il commento al vangelo della domenica

i lupi sono più numerosi degli agnelli, ma non più forti
il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di pasqua (21 aprile 2018):
 

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In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. […]

Io sono il Pastore buono è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine, così amata e rassicurante, non è solo consolatoria, non ha nulla di romantico: Gesù è il pastore autentico, il vero, forte e combattivo, che non fugge a differenza dei mercenari, che ha il coraggio per lottare e difendere dai lupi il suo gregge.
Io sono il Pastore bello dice letteralmente il testo evangelico, e noi capiamo che la bellezza del pastore non sta nel suo aspetto esteriore, ma che il suo fascino e la sua forza di attrazione vengono dal suo coraggio e dalla sua generosità.
La bellezza sta in un gesto ribadito cinque volte oggi nel Vangelo: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Ma non per avere in cambio qualcosa, non per un mio vantaggio. Bello è ogni atto d’amore.
Io offro la vita è molto di più che il semplice prendersi cura del gregge.
Siamo davanti al filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera di Dio, il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita. E non so immaginare per noi avventura migliore: Gesù non è venuto a portare un sistema di pensiero o di regole, ma a portare più vita (Gv 10,10); a offrire incremento, accrescimento, fioritura della vita in tutte le sue forme.
Cerchiamo di capire di più. Con le parole Io offro la vita Gesù non intende il suo morire, quel venerdì, per tutti. Lui continuamente, incessantemente dona vita; è l’attività propria e perenne di un Dio inteso al modo delle madri, inteso al modo della vite che dà linfa al tralci, della sorgente che dà acqua viva.
Pietro definiva Gesù «l’autore della vita» (At 3,15): inventore, artigiano, costruttore, datore di vita. Lo ripete la Chiesa, nella terza preghiera eucaristica: tu che fai vivere e santifichi l’universo.

Linfa divina che ci fa vivere, che respira in ogni nostro respiro, nostro pane che ci fa quotidianamente dipendenti dal cielo.
Io offro la vita significa: vi consegno il mio modo di amare e di lottare, perché solo così potrete battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi.
Gesù contrappone la figura del pastore vero a quella del mercenario, che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge perché non gli importa delle pecore. Invece al pastore buono ogni pecora importa e ogni agnello, a Dio le creature stanno a cuore. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me. E io mi prenderò cura della tua felicità.
Ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Perché gli agnelli vengono, ma non da soli, portano un pezzetto di Dio in sé, sono forti della sua forza, vivi della sua vita.

 

il commento di ‘altranarrazione’

aprile 16, 2018

il buon pastore

Custodisce testimoniando la compassione di Dio e la sua preferenza per gli ultimi, non erogando servizi agli adulatori allo scopo di mantenerne il consenso.

Non guarda ai risultati, alle convenienze, agli opportunismi, ma ai bisogni e alle fragilità. Si occupa del malato, dell’emarginato, del reietto prima che dei gruppi organizzati.

Lascia chi cammina per raggiungere chi si è perso.

Lascia il popolo dei devoti per raggiungere quello dei crocifissi dal potere e dalla storia.

Lascia la moltitudine autonoma per il singolo che ha bisogno. Anche se appare inutile.

Cerca l’umanità ferita, smarrita, piegata prima di organizzare intrattenimenti più o meno spirituali per benpensanti e di conseguenza benestanti.

Non svuota la liturgia e i sacramenti separandoli dalla missione. Esce dalla chiesa per soccorrere e non per tornare a casa o ai propri divertimenti.

Prega nella quiete dello spirito per scoprire e rafforzare le istanze profetiche a difesa degli orfani e delle vedove di tutti i tempi. Sa che la contemplazione porta al dono di sé stessi, spezzando le catene che tengono l’uomo a servizio dell’inautenticità, mentre l’intimismo porta al dono per sé, conservando l’impassibilità davanti alle sofferenze degli altri.

Rifiuta e capovolge il paradigma elaborato dalle élite ed assorbito anche dalle classi popolari durante il non ancora interrotto sonno delle coscienze.

Parte dal basso, frequenta le  retrovie, le ultime file. Restituisce con l’attenzione la dignità che la logica competitiva infanga senza remore.

Ama ciò che non è amato.

Valorizza ciò che viene dimenticato.

Si allea con gli sconfitti e costruisce la salvezza con i condannati.

il commento al vangelo della domenica

 
testimoni del risorto con lo stupore dei bambini
commento di p. E. Ronchi al vangelo della terza domenica di pasqua (15 aprile 2018):

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In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro (…).

Non sappiamo dove sia Emmaus, quel nome è un simbolo di tutte le nostre strade, quando qualcosa sembra finire, e si torna a casa, con le macerie dei sogni. Due discepoli, una coppia, forse un uomo e una donna, marito e moglie, una famigliola, due come noi: «Lo riconobbero allo spezzare del pane», allo spezzare qualcosa di proprio per gli altri, perché questo è il cuore del Vangelo. Spezzare il pane o il tempo o un vaso di profumo, come a Betania, e poi condividere cammino e speranza.
È cambiato il cuore dei due e cambia la strada: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme». L’esilio triste diventa corsa gioiosa, non c’è più notte né stanchezza né città nemica, il cuore è acceso, gli occhi vedono, la vita è fiamma. Non patiscono più la strada: la respirano, respirando Cristo. Diventano profeti.
Stanno ancora parlando e Gesù di persona apparve in mezzo a loro, e disse: Pace a voi. Lo incontri e subito sei chiamato alla serenità: è un Signore che bussa alla mia vita, entra nella mia casa, e il suo saluto è un dono buono, porta pace, pace con me stesso, pace con chi è vicino e chi è lontano. Gesù appare come un amico sorridente, a braccia aperte, che ti accoglie con questo regalo: c’è pace per te.
Mi colpisce il lamento di Gesù «Non sono un fantasma» umanissimo lamento, c’è dentro il suo desiderio di essere accolto come un amico che torna da lontano, da stringere con slancio, da abbracciare con gioia. Non puoi amare un fantasma. E pronuncia, per sciogliere dubbi e paure, i verbi più semplici e più familiari: «Guardate, toccate, mangiamo insieme!» gli apostoli si arrendono ad una porzione di pesce arrostito, al più familiare dei segni, al più umano dei bisogni.
Lo conoscevano bene, Gesù, dopo tre anni di strade, di olivi, di pesci, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. E mi consola la fatica dei discepoli a credere. È la garanzia che la Risurrezione di Gesù non è un’ipotesi consolatoria inventata da loro, ma qualcosa che li ha spiazzati.
Il ruolo dei discepoli è aprirsi, non vergognarsi della loro fede lenta, ma aprirsi con tutti i sensi ad un gesto potente, una presenza amica, uno stupore improvviso.
E conclude oggi il Vangelo: di me voi siete testimoni. Non predicatori, ma testimoni, è un’altra cosa. Con la semplicità di bambini che hanno una bella notizia da dare, e non ce la fanno a tacere, e gli fiorisce dagli occhi. La bella notizia: Gesù non è un fantasma, è potenza di vita; mi avvolge di pace, di perdono, di risurrezione. Vive in me, piange le mie lacrime e sorride come nessuno. Talvolta vive “al posto mio” e cose più grandi di me mi accadono, e tutto si fa più umano e più vivo.

