso dal cielo»?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Siamo sempre impegnati nella lectio delle parole pronunciate da Gesù nella sinagoga di Cafarnao: parole suscitate da reazioni e domande di quegli ascoltatori definiti nel quarto vangelo come “i giudei”, cioè quei credenti nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe nutriti dell’ideologia giudaica dominante, forgiata dai capi religiosi del popolo, ostili a Gesù e poi responsabili, insieme ai capi politici romani, della sua condanna.

Nella porzione di discorso proposta dall’ordo liturgico per questa domenica, viene innanzitutto testimoniata una mormorazione. Gesù aveva parlato di un pane, donato dal Padre suo, venuto dal cielo, un pane capace di dare la vita al mondo (cf. Gv 6,32-33). In seguito si era identificato egli stesso con questo pane: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,35), ma queste sue affermazioni risultano agli orecchi dei suoi ascoltatori una pretesa folle, scandalosa, inaudita. Per questo si domandano l’un l’altro: come può quest’uomo, Gesù di Nazaret, che appare ed è realmente un uomo, rivelarsi come disceso dal cielo, dunque venuto da Dio, inviato da lui? Come può dirsi pane, dirsi cibo capace di togliere la fame? La sua pretesa risulta inammissibile, dunque irricevibile, perché attenta alla signoria di Dio (cf. Gv 5,18; 10,33).

Proprio l’umanità di Gesù scandalizza, la sua carne e il suo sangue: il suo corpo fragile di creatura lo dichiara terrestre, non disceso dal cielo. Inoltre quei giudei hanno una conoscenza precisa di Gesù, dovuta alla realtà dei fatti: è il figlio del falegname di Nazaret, anche sua madre è ben conosciuta, dunque egli viene semplicemente da questo piccolo borgo della Galilea, non dal cielo.

Di fronte a queste contestazioni e a questo disprezzo, Gesù reagisce chiedendo in primo luogo di astenersi dal mormorare, poi dichiarando: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. Ecco il mistero della fede: non basta l’intelligenza umana, non sono sufficienti le facoltà umane per discernere chi è veramente Gesù, ma occorre un’azione di Dio, colui che Gesù stesso definisce suo Padre. Solo attraverso l’accoglienza di questo dono gratuito si può accedere a Gesù, attirati da questa forza divina. Aderire a Gesù, essere coinvolti nella sua vita è essenzialmente grazia che accompagna, con un’assoluta preminenza sull’impegno personale del discepolo. Certo, a questa attrazione del Padre si può rispondere con consapevolezza, convinzione, nella libertà e accedendo all’amore per Gesù, ma le si può anche opporre un rifiuto, una chiusura.

Quando però avviene questo accesso convinto a Gesù, allora la comunione con la sua vita è tale che neppure l’ostacolo definitivo, la morte, può vincerla. Infatti Gesù stesso, lui, il Risorto, farà risorgere nell’ultimo giorno chi si è affidato a lui condividendo con lui la sua stessa vita. Siamo ormai nel tempo del compimento della profezia e se i profeti avevano annunciato che Dio stesso avrebbe istruito il suo popolo, ecco che questa azione di Dio nell’oggi si compie attraverso la presenza del Figlio sulla terra, non come istruzione per l’osservanza della Legge, ma come istruzione finalizzata all’aderire all’uomo Gesù (cf. Is 54,13; Ger 31,33-34).

Tutti gli umani, non solo i figli dell’antica alleanza ma tutti i figli di Adamo, tutta l’umanità può ascoltare Dio, accogliere il suo insegnamento e quindi venire a Gesù. Non vi è certo ancora la possibilità di vedere Dio faccia a faccia, perché questo non è mai stato possibile nel regime della fede: solo il Figlio, che è da Dio, lo ha visto faccia a faccia (cf. Gv 1,18) e ne è la narrazione, l’interpretazione unica e veritiera, perché chi vede il Figlio vede il Padre (cf. Gv 14,9).

