il commento al vangelo della domenica

“UN PROFETA NON È DISPREZZATO SE NON NELLA SUA PATRIA”


commento al vangelo della quattordicesima domenica del tempo ordinario (8 luglio 2018) di p. A. Maggi:

Mc 6,1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.

Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
Gli ambienti più difficili per Gesù sono indubbiamente i luoghi religiosi. Nel vangelo di Marco Gesù per tre volte entra in sinagoga, il numero tre indica la totalità, e ogni volta è una situazione di conflitto. Nella prima Gesù viene interrotto nel suo insegnamento; nella seconda addirittura i farisei decidono di ammazzarlo e la terza, quella che esaminiamo, la gente non lo considera per nulla. Leggiamo Marco, il capitolo sesto, dai primi versetti.
Partì di là e venne nella sua patria, l’evangelista omette il nome Nazareth perché vuole indicare che quanto avviene qui non è limitato soltanto al suo paese, ma indica per tutta la sua nazione. I suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato si mise a insegnare nella sinagoga, l’evangelista sottolinea che Gesù in sinagoga va a insegnare e il suo insegnamento è esattamente il contrario di quello che veniva imposto lì dagli scribi. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti, rimangono sconvolti, c’è qualcosa di nuovo, e dicevano, e la reazione è negativa, da dove gli vengono queste cose? Cosa significa questo da dove? Significa che non viene da Dio. È la folla, la gente, i partecipanti alla sinagoga che sono le vittime dell’insegnamento degli scribi che già hanno sentenziato che Gesù opera per opera di Belzebù, il principe dei demoni, e quindi sospettano di questo suo insegnamento. E infatti dicono E che sapienza è quella che gli è stata data? Visto che Gesù insegna l’esatto contrario di quello che gli insegnano gli scribi la sua sapienza non può provenire da Dio.
E poi E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è Gesù che compie delle azioni, ma le mani, come se Gesù fosse uno stregone. Quindi è la folla, i partecipanti all’assemblea di preghiera della sinagoga che crede in maniera acritica a quello che gli scribi hanno loro insegnato. Ed ecco l’espressione carica di disprezzo Non è costui questo? Non si rivolgono a Gesù, eppure era loro concittadino, con un termine di cortesia, non si rivolgono a lui con gentilezza, ma con un termine dispregiativo, non è costui questo il falegname? E lo definiscono il figlio di Maria. Questo è grave perché un individuo era sempre indicato con il nome del padre, il figlio del padre. Perché dicono che è il figlio di Maria? Le ipotesi possono essere due: o che questo figlio è indegno di portare il nome del padre perché non si comporta come il padre o, peggio, che sia considerato senza padre, e comunque è un’espressione molto insultante. E via, elencano i fratelli.
E la conclusione Ed era per loro motivo di scandalo. L’evangelista mette in guardia che la sottomissione acritica all’insegnamento religioso non solo non permette di accogliere la parola del Signore e la ricchezza di vita che ne comporta, ma ne rende refrattari e ostili. E infatti il commento di Gesù Disse loro: un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e a casa sua. Patria, parenti e casa sono tre, quindi indica la totalità. Perché il profeta è disprezzato? Perché il profeta in sintonia con il Dio che fa nuove tutte le cose trova sempre resistenza dagli ambienti religiosi. In nome del Dio del passato non si riconosce il Dio che si manifesta nel presente e quindi negli ambienti tradizionali, negli ambienti conservatori dove vige l’imperativo “si è sempre fatto così” ecco che l’azione di Dio diventa inoperosa.
E infatti scrive e commenta l’evangelista E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. L’evangelista di nuovo mette in guardia: attenzione che l’adesione all’insegnamento religioso acritico rende refrattari all’azione divina.
E, termina il brano, E si meravigliava della loro incredulità. Gesù stesso si meraviglia di questa loro incredulità e l’evangelista si richiama qui al seme che è caduto sul terreno, ma subito sono venuti gli uccelli, immagine di satana, del potere, che lo ha eliminato. Quindi Gesù ha fatto fallimento totale nella sua patria per colpa dell’insegnamento tradizionale religioso.

Fonte:https://www.studibiblici.it/



il commento al vangelo della domenica


📖 Toccare ed essere toccati da Gesù 
1 luglio 2018 
XIII domenica del tempo Ordinario 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Mc 5,21-43

In quel tempo essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. Subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: «Chi mi ha toccato?»». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?» Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: alzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

Che cos’è l’impurità? Quando una persona è impura, cioè indegna di stare con gli altri e con Dio? Quando una persona è “segnata” da una situazione malefica? E potremmo continuare a porre domande simili o parallele, perché da sempre questi interrogativi emergono nei nostri cuori nelle differenti situazioni della nostra vita. E le risposte che noi esseri umani abbiamo dato, e magari ancora diamo, non sempre riflettono la volontà del Creatore, i sentimenti di Dio. Purtroppo le vie religiose tracciate dall’umanità spesso riflettono non il pensiero di Dio, ma sono piuttosto il frutto di sentimenti umani per i quali si sono trovate giustificazioni fonte di alienazione o di separazione tra gli umani.

In questi percorsi, il sangue, segno della vita negli animali e negli umani, ha attirato fortemente l’attenzione su di sé. Ognuno di noi è nato nel sangue che fluisce dall’utero della madre e ognuno di noi muore quando il suo sangue non scorre più. Ecco dunque, al riguardo, la Legge e le leggi: il sangue che esce da una donna nel mestruo o alla nascita di un figlio la rende impura, così come ognuno quando muore entra nella condizione di impurità, perché preda della corruzione del proprio corpo. Il sangue rende impuri, rende indegni, e questa per una donna è una schiavitù impostale dalla sua condizione secondo la Legge, dunque – dicono gli uomini religiosi – da Dio. La donna impura per il mestruo o per la gravidanza non toccherà cose sante, non entrerà nel tempio (nel Santo) e per purificarsi dovrà offrire un sacrificio; anche chi toccherà una donna impura sarà reso impuro (cf. Lv 12,1-8; 15,19-30), impuro come un lebbroso e chi lo tocca, impuro come un morto e chi lo tocca. Di qui ecco barriere, muri, separazioni innalzati tra persona e persona, ecco l’imposizione dell’esclusione e dell’emarginazione. Certo, “a fin di bene”, per evitare il contagio, per instaurare un regime di immunitas: ma al prezzo della creazione di uno steccato e dell’indegnità-impurità posta come sigillo su alcune persone! Anche le misure di precauzione finiscono per diventare una condanna…

Ma Gesù è venuto proprio per far cadere queste barriere: egli sapeva che non è possibile che il sangue di un animale offerto in sacrificio possa togliere il peccato e rendere puri, mentre il sangue di una donna versato per il naturale ciclo mestruale o il corpo di un morto di cui occorre avere cura possano generare impurità, indegnità di stare con gli altri e davanti a Dio. Per questo i vangeli mettono in evidenza che Gesù non solo curava e guariva i malati, gli impuri, come i lebbrosi o come le donne colpite da emorragia, ma li toccava e da essi si faceva toccare. Gesù abolisce ogni sorta di separazione voluta dalla logica sacrale, poiché egli non era un uomo sacrale come i sacerdoti, essendo un ebreo laico, non di stirpe sacerdotale, e poiché vedeva nelle leggi della sacralità una contraddizione alla carità, alla relazione così vitale per noi umani. Amare l’altro vale più dell’offerta a Dio di un sacrificio (cf. Mc 12,33; 1Sam 15,22), essere misericordiosi è vivere il precetto, il comandamento dato dal “Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun)” (Es 34,6). In Gesù c’era la presenza di Dio, dunque lui era “il Santo di Dio” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), ma egli non temeva di contrarre l’impurità; al contrario, egli proclamava e mostrava che la santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”). In questa azione di Gesù, inoltre, è impossibile non vedere una liberazione della donna da schiavitù e alienazioni imposte dalla cultura dominante.

Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.), tocca il morto per risuscitarlo (cf. Lc 7,14); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una prostituta, dai discepoli, dalle folle… Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità… Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione, è sempre un vibrare dell’intero corpo al contatto con il corpo dell’altro.

Le due azioni di Gesù riportate da Marco nel brano evangelico di questa domenica sono unite tra loro proprio dal toccare: Gesù è toccato da una donna emorroissa e tocca il cadavere di una bambina. Due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come azioni di liberazione e di carità. Questo toccare non è un’azione magica, bensì eminentemente umana, umanissima: “Io tocco, dunque sono con te!”. Mentre Gesù passa con la forza della sua santità in mezzo alla gente, una donna malata di emorragia vaginale pensa di poter essere guarita toccando anche solo il suo mantello, il tallit, lo scialle della preghiera. Ciò avviene puntualmente, e allora la donna, impaurita e tremante, nella convinzione di aver fatto un gesto vietato dalla Legge, un atto che rende impuro Gesù, una volta scoperta scoperta confessa “il peccato” da lei commesso. Ma Gesù, che con il suo sguardo la cerca tra la folla, udita la confessione le dice con tenerezza e compassione: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Egli si comporta così non per infrangere la Legge, ma perché risale alla volontà di Dio, senza fermarsi alla precettistica umana. E se Dio era sceso per liberare il suo popolo in Egitto, terra impura, abitata da gente impura, anche Gesù sente di poter stare tra impuri e di poterli incontrare, dando loro la liberazione. Per questo egli ha sentito uscire da sé “un’energia” (dýnamis) quando la donna l’ha toccato, perché la sua santità passava in quella donna impura.

Subito dopo Gesù viene condotto nella casa del capo della sinagoga Giairo, dove giace la sua figlioletta di dodici anni appena morta. Portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, appena entrato in casa sente strepito, lamenti e grida per quella morte; allora, cacciati tutti dalla stanza, in quel silenzio prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore.

Toccare l’altro è un movimento di compassione;
toccare l’altro è desiderare con lui;
toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;
toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;
toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;
toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;
toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione.

Dalla contemplazione di questa pagina del vangelo ci viene rivelato che la nostra carne, il nostro corpo non era indegno di Dio: per questo il Figlio di Dio si fece carne (cf. Gv 1,14), non in modo apparente ma in modo reale e autentico. È la nostra carne che è diventata la carne di Dio, e Gesù, il Figlio, l’ha assunta non come un peso da cui liberarsi tornando al Padre, ma come un mezzo per incontrare l’umanità, per essere nostro fratello in piena solidarietà, uguale a noi in tutto eccetto che nel peccato. È grazie a questa carne che Gesù ha potuto toccare ed essere toccato, vivere il sentimento della misericordia e della compassione e rivelarci la vicinanza e la tenerezza di Dio. Anche noi come suoi discepoli e sue discepole, anche la chiesa deve “osare la carne” e saper abbracciare, toccare, curare la “carne di Cristo”nei sofferenti, nei malati, nei peccatori, in tutti i corpi degli uomini e delle donne che, con grida forti o mute, invocano la salvezza delle loro vite.




il commento al vangelo della domenica


📖 Giovanni, il Signore fa grazia 
24 giugno 2018 
Natività di san Giovanni il Battista 
commento al vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Lc 1,57-66.80

In quel tempo per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.
La solennità della Natività di san Giovanni il Battista prevale sul lezionario domenicale. All’inizio dell’estate si celebra questa grande festa, una ricorrenza antichissima, già attestata da sant’Agostino in Africa. Accanto a Maria, la madre del Signore, Giovanni il Battista è il solo santo di cui la chiesa celebri non solo il giorno della morte, il dies natalis alla vita eterna, ma anche il dies natalis in questo mondo: di fatto, Giovanni è il solo testimone di cui il Nuovo Testamento ricorda la nascita, così intrecciata con quella di Gesù. Ed è proprio questo intersecarsi di vicende che ha portato alla scelta della data del 24 giugno per celebrarne la memoria: se la chiesa ricorda la nascita di Gesù il 25 dicembre, non può che ricordare quella di Giovanni al 24 giugno, essendo essa avvenuta, come testimonia il vangelo secondo Luca, sei mesi prima.
Il parallelismo di queste date contiene anche una simbologia, almeno nel bacino del Mediterraneo che è stato il crogiolo della fede ebraico-cristiana: se il 25 dicembre, solstizio d’inverno, è la festa del sole vincitore, che comincia ad accrescere la sua declinazione sulla terra, il 24 giugno, solstizio d’estate, è il giorno in cui il sole comincia a calare di declinazione, proprio come è avvenuto nel rapporto del Battista con Gesù, secondo le parole dello stesso Giovanni: “Egli deve crescere e io diminuire” (Gv 3,30). Giovanni è il lume che decresce di fronte alla luce vittoriosa; è la lampada preparata per il Messia (cf. Sal 132,17 e Gv 5,35); è il suo precursore nella nascita, nella missione e nella morte; è il maestro di Gesù, suo discepolo che lo segue; è l’amico di Gesù, lo Sposo veniente, come dice giustamente il quarto vangelo (cf. Gv 3,29).
Potremmo addirittura dire che il vangelo è la storia sincronica di due profeti, Giovanni e Gesù, con la loro profondissima singolarità, la loro specifica chiamata, ma anche con la loro sostanziale unanimità nel perseguire i disegni di Dio, con la stessa risolutezza a servizio del Regno. Sì, purtroppo oggi la figura del Battista non ha più il posto che merita nella memoria e nella consapevolezza dei cristiani: dopo il primo millennio e la metà del secondo – in cui Giovanni il Battista e Maria insieme rappresentavano il legame tra antica e nuova alleanza e insieme come intercessori stavano accanto al Veniente, il Signore glorioso, nella liturgia come nell’iconografia – la crescita del culto di molti santi diventati più popolari ha sopravanzato il Battista finendo per oscurarlo, avviando una deriva rischiosa per l’equilibrio della consapevolezza cristologica. Se la chiesa, ancora oggi, celebra come solennità la nascita del Battista è perché resta cosciente della centralità rivelativa di questa figura: nei sinottici la buona notizia dell’annuncio del Regno si apre sempre con Giovanni, così come il vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca si apre con l’annuncio dell’angelo a Zaccaria (cf. Lc 1,5-25) e con il racconto della nascita prodigiosa di Giovanni.
Meditiamo dunque sul primo capitolo del vangelo secondo Luca. L’angelo del Signore si era presentato al sacerdote Zaccaria mentre questi nel tempio celebrava l’offerta dell’incenso e gli aveva rivelato la nascita di un figlio come esaudimento della preghiera sua e di sua moglie Elisabetta. Zaccaria, infatti, era vecchio e sua moglie sterile. Per tutta la vita avevano atteso un figlio e lo avevano invocato con fede, ma ora erano giunti a una vecchiaia senza futuro. Questo angelo, Gabriele, il messaggero della liberazione di Israele (cf. Dn 8,15-27; 9,20-27) e dell’ora messianica, rivela a Zaccaria il compimento di tutta l’attesa di Israele: il nascituro, ripieno di Spirito santo, camminerà davanti al Signore veniente e preparerà il popolo dei credenti ad accogliere la sua venuta.
Zaccaria, uomo giusto e irreprensibile davanti al Signore, è però turbato e pieno di timore, dunque chiede all’angelo come sia possibile questo, vista la sua vecchiaia e la sterilità della moglie: egli dunque resta incredulo, secondo il racconto evangelico, quindi non riesce più a parlare. “Ho creduto, per questo ho parlato”, dice il salmo (115 [116] LXX,10), perché la parola umana rivolta a Dio deve sempre scaturire dalla fede. Perciò Zaccaria non può benedire l’assemblea in preghiera nel tempio, e questa benedizione resterà interrotta fino a quando Gesù risorto la donerà alla sua comunità, salendo al cielo (cf. Lc 24,50-51).
Ma ecco che i giorni della gravidanza di Elisabetta si compiono e la sterile partorisce un figlio, destando gioia in tutti i suoi parenti e conoscenti, perché quel figlio appare un segno inconfutabile della misericordia di Dio. Il padre Zaccaria è però ancora nella condizione di non eloquenza, così la madre, con grande audacia e contro ogni consuetudine di quel tempo, impone al figlio della grazia il nome di Jochanan, che significa proprio “il Signore fa grazia”. La sterilità è diventata fecondità, l’umiliazione si è mutata in fierezza, l’attesa piena di fede vede il compimento da parte di Dio di ciò che era impossibile agli umani. Zaccaria ed Elisabetta erano degli ‘anawim, quei poveri curvati dalla vita che sperano solo nel Signore, ma ora proprio loro sono strumento, testimoni dell’azione di salvezza che Dio compie in favore di tutto Israele.
Non può passare inosservata la forza di Elisabetta la quale, contro la contestazione dei parenti, dà al figlio il nome designato dall’angelo Gabriele per indicare la missione affidata da Dio al nascituro. Se il nome Elisabetta significa “Dio ha promesso”, con la grazia manifestatasi nella nascita di Giovanni la promessa si è compiuta. E ora che la madre ha imposto il nome al bambino, si scioglie la lingua di suo padre Zaccaria, il quale pronuncia il famoso Benedictus, un salmo di benedizione al Dio di Israele che ha visitato e riscattato il suo popolo (cf. Lc 1,67-79).
Questa nascita prodigiosa testimonia che Giovanni è un uomo che soltanto Dio poteva dare a Israele: dono della misericordia di Dio, risposta a quanti, nella povertà, nell’umiltà e nella fede, avevano atteso con perseveranza per secoli la venuta del Messia, del Salvatore inviato da Dio. Ormai i tempi della nuova alleanza sono inaugurati, il precursore del Messia è presente e lo precede. Di più, lo riconosce al primo incontro, come avviene nella visita che Maria, gravida di Gesù, fa a Elisabetta, gravida di Giovanni (cf. Lc 1,39-45). Il Battista nasce dunque in una famiglia di ebrei credenti, ma la sua vocazione gli chiederà di lasciarla fin dall’adolescenza, per andare nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele. Giovanni si prepara alla missione perché fin dal concepimento la “mano di Dio” sta con lui.
Tutta la sua vicenda si interseca con quella di Gesù, e gli eventi della sua vita narrati nel vangelo non sono solo prefigurazioni di quelli che accadranno a Gesù, ma sono a essi sincronici, contemporanei, fino a sovrapporsi e a confondersi gli uni con gli altri: Giovanni e Gesù hanno vissuto insieme! E anche quando Giovanni sarà ucciso violentemente, la sua vita e la sua missione appariranno in pienezza in quella di Gesù. Non è certo un caso che il vangelo registri l’opinione del re Erode riguardo a Gesù: “È Giovanni Battista risorto dai morti” (cf. Mc 6,16), né che i discepoli riportino a Gesù il giudizio di alcuni contemporanei che dicevano di lui: “È Giovanni il Battista” (cf. Mc 8,28 e par.).
Quando Giovanni morirà, anticiperà la morte di Gesù e la prefigurerà come passione del profeta perseguitato e ucciso nella propria patria. Ma come nella sua morte anche Gesù muore, così nella resurrezione di Gesù anche Giovanni il Battista risorge.