 

il commento al vangelo della domenica


📖 Non abbiate paura! 
Gesù è risorto! 
commento al vangelo  della domenica di pasqua (1 aprile 2018) di Enzo Bianchi:
 


Mc 16,1-8

1 Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. 2Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. 3Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?». 4Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande. 5Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. 6Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. 7Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto»». 8Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite.

Da tre giorni seguiamo Gesù nella sua passione, morte e sepoltura, e ora siamo posti davanti all’indicibile, all’umanamente impossibile, a un evento che appare incredibile al mondo. Un evento davanti al quale ciascuno di noi nella santa notte di Pasqua sente il cuore oscillare tra adesione al racconto ascoltato e dubbio, tra fede e incredulità. Ma questa nostra condizione non è diversa da quella dei discepoli e delle discepole in quel terzo giorno dopo la morte di Gesù. Perché la morte è la morte, è la fine concreta della vita, delle relazioni, degli sguardi, degli affetti: quando uno muore, muore interamente e tutto muore con lui…

Il vangelo secondo Marco, più degli altri, ci mette davanti la morte di Gesù come morte fallimentare, enigma che anche per Gesù è diventato faticosamente mistero. La morte di Gesù è apparsa la smentita di tutto quello che egli aveva detto e fatto. Predicava la venuta del regno di Dio: e ora dov’era questo regno, dov’era apparso? Aveva guarito e liberato alcune persone: ma ora malati, prigionieri, disgraziati continuavano a esserlo come prima. Aveva amato degli uomini e delle donne, li aveva resi una comunità: e ora se n’erano tutti fuggiti, e quella baracca di comunità appariva caduta a pezzi…

Il giorno successivo al sabato è stato per quegli uomini e per quelle donne un’aporia, un vuoto, uno spazio in cui non si trovavano più i fili del senso e del significato di ciò che avevano vissuto. E per alcuni di loro – Pietro, il discepolo amato, Maria di Magdala – era avvenuta la fine di una vicenda di adesione, di convivenza piena di amore. Quel sabato, che noi chiamiamo sabato santo, appariva per loro un inferno nel quale la potenza del male, del daimónion e del diábolos sembrava regnare ancora, anzi sembrava essere stata capace di spegnere ogni speranza. È stato un sabato di silenzio estremo. Nulla da dire, per l’evangelista nulla da raccontare: quell’evento della morte e sepoltura di Gesù faceva terminare una vita? No, la vita autentica che avevano vissuto, tra fatiche, contraddizioni e inadempienze, era stata una vita condivisa con Gesù, piena di senso: una vita in cui l’amore vissuto non poteva spegnersi!

Quando quel sabato è passato, nelle ore dopo il tramonto Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome, alcune donne discepole, vanno a comprare oli, balsamo, profumi per ungere il corpo cadavere di Gesù deposto nella tomba. Maria di Magdala aveva accompagnato il corpo morto di Gesù dalla croce alla tomba e aveva osservato bene quell’antro. Ora, al mattino presto, le donne discepole tornano alla tomba quando il sole si è alzato. Quale sole si è alzato? Il sole che era spuntato dall’alto e aveva visitato il suo popolo (cf. Lc 1,78)? È “il sole di giustizia” (Ml 3,20) che si è già alzato? I pensieri di queste donne vanno alla pietra, la grande pietra messa come porta, come custodia all’antro, ma ormai vicino alla tomba vedono la pietra già rotolata via. La tomba dunque è aperta! Come? Da chi? Ed ecco, le donne “videro un giovane, seduto alla destra, vestito d’una veste bianca, e furono colte da stupore” (Mc 16,5).

Pensavano di vedere il cadavere, e invece vedono un giovane.

Pensavano di vedere un lenzuolo che avvolgeva il morto, e invece vedono un vivente vestito di bianco.

Pensavano di vedere un morto disteso a terra, e invece vedono un uomo seduto alla destra: alla destra di chi? Qualcuno ha posto questo giovane alla sua destra, dicendogli: “Siedi alla mia destra” (Sal 110,1).

Le donne sono sorprese, alla lettera “sono colte da stupore” (exethambéthesan). Marco conosce un ricco vocabolario per parlare dello spavento: in pochi versetti usa almeno quattro termini per descriverlo. Qui, per l’appunto, registra spavento-stupore. Subito dopo il giovane parla alle donne ripetendo lo stesso verbo: “Non siate spaventate, stupite!”. Poi continua: “Voi cercate Gesù il Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui!” (Mc 16,6). Ecco la voce dell’interprete apparso, la voce del messaggero di Dio, la voce di colui che legge a voce alta ciò che le donne vedono senza saper esprimere. È una voce che viene da Dio, è la voce del Signore seduto alla destra di Dio, è la voce di chi ormai è stato tolto, come in un’ascensione verso il cielo, dalla mano di Dio che l’ha preso con sé e l’ha reso vivente per sempre.