Anche queste parole possono suscitare scandalo, ma qui siamo al cuore della fede cristiana: andare a Gesù significa incontrare un uomo, con un’umanità piena, con una carne fragile, significa incontrare un uomo che vive tra gli altri, ha sentimenti umani, parla una lingua umana, incontra gli esseri umani, si mette al loro servizio, li istruisce, li cura e li guarisce. È in questa sua umanità che possiamo vedere Dio e quindi compiere il cammino che ci porta ad aderire a lui. Sì, perché, come Gesù ha detto: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Ritorna quindi sulla bocca di Gesù per la terza volta l’affermazione solenne: “Io sono (Egó eimi) il pane della vita, il pane vivo”. Chi parla è Egó eimi, il Nome santo di Dio rivelato a Mosè (cf. Es 3,14), e definisce la sua identità quale pane, cibo per la vita.

Qui però dobbiamo fare molta attenzione e soprattutto non finire per dividere “il pane della vita” da Gesù, l’uomo Gesù, il Figlio di Dio fatto carne. Mai si deve disgiungere il Cristo, il Figlio, dalle sue parole e dal pane che egli ha donato al mondo: sarebbe un attentato alla pienezza dell’identità di Gesù! E non ci si lasci ingannare dal parallelismo che egli instaura tra il pane che discende dal cielo e la manna, perché solo il movimento dal cielo alla terra lo giustifica. La manna che Dio aveva dato ai padri nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto era sì un dono, ma per saziare la fame; non era un cibo che poteva procurare loro salvezza, tant’è vero che i destinatari di quel dono sono poi morti senza entrare nella terra promessa. “Il pane disceso dal cielo”, invece, quello che il Padre dona, è Gesù Cristo stesso, ed è decisivo per la vita eterna. Chi partecipa al banchetto di questo pane – che l’inno liturgico per la festa del Corpo del Signore definisce panis vivus et vitalis – vive la vita eterna. Assimilare questo pane che è Gesù Cristo significa ricevere l’antidoto alla morte, iniziando a vivere una vita altra da quella mortale, la vita stessa del Figlio di Dio

Certo, dobbiamo ammetterlo: queste parole di Gesù nel quarto vangelo ci danno le vertigini se le accogliamo con fede, mentre ci scandalizzano se non sentiamo una profonda e segreta attrazione verso Gesù, destata da Dio. Dio non ci costringe, neppure si impone, porgendoci il dono del Figlio nel suo grande amore per Dio e per il mondo (cf. Gv 3,16), ma ci fa un’offerta affinché sappiamo rispondergli nella libertà e per amore. E proprio in virtù di questa accoglienza del dono di colui che è disceso dal cielo “per noi e per la nostra salvezza” e che ha dato la sua intera vita, il suo corpo, la sua carne, il suo sangue, e il suo spirito, come dono gratuito e per tutti, vigiliamo per essere sempre capaci di credere, adorare e confessare Gesù come l’unico nostro Signore. In quest’ottica, siamo chiamati a non scindere mai l’eucaristia dalla cristologia, con il rischio di cosificare il sacramento e di impoverirlo dell’immensità del mistero.

Questo capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni, nell’insistere sull’unica identità di colui che è il Figlio del Padre disceso dal cielo, di colui che è parola di Dio ed è pane, cibo di vita eterna per i credenti, ci rende saldi nella fede cristiana, alla quale è immanente la fede eucaristica.

il commento al vangelo della domenica

Gesù, il pane della vita


il commento di E. Bianchi alla diciottesima domenica del tempo ordinario (5 agosto 2018):
In quel tempo quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!

Dopo il segno della moltiplicazione-condivisione dei pani, Gesù, rifiutando l’acclamazione mondana da parte della folla che voleva farlo re perché egli le aveva procurato del cibo, era fuggito in solitudine sul monte (cf. Gv 6,14-15), lasciando i discepoli che cercavano di tornare in barca sull’altra riva del mare, verso Cafarnao (cf. Gv 6,16-17). Ma era ormai notte e una violenta tempesta si era scatenata sul lago. In quella situazione di difficoltà i discepoli scorgono Gesù che cammina sulle acque del lago venendo verso di loro e sono colti da paura. Ma egli dice: “Egó eimi, Io sono, non abbiate paura!”, poi approda con loro sulla terra ferma ed entra in Cafarnao (cf. Gv 6,18-21).