il commento al vangelo della domenica


📖 La potenza del seme del Regno 
17 giugno 2018 
XI domenica del tempo Ordinario 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 

Mc 4,26-34

In quel tempo  Gesù Diceva ai suoi discepoli : «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Nel vangelo secondo Marco Gesù pronuncia un lungo discorso in parabole, come insegnamento rivolto ai discepoli che ha chiamato alla sua sequela e alle folle che ascoltano la sua predicazione del Regno veniente (cf. Mc 4,1-34). Le parabole sono un linguaggio enigmatico che diventa però “mistero” (Mc 4,11) per chi segue Gesù e in qualche modo entra nella sua intimità, fino a trovarsi in uno spazio che può essere definito da Gesù stesso éso, “dentro”, contrapposto a quello éxo, “fuori” (cf. Mc 3,31-32; 4,11).

Nello stesso tempo, le parabole sono da lui dette in modo che gli ascoltatori cambino il loro modo di pensare. Esse, infatti, contengono sempre un messaggio di contro-cultura, correggono ciò che tutti pensano o sono portati a pensare, e di conseguenza sono annuncio di qualcosa di nuovo: una novità apportata da Gesù non a livello di idee, ma come qualcosa che cambia il modo di vivere, di sentire, di giudicare e di operare. Gesù era un uomo che innanzitutto sapeva vedere: vedeva, osservava, contemplava tutto ciò che gli era intorno e tutti quelli che gli si avvicinavano e che egli avvicinava a sé. In lui la consapevolezza e l’adesione alla realtà erano sempre in esercizio, sicché poteva poi pensare. Di più, potremmo dire che il suo pensare davanti al Padre e alla sua volontà era un pregare che gli permetteva di immaginare racconti e situazioni, da comunicare ai discepoli attraverso la narrazione di molte parabole.

Nella nostra pericope Gesù, dopo aver pronunciato la parabola del seminatore, spiegata in seguito ai soli discepoli come semina della parola di Dio (cf. Mc 4,1-20), e i due brevi detti sulla lampada “che viene” per essere vista e sulla misura dell’ascolto (cf. Mc 4,21-25), narra due ultime parabole, quelle offerteci dalla liturgia odierna, che vogliono attestare l’efficacia della Parola seminata. La prima, presente solo in Marco, afferma che “così è, viene il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”. Gesù ci parla ancora del seme, un elemento che lo intrigava e sul quale aveva molto meditato. Il seme è sempre qualcosa che resta dal raccolto precedente, è il frutto di una pianta che, raccolto, secca e sembra morto. Ma se il seme cade, se è gettato sotto terra, allora nella terra intrisa di acqua marcisce, visibilmente si disfa e scompare; in realtà, però, genera vita, che diventa un germoglio, poi una pianta, e che apparirà infine addirittura come una moltiplicazione e una trasformazione del seme stesso, attraverso frutti abbondanti. Il seme è adatto per rappresentare la dinamica dell’enigma che diventa mistero, ed è per questo che Gesù ricorre più volte a questa immagine, la più presente nelle parabole da lui create.

La venuta del regno di Dio, il suo apparire, è dunque paragonato al processo agricolo che ogni contadino conosce bene, anzi che vive con attenzione e premura: semina, nascita del grano, crescita, formazione della spiga e maturazione. Di fronte a tale sviluppo, occorre meravigliarsi, guardando alla potenza, alla forza presente in quel piccolo seme secco, che sembra addirittura morto. Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Di fronte a questa realtà, il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Anzi, se il contadino volesse misurare la crescita e andasse a verificare cosa accade al seme sotto terra, minaccerebbe fortemente la nascita e la vita del germoglio.

Ecco allora l’insegnamento di Gesù: occorre meravigliarsi del Regno che si dilata sempre di più, anche quando noi non ce ne accorgiamo, e di conseguenza occorre avere fiducia nel seme e nella sua forza. E il seme è la parola che, seminata dal predicatore, darà frutto anche se lui non se ne accorge né può verificare il processo: di questo deve essere certo! Nessuna ansia pastorale, ma solo sollecitudine e attesa; nessuna angoscia di essere sterili nel predicare: se il seme è buono, se la parola predicata è parola di Dio e non del predicatore, essa darà frutto in modo anche invisibile. Questa la certezza del “seminatore” credente e consapevole di ciò che opera: la speranza della mietitura e del raccolto non può essere messa in discussione.