La voce invita innanzitutto a non spaventarsi, a non avere paura. Noi abbiamo paura, anzi siamo tentati dalla paura: infatti, la maggior parte delle paure ce le inventiamo e nascono dalla nostra immaginazione, nutrita da noi stessi. È significativo che il primo nostro sentimento, testimoniato e confessato dalla Bibbia nell’in-principio, sia la paura di Dio. Alla domanda di Dio: “Adamo, dove sei?”, l’uomo risponde: “Ho ascoltato il tuo passo e ho avuto paura!” (cf. Gen 3,9-10). Paura di Dio, e pensate quanti sforzi per predicare un Dio che incutesse paura; quante azioni, anche da parte della chiesa, per imporre un Dio che facesse paura agli uomini e alle donne…

Vi è poi la paura gli uni degli altri, a cominciare dalla vita familiare, nella quale, appaiono, nascono e poi crescono, innestandosi per sempre, delle paure: a volte motivate, a volte create da noi stessi per giustificare le nostre vigliaccherie, le nostre incapacità di essere responsabili. Non dimentichiamolo: la paura è sempre contro la responsabilità e nasce dalla mancanza dell’esercizio della coscienza, della vita interiore. E così paura della vita, del futuro, della terra… Si ricordi, al riguardo, un passo decisivo della Lettera agli Ebrei, quello in cui l’autore dice che “per paura della morte, noi uomini e donne siamo alienati, soggetti a schiavitù per tutta la vita” (cf. Eb 2,15), dunque indotti al male, al peccato. E sovente queste paure portano all’arroganza che cerca solo di nasconderle. Ecco perché la voce dell’interprete della tomba vuota dice alle donne: “Non abbiate paura!”. È la condizione necessaria per vivere, per vivere con gli altri discepoli e discepole; e così, vivendo insieme, poter credere e sperare.

Poter credere l’indicibile: il crocifisso nella vergogna e nell’infamia, è alla destra del Padre, è vivente è stato rialzato dalla morte! Ne dà testimonianza il luogo della deposizione, che ormai è un non-luogo. Proprio Maria di Magdala, che il venerdì sera “stava a guardare dove Gesù veniva deposto” (cf. Mc 15,47), ora vede il vuoto. Sì, è venuta l’ora in cui lo Sposo è stato tolto (cf. Mc 2,20), come aveva detto Gesù. È venuta l’ora in cui il Nazareno, il Crocifisso, è stato rialzato dalla tomba, è stato risuscitato da Dio e ormai vive in Dio come risorto da morte. È venuta l’ora, per Maria e le altre donne, di andare dai discepoli, specialmente da Pietro, per dire loro che Gesù li precede in Galilea: là lo vedranno tutti, le discepole e i discepoli, come Gesù aveva promesso (cf. Mc 16,7). Tutti devono andare semplicemente dietro a Gesù (opíso mou: Mc 1,17; 8,33.34), tutti devono seguire Gesù (cf. Mc 1,18; 2,14-15, ecc.), perché egli cammina davanti, apre la strada. Basta stargli dietro: fino alla croce, ma anche fino alla destra del Padre!

Ed ecco la conclusione del vangelo secondo Marco: un finale deludente, tanto che forse in seguito si è pensato di aggiungervi almeno tre finali diversi, in tre diversi manoscritti (cf. Mc 16,9-20). Ma la conclusione originaria è la seguente: le donne “uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano tremanti e fuori di sé. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura (ephoboûnto gár)” (Mc 16,8). Paura, tremore, ékstasis, stupore! Difficile spiegare questo finale e constatare la paura? Sì, possiamo dire poco…

Ma questo versetto è più per noi che per le donne discepole: noi abbiamo paura della resurrezione di Gesù? Ne siamo stupiti? Abbiamo timore, il santo timore di Dio, nell’annunciarla? Se abbiamo questo timore, certo non cadiamo nell’arroganza di chi supplisce alla propria debolezza di fede gridando la resurrezione di Gesù… Pensiamo a noi, alla nostra chiesa: c’è chi ha talmente paura da non dirsi ciò che è, un discepolo di Gesù; e c’è chi è arrogante e vorrebbe imporre agli altri una fede che egli non sa portare. Interroghiamoci dunque sulla nostra fede nella resurrezione di Gesù e accogliamo la parola: “Non temete, non abbiate paura! Gesù il Nazareno, il Crocifisso, è risorto!”.

il commento al vangelo della domenica

“guardare la croce con gli occhi del centurione”

 

domenica delle Palme (Anno B) (25/03/2018): il commento di p. Ermes Ronchi:

  Mc 14,1-15,47

Gesù entra a Gerusalemme, non solo un evento storico, ma una parabola in azione. Di più: una
trappola d’amore perché la città lo accolga, perché io lo accolga. Dio corteggia la sua città, in molti modi. Viene come un re bisognoso, così povero da non possedere neanche la più povera bestia da soma. Un Dio umile che non si impone, non schiaccia, non fa paura. «A un Dio umile non ci si abitua mai» (papa Francesco). Il Signore ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito. Ha bisogno di quel puledro d’asino, di me, ma non mi ruberà la vita; la libera, invece, e la fa diventare il meglio di ciò che può diventare. Aprirà in me spazi al volo e al sogno.

E allora: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. È straordinario poter dire: Dio viene. In questo paese, per queste strade, in ogni casa che sa di pane e di abbracci, Dio viene, eternamente incamminato, viaggiatore dei millenni e dei cuori. E non sta lontano.

La Settimana Santa dispiega, a uno a uno, i giorni del nostro destino; ci vengono incontro lentamente, ognuno generoso di segni, di simboli, di luce. La cosa più bella da fare per viverli bene è stare accanto alla santità profondissima delle lacrime, presso le infinite croci del mondo dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Stare accanto, con un gesto di cura, una battaglia per la giustizia, una speranza silenziosa e testarda come il battito del cuore, una lacrima raccolta da un volto.