Ed ecco, “il giorno dopo” (Gv 6,22) la folla, che aveva mangiato il pane, si mette sulle sue tracce, lo raggiunge attraversando a sua volta il lago su diverse barche, e gli chiede con rispetto: “Rabbi, maestro, quando sei venuto qua?”. Gesù però, conoscendo le motivazioni di quella ricerca, non risponde alla curiosità della folla ma svela con autorevolezza quanto essa sia insufficiente, ambigua e sviante: “Amen, amen io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni (semeîa), ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. Quella ricerca fa di Gesù colui che soddisfa i bisogni umani e colma la mancanza, ma misconosce la sua vera identità, quella di chi è venuto non per dare un cibo che toglie la fame materiale ma per donare ciò che nutre per la vita eterna. Quei galilei hanno visto il prodigio ma non vi hanno letto il segno, ossia ciò che quell’azione di Gesù significava. Hanno provato la sazietà ma non hanno compreso che quel pane era il dono della vita di Gesù.

Svelato dunque l’atteggiamento della folla, nella sinagoga di Cafarnao Gesù fa un lungo discorso, annunciandone il tema nelle sue prime parole: “Operate non per il cibo che perisce, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Questi, infatti, il Padre, Dio, ha segnato con il suo sigillo”. Gesù chiede ai suoi ascoltatori un impegno, rivela il dono che egli, quale Figlio dell’uomo, fa agli uomini e si manifesta come colui sul quale il Padre ha posto la sua benedizione. Occorre dunque darsi da fare, mettersi in azione per un cibo che nutre per la vita eterna. È vero che occorre darsi da fare per ricevere dal Padre il pane quotidiano (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), nutrimento per il corpo destinato alla morte; nello stesso tempo, però, Gesù esorta a desiderare, cioè a lavorare con altrettanta intensità e convinzione in vista di quel cibo che solo lui può donare, il cibo che dà la vita per sempre, la vita che rimane oltre la morte.

Si faccia attenzione: Gesù non disprezza il cibo materiale ma, sapendo che “non di solo pane vive l’uomo” (Dt 8,3, Mt 4,4), esorta a lavorare con convinzione e intensità in vista di quel cibo che dà la vita per sempre, cibo che solo lui, il Figlio dell’uomo, può dare. Infatti, inviandolo nel mondo il Padre lo ha segnato con il suo sigillo, ha messo in lui la sua impronta (cf. Eb 1,3), essendo egli “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), il volto della sua gloria, parola e racconto che narra il vero e unico Dio (cf. Gv 1,18).

Ma anche di fronte a questa rivelazione della sua identità quei galilei non comprendono e dunque domandano a Gesù: “Che fare? Che cosa dobbiamo fare per realizzare la volontà di Dio? Quale comando assolvere?”. Gesù, in risposta, rivela l’opera, l’agire per eccellenza, che pure sembra una non azione, qualcosa che secondo il sentire umano manca di concretezza: l’azione delle azioni, l’azione per eccellenza che Dio vuole e chiede è credere, aderire a colui che egli ha mandato. L’unica opera è la fede, dice Gesù. È opera di Dio perché consente a Dio di operare nell’uomo, nella storia, nella vita di colui che crede. Sì, sta qui la differenza cristiana: al cuore della vita del credente non c’è la legge ma la fede. Non lo si ripeterà mai abbastanza, e non si dimentichi che il primo nome dato ai discepoli di Gesù nel Nuovo Testamento dopo la resurrezione è stato proprio “i credenti” (At 2,44; 4,32). La fede fa i cristiani, plasma i cristiani, salva i cristiani.

Questa verità centrale va però compresa bene: la fede non è un atto intellettuale, gnostico, ma è un’adesione vitale a Gesù Cristo, è un essere alla sua sequela, coinvolti con la sua stessa vita. In tal modo vengono spazzate via le contrapposizioni intellettuali tra fede e azioni-opere, tra contemplazione e azione. L’opera del cristiano è credere, è accogliere il dono della fede per farne la propria responsabilità, la propria opera, la propria lotta, la propria custodia. Solo così si riconosce il primato alla grazia, all’amore gratuito e sempre preveniente del Signore, che è un dono da accogliere con spirito di stupore e di ringraziamento, in quanto capace di generare nel profondo del cuore responsabilità e desiderio di rispondere al dono, o meglio al Donatore. Credere in Gesù Cristo, l’Inviato di Dio nel mondo, significa essere dove lui è (cf. Gv 12,26; 14,3; 17,24), condividendo con lui la stessa vita, “ovunque egli vada” (Ap 14,4), radicalmente e “fino alla fine” (eis télos: Gv 13,1).