Segue un’altra parabola, sempre sul seme, ma questa volta su un seme di senape. Gesù è veramente un uomo esercitato all’attenzione, discernere, al pensare, e quale rabbi sapiente esprime con poche parole la dinamica del Regno, da lui annunciato attraverso la semina e la crescita del granello di sé. Il chicco di senape è tra i semi più minuscoli, non più grande di un granello di sale, eppure anch’esso, se seminato in terra, cresce e diventa il più grande degli arbusti. Sembra impossibile che da un seme così minuscolo possa derivare una pianta tanto rigogliosa: anche qui c’è dunque da stupirsi, da meravigliarsi! Eppure proprio ciò che ai nostri occhi è piccolo, può avere una forza impensabile per noi umani… Ecco, infatti, che il seme di senape sotto terra marcisce, germoglia, poi spunta e cresce fino a essere un arbusto sulle cui fronde gli uccelli possono fare il nido. Qui Gesù allude certamente a quell’albero intravisto da Daniele, simbolo del regno universale di Dio (cf. Dn 4,6-9.17-19). Sì, anche questa parabola vuole comunicarci qualcosa di decisivo: la parola di Dio che ci è stata donata può sembrare piccola cosa, rivestita com’è di parola umana, fragile e debole, messa in bocca a uomini e donne poveri, non intellettuali, non saggi secondo il mondo (cf. 1Cor 1,26). Eppure quando essa è seminata e predicata da loro, proprio perché è parola di Dio contenuta in parole umane, è feconda e può crescere come un albero capace di accogliere tante creature. E non solo la parola di Dio, ma anche l’inizio del Regno, l’inizio della comunità del Signore può apparire una realtà, insignificante; eppure in seguito crescerà, diventerà una realtà inattesa, impensabile per molti, ma veramente significativa e capace di accogliere chi vuole trovare ristoro alla sua ombra.

La rivelazione dell’efficacia della parola di Dio è decisiva per noi cristiani. Questa Parola, infatti, è “potenza di Dio” (Rm 1,16), è seme di vita immortale (cf. 1Pt 1,23) e ha in sé una potenzialità che noi non possiamo prevedere. Proprio come afferma il profeta Isaia a nome del Signore: “La Parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,11). Certo, l’efficacia della Parola ha una modalità propria di operare in forme molto diverse, non prevedibili, che possono anche contraddire il nostro modo di pensarla e discernerla. È un’efficacia non mondana, non misurabile in termini quantitativi, perché la parola del Signore è anche “parola della croce” (1Cor 1,18). Quando è seminata nei cuori degli ascoltatori, la parola di Dio deve essere accolta, interiorizzata e custodita, deve essere discreta rispetto alle altre parole e quindi essere realizzata, in modo che appaiano i suoi frutti: frutti quasi mai percepiti e visti dal discepolo, perché “come la Parola cresca in lui, egli non lo sa”.
Queste parabole ci interrogano dunque sulla nostra consapevolezza della parola di Dio che ci è data e che noi dobbiamo seminare, sulla nostra visione del Regno come realtà di piccoli e di poveri, realtà di un “piccolo gregge” (Lc 12,32), che può divenire una raccolta delle genti del mondo intero, in cammino verso il regno di Dio veniente per tutti. Ma riflettiamo: chi pronunciava queste parabole era un oscuro figlio di Israele di Galilea, un “ebreo marginale”, non un sacerdote e neppure un rabbino formatosi in qualche scuola riconosciuta a Gerusalemme o lungo il lago di Galilea. E con lui c’era una comunità itinerante che lo seguiva: una dozzina di uomini e poche donne senza appartenenza all’elite culturale o religiosa giudaica: una realtà piccola e oscura, eppure significativa.

Allora, perché avere timore di essere noi cristiani una minoranza oggi nel mondo? Basta che siamo significativi, cioè che crediamo alla potenza della parola di Dio, che la seminiamo con umiltà e molta pace, senza angoscia né frenetica attesa di vedere i risultati… Occorre saper attendere, occorre pazienza e soprattutto fede nella parola di Dio: se il seme è buono, spunterà e darà il suo frutto. Il disegno di Dio si compie sempre, ben al di là delle nostre previsioni e della nostra impazienza.




il commento al vangelo della domenica


📖 La nuova famiglia di Gesù 
10 giugno 2018 
X domenica del tempo Ordinario 
commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Mc 3,20-35

In quel tempo  Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».
Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».
Riprendiamo la lettura quasi cursiva del vangelo secondo Marco in questo tempo per annum e cerchiamo di essere molto attenti alla specificità del messaggio di questo vangelo.
Gesù è ormai riconosciuto come maestro affidabile, da alcuni come un profeta che continua la missione di Giovanni il Battista. Ma Gesù non abita nel deserto, non vive in solitudine e attorno a sé ha radunato una comunità di discepoli e discepole, tra i quali ne emergono dodici per la vita vissuta insieme a lui e per la partecipazione all’annuncio della venuta del regno di Dio. La parola autorevole di Gesù e la sua attività di cura e guarigione dei malati attivano molta gente, che vuole ascoltarlo e vederlo. Questo successo della sua predicazione talvolta impedisce di fatto a lui e alla sua comunità anche solo di saziarsi con un po’ di pane: non c’è tempo…

Quando Gesù è in casa a Cafarnao, la gente, sapendo dove si trova, viene a cercarlo e così questa fama desta preoccupazione nella famiglia di provenienza di Gesù e anche nella sua comunità religiosa. Marco osa ancora attestare questa diffidenza ostile a Gesù da parte dei “suoi”, i familiari che, venuti dal loro villaggio, cercano di mettere le mani su di lui, di prenderlo e portarlo via, giudicandolo “fuori di sé”, esaltato, impazzito. Gesù aveva operato scelte di vita che ai suoi familiari potevano sembrare stoltezza e follia. Aveva infatti abbandonato la famiglia, si era dato a una vita itinerante, viveva la condizione del celibe, del non coniugato, infamante per la cultura del tempo, e con il suo successo si era inimicato le stesse autorità religiose.

Giudicato “eversivo”, andava dunque fermato. Ma non era stato questo il destino dei profeti? Con il suo modo di vivere e di parlare, infatti, il profeta disturba, perciò si preferisce farlo tacere, giudicandolo pazzo, delirante, fino a pensare di eliminarlo fisicamente (cf. Os 9,7). Ma all’ostilità dei familiari si aggiunge quella delle legittime autorità giudaiche. Gli scribi, discesi da Gerusalemme in Galilea, sono preoccupati dell’ascolto di Gesù da parte delle folle. Se per i suoi familiari Gesù è pazzo, gli esperti delle sante Scritture lo ritengono posseduto da Beelzebul, il capo dei demoni, che – costoro affermano – opera in lui fino a scacciare dalle persone i demoni inferiori. Si faccia attenzione: costoro non negano che Gesù compia un’opera di liberazione, di guarigione delle persone che egli incontra e cura. Pensano che Gesù scacci i demoni che tengono in schiavitù uomini e donne, ma lo faccia da indemoniato: in lui agisce il capo dei demoni, Beelzebul (alla lettera: il signore dello sterco)! Questa l’insinuazione e il giudizio di quelli che contano, delle autorità della comunità religiosa cui Gesù appartiene.