Gesù entra nella morte perché là è risucchiato ogni figlio della terra. Sale sulla croce per essere con me e come me, perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all’uomo che è in croce. Perché l’amore conosce molti doveri, ma il primo è di essere con l’amato, stringersi a lui, stringerlo in sé, per poi trascinarlo in alto, fuori dalla morte.

Solo la croce toglie ogni dubbio. Qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato in una falsa idea di Dio. La croce è l’abisso dove un amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa. L’ha capito per primo un pagano, un centurione esperto di morte: costui era figlio di Dio. Che cosa l’ha conquistato? Non ci sono miracoli, non risurrezioni, solo un uomo appeso nudo nel vento. Ha visto il capovolgimento del mondo, dove la vittoria è sempre stata del più forte, del più armato, del più spietato. Ha visto il supremo potere di Dio che è quello di dare la vita anche a chi dà la morte; il potere di servire non di asservire; di vincere la violenza, ma prendendola su di sé.

Ha visto, sulla collina, che questo mondo porta un altro mondo nel grembo. E il Crocifisso ne possiede la chiave.

fonte:www.qumran2.net

di seguito il video del commento di p. Maggi:

il commento al vangelo della domenica

la vita come un chicco di grano
il commento di p. E. Ronchi al vangelo della quinta domenica di quaresima (18 marzo, 2018):
Gv 12,20-33

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In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori […].

Vogliamo vedere Gesù. Grande domanda dei cercatori di sempre, domanda che è mia. La risposta di Gesù dona occhi profondi: se volete capire me, guardate il chicco di grano; se volete vedermi, guardate la croce. Il chicco di grano e la croce, sintesi umile e vitale di Gesù. Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Una frase difficile e anche pericolosa se capita male, perché può legittimare una visione doloristica e infelice della religione.
Un verbo balza subito in evidenza per la sua presa emotiva: se non muore, se muore. E pare oscurare tutto il resto, ma è il miraggio ingannevole di una lettura superficiale. Lo scopo verso cui la frase converge è “produrre”: il chicco produce molto frutto. L’accento non è sulla morte, ma sulla vita. Gloria di Dio non è il morire, ma il molto frutto buono. Osserviamo un granello di frumento, un qualsiasi seme: sembra un guscio secco, spento e inerte, in realtà è una piccola bomba di vita. Caduto in terra, il seme non marcisce e non muore, sono metafore allusive. Nella terra non sopraggiunge la morte del seme, ma un lavorio infaticabile e meraviglioso, è il dono di sé: il chicco offre al germe (ma seme e germe non sono due cose diverse, sono la stessa cosa) il suo nutrimento, come una madre offre al bimbo il suo seno. E quando il chicco ha dato tutto, il germe si lancia verso il basso con le radici e poi verso l’alto con la punta fragile e potentissima delle sue foglioline. Allora sì che il chicco muore, ma nel senso che la vita non gli è tolta ma trasformata in una forma di vita più evoluta e potente.
La seconda immagine dell’auto-presentazione di Gesù è la croce: quando sarò innalzato attirerò tutti a me. Io sono cristiano per attrazione, dalla croce erompe una forza di attrazione universale, una forza di gravità celeste: lì è l’immagine più pura e più alta che Dio ha dato di se stesso.
Con che cosa mi attira il Crocifisso? Con i miracoli? Con lo splendore di un corpo piagato? Mi attira con la più grande bellezza, quella dell’amore. Ogni gesto d’amore è sempre bello: bello è chi ami e ti ama, bellissimo è chi, uomo o Dio, ti ama fino all’estremo. Sulla croce l’arte divina di amare si offre alla contemplazione cosmica. «A un Dio umile non ci si abitua mai» (papa Francesco), a questo Dio capovolto che scompiglia le nostre immagini ancestrali, tutti i punti di riferimento con un chicco e una croce, l’umile seme e l’estremo abbassamento: Dio ama racchiudere / il grande nel piccolo: / l’universo nell’atomo / l’albero nel seme / l’uomo nell’embrione / la farfalla nel bruco / l’eternità nell’attimo / l’amore in un cuore / se stesso in noi.

(Letture: Geremia 31,31-34; Salmo 50; Ebrei 5,7-9; Giovanni 12,20-33)

il commento al vangelo della domenica

 

DIO HA MANDATO IL FIGLIO PERCHÉ IL MONDO SI SALVI PER MEZZO DI LUI

 

commento al vangelo della quarta domenica di quaresima (11 marzo 2018) di p. A. Maggi:

Gv 3,14-21

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Nel capitolo 3 del suo vangelo Giovanni presenta il dialogo tra Gesù e Nicodemo il fariseo, ma è un dialogo tra sordi perché Gesù parla di nuovo e il fariseo, il fariseo l’uomo della tradizione, l’uomo della legge non comprende e non fa altro che obiettare: come può? Come può? Ebbene a Nicodemo Gesù ricorda un episodio famoso che c’è nel libro dei Numeri di un castigo che Dio ha dato al popolo che si era rivoltato contro di lui che aveva protestato. Aveva mandato dei serpenti velenosi che mordendo li uccidevano e poi, per intercessione di Mosè, aveva fatto innalzare un serpente di rame, di bronzo che li salvava. Si legge nel libro dei Numeri “Il Signore disse a Mosè: fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà resterà in vita”. Ebbene Gesù si riferisce a questo episodio, ma soltanto per la parte della salvezza, non per la parte del castigo perché in Gesù Dio non castiga, ma a tutti offre amore, offre salvezza.
Allora Gesù dice a Nicodemo: come Mosè innalzò il serpente nel deserto, bisogna che sia innalzato il figlio dell’uomo, Gesù è la pienezza dell’umanità che coincide con la condizione divina, perché chiunque crede in lui, in lui chi? Nel figlio dell’uomo, cioè chiunque aspira alla pienezza umana che risplende in Gesù e risplende nel momento della croce, quando Gesù mostra la pienezza dell’amore suo e del Padre abbia la vita eterna. Gesù si rivolge a un fariseo, i quali credevano nella vita eterna, ma come un premio nel futuro per la buona condotta tenuta nel presente. Ebbene Gesù è per la prima volta che nel vangelo parla di vita eterna, ma non ne parla come un premio nel futuro, ma con una possibilità reale nel momento presente. La vita eterna non sarà nel futuro, ma è, dice chiunque crede in lui, credere in lui significa aver dato adesione a Gesù, vivere come lui per il bene dell’uomo, ha la vita eterna. Vita che si chiama eterna non tanto per la durata indefinita, ma una
qualità indistruttibile, e Gesù ne parlerà sempre al presente. La vita eterna è una possibilità di pienezza di vita che è già ora a disposizione delle persone.
Gesù affermando questo sostituisce la funzione che era attribuita alla legge. Era l’osservanza della legge quella che garantiva poi come premio la vita eterna. Bene con Gesù non c’è più l’osservanza a una legge, ma l’adesione a una persona. E continua Gesù in un crescendo di offerta d’amore. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Gesù è il dono d’amore di Dio per tutta l’umanità, un amore che desidera manifestarsi, che desidera comunicarsi.
E Gesù smentisce quell’immagine che è cara a tutte le religioni di un Dio che giudica, di un Dio che condanna, no. Il Dio di Gesù, il Padre è soltanto amore e offerta d’amore. Sta poi all’uomo accogliere o no questo amore. Infatti afferma Gesù Dio infatti non ha mandato il figlio del mondo per giudicare, per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Non è, come credeva il fariseo Nicodemo, un messia venuto per separare puri da impuri, santi da peccatori, questo furore ideologico che tutte le religioni hanno di dividere l’umanità, ma un’offerta d’amore a parte di tutti quanti perché il mondo sia salvo, questo è il disegno d’amore di Dio sull’umanità.
E, afferma Gesù, che chi crede lui, nel figlio dell’uomo, non va incontro a nessun giudizio e nessuna condanna. Quindi ci si chiede da dove viene questa immagine nefasta di un Dio che giudica, di un Dio che condanna quando Gesù lo smentisce? Ma chi non crede è già stato giudicato e condannato perché non ha creduto nel nome dell’unigenito figlio di Dio. Allora è chiaro: questo giudizio non viene da Dio, ma è l’uomo che, con le scelte che fa, accoglie questa vita o rifiuta questa vita e il rifiuto della vita è la pienezza della morte.
Gesù chiarisce ancora meglio il suo episodio e lo fa con un’immagine che tutti possono comprendere che il giudizio è questo: è un giudizio basato sulla luce. La luce è positiva, la luce fa bene, la luce all’uomo è necessaria per vivere. La luce fa male soltanto quando l’uomo vive nelle tenebre, nel buio. Quando si sta molto tempo al chiuso anche un piccolo spiraglio di luce dà fastidio, fa male. Allora Gesù afferma il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagie. Allora chi quotidianamente, dando adesione a Gesù, compie azioni che comunicano vita, restituiscono vita, rallegrano la vita degli altri, diventa una persona splendida, cioè luminosa, piena di luce e quando incontra la luce la coglie. Ma chi invece egoisticamente pensa soltanto ai propri bisogni e alle proprie necessità vive nel suo piccolo mondo ti tenebre e, quando arriva la luce, questa gli dà fastidio e si rintana ancora più nelle tenebre.
E conclude Gesù chiunque infanti fa il male odia la luce, si sa un delinquente detesta la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate, letteralmente scoperte. Ma in contrapposizione a fare il male Gesù non parla di fare il bene come ci saremmo aspettati. Invece dice invece chi fa la verità, la verità va fatta, la verità non è una dottrina, ma un atteggiamento benevolo d’amore verso gli altri. Quello che separa gli uomini da Dio non è una dottrina, ma la condotta. Invece che fa la verità viene verso la luce perché appaia chiaramente che le sue opere sono fatte in Dio, perché è Dio che fa il bene dell’uomo.

il commento al vangelo della domenica

“se mercanteggiamo con lui, Dio ci rovescia il tavolo”

commento al vangelo della terza domenica di quaresima (3 marzo 2018) di p. E. Ronchi:

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Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. […]

Gesù entra nel tempio: ed è come entrare nel centro del tempo e dello spazio, nel fulcro attorno al quale tutto ruota. Ciò che ora Gesù farà e dirà nel luogo più sacro di Israele è di capitale importanza: ne va di Dio stesso. Gesù si prepara una frusta e attraversa la spianata come un torrente impetuoso, travolgendo uomini, animali, tavoli e monete. I tavoli rovesciati, le sedie capovolte, le gabbie portate via mostrano che il capovolgimento portato da Gesù è totale.
Vendono buoi per i ricchi e colombe per i sacrifici dei poveri. Gesù rovescia tutto: è finito il tempo del sangue per dare lode a Dio. Come avevano gridato invano i profeti: io non bevo il sangue degli agnelli, io non mangio la loro carne; misericordia io voglio e non sacrifici (Os 6,6). Gesù abolisce, con il suo, ogni altro sacrificio; il sacrificio di Dio all’uomo prende il posto dei tanti sacrifici dell’uomo a Dio.
Gettò a terra il denaro, il dio denaro, l’idolo mammona, vessillo innalzato sopra ogni cosa, installato nel tempio come un re sul trono, l’eterno vitello d’oro è sparso a terra, smascherata la sua illusione.
E ai venditori di colombe disse: non fate della casa del Padre, una casa di mercato. Dio è diventato oggetto di compravendita. I furbi lo usano per guadagnarci, i devoti per guadagnarselo. Dare e avere, vendere e comprare sono modi che offendono l’amore. L’amore non si compra, non si mendica, non si impone, non si finge.
Non adoperare con Dio la legge scadente del baratto dove tu dai qualcosa a Dio perché lui dia qualcosa a te. Come quando pensiamo che andando in chiesa, compiuto un rito, accesa una candela, detta quella preghiera, fatta quell’offerta, abbiamo assolto il nostro dovere, abbiamo dato e possiamo attenderci qualche favore in cambio.
Così siamo solo dei cambiamonete, e Gesù ci rovescia il tavolo. Se crediamo di coinvolgere Dio in un gioco mercantile, dobbiamo cambiare mentalità: Dio non si compra ed è di tutti. Non si compra neanche a prezzo della moneta più pura. Dio è amore, chi lo vuole pagare va contro la sua stessa natura e lo tratta da prostituta. «Quando i profeti parlavano di prostituzione nel tempio, intendevano questo culto, tanto pio quanto offensivo di Dio» (S. Fausti): io ti do preghiere e offerte, tu mi dai lunga vita, fortuna e salute.
Casa del Padre, sua tenda non è solo l’edificio del tempio: non fate mercato della religione e della fede, ma non fate mercato dell’uomo, della vita, dei poveri, di madre terra. Ogni corpo d’uomo e di donna è divino tempio: fragile, bellissimo e infinito. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita. Perché con un bacio Dio le ha trasmesso il suo respiro eterno.