Ma quella folla rivela la propria identità: per credere vuole un segno! Avevano visto il segno della moltiplicazione-condivisione dei pani, ma dal momento che questo non era sfociato in ciò che essi volevano, nella proclamazione di Gesù Re e Messia mondano, ora ne esigono un altro, come quello fatto da Mosè attraverso il dono della manna (cf. Sal 78,24). In tal modo mostrano di non essere neanche capaci di leggere la Torah, perché in essa – spiega loro Gesù – “non Mosè ha dato il pane dal cielo, ma il Padre dà il pane dal cielo, quello vero, ossia colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. E così Gesù rivela di sentirsi chiamato non a dare qualcosa, ma a donare tutto se stesso! Allora chiedono a Gesù di dare loro questo pane e di darlo per sempre. Ed egli risponde con la rivelazione inaudita: “Egó eimi, io sono il pane della vita”. Dunque il pane per la vita eterna non è un semplice dono da parte di Gesù, ma è Gesù stesso, che dona tutta la sua persona.

Cosa significa questo linguaggio che rischia di essere da noi compreso in modo astratto? Significa che Gesù è cibo, e in questa prima parte del suo lungo discorso egli si presenta come cibo in quanto Parola, Parola del Padre, Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), Parola discesa dal cielo, Parola inviata da Dio agli umani. La Parola di Dio è sempre stata letta nell’Antico Testamento come cibo, pane che dà la vita all’umanità (cf. Is 55,1-3; Pr 9,3-6, ecc.); ma ora questa Parola, detta molte volte e in diversi modi nei tempi antichi agli esseri umani tramite Mosè e i profeti (cf. Eb 1,1), è un uomo: è Parola di Dio umanizzata in Gesù di Nazaret. In questo senso Gesù si consegna agli umani quale “pane della vita”, pane che porta la vita.

Questo linguaggio è talmente vertiginoso che non è possibile commentare tali parole di Gesù: vanno solo accolte in adorazione. Gesù, sì, proprio Gesù, un uomo, un ebreo marginale di Galilea, il figlio di Maria e di Giuseppe, proveniente da Nazaret, è in verità la Parola di Dio e, in quanto tale, è cibo, pane per la nostra vita di credenti in lui. Chi può dire di essere in grado di capire e sostenere queste parole? In ogni caso, forse il Signore ci chiede solo che tentiamo di accogliere queste parole; e di farlo sapendo che il suo dono, la sua grazia ci permette di renderle parole accolte da ciascuno di noi in modo personalissimo, cioè come soltanto il Signore può farcele conoscere e comprendere. Così assimiliamo il cibo per la vita eterna, secondo la promessa di Gesù: “Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,35). Una promessa parallela a quella fatta da Gesù alla donna di Samaria: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete in eterno” (Gv 4,14).

il commento al vangelo della domenica

“La legge della generosità: il pane condiviso non finisce”

il commento di p. E. Ronchi della diciassettesima domenica (29 luglio 2018) del tempo ordinario:

Giovanni 6,1-6

In quel tempo, Gesù (…) salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». (…) Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato (….).