Gesù però li chiama a sé, li smaschera e si rivolge a loro con linguaggio parabolico, mediante una domanda seguita da alcune affermazioni: “Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito”. Il concetto espresso da Gesù è chiaro: se fosse vero ciò che dicono gli scribi, se Satana, attraverso le sue azioni, insorgesse contro se stesso, ciò significherebbe che il suo potere sta andando in rovina, che non è più vincitore ma vinto. Per questo Gesù aggiunge, in modo decisamente convincente e non contestabile: “Nessuno può penetrare nella casa di un uomo forte e saccheggiarla, se prima non lo ha reso inoffensivo legandolo. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa”. Dunque Gesù può scacciare Satana perché lo ha legato, perché ha reso impotente colui che è forte, fin dalla sua immersione nel Giordano (cf. Mc 1,9-11) e dalla sua lotta contro Satana nel deserto (cf. Mc 1,12-13). Gesù d’altronde era stato annunciato da Giovanni il Battista come “il più forte” (Mc 1,7), colui che, munito della forza di Dio, ha “autorità” (exousía: Mc 1,22) e può comandare ai demoni che gli obbediscono (cf. Mc 1,27).

Ma la risposta di Gesù diventa anche un avvertimento grave e minaccioso, introdotto da un solenne “Amen”: “Amen, in verità vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie, per quante ne abbiano dette; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo non avrà mai perdono, sarà colpevole di una colpa definitiva”. Parole dure, che devono però essere accolte senza indulgere a fantasie o immaginazioni circa questo peccato contro lo Spirito santo. In realtà è un peccato banale, come è banale il male; è un peccato che non richiede particolare malvagità ma è semplicemente consumato da chi vede e discerne il bene che viene fatto eppure, piuttosto che riconoscere questa verità, preferisce chiamarlo male, attribuendolo a Satana. È il peccato che procede dall’invidia, dal non sopportare che un altro abbia fatto o faccia il bene, perché si vorrebbe solo se stessi come soggetti del bene; e non volendo riconoscere in un altro quel bene che viene da Dio, si preferisce attribuirlo al demonio. Quegli scribi vedevano il bene operato da Gesù ma, piuttosto che riconoscerlo come opera ispiratagli da Dio, sceglievano deliberatamente di imputarlo a Satana. Non riconoscere l’opera di Dio, non riconoscere l’azione dello Spirito santo, fino a stravolgere lo sguardo e il giudizio, attribuendo il bene operato a Satana, è davvero il peccato imperdonabile, dice Gesù! E questo – lo si ricordi – è un peccato spesso consumato dalle persone religiose, ancora oggi nella chiesa!

A complemento del giudizio negativo su Gesù da parte dei suoi e degli scribi, Marco racconta anche che la madre e i fratelli di Gesù giungono presso la casa dove egli dimora e, stando fuori, mandano a chiamarlo. Si tratta dei suoi familiari, di quanti erano usciti per portarlo via giudicandolo pazzo, oppure Marco si riferisce a un altro episodio in cui è soprattutto messa in rilievo la madre di Gesù? In ogni caso, l’evangelista sembra sottolineare che proprio i familiari che avevano dichiarato Gesù fuori di sé (exéste) in realtà restano fuori (éxo), fuori dallo spazio di Gesù. Egli viene avvertito: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”. Vogliono incontrarlo ma restano fuori dal suo spazio. Gesù, da parte sua, non si muove verso di loro, resta al suo posto, tra i suoi discepoli, in mezzo alla comunità riunita in cerchio attorno a lui, e volgendo lo sguardo su questo gruppo dice con forza: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.

In tal modo egli dichiara di conoscere e vivere i legami di una nuova famiglia, la comunità dei discepoli, legami che non nascono dalla carne o dal sangue, cioè dalla storia familiare, ma dal fare la volontà di Dio. La prossimità a Gesù non è decisa dal vincolo parentale ma si basa sull’ascolto della parola di Dio, sul realizzare la sua volontà, sul vivere la fraternità nel vincolo dell’amore quale figli e figlie di un unico Padre: Dio. Dopo questa dichiarazione di Gesù dobbiamo dunque chiederci: chi è veramente fuori e chi è dentro lo spazio di relazione e comunione con lui?

Certo, questa pagina evangelica appare dura e noi ci chiediamo anche come la madre di Gesù, Maria, abbia vissuto questo incontro mancato. Possiamo rispondere che lo abbia vissuto nella fede perché queste parole di Gesù, apparentemente dure, in realtà attestano la sua grandezza: Maria ha compiuto pienamente la volontà di Dio, per questo è stata per Gesù madre, degna di essere madre nella sua carne.
La lettura di questo brano avverte in ogni caso i discepoli e le discepole di Gesù in ogni tempo: anche loro conosceranno diffidenza e inimicizia da parte della famiglia di provenienza, conosceranno l’opposizione da parte delle autorità religiose, dovranno sempre interrogarsi sulla loro prossimità a Gesù, sperimentabile solo nel compiere la volontà di Dio, nel realizzare la sua parola e nell’accogliere l’aiuto preveniente e gratuito della sua misericordia.




il commento al vangelo della domenica

 

 


📖 il dono di tutta la vita di Gesù 
3 giugno 2018 
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Mc 14,12-16.22-26

12 In quel tempo il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. 22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». 26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Questa festa dell’Eucaristia, o del Corpo del Signore (Messale di Pio V), o solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Messale di Paolo VI), come la solennità della Triunità di Dio celebrata domenica scorsa è tardiva. Infatti, è stata istituita nel XIII secolo, e nel secolo seguente ha faticato a imporsi in occidente, restando invece sempre sconosciuta nella tradizione ortodossa. L’intenzione della chiesa è quella di proporre, fuori del santissimo triduo pasquale, la contemplazione, l’adorazione e la celebrazione del mistero eucaristico del quale viene fatto memoria il giovedì santo, in coena Domini. Quanto al brano evangelico scelto, il messale italiano in questa annata B propone la lettura del racconto dell’ultima cena nel vangelo secondo Marco, che ora cerchiamo di accogliere come parola del Signore.

Prima del suo arresto e della sua morte in croce, Gesù ha voluto celebrare la Pasqua con i suoi discepoli, e proprio per questo durante il suo ultimo soggiorno a Gerusalemme, nel primo giorno della festa dei pani azzimi, invia due suoi discepoli affinché preparino l’occorrente per la cena pasquale. Gesù sa di essere braccato, di non potersi fidare neppure di tutti i suoi discepoli, perché uno l’ha ormai tradito (cf. Mc 14,10-11), dunque predispone ogni cosa perché quella cena pasquale possa avvenire, ma agisce con molta circospezione, come se non volesse che si sappia dove la celebrerà.

Per questo i due discepoli da lui inviati devono incontrare un uomo che porta una brocca d’acqua (cosa insolita, perché erano le donne a svolgere tale operazione, ma questo è il segno convenuto), devono seguirlo fino a una casa, dove costui indicherà loro la “camera alta”, la sala al piano superiore già arredata e pronta, in cui predisporre tutto per la cena pasquale. Occorre infatti preparare il pane, il vino, l’agnello, le erbe amare, per ricordare in un pasto – come prevedeva la Legge (cf. Es 12) – l’uscita di Israele dall’Egitto, la liberazione dalla schiavitù, la nascita del popolo appartenente al Signore. E così, in obbedienza all’ordine dato da Gesù con autorità e gravità ai due discepoli inviati, tutto è preparato per quella celebrazione pasquale, per quell’ora solenne, per quell’ora ultima di Gesù con i suoi discepoli, per quell’ora nella quale la Pasqua dell’agnello diventerà la Pasqua di Gesù.

E quando Gesù siede a tavola per la cena, compie dei gesti e dice alcune parole sul pane e sul vino, dando origine alla celebrazione della nuova alleanza con la sua comunità. Di questa scena abbiamo quattro racconti, tre nei vangeli sinottici (cf. Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,18-20) e uno, il più antico, nella Prima lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 11,23-25): racconti che riportano parole tra loro un po’ diverse, a testimonianza di come non si tratti di formule magiche da ripetersi tali e quali, ma di parole che manifestano l’intenzione di Gesù e spiegano i suoi gesti. Le prime comunità cristiane, dunque, volendo restare fedeli all’intenzione di Gesù, hanno ridetto le sue parole, hanno ripreso i suoi gesti, e da allora la cena del Signore è sempre e dovunque celebrata nelle chiese.