nel video a seguire il commento al vangelo di p. Maggi:

il commento al vangelo della domenica

 

QUESTI È IL FIGLIO MIO, L’AMATO

commento al vangelo della seconda domenica  di quaresima (25 febbraio 2018) di p. A. Maggi:

Mc 9,2-10

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Nel vangelo della domenica scorsa, la prima domenica di Quaresima, la liturgia ci presentava l’inizio del vangelo di Marco con l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto e scriveva Marco che Gesù rimase nel deserto quaranta giorni tentato dal satana. L’evangelista non intende presentare un episodio della vita di Gesù, ma riassume e anticipa tutta l’esistenza di Gesù. Il numero quaranta indica una generazione, quindi per tutta la vita Gesù è stato tentato dal satana. Ma chi è il satana? Si scoprirà andando avanti nel vangelo. Il satana in questo vangelo non è un agente esterno, spirituale, nemico di Dio, nemico dell’uomo, ma è il tentatore che fa parte proprio della cerchia dei discepoli di Gesù. Infatti quando si arriva il capitolo ottavo Gesù, quando per la prima volta questi discepoli, che non hanno capito chi stanno seguendo, loro sono sicuri di seguire il messia trionfatore, il figlio di Davide, quello che con la forza andrà a conquistare il potere e inaugurare il regno di Israele. Non sanno che invece Gesù non è il figlio di Davide, ma è il figlio di Dio, colui che con amore va a inaugurare il regno di Dio, cioè l’amore universale per tutti i popoli, e questo purtroppo porterà l’opposizione, la persecuzione da parte delle massime istituzioni religiose che lo ammazzeranno. Quindi Gesù per la prima volta annuncia che sarà ammazzato. Ebbene Simon Pietro afferra Gesù, lo sgrida, esattamente come si usava con i demoni, rimproverandolo di questo perché il messia non può morire. Simone vuole che Gesù conquisti il potere. Ebbene in questo episodio drammatico Gesù si rivolge al discepolo dicendogli “Vattene satana, torna a metterti dietro di me”. Ecco chi è il satana: colui che si oppone al disegno d’amore di Dio sull’umanità. Ebbene l’episodio di questa seconda domenica di Quaresima è l’episodio della trasfigurazione ed è in stretta relazione con quanto abbiamo visto. Vediamo cosa ci scrive l’evangelista che Sei giorni dopo, la data è importante, il sesto giorno è il giorno della creazione dell’uomo, è il giorno in cui Dio sul Sinai manifesta la sua gloria. In Gesù si manifesta la piena realizzazione del disegno di Dio sull’umanità. Gesù prese con sé, e prende i tre discepoli ai quali ha messo un soprannome negativo. Simone, al quale ha messo il nome di Pietro, Pietro significa il testardo, il cocciuto, colui che sarà sempre all’opposizione. E poi i due discepoli Giacomo e Giovanni fanatici, esaltati, arroganti, ambiziosi, ai quali me tra il nome “figli del tuono”, in aramaico Boanerges, dà l’idea proprio del tuono, del fulmine, e autoritari. Saranno quelli che, per la loro ambizione di avere i primi posti nel regno di Gesù, rischieranno di frantumare la comunità. Li condusse su un alto monte, il monte indica la condizione divina, e lì si trasfigura davanti a loro. Gesù mostra che il passaggio attraverso la morte non è la distruzione, come le loro pensavano e si opponevano alla morte di Gesù, ma la piena realizzazione della persona. Scrive l’evangelista, può sembrare un’ingenuità, nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche, cosa vuol dire? Che questa condizione non è frutto dello sforzo umano, ma effetto dell’azione divina. Quindi la morte non è una distruzione, ma un potenziamento della persona. Ebbene in questo momento apparve, scrive l’evangelista, Elia con Mosè, cosa sono Elia e Mosè? Mosè lo sappiamo è il grande legislatore, quello dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, ed Elia è il profeta che con la violenza impose l’obbedienza a questa alleanza. Questi non hanno nulla a che dire ai discepoli di Gesù. Infatti conversano con Gesù. Ed ecco che di nuovo Simone, che ha il soprannome di Pietro, cioè il testardo, l’oppositore, continua nella sua azione di satana tentatore. Che cosa succede? Prendendo la parola letteralmente reagì Pietro e disse Gesù Rabbì. È strano che si rivolge a Gesù chiamandolo rabbì. In questo vangelo chiamano Gesù rabbì i due traditori, Giuda e Pietro. Rabbì significa colui che insegna secondo la tradizione, colui che insegna a osservare la legge, dice Rabbì è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, perché tre capanne? Qual è la tentazione? C’era una festa nel mondo ebraico e c’è tuttora, la festa delle capanne, che ricordava l’antica liberazione dalla schiavitù egiziana e per una settimana si viveva sotto le capanne. Ebbene si credeva che il messia, il nuovo liberatore si sarebbe manifestato nel giorno in cui si commemorava l’antica liberazione. Allora il ruolo di Pietro come satana tentatore e dice a Gesù: questo è il messia che io voglio, che si deve manifestare. E dice facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia. Al posto centrale non c’è Gesù ma c’è Mosè. Quando ci sono tre personaggi il più importante viene sempre collocato al centro. Ebbene per Pietro al centro non c’è Gesù. La tentazione che sta facendo Pietro a Gesù questo è il messia che io voglio, il messia secondo la legge di Mosè imposta con la violenza come ha fatto il profeta Elia. Ebbene nel momento che il diavolo tentatore, il Pietro, il satana continua a tentare Gesù ecco che venne una nube, è la presenza di Dio, e una voce, la voce di Dio, questi è il figlio mio l’amato colui che mi assomiglia ed è l’imperativo lui ascoltate. Non ascoltate né la legge, Mosè, né Elia, né i profeti, ma soltanto il figlio. Cosa significa? Tutto quello che è scritto nella legge e nei profeti che coincide con l’insegnamento e la vita di Gesù naturalmente va accolto, ma tutto quello che si discosta, tutto questo va tralasciato. Ebbene la reazione di questi tre discepoli qual è? È di sgomento. Guardandosi attorno non videro più nessuno se non Gesù solo con loro. Cercano ancora i loro punti di riferimento, cercano ancora la tradizione, cercano ancora Mosè e cercano ancora Elia e in realtà c’è Gesù solo. E questa delusione di Gesù che si distanzia dalla legge, si distanzia dalla violenza, sarà quella che poi porterà Pietro purtroppo a rinnegare completamente il suo maestro.

 

 

 

 

il commento al vangelo della domenica

 GESÙ, TENTATO DA SATANA, È SERVITO DAGLI ANGELI

commento al vangelo della prima domenica di quaresima (18 febbraio 2018) di p. Maggi:

Mc 1, 12-15

In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

Il vangelo di Marco nel primo capitolo dal versetto 14 presenta l’inizio dell’attività di Gesù. Vediamo, sono due versetti, ma molto ricchi ed efficaci. Scrive l’evangelista Dopo che Giovanni, è Giovanni Battista, fu arrestato, perché fu arrestato Giovanni Battista? Nel capitolo sesto poi Marco racconterà il perché Giovanni il Battista che denunciava il re che s’era preso per moglie la sposa legittima di suo fratello, ma c’è un’altra versione che non contrasta, ma anzi la completa, e la troviamo nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio ed è molto molto interessante, ci fa comprendere il motivo, il perché dell’uccisione di Giovanni Battista. Scrive Giuseppe Flavio che “Quando altri si affollavano attorno a lui perché con i suoi sermoni erano giunti al più alto grado”, quindi l’annuncio di Giovanni Battista ha raggiunto tutti i gradi della società, “Erode si allarmò”. Giovanni ha annunciato un messaggio di cambiamento, e chi detiene il potere non desidera cambiare, è la gente che vuole cambiare, ma i potenti no, perché? “Un’eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi poteva portare a qualche forma di sedizione perché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero”. Ed ecco il motivo che ci dice Giuseppe Flavio “Erode perciò decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene”. Quindi secondo Giuseppe Flavio Giovanni Battista è stato assassinato da Erode, il che non esclude anche la motivazione di Marco, perché la sua popolarità portava a un cambiamento nella società, e quindi Erode questo qui non lo voleva. Ma l’evangelista ci denuncia la stupidità del potere: ogni qual volta nella storia i potenti soffocano o eliminano una voce di denuncia, ebbene Dio ne suscita una ancora più grande. E quindi messa a tacere la voce di Giovanni Battista ecco che inizia la voce di Gesù molto, molto più potente. Allora Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea. Gesù si trovava in Giudea per il battesimo, ma questa regione tanto santa dove c’era Gerusalemme, la capitale con la casa di Dio nel tempio, tanto santa quanto pericolosa e assassina, è un luogo a rischio per Gesù, per cui Gesù va al nord in questa regione di cafoni, di bifolchi, la Galilea, e lì inizia la sua attività. Si recherà poi in Giudea soltanto alla fine per scontrarsi con l’istituzione sacerdotale e religiosa a Gerusalemme e lì essere ammazzato. Quindi Gesù andò nella Galilea proclamando il vangelo di Dio. Il termine vangelo, un termine greco che significa la buona notizia, sembra essere stato coniato in questo caso dall’evangelista per indicare il messaggio di Gesù. L’evangelista ha iniziato il suo libro, il suo racconto scrivendo “Inizio del vangelo”, cioè inizio della buona notizia, “di Gesù Cristo, figlio di Dio”. Qui l’evangelista scrive proclamando il vangelo di Dio. Prima ha detto il vangelo di Gesù Cristo, ora il vangelo di Dio, con questa maniera l’evangelista vuole identificare Gesù e Dio. Non si possono separare l’uno dall’altro: Dio si esprime, si manifesta nel suo figlio, in Gesù, e qual è questa buona notizia? La scopriremo lungo tutto il vangelo. È un Dio che non è buono, è esclusivamente buono e soprattutto, e questo sarà il motivo di contrasto con i discepoli, con la famiglia e con la popolazione, con l’autorità un amore universale, un amore che non si limita a un popolo prediletto, privilegiato, ma un amore che non riconosce quei confini che le nazioni, le religioni, le morali mettono. Quindi Gesù inizia proclamando questa buona notizia e diceva: “il tempo è compiuto”, il tempo dell’alleanza tra Dio e il suo popolo che non aveva dato purtroppo frutti perché Israele era diventata una nazione come tutte le altre, come le nazioni pagane con l’aggravante che l’ingiustizia si perpetrava in nome di Dio. Allora Gesù dice il tempo è caduto cioè è compiuto, è scaduto, e il regno di Dio è vicino, che cos’è questo “il regno di Dio”? Dio non voleva la monarchia per il suo popolo e dopo l’esperienza drammatica della monarchia con un re peggio degli altri e la monarchia si era praticamente dissolta nel popolo era arrivata l’attesa di un regno dove fosse Dio colui che governava. Ebbene questo è l’annuncio di Gesù: il regno di Dio è vicino. Ma come governa Dio? Dio non governa emanando leggi che i suoi sudditi devono osservare, ma Dio governa comunicando il suo spirito, la sua stessa capacità d’amore, l’accoglienza di questo amore. Il regno di Dio nel vangelo è una società alternativa, dove anziché accumulare per sé si condivide per gli altri, dove anziché comandare ci si mette al servizio. È vicino, perché non è arrivato? Perché per arrivare non scende dall’alto, c’è bisogno di un cambiamento, di una collaborazione da parte degli uomini. Ecco perché dice convertitevi e l’evangelista usa il verbo che non indica una conversione religiosa o ritorno a Dio. Con Gesù non c’è da ritornare a Dio, perché Dio è qui, ma c’è da accoglierlo e con lui e come lui andare verso gli altri. Allora adopera il verbo che indica un cambiamento di mentalità che incide profondamente nel comportamento, quindi cambiate vita, cambiate vita, convertitevi e credete nella buona notizia. Ecco questa è l’immagine di speranza, è l’immagine di certezza, credete che si può realizzare una società alternativa, credetelo fino in fondo perché questa è la buona notizia e la buona notizia è la risposta di Dio al desiderio di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro.