C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci… Ma che cos’è questo per tanta gente? Quel ragazzo ha capito tutto, nessuno gli chiede nulla e lui mette tutto a disposizione: la prima soluzione davanti alla fame dei cinquemila, quella sera sul lago e sempre, è condividere. E allora: io comincio da me, metto la mia parte, per quanto poco sia. E Gesù, non appena gli riferiscono la poesia e il coraggio di questo ragazzo, esulta: Fateli sedere! Adesso sì che è possibile cominciare ad affrontare la fame. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità. Poco pane condiviso tra tutti è misteriosamente sufficiente; quando invece io tengo stretto il mio pane per me, comincia la fame.
«Nel mondo c’è pane sufficiente per la fame di tutti, ma insufficiente per l’avidità di pochi» (Gandhi).
Il Vangelo neppure parla di moltiplicazione ma di distribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuivano, il pane non veniva a mancare; e mentre passava di mano in mano restava in ogni mano.
Gesù non è venuto a portare la soluzione dei problemi dell’umanità, ma a indicare la direzione. Il cristiano è chiamato a fornire al mondo lievito più che pane (Miguel de Unamuno): a fornire ideali, motivazioni per agire, il sogno che un altro mondo è possibile. Alla tavola dell’umanità il vangelo non assicura maggiori beni economici, ma un lievito di generosità e di condivisione, profezia di giustizia. Non intende realizzare una moltiplicazione di beni materiali, ma dare un senso, una direzione a quei beni, perché diventino sacramenti vitali.
Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie li diede a quelli che erano seduti.
Tre verbi benedetti: prendere, rendere grazie, donare. Noi non siamo i padroni delle cose. Se ci consideriamo tali, profaniamo le cose: l’aria, l’acqua, la terra, il pane, tutto quello che incontriamo, non è nostro, è vita che viene in dono da altrove, da prima di noi e va oltre noi. Chiede cura e attenzione, come per il pane del miracolo («raccogliete i pezzi avanzati perché nulla vada perduto…e riempirono dodici canestri»), le cose hanno una sacralità, c’è una santità perfino nella materia, perfino nelle briciole della materia: niente deve andare perduto.
Il pane non è solo spirituale, rappresenta tutto ciò che ci mantiene in vita, qui e ora. E di cui il Signore si preoccupa: «La religione non esiste solo per preparare le anime per il cielo: Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra (Evangelii gaudium 182)». Donaci Signore il pane, l’amore e la vita, perché per il pane, per la vita e per l’amore tu ci hai creati.

il commento al vangelo della domenica


📖 La tenerezza del pastore
 
il commento al vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario (22 luglio 2018) di E. Bianchi:
In quel tempo 30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 34Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

I discepoli ritornati dalla missione meritano di essere chiamati “inviati”, “missionari”, per questo Marco li definisce “apostoli” (apóstoloi): discepoli di Gesù diventati suoi inviati.

Tornano dunque da Gesù, colui che li aveva inviati e abilitati alla missione, tornano alla fonte, tornano a colui che li aveva chiamati “perché stessero con lui”, oltre che “per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Essi “raccontano a Gesù tutto quello che avevano fatto e insegnato”: azioni e parole che erano state comandate da Gesù, ma che soprattutto gli apostoli avevano imparato ad assumere stando con lui, coinvolti nella sua vita, vivendo con lui, il loro rabbi, maestro e profeta. Sappiamo di che cosa era fatto questo loro servizio: l’annuncio del Regno di Dio veniente, della necessaria conversione, e una prassi di umanità autentica che si manifestava nell’incontrare le persone, nell’accoglierle, nel dare loro fiducia risvegliando la loro fede, nello sperare insieme a loro, nel liberarle, per quanto possibile, da oppressioni diverse dovute alla presenza del Male operante nel mondo. Marco non dice che gli inviati hanno fatto cose straordinarie, miracoli, perché ciò che era sufficiente l’hanno eseguito in obbedienza al mandato di Gesù.

Ecco dunque i discepoli-apostoli riuniti intorno a Gesù, che da autentico pastore della sua comunità ascolta ciò che essi hanno vissuto e sperimentato nella missione. Vi è un vero dialogo tra Gesù e gli inviati (descritto più diffusamente in Lc 10,17-20), nel quale vengono evidenziate fatiche e gioie, risultati e fallimenti di quella missione in Galilea anticipatrice della missione a tutte le genti da parte di coloro che Gesù risorto invierà.

Gli apostoli sono stanchi, e Gesù, che è stato raggiunto dalla notizia della decapitazione di Giovanni, il suo rabbi, nella sua tristezza decide di prendere le distanze dalla predicazione che lo impegnava e lo affaticava. Dice dunque ai Dodici: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto (kat’ idian eis éremon tópon), e riposatevi un po’”. Gesù li chiama ancora una volta a seguirlo, a “stare con lui”, per condividere con lui la preghiera al Padre, per approfondire la vocazione e la missione, per riposarsi. È un invito pieno di tenerezza, di sollecitudine per i discepoli, ma anche per Gesù è una necessità: egli deve fare discernimento sulla sua missione, soprattutto ora che Giovanni il Battista, con la morte violenta subita, diventa precursore anche del suo futuro.