Innanzitutto Gesù compie un’azione rituale: prende il pane azzimo che è sulla tavola del seder pasquale, pronuncia la benedizione a Dio per quel dono, quindi lo spezza e lo porge ai discepoli. Prendere il pane, spezzarlo e darlo è un gesto quotidiano fatto da chi presiede la tavola, ma Gesù lo compie con un’intensità e con una forza che lo rendono carico di significato, ne fanno un gesto che si imprime nella mente e nel cuore dei commensali di quella cena pasquale. Gesù assume l’atteggiamento e la parola della Sapienza di Dio che parla e invita al banchetto (cf. Pr 9,1-6), fa sue le parole del profeta che chiama al pasto dell’alleanza eterna (cf. Is 55,1-3), e offre come cibo la sua vita, il suo corpo, se stesso! Vi è in questo gesto e in queste parole di Gesù il suo donarsi fino all’estremo, perché egli ha amato e ama fino al dono della sua vita (cf. Gv 13,1). Di fronte a questa azione i discepoli furono certamente scossi e solo dopo la morte e resurrezione di Gesù compresero ciò che non avevano potuto dimenticare.

Non si dimentichi inoltre che il gesto dello spezzare il pane già nei profeti indicava il condividere il pane con i poveri, i bisognosi e gli affamati (cf. Is 58,7), esprimendo in tal modo una condivisione di ciò che fa vivere, che manifesta la comunione tra tutti quelli che mangiano lo stesso pane. Ecco perché il primo nome dato all’Eucaristia dai discepoli e dai cristiani delle origini è “frazione del pane” (cf. Lc 24,35; At 2,42; 20,7; Didaché 9,3). Quanto alle parole che accompagnano il gesto – “Prendete, questo è il mio corpo” –, esse vogliono significare che Gesù consegna e dona la sua intera vita ai discepoli i quali, mangiando quel pane, si fanno partecipi della sua vita spesa e consegnata per amore, “fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). In questo modo Gesù spiega in anticipo e in piena libertà, con gesti e parole, ciò che accadrà di lì a poco: la sua morte dovrà essere percepita come dono della sua vita agli uomini, vita offerta in sacrificio a Dio.

Poi Gesù prende anche il calice tra le sue mani, rende grazie a Dio per il frutto della vite e con solennità dichiara: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è sparso per le moltitudini”. Come ha dato il suo corpo porgendo il pane, così dà il suo sangue porgendo il calice del vino da bere ai discepoli; ovvero, Gesù dona la sua vita, significata nella cultura semitica dal sangue. L’evangelista sottolinea che a questo calice “bevvero tutti”, perché il dono di Gesù è per tutti, nessuno escluso. C’è un contrasto tra questo “tutti”, che indica tutti i discepoli, e le parole dette in precedenza: “Uno di voi mi tradirà” (Mc 14,18). Ma ciò mette ancor più in risalto il fatto che tutti sono associati al bere al calice offerto, anche Giuda il traditore. A tutti, nessuno escluso, Gesù offre la sua vita e il suo amore gratuito, che non deve mai essere meritato.
Ma qui si deve cogliere anche il compimento a cui Gesù vuole portare le parole che sigillavano l’alleanza tra Dio e Israele al monte Sinai, quando, con il sangue delle vittime del sacrificio Mosè asperse l’altare, trono di Dio, e il popolo riunito in assemblea, dicendo: “Questo è il sangue dell’alleanza” (cf. Es 24,6-8). Al Sinai, in quella celebrazione dell’alleanza, il sangue, la vita univa Dio e il suo popolo in un patto di appartenenza reciproca, in una comunione fedele nella quale Dio si mostrava come “il Signore misericordioso e compassionevole, lento all’ira, grande nell’amore e nella fedeltà” (Es 34,6). Ma l’alleanza che Gesù stipula con il dono della sua vita non è più ristretta al popolo di Israele, bensì è un’alleanza universale, aperta a tutte le genti, un’alleanza nel suo sangue sparso “per le moltitudini” (rabbim, polloí: cf. Is 53,11-12): non “per molti” dunque, ma “per tutti” (cf. Concilio Vaticano II, Ad gentes 3).

L’Apostolo Paolo, proprio per affermare questa destinazione universale del dono del sangue di Cristo, scrive nella Lettera ai Romani: “La prova che Dio ci ama tutti è che il Cristo è morto per noi, mentre noi eravamo peccatori” (cf. Rm 5,7-8). È morto per tutti, anche per Giuda, come per tutti noi che siamo nella malvagità e nell’inimicizia con Dio. Qui dovremmo cogliere come il dono dell’Eucaristia non è un premio, un privilegio per i giusti, ma un farmaco per i malati, un viatico per i peccatori. L’Eucaristia altro non è che narrazione in parole e gesti dell’amore di Dio, è la sintesi di tutta la vita del Figlio Gesù Cristo, la sintesi di tutta la storia di salvezza.

Ricordiamo infine che quell’anticipazione della morte di Gesù, nel rito del ringraziamento sul pane spezzato e nel rito del calice condiviso, è un’anticipazione anche del Regno che viene, dove la morte sarà vinta per sempre. Per questo Gesù dice: “Amen, io vi dico che non berrò più del frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio”. Il pasto eucaristico prelude dunque al banchetto del Regno, dove Gesù, il Kýrios risorto, mangerà con noi e berrà con noi il calice della vita futura, al banchetto nuziale, dove il vino sarà nuovo, cioè altro, ultimo e definitivo, vino della stessa vita divina, la sua vita che è agápe, amore: e noi berremo quel vino nuovo vivendo in lui e con lui per sempre.




il commento al vangelo della domenica

quel vento di libertà che scuote i nostri schemi
 il commento al vangelo della domenica di Pentecoste (20 maggio 2018) di E. Ronchi:

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

La Bibbia è un libro pieno di vento e di strade. E così sono i racconti della Pentecoste, pieni di strade che partono da Gerusalemme e di vento, leggero come un respiro e impetuoso come un uragano. Un vento che scuote la casa, la riempie e passa oltre; che porta pollini di primavera e disperde la polvere; che porta fecondità e dinamismo dentro le cose immobili, «quel vento che fa nascere i cercatori d’oro» (G. Vannucci).
Riempì la casa dove i discepoli erano insieme. Lo Spirito non si lascia sequestrare in certi luoghi che noi diciamo sacri. Ora sacra diventa la casa. La mia, la tua, e tutte le case sono il cielo di Dio. Venne d’improvviso, e sono colti di sorpresa, non erano preparati, non era programmato. Lo Spirito non sopporta schemi, è un vento di libertà, fonte di libere vite.
Apparvero lingue di fuoco che si posavano su ciascuno. Su ciascuno, nessuno escluso, nessuna distinzione da fare. Lo Spirito tocca ogni vita, le diversifica tutte, fa nascere creatori. Le lingue di fuoco si dividono e ognuna illumina una persona diversa, una interiorità irriducibile. Ognuna sposa una libertà, afferma una vocazione, rinnova una esistenza unica. Abbiamo bisogno dello Spirito, ne ha bisogno questo nostro piccolo mondo stagnante, senza slanci. Per una Chiesa che sia custode di libertà e di speranza. Lo Spirito con i suoi doni dà a ogni cristiano una genialità che gli è propria. E abbiamo bisogno estremo di discepoli geniali. Abbiamo bisogno cioè che ciascuno creda al proprio dono, alla propria unicità e che metta a servizio della vita la propria creatività e il proprio coraggio. La Chiesa come Pentecoste continua vuole il rischio, l’invenzione, la poesia creatrice, la battaglia della coscienza.
Dopo aver creato ogni uomo, Dio ne spezza la forma e la butta via. Lo Spirito ti fa unico nel tuo modo di amare, nel tuo modo di dare speranza. Unico, nel modo di consolare e di incontrare; unico, nel modo di gustare la dolcezza delle cose e la bellezza delle persone. Nessuno sa voler bene come lo sai fare tu; nessuno ha quella gioia di vivere che hai tu; e nessuno ha il dono di capire i fatti come li comprendi tu. Questa è proprio l’opera dello Spirito: quando verrà lo Spirito vi guiderà a tutta la verità. Gesù che non ha la pretesa di dire tutto, come invece troppe volte l’abbiamo noi, che ha l’umiltà di affermare: la verità è avanti, è un percorso da fare, un divenire. Ecco allora la gioia di sentire che i discepoli dello Spirito appartengono a un progetto aperto, non a un sistema chiuso, dove tutto è già prestabilito e definito. Che in Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga. E che non mancherà mai il vento al mio veliero.