il commento al vangelo della domenica

LA LEBBRA SCOMPARVE DA LUI ED EGLI FU PURIFICATO

commento al vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (11 febbraio 2018) di p. A. Maggi:

Mc 1,40,45

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

La reazione dei presenti alla fine del primo insegnamento di Gesù in una sinagoga fu che Gesù aveva autorità e il suo era un nuovo insegnamento, non come i loro scribi. Qual era la differenza? Mentre gli scribi insegnavano a osservare la legge di Dio Gesù insegna ad accogliere l’amore di Dio e la differenza qual è? Se si insegna a osservare la legge di Dio non tutti riescono, non tutti possono, non tutti vogliono osservare questa legge e quindi alcuni rimangono esclusi dall’amore di Dio. Ma se si insegna l’amore di Dio, ad accogliere l’amore di Dio, questo è per tutti. Allora l’azione di Gesù che si sviluppa in tutto il vangelo è che Dio non può essere portato agli uomini, non può essere espresso, manifestato attraverso una dottrina perché la dottrina dallo stesso momento che si emana diventa già vecchia, ha bisogno di essere reinterpretata, tradotta. Dio si manifesta attraverso l’amore, la tenerezza di Dio è il linguaggio che tutti possono comprendere.
Ebbene a conclusione l’evangelista aveva scritto che “la sua fama”, questa fama di questa novità, “si diffuse dovunque per i dintorni della Galilea”. Ed ecco una persona emarginata proprio a causa della religione. La religione a volte può essere veramente di una perfidia che non esitiamo a definire diabolica, qual è questa perfidia? La religione afferma, dichiara che certe persone per la tua condotta, per il tuo comportamento, per la tua situazione sei in peccato, sei impuro e quindi sei escluso da Dio. L’unico che ti può togliere da questa impunità è Dio, ma siccome sei in questa condizione tu non ti puoi rivolgere. È una via senza soluzione, senza uscite, e questa è la tragedia di molte persone.
Allora l’evangelista ci presenta un lebbroso anonimo. Quando gli evangelisti i personaggi li presentano anonimi significa che sono rappresentativi di qualcosa, e questo personaggio è rappresentativo di una persona che per sua colpa, a quel tempo si credeva che la lebbra fosse responsabilità dell’uomo castigato da Dio per determinati gravi peccati, si trovava in una situazione che lo rendeva impuro. L’unico che poteva liberarlo dall’impurità era Dio, ma lui siccome era impuro non poteva farlo. Ebbene questo lebbroso evidentemente ha sentito questa fama, cosa ha sentito? Che Gesù non invita più a osservare la legge di Dio, ma ad accogliere l’amore di Dio perché Dio il suo amore non lo concede per i meriti delle persone, ma per i loro bisogni.
E allora ci prova, si avvicina a Gesù e gli chiede se vuoi poi purificarmi. Non chiede di essere guarito, lui quello che vuole è che gli venga tolto questo marchio, questa infamia che gli impedisce di comunicare con Dio. Ebbene l’azione di Gesù è di profonda compassione, la compassione significa comunicare vita a chi non ce l’ha, stende della mano, lo tocca e gli disse: “lo voglio”. Questo fatto che Gesù parli così “lo voglio” significa che la legge non esprime la volontà di Dio, ma l’amore esprime la volontà di Dio, e l’amore guarisce.
“Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. Qui l’evangelista ci mostra una persona che non c’ha nessun merito per essere purificato da Dio, ma c’ha i bisogni. Allora come ho detto Gesù non va incontro ai meriti delle persone, ma ai loro bisogni. Poi Gesù lo caccia, è strano perché non si dice che sia un luogo chiuso, lo caccia via subito da che cosa? Idealmente dal luogo dell’istituzione religiosa: è questa che ti ha fatto credere di essere impuro, di essere escluso da Dio. Mai Dio ti ha escluso dal suo amore, è stata la religione, è stata l’istituzione, allora devi allontanartene devi andare via da questo.
Alla conclusione di questo episodio, l’evangelista scrive che quello quindi accoglie il messaggio di Gesù uscì e si mise a predicare e divulgare il fatto. È il primo predicatore che c’è nei vangeli. Il primo predicatore è una persona che era emarginata e annunzia, il termine adoperato per “fatto” è letteralmente “il messaggio”, qual è il messaggio? Nessuna persona al mondo può sentirsi esclusa dall’amore di Dio. L’amore di Dio non riconosce quelle barriere, quei limiti che la religione, il sesso, i nazionalismi hanno posto. È quello che affermerà poi San Pietro una volta convertito quando dirà “Dio ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo”. Questa è la buona notizia che l’ex lebbroso comincia a proclamare ovunque.

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