Marco annota anche che quanti cercavano Gesù e venivano da lui erano talmente numerosi che i discepoli, impegnati nell’organizzare questi incontri personali con Gesù, non avevano neppure il tempo di preparare da mangiare e di mangiare. Sì, anche per Gesù, come per ciascuno di noi, occorre a volte avere il coraggio e la forza di prendere le distanze da ciò che si fa, occorre uscire dall’agitazione delle moltitudini, dal rumore delle folle, da quel turbinio di occupazioni che rischiano di travolgerci. Lavorare, impegnarsi seriamente con tutta la propria persona è necessario ed è umano, ma lo è altrettanto la dimensione della solitudine, del silenzio, della quiete. Se noi sentissimo nel nostro cuore questa chiamata: “Fuggi, fa’ silenzio, cerca quiete” (Detti dei padri del deserto, Serie alfabetica, Arsenio 2), saremmo certamente più disponibili a trovare un “luogo deserto”, uno spazio solitario in cui pensare, meditare, ascoltando il silenzio, il nostro cuore, la voce di Dio che cerca di parlarci nel nostro intimo più profondo. Senza ottemperare a questa esigenza, si cade nella superficialità, ci si disperde, si finisce per vivere senza sapere dove si va.

Ma questo tentativo di sfuggire alla folla e di trovare solitudine e riposo fallisce: la folla che da giorni segue Gesù prevede le sue mosse e a piedi raggiunge prima di lui quella riva deserta del lago. Gesù allora, sbarcando, la vede e la osserva con attenzione: non è preso dalla soddisfazione del successo, del fatto che tanta gente lo cerca e lo trova, ma è mosso a viscerale compassione (verbo splanchnízo). Le sue viscere si commuovono come quelle di Dio nei confronti del suo popolo oppresso (cf. Os 11,8); egli si commuove e soffre con un fremito causato solo dall’amore verso quella gente. Sì, è gente incredula, che cerca Gesù con ambiguità e interessi non trasparenti, ma per Gesù merita compassione. Sono “pecore senza pastore”, non hanno nessuno che dia loro da mangiare cibo, nessuno che si prenda cura di loro, nessuno che rivolga loro la parola per sostenerli nel duro mestiere di vivere e nessuno che li sostenga nei loro dubbi e contraddizioni. Gesù si intenerisce e rivive la compassione di Mosè quando vede il suo popolo senza pastore (cf. Nm 27,17) e la compassione dei profeti che soffrono al vedere il popolo di Dio disperso e oppresso dai cattivi pastori (cf. 1Re 22,17; Ez 34,5; Zc 10,3-12).

Non resta dunque a Gesù che farsi “pastore buono ” (Gv 10,11.14) di quella folla: obbedisce puntualmente e fa ciò che Dio, il Padre suo, vuole che lui faccia a suo nome, quale Figlio inviato nel mondo. Gesù dunque legge la fame di quella gente, fame di cui forse non sono pienamente coscienti, fame della Parola: vogliono che Gesù insegni, cioè “parli loro la Parola”, come Marco dice altrove (cf. Mc 2,2; 4,33). Ciò che è decisivo è che Gesù sia presente e parli, perché lui è la Parola di Dio (cf. Gv 1,1.14). Gesù lo fa lungamente, come stando sotto un giogo: il giogo della misericordia che lo spinge a questa compassione, a questa fatica, a questa parola indirizzata a quanti suscitano in lui sentimenti di tenerezza. Aveva avuto misericordia degli apostoli ritornati stanchi e li aveva chiamati al riposo, e ora ha misericordia delle folle e interrompe il proprio riposo. Solo la compassione misericordiosa lo guidava e ne determinava il comportamento e le azioni durante la sua itineranza. La folla che impedisce a Gesù di realizzare il suo progetto buono e urgente di riposo necessario non causa in lui fastidio, reazioni di impazienza, ma gli fornisce un’occasione per partecipare ai sentimenti di Dio che ha compassione del suo popolo privo di pastori.

Questo è un grande insegnamento per noi: su ogni nostra decisione, su ogni nostra scelta necessaria e buona, ciò che deve avere il primato è la misericordia. Se ogni nostra scelta e ogni nostra azione non obbediscono innanzitutto alla misericordia, non sono conformi ai “sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5): sentimenti umani ma in profondità sentimenti di Dio, colui che è Santo e mostra la sua santità in mezzo al suo popolo con la compassione, scegliendo che nel suo cuore la misericordia regni sulla giustizia (cf. Os 11,7-9). Soprattutto i pastori di comunità dovrebbero molto interrogarsi su questa disponibilità a dare la precedenza alle domande della comunità rispetto alle loro scelte e alle loro pur buone iniziative. Dovrebbero chiedersi se in loro la misericordia, cioè l’amore viscerale di compassione, è sempre immanente al “compiere ogni giustizia” (cf. Mt 3,15). Non lo si dimentichi: nel cristianesimo non si danno compimento della giustizia e misericordia, ma solo misericordia nel compimento della giustizia o compimento della giustizia nella misericordia.

Prima di dare il pane Gesù dà la Parola, per saziare gli uomini e le donne che lo seguono. Ma presto darà anche il pane, perché la sua tenerezza non riguarda solo la loro sete di Parola ma anche la loro fame di pane.

il commento al vangelo della domenica


📖 la vita cristiana 
commento al vangelo della quindicesima domenica del tempo ordinario (15 luglio 2018) di p. E. Bianchi:


Mc 6,7-13

In quel tempo Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”. Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta.

Rifiutato e contestato dai suoi a Nazaret, Gesù percorre i villaggi d’intorno per predicare la buona notizia (cf. Mc 6,6) in modo instancabile, ma a un certo momento decide di allargare questo suo “servizio della parola” anche ai Dodici, alla sua comunità. Per quali motivi? Certamente per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli; ma anche per prendersi un po’ di tempo in cui non operare, restare in disparte e così poter pensare e rileggere ciò che egli desta con il suo parlare e il suo operare. Per questo li invia in missione nei villaggi della Galilea, con il compito di annunciare il messaggio da lui inaugurato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona notizia” (Mc 1,15). Li manda “a due a due”, perché neppure la missione può essere individuale, ma deve sempre essere svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. In particolare, per gli inviati essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.

Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. Il messaggio, infatti, non è isolato da chi lo dona e dal suo modo di vivere. Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama? L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive: solo così è affidabile, altrimenti proprio chi predica diventa un inciampo, uno scandalo per l’ascoltatore. In questo caso sarebbe meglio tacere e di-missionare, cioè dimettersi dalla missione!

Per queste ragioni Gesù non si attarda sul contenuto del messaggio da predicare, mentre entra addirittura nei dettagli sul “come” devono mostrarsi gli inviati e gli annunciatori. Povertà, precarietà, mitezza e sobrietà devono essere lo stile dell’inviato, perché la missione non è conquistare anime ma essere segno eloquente del regno di Dio che viene, entrando in una relazione con quelli che sono i primi destinatari del Vangelo: poveri, bisognosi, scartati, ultimi, peccatori… Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica. Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!

Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù. È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo. Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16). Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento. Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?

Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”. E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno soltanto annunciare il Vangelo con le parole… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.

No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù, come lui ha vissuto: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva e che la morte non è più l’ultima parola. Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere, dello sperare, dell’amare e dunque vivere ancora… L’invio in missione da parte di Gesù non crea militanti e neppure propagandisti, ma forgia testimoni del Vangelo, uomini e donne capaci di far regnare il Vangelo su loro stessi a tal punto da essere presenza e narrazione di colui che li ha inviati. Attesta uno scritto cristiano delle origini, la Didaché: “L’inviato del Signore non è tanto colui che dice parole ispirate ma colui che ha i modi del Signore” (11,8).

Noi cristiani dobbiamo sempre interrogarci: viviamo il Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra parola e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non innanzitutto una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io!

 

 

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