il commento al vangelo della domenica

📖 L’annuncio del Vangelo a tutta la creazione 
13 maggio 2018 
Ascensione del Signore 
commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 
 Mc 16,15-20
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:« Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battez zato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.»

Il brano evangelico che la chiesa ci propone per la solennità dell’Ascensione del Signore è tratto dalla conclusione aggiunta più tardi al vangelo secondo Marco da parte di “scribi cristiani”, che lo hanno completato con una chiusura meno brusca di quella del racconto originale (cf. Mc 16,1-8). Sono versetti che non si trovano nei manoscritti più antichi e sono sconosciuti a molti padri della chiesa. Tuttavia la chiesa li ha accolti come ispirati, cioè contenenti la parola di Dio, tanto quanto il resto del vangelo, e infatti sono conformi alle Scritture (secundum Scripturas: 1Cor 15,3.4); sono addirittura una sintesi dei finali degli altri vangeli (soprattutto dei sinottici), che raccontano gli eventi riguardanti Gesù risorto, asceso al cielo e glorificato dal Padre.

Secondo questa conclusione, Gesù appare al gruppo dei Dodici privi di Giuda, agli Undici dunque, mentre stanno a tavola. Costoro che, chiamati da Gesù alla sua sequela, erano stati coinvolti nella sua vita e avevano appreso da lui un insegnamento autorevole per almeno tre anni, ma che nell’ora della passione erano fuggiti tutti e lo avevano abbandonato (cf. Mc 14,50), nell’alba pasquale avevano ascoltato da Maria di Magdala l’annuncio della resurrezione di Gesù (cf. Mc 16,9-10), ma a lei “non credettero” (epístesan: Mc 16,11); anche i due discepoli di Emmaus avevano raccontato come il Risorto si era manifestato sulla strada “sotto un altro aspetto” (cf. Mc 16,12-13), “ma non credettero (epísteusan) neppure a loro” (v. 13). Per questo, quando Gesù “alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, li rimproverò per la loro incredulità (apistía) e durezza di cuore (sklerokardía), perché non avevano creduto (epísteusan) a quelli che lo avevano visto risorto” (Mc 16,14).

Questa è la verità che va detta, ed è stata detta nella chiesa (prova ne sia questo testo) quando non erano ancora dominanti il trionfalismo e l’adulazione delle autorità. Gli Undici sono stati preda del dubbio profondo, sono stati increduli dopo la morte di Gesù come lo erano stati durante la sua sequela, quando egli era stato costretto a rivolgersi alla sua comunità dicendo: “Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non ascoltate?” (Mc 8,17-18). Gli Undici in verità sono ancora nella situazione di incredulità che Gesù aveva rimproverato ai suoi oppositori, scribi e farisei (cf. Mc 10,5), e agli abitanti del suo villaggio di Nazaret (cf. Mc 6,6). Situazione dunque disperante quella dei futuri testimoni, assaliti dall’incredulità! Come potranno annunciare la buona notizia, se neppure loro credono?
In questa chiusura – si faccia attenzione – dopo i rimproveri Gesù non mostra segni per portare i suoi discepoli a credere, come la trafittura delle mani e dei piedi (cf. Lc 24,39-40) o quella del costato (cf. Gv 20,20.27), ma nonostante il persistere di questa poca fede invia proprio loro in una missione senza confini, veramente universale. Una missione cosmica, si potrebbe anche dire: “Andate in tutto il mondo e annunciate la buona notizia a tutta la creazione”. Dovunque andranno, in tutte le terre e in tutte le culture, i discepoli di Gesù devono annunciare la buona notizia, proclamare il Vangelo a tutta la creazione. In tal modo Gesù indica certamente l’orientamento universale della predicazione ma chiarisce anche che la buona notizia riguarda ogni creatura, animata e inanimata, quindi anche gli animali, gli angeli e i demoni. Non ci sono più le barriere del popolo eletto di Israele, non ci sono più i confini della terra santa: davanti a quei poveri discepoli titubanti c’è tutta la creazione e ogni creatura! Il Vangelo non può essere contenuto né in un popolo, né in una cultura, e neppure in un modo religioso di vivere la fede nel Dio unico e vero: gli inviati devono lasciarsi alle loro spalle terra, famiglia, legami e cultura, per guardare a nuove terre, a nuove culture, nelle quali il semplice Vangelo potrà essere seminato e dare frutti abbondanti.

Quella che viene richiesta è un’opera di spogliazione ben più faticosa di quella dai semplici mezzi economici: si tratta, infatti, di abbandonare le certezze, gli appoggi intellettuali e culturali, gli assetti religiosi praticati fino a quel momento, e di immergersi tra le genti. Certo, per fare questo ci vuole fede nel Vangelo, nella sua “potenza divina” (dýnamis theoû: Rm 1,16), mentre occorre smettere di porre fede nella propria elaborazione o nei propri progetti culturali. Più spogli si va, più il Vangelo è annunciato con franchezza e, come seme non rivestito caduto a terra, germoglia subito e più facilmente. Quanti errori abbiamo commesso nell’evangelizzazione, confidando nei nostri mezzi, nelle nostre “ideologie”, e, in parallelo, disprezzando le culture degli altri, che sovente abbiamo mortificato per imporre la nostra! E la sterilità del seme del Vangelo, soprattutto in Asia, dove esistevano culture che potevano concorrere con la nostra occidentale, è un segno evidente dell’errore fatto. Il Vangelo è caduto a terra come un seme ma, essendo un seme troppo rivestito, per causa nostra, non ha potuto marcire né, di conseguenza, germogliare.

Ecco il compito dei cristiani: senza febbre “proselitista”, senza cercare di guadagnare a ogni costo dei credenti, percorrendo i mari e le terre come i farisei (cf. Mt 23,15) e dovunque si trovino, i cristiani annuncino il Vangelo innanzitutto con la vita; poi, se Dio lo concede, con le parole. Sono parole di Francesco di Assisi, riprese da papa Francesco… Gesù non chiede di convincere né di imporre, ma di vivere il Vangelo con gioia, perché questa è la testimonianza. Oggi ci sono molti cristiani che passano di palco in palco “per dare testimonianza”, finendo per raccontare la propria storia o il successo della loro comunità. C’è solo da arrossire nel chiamare questo comportamento “testimonianza”! Meglio quei cristiani quotidiani a volte dubbiosi, come gli Undici, che tentano semplicemente e umilmente ogni giorno di essere cristiani dove si trovano, vivendo il Vangelo e amando Gesù Cristo al di sopra di tutto e di tutti. È di questi cristiani e cristiane che abbiamo bisogno, di discepoli e discepole, non di militanti!

Certo, di fronte all’annuncio del Vangelo, si può “credere” o “non credere”, aderire al Signore Gesù o rifiutarlo: per noi il mistero è grande e non siamo in grado di leggerlo compiutamente… Gesù afferma: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, chi non crederà sarà condannato”, ma solo lui, il Signore, può vedere e giudicare chi crede e chi non crede; noi, invece, non possiamo né appropriarci del suo giudizio né partecipare ad esso. Infatti, credere in Gesù, aderire a lui è una risposta che può essere data soltanto dall’imperscrutabile cuore di ogni persona. Noi dobbiamo accettare di restare sulla soglia dell’incontro tra il Signore e l’altro, sapendo che l’annuncio del Vangelo opera un giudizio e chiede conversione e fede in Gesù. Resta vero che l’impegno della fede, sancito nell’immersione della morte di Cristo per risorgere con lui (cf. Rm 6,1-6), rende i cristiani partecipi delle energie della resurrezione, abilitandoli a compiere quei segni che Gesù stesso operava nella sua vita: “segni” (semeîa) che, nel nome di Gesù, significheranno l’arretramento del demonio e delle potenze del male, significheranno possibilità di comunicazione tra genti e lingue differenti, significheranno salute e vita piena per i malati.

Dopo questo mandato agli Undici, “il Signore Gesù fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”. Questa la conclusione del vangelo secondo Marco: come Elia, il profeta escatologico (cf. 2Re 2,9-18), e come gli uomini giusti e santi che hanno camminato con Dio (cf. Gen 5,24), Gesù fu elevato dalla potenza di Dio in cielo, accanto a lui, e si assise alla sua destra quale Messia e Signore profetizzato da David nel salmo 110. Gesù risorto è vivente per sempre in Dio; è il Figlio che regna con Dio, partecipe della sua potenza e della sua gloria, perché vincitore della morte; è il Signore del cosmo, proclamato tale da ogni creatura alla quale è stato annunciato; è il Giudice che verrà alla fine dei tempi. I discepoli, non più increduli ma sempre uomini e donne fragili e tentati dall’incredulità, da allora vanno per il mondo a predicare in ogni luogo, consapevoli che ogni terra può accogliere il Vangelo e può essere per loro terra di missione: essi non sono soli ma il Signore risorto è con loro, opera con loro e conferma la parola del Vangelo con segni capaci di indicarne l’autorevolezza e la verità.
Tra l’ascensione e la parusia finale il Signore Gesù non è però assente ma è presente più che mai, quale soggetto della missione della chiesa tra le genti. Alla chiesa spetta credere ed essere sempre evangelizzata: allora sarà capace di evangelizzare efficacemente, mostrando con segni e parole che Gesù opera in lei e con lei, offrendo a tutta l’umanità la salvezza.




il commento al vangelo della domenica

un Dio che da signore e re si fa amico, alla pari con noi
il commento di p. Ronchi al vangelo della sesta domenica di pasqua (6 maggio 2018):

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Una di quelle pagine in cui pare custodita l’essenza del cristianesimo, le cose determinanti della fede: come il Padre ha amato me, così io ho amato voi, rimanete in questo amore. Un canto ritmato sul vocabolario degli amanti: amare, amore, gioia, pienezza… «Dobbiamo tornare tutti ad amare Dio da innamorati, e non da servi» (L. Verdi).
E una strada c’è, perfino facile, indicata nelle parole: rimanete nel mio amore. Ci siete già dentro, allora restate, non andatevene, non fuggite via. Spesso noi resistiamo, ci difendiamo dall’amore, abbiamo il ricordo di tante ferite e delusioni, ci aspettiamo tradimenti. Ma il Maestro, il guaritore del disamore, propone la sua pedagogia: Amatevi gli uni gli altri. Non semplicemente: amate. Ma: gli uni gli altri, nella reciprocità del dare e del ricevere. Perché amare può bastare a riempire una vita, ma amare riamati basta per molte vite.
Poi la parola che fa la differenza cristiana: amatevi come io vi ho amato. Come Cristo, che lava i piedi ai suoi; che non giudica e non manda via nessuno; che mentre lo ferisci, ti guarda e ti ama; in cerca dell’ultima pecora con combattiva tenerezza, alle volte coraggioso come un eroe, alle volte tenero come un innamorato. Significa prendere Gesù come misura alta del vivere. Infatti quando la nostra è vera fede e quando
è semplice religione? «La fede è quando tu fai te stesso a misura di Dio; la religione è quando porti Dio alla tua misura» (D. Turoldo)
Sarà Gesù ad avvicinarsi alla nostra umanità: Voi siete miei amici. Non più servi, ma amici. Parola dolce, musica per il cuore dell’uomo. L’amicizia, qualcosa che non si impone, non si finge, non si mendica. Che dice gioia e uguaglianza: due amici sono alla pari, non c’è un superiore e un inferiore, chi ordina e chi esegue. È l’incontro di due libertà. Vi chiamo amici: un Dio che da signore e re si fa amico, che si mette alla pari dell’amato!
Ma perché dovrei scegliere di rimanere dentro questa logica? La risposta è semplice, per essere nella gioia: questo vi dico perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, ne va del nostro benessere, della nostra gioia. Dio, un Dio felice (“la mia gioia”), spende la sua pedagogia per tirar su figli felici, che amino la vita con libero e forte cuore e ne provino piacere, e ne gustino la grande bellezza.
La gioia è un sintomo: ti assicura che stai camminando bene, che sei sulla via giusta, che la tua strada punta diritta verso il cuore caldo della vita. Gesù, povero di tutto, non è stato però povero di amici, anzi ha celebrato così gioiosamente la liturgia dell’amicizia, da sentire vibrare in essa il nome stesso di Dio.

di seguito il video del commento di p. Maggi:

 




il commento al vangelo della domenica

Gesù è la vite

E noi i tralci, nutriti dalla linfa dell’amore

il commento al vangelo della quinta domenica di pasqua (19 aprile 2018) di p. E. Ronchi:

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Una vite e un vignaiolo: cosa c’è di più semplice e familiare? Una pianta con i tralci carichi di grappoli; un contadino che la cura con le mani che conoscono la terra e la corteccia: mi incanta questo ritratto che Gesù fa di sé, di noi e del Padre. Dice Dio con le semplici parole della vita e del lavoro, parole profumate di sole e di sudore.
Non posso avere paura di un Dio così, che mi lavora con tutto il suo impegno, perché io mi gonfi di frutti succosi, frutti di festa e di gioia. Un Dio che mi sta addosso, mi tocca, mi conduce, mi pota. Un Dio che mi vuole lussureggiante. Non puoi avere paura di un Dio così, ma solo sorrisi.
Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio. Io e lui, la stessa cosa, stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Novità appassionata. Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io la vite, voi i tralci. Siamo prolungamento di quel ceppo, siamo composti della stessa materia, come scintille di un braciere, come gocce dell’oceano, come il respiro nell’aria. Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso l’ultimo mio tralcio, verso l’ultima gemma, che io dorma o vegli, e non dipende da me, dipende da lui. E io succhio da lui vita dolcissima e forte.
Dio che mi scorri dentro, che mi vuoi più vivo e più fecondo. Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte?
E il mio padre è il vignaiolo: un Dio contadino, che si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. A contemplarmi. Con occhi belli di speranza.
Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza; ha lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo. Qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Così il mio Dio contadino mi lavora, con un solo obiettivo: la fioritura di tutto ciò che di più bello e promettente pulsa in me.
Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima punta dell’ultima foglia. C’è un amore che sale nel mondo, che circola lungo i ceppi di tutte le vigne, nei filari di tutte le esistenze, un amore che si arrampica e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. «Siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). In una sorgente inesauribile, a cui puoi sempre attingere, e che non verrà mai meno.

di seguito il video del commento al vangelo di p. Maggi: