il commento al vangelo della domenica

LASCIATE CHE L’UNA E L’ALTRO CRESCANO INSIEME FINO ALLA MIETITURA

commento al vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario (23 luglio 2017) di p. Alberto Maggi 

Mt 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

Nel vangelo di Matteo non sono presenti soltanto le tentazioni che Gesù ha subito, ma vengono esposte anche le possibili tentazioni della comunità dei credenti in ogni tempo. Nel capitolo 13, troviamo tre parabole, con la risposta a tre possibili tentazioni: sono le parabole del Regno. è Gesù che parla ai suoi discepoli, espone queste parabole del Regno dei cieli, ricordo che questa espressione è tipica di Matteo, ma indica il Regno di Dio, cioè la società alternativa dove, anziché accumulare per sé, si condivida generosamente con gli altri, dove anziché comandare, si serva, e dove anziché salire, si scende. Questo è il Regno dei cieli. La prima tentazione alla quale è sottoposta la comunità di ogni tempo, è la tentazione di essere una comunità di eletti, una comunità di gente superiore, e che quindi cerca di eliminare gli altri. A questa tentazione Gesù risponde con la parabola, quella del seminatore e della zizzania. Dice Gesù che “mentre tutti dormivano, venne il suo nemico,” il nemico del Signore, “seminò della zizzania”, la zizzania è un seme che è tossico, è un narcotico, “in mezzo al grano”. Ma più dannosa del seme nocivo della zizzania, sono i servi, gli zelanti servi. Infatti “Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”, e si propongono “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. E nella parabola il padrone del campo lo impedisce, dice: “No perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano”. La loro azione, quella dei servi zelanti, è più pericolosa della zizzania. Quindi Gesù dice no ad una comunità di soli eletti, questa è la tentazione che subiscono spesso i gruppi ecclesiali, nei quali ognuno si sente di avere l’unica risposta al modo di vivere del messaggio di Gesù, e per questo snobbano o condizionano la vita degli altri. Gesù non è d’accordo su questo, quindi no alla tentazione di essere una comunità di eletti. La seconda tentazione che la comunità subisce, lo vediamo lungo tutto il vangelo, è quella della manìa di grandezza, allora Gesù continua, dice: “espose loro un’altra parabola dicendo: “Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a”. Per comprendere questa parabola bisogna rifarsi al profeta Ezechiele. Nel profeta Ezechiele il regno futuro era immaginato, è il capitolo 17 di Ezechiele, come un cedro, il cedro lo sappiamo, il cedro è chiamato il re degli alberi, che è posto su un alto monte. Quindi qualcosa di straordinario, qualcosa che attira subito la vista, l’ammirazione per il suo splendore. Gesù dice nulla di tutto questo: “è simile a un granello di senape che l’uomo prese e seminò”, è strano che Gesù parli di seminare, perché la senape non si semina, “nel suo campo”. Commenta Gesù: “Esso è il più piccolo di tutti i semi”, la senape è una pianta infestante; i suoi semi, che sono microscopici, piccolissimi, con il vento arrivano ovunque, per questo non viene seminata, ma viene temuta dai contadini palestinesi. Quindi è piccolo, ma arriva ovunque: questo è il messaggio di Gesù: “Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre”, e qui ecco la sorpresa di Gesù, “piante dell’orto”, cosa vuol dire Gesù? Che il Regno dei cieli, cioè il Regno di Dio, anche nel suo momento di massimo splendore, non attirerà l’attenzione; la pianta della senape è un arbusto che, in zone favorevoli, tipo il lago di Galilea, raggiunge due o tre metri, ma è una pianta comune che non attira nessuna attenzione. Ebbene per Gesù, il Regno di Dio, nel momento del suo massimo sviluppo, non attirerà l’attenzione per la sua grandezza, per la sua meraviglia, ma come una pianta infestante, arriverà ovunque. La terza e ultima tentazione è quella dello scoraggiamento. La comunità cristiana è piccola, il lavoro da fare è tanto, e c’è il rischio di scoraggiarsi. Allora Gesù, per questa tentazione, dice un’altra parabola: “«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina”, tre misure di farina sono quaranta chili, è un po’ tanto per una casa domestica. Perché questo riferimento ai quaranta chili? Perché nell’Antico Testamento, questa quantità di misura appare in relazione agli episodi di Abramo e di Sara, di Gedeone e di Anna, la madre del profeta Samuele, sempre in occasione dell’esaudimento delle promesse di Dio al popolo, anche in circostanze che sembravano impossibili. Allora dice: questo lievito lo “mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata»”; la comunità cristiana non deve spaventarsi di fronte all’enormità del lavoro, ma deve mescolarsi con la realtà esistente per poi trasformarla, e Gesù lo garantisce. Ebbene delle tre parabole, l’unica che i discepoli chiedono in maniera perentoria, addirittura imperativa di spiegare, è quella che, non è che non l’hanno capita, forse è l’unica che hanno capito, ma sulla quale non sono d’accordo. Infatti “in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci”, e il verbo è all’imperativo, con autorità, “la parabola della zizzania nel campo»”. Quindi questa parabola in cui Gesù smentisce la tentazione di essere una comunità di eletti, una comunità di superiori riguardo agli altri, questa non viene accettata dalla comunità dei discepoli. Ebbene Gesù spiega, in questo resto della parabola, che sono gli individui che si giudicano da soli, scegliendo cosa essere: o essere grano, pane che alimenta, benedizione per gli altri, o essere zizzania, un tossico che avvelena e che dà la morte. Quindi tre tentazioni alle quali le comunità di tutti i tempi possono essere sottoposte, ma con la certezza, con la garanzia, che il messaggio di Gesù si realizzerà nonostante tutto, nonostante la pochezza dei termini.

 




il commento al vangelo della domenica

IL SEMINATORE USCÌ A SEMINARE

commento al vangelo della quindicesima domenica del tempo ordinario (16 luglio 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt 13,1-23

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

La parabola del seminatore, narrata da Gesù nel vangelo di Matteo all’inizio del capitolo 13, è un incoraggiamento per tutti coloro che annunziano la parola. Il risultato non dipende dal seme, dalla parola, ma dipende dal terreno. Per comprendere questa parabola, occorre rifarsi all’annunzio che si trova nel profeta Isaia, da parte del Signore: “così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. Il Signore assicura che la sua parola contiene in sé un’energia creatrice, la stessa parola del Creatore che disse: “sia la luce e luce fu”, quindi questa parola contiene un’energia creatrice che, quando incontra il terreno adatto, sviluppa tutte le sue potenzialità. Gesù illustra in questa parabola, le possibilità, ed anche le difficoltà, nell’accoglienza di questa la parola. È Gesù stesso che la spiega, quindi, nella seconda parte, andiamo addirittura alla spiegazione, Gesù afferma: “voi dunque ascoltate la parabola del seminatore”, che evidentemente è Gesù, e tutti coloro che seminano questa parola, “ogni volta che un ascolta la parola del Regno”, la parola è del Regno, la società alternativa proposta da Gesù, “e non la comprende”, come mai non la comprende? Non la comprende perché per accogliere il regno, Gesù mette come condizione la conversione. Che significa la conversione? Se fino a oggi hai vissuto per te e per i tuoi bisogni, per le tue necessità, da oggi cambia completamente vita, vivi per il bene e le necessità degli altri, questa è la società alternativa, il regno proposto da Gesù. “non la comprende viene il Maligno”, già Gesù aveva parlato di questo maligno quando, nel capitolo 5, aveva detto: “il vostro parlare sia sì, sì, no, no, il di più viene dal maligno”, che cos’è il maligno? Mentre Dio è amore che si mette a servizio degli uomini, il maligno è il potere che li domina. Allora Gesù avverte che, tutti coloro che vivono sotto la sfera del potere, sono completamente refrattari alla sua parola, infatti dice: “ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada”, quindi inutile seminarlo perché arrivano subito gli uccelli. Che significa questo? Quanti detengono il potere naturalmente vedono, in questo messaggio di Gesù, una minaccia al loro dominio sulle persone, ma anche quanti ambiscono ad ottenere il potere, perché vedono nel messaggio di Gesù un rischio per le proprie ambizioni, ma la categoria più tragica (è composta da) quelli che sono sottomessi al potere, perché vedono nel messaggio di Gesù un attentato alla sicurezza che la sottomissione al potere dà, questi sono completamente refrattari. “Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia”, quindi vede in questa parola la risposta al proprio desiderio di pienezza di vita, “ma non ha in sé radici”, cosa significa? che questa parola “non mette radici”, non trasforma l’individuo, “ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione”, Gesù nell’annuncio dalla parabola diceva “quando spunta il sole”, il sole è fonte, è fattore di vita per la pianta; se la brucia la colpa non è del sole, è che la pianta non ha potuto mettere radici. Allora qui per Gesù l’effetto del sole è la tribolazione o la persecuzione: la persecuzione per l’individuo e per la comunità, non è fattore di distruzione, ma fattore di crescita; se distrugge è perché l’individuo, la comunità non hanno modificato la propria esistenza. E quindi anche questo caso fallisce. “Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”, Gesù ha messo come condizione la conversione, cioè vivi per gli altri e non per te stesso; se vivi per te, ti trovi in condizioni economiche precarie, vedi la soluzione nel denaro, ma appena riesci a raggiungere, ottenere questo denaro, subito nascono nuove ambizioni, nuove esigenze, e di nuovo ti trovi in preoccupazione economica. Allora chi pensa soltanto ai propri bisogni, chi si trova sempre preoccupato per la propria condizione economica, come potrà mai occuparsi dei bisogni, delle necessità degli altri? Infine “Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende”, la comprende appunto perché si è convertito, “questi dà frutto e produce”, per comprendere l’espressione paradossale, ma non tanto, di Gesù occorre conoscere che, nella cultura dell’epoca, da un chicco di grano si ricavava una spiga con sette, otto grani. Quando l’annata era buona, la spiga aveva dieci grani, in occasioni eccezionali si trovava addirittura una spiga con trenta grani, ma era una cosa eccezionale. Ebbene quello che per gli uomini è eccezionale, Gesù lo mette all’ultimo, infatti dice: “produce il cento, il sessanta, il trenta per uno»”, cosa vuol dire Gesù? Quando il terreno è adatto, la parola creatrice sprigiona tutta la sua capacità, tutta la sua potenzialità, in una maniera che l’uomo non può neanche immaginare.




il commento al vangelo della domenica

IO SONO MITE E UMILE DI CUORE

commento al vangelo della quattordicesima domenica del tempo ordinario (9 luglio 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt 11,25-30

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

È un momento difficile nella vita di Gesù: ha iniziato la sua predicazione, ed immediatamente gli arriva un ultimatum, che ha tutto il sapore di una scomunica, da parte di Giovanni Battista, che è incarcerato, che gli manda a dire: sei tu quello che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro? Evidentemente la predicazione di Gesù delude, e Gesù inizia a predicare nelle città, ma il risultato è fallimentare. E infatti Gesù si lamenta con queste città – sono tre principalmente: Corazin, Betsàida e Cafarnao – e Gesù si lamenta che, se lo stesso messaggio l’avesse portato nelle città pagane, si sarebbero convertite, queste no. Perché questa resistenza? Perché sono città dominate dall’insegnamento della sinagoga. Ed è a questo punto, siamo al capitolo 11 di Matteo, versetto 25, che Gesù esclama: “In quel tempo”, quindi in collegamento con questo, “Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre”, Gesù non parla di Dio, parla di Padre, è importante per comprendere il suo insegnamento, “Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti”, Gesù non se la sta prendendo con le persone colte, sapienti e dotti sono immagini dei dottori della legge, degli scribi, che ragionano in termini di dottrina e di legge, ma, se con la legge, la dottrina, si può arrivare a discutere, a parlare di Dio, del Padre si può soltanto sperimentare la sua potenza d’amore imitando questo amore, ecco perché Gesù parla di Padre. Per i dotti, per i sapienti, quindi gli scribi, i dottori della legge, Dio si manifesta nella dottrina e non nella vita, come invece insegna Gesù. E, dice Gesù, quindi le hai nascoste “queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. Nonostante il fallimento della predicazione di Gesù, c’è un gruppo di persone che lo segue: sono gli emarginati, sono le nullità, sono gli invisibili, sono queste le persone che lo seguono ed ascoltano il suo messaggio. E continua Gesù, di nuovo ripetendo la parola Padre, “Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”. E qui Gesù, con un tipico ragionamento teologico e rabbinico, afferma: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”, cosa vuol dire con questo ragionamento Gesù? Dio, abbiamo visto, si può conoscere dalla legge, il Padre soltanto nell’amore. Allora è nell’essere profondamente umani, nell’essere sensibili ai bisogni ed attenti alle necessità, alle sofferenze degli altri, che si può sperimentare la presenza del Padre. Come abbiamo detto, Dio si può conoscere attraverso la legge, il Padre soltanto attraverso l’esperienza dell’amore. Con Gesù, Dio si è fatto uomo, e l’uomo, l’umanità, è l’unico valore sacro. E poi c’è l’invito da parte di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi”, stanchi e oppressi di che cosa? Dell’osservanza della legge, dirà più avanti Gesù in questo stesso vangelo, che proprio questi dotti, questi scribi, questi dottori della legge, legano dei pesanti fardelli sulle spalle delle persone. Sono le dottrine che si accumulano, e per questo sono stanchi ed oppressi,
e dice: “e io vi darò ristoro”, il termine adoperato dall’evangelista significa far riposare, cessare dalla fatica, recuperare il fiato, potremmo dire: io sarò il vostro respiro. E poi, ecco la sfida di Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi”, il gioco lo sappiamo, era quell’attrezzo che si metteva sopra i buoi per guidarli nel campo, ed era immagine della legge. La legge, la legge di Mosè, era diventata un giogo, ma un giogo pesante. Allora Gesù invita a fare una sostituzione: lasciate stare il giogo della legge, il credente non è più colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore”, non sta parlando Gesù di imitare il suo carattere, impossibile, ma la sua scelta sociale. I “miti”, in quel tempo, il termine indica i diseredati, il termine “umile” in greco è tapino, cioè mettetevi dalla parte degli ultimi, dalla parte degli emarginati, dalla parte degli invisibili, lì c’è la mia presenza. E infatti dice: “troverete ristoro per la vostra vita”, questa è una citazione del libro della Sapienza, che ristora le persone. E conclude Gesù: “Il mio giogo”, quindi l’accettazione dell’imitazione dell’amore del Padre, questo è il giogo, “è dolce e il mio peso leggero»”, non ci sono più pesi da portare, che schiacciano le persone come denuncerà poi San Pietro nel concilio – dice : “perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo, ed è stato il fallimento, che né i nostri padri , né noi siamo stati in grado di portare? Quindi l’osservanza della legge non ha permesso la comunione con il Padre, l’accoglienza, l’amore, la pratica del suo amore, sì.




il commento al vangelo della domenica

il vangelo della tredicesima domenica del tempo ordinario (2 luglio 2017) commentato da Ermes Ronchi:
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato […] Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Un Dio che pretende di essere amato più di padre e madre, più di figli e fratelli, che sembra andare contro le leggi del cuore. Ma la fede per essere autentica deve conservare un nucleo sovversivo e scandaloso, il «morso del più» (Luigi Ciotti), un andare controcorrente e oltre rispetto alla logica umana.
Non è degno di me. Per tre volte rimbalza dalla pagina questa affermazione dura del Vangelo. Ma chi è degno del Signore? Nessuno, perché il suo è amore incondizionato, amore che anticipa, senza clausole. Un amore così non si merita, si accoglie.
Chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà! Perdere la vita per causa mia non significa affrontare il martirio. Una vita si perde come si spende un tesoro: investendola, spendendola per una causa grande. Il vero dramma per ogni persona umana è non avere niente, non avere nessuno per cui valga la pena mettere in gioco o spendere la propria vita.
Chi avrà perduto, troverà. Noi possediamo veramente solo ciò che abbiamo donato ad altri, come la donna di Sunem della Prima Lettura, che dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada e riceverà in cambio una vita intera, un figlio. E la capacità di amare di più.
A noi, forse spaventati dalle esigenze di Cristo, dall’impegno di dare la vita, di avere una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca, non perderà la sua ricompensa.
Il dare tutta la vita o anche solo una piccola cosa, la croce e il bicchiere d’acqua sono i due estremi di uno stesso movimento: dare qualcosa, un po’, tutto, perché nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con il verbo dare: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio. Non c’è amore più grande che dare la vita!
Un bicchiere d’acqua, dice Gesù, un gesto così piccolo che anche l’ultimo di noi, anche il più povero può permettersi. E tuttavia un gesto non banale, un gesto vivo, significato da quell’aggettivo che Gesù aggiunge, così evangelico e fragrante: acqua fresca.
Acqua fresca deve essere, vale a dire l’acqua buona per la grande calura, l’acqua attenta alla sete dell’altro, procurata con cura, l’acqua migliore che hai, quasi un’acqua affettuosa con dentro l’eco del cuore.
Dare la vita, dare un bicchiere d’acqua fresca, ecco la stupenda pedagogia di Cristo. Un bicchiere d’acqua fresca se dato con tutto il cuore ha dentro la Croce. Tutto il Vangelo è nella Croce, ma tutto il Vangelo è anche in un bicchiere d’acqua.
Nulla è troppo piccolo per il Signore, perché ogni gesto compiuto con tutto il cuore ci avvicina all’assoluto di Dio.
Amare nel Vangelo non equivale ad emozionarsi, a tremare o trepidare per una creatura, ma si traduce sempre con un altro verbo molto semplice, molto concreto, un verbo fattivo, di mani, il verbo dare.



il commento al vangelo della domenica

“NON ABBIATE PAURA “

commento al vangelo della dodicesima domenica del tempo ordinario (25 giugno 2017) di Ermes Ronchi:

Matteo 10,26-33

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri. Ogni volta, di fronte a queste parole provo paura e commozione insieme: la paura di non capire un Dio che si perde dietro le più piccole creature: i passeri e i capelli del capo; la commozione di immagini che mi parlano dell’impensato di Dio, che fa per te ciò che nessuno ha fatto, ciò che nessuno farà: ti conta tutti i capelli in capo e ti prepara un nido nelle sue mani. Per dire che tu vali per Lui, che ha cura di te, di ogni fibra del corpo, di ogni cellula del cuore: innamorato di ogni tuo dettaglio.
Nemmeno un passero cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Eppure i passeri continuano a cadere, gli innocenti a morire, i bambini ad essere venduti a poco più di un soldo o gettati via appena spiccato il loro breve volo.
Ma allora, è Dio che fa cadere a terra? È Dio che infrange le ali dei corti voli che sono le nostre vite, che invia la morte ed essa viene? No. Abbiamo interpretato questo passo sull’eco di certi proverbi popolari come: non si muove foglia che Dio non voglia. Ma il Vangelo non dice questo, assicura invece che neppure un passero cadrà a terra senza che Dio ne sia coinvolto, che nessuno cadrà fuori dalle mani di Dio, lontano dalla sua presenza. Dio sarà lì.
Nulla accade senza il Padre, è la traduzione letterale, e non di certo senza che Dio lo voglia. Infatti molte cose, troppe accadono nel mondo contro il volere di Dio. Ogni odio, ogni guerra, ogni violenza accade contro la volontà del Padre, e tuttavia nulla avviene senza che Dio ne sia coinvolto, nessuno muore senza che Lui non ne patisca l’agonia, nessuno è rifiutato senza che non lo sia anche lui (Matteo 25), nessuno è crocifisso senza che Cristo non sia ancora crocifisso.
Quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo sulle terrazze, sul posto di lavoro, nella scuola, negli incontri di ogni giorno annunciate che Dio si prende cura di ognuno dei suoi figli, che nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio.
Temete piuttosto chi ha il potere di far perire l’anima, l’anima è vulnerabile, l’anima è una fiamma che può languire: muore di superficialità, di indifferenza, di disamore, di ipocrisia. Muore quando ti lasci corrompere, quando disanimi gli altri e togli loro coraggio, quando lavori a demolire, a calunniare, a deridere gli ideali, a diffondere la paura.
Per tre volte Gesù ci rassicura: Non abbiate paura (vv 26,28,31), voi valete! Che bello questo verbo! Per Dio, io valgo. Valgo di più, di più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di più di quanto osavo sperare. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita.

(Letture: Geremia 20,10-13; Salmo 68; Romani 5,12-15; Matteo 10,26-33)

 




il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA

commento al vangelo della domenica del ‘corpus domini’ 18 giugno 2017) di p. Alberto Maggi :

Gv 6,51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Le parole che adesso leggeremo e commenteremo, quelle di Gesù nel vangelo di Giovanni, sono talmente gravi che, al termine di queste, gran parte dei suoi discepoli lo abbandonerà e non tornerà più con lui. Vediamo allora che cos’è di grave, di importante, che Gesù ha detto.
Nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni troviamo un lungo e intenso insegnamento sull’Eucaristia. Giovanni è l’unico evangelista che non riporta la narrazione della cena, ma è quello che, più degli altri, riflette sul profondo significato della stessa.
Quindi il capitolo 6 è un insegnamento, una catechesi alla comunità cristiana, sull’Eucaristia. Leggiamo il capitolo 6, dal versetto 51. “«Io sono»”, e Gesù rivendica la condizione divina, “«il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»”.  
Gesù garantisce che l’adesione a lui è ciò che permette all’uomo di avere una vita di una qualità tale che è indistruttibile. Questa è la vita eterna. Gesù, il figlio di Dio, si fa pane perché quanti lo accolgono e sono capaci di farsi pane per gli altri, diventino anch’essi figli di Dio. “ «E il pane che io darò è la mia carne»” – Gesù adopera proprio il termine carne, che indica l’uomo nella sua debolezza, “«per la vita del mondo»”.
Quello che Gesù sta dicendo è molto importante: la vita di Dio non si da al di fuori della realtà umana. Non ci può essere comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. Quindi il dono di Dio passa attraverso la carne, dice Gesù. L’aspetto terreno, debole, della sua vita. Qui l’evangelista presenta una contrapposizione tra gli uomini della religione che si innalzano per incontrare Dio – un Dio che la religione ha reso lontano, inavvicinabile, inaccessibile – e, invece, un Dio che scende per incontrare l’uomo.
“Allora i Giudei”, con questo termine nel vangelo di Giovanni si indicano le autorità, “ «si misero a discutere aspramente tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?»” Un Dio che, anziché pretendere lui i doni dagli uomini, si dona all’uomo fino ad arrivare a fondersi con lui, si fa alimento per lui. Questo è inaccettabile per le autorità religiose che basano tutto il loro potere sulla separazione tra Dio e gli uomini.
Un Dio che vuole essere accolto dagli uomini e fondersi con loro, questo per loro non solo è intollerabile, ma è pericoloso. Ebbene Gesù risponde loro: “ «In verità, in verità io vi dico »”, quindi la doppia affermazione “in verità, in verità io vi dico” è quella che precede le dichiarazioni solenni, importanti di Gesù, “«Se non mangiate la carne del figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita»”.
Gesù si rifà all’immagine dell’agnello, l’agnello pasquale. La notte del’Esodo Mosè aveva comandato agli ebrei di mangiare la carne dell’agnello perché avrebbe dato loro la forza di iniziare questo viaggio verso la liberazione e di aspergere il sangue sugli stipiti delle porte perché li avrebbe separati dall’azione dell’angelo della morte.
Ebbene Gesù si presenta come carne, alimento che da la capacità di intraprendere il viaggio verso la piena libertà, e il cui sangue non libera dalla morte terrena, ma libera dalla morte definitiva. Poi Gesù, tante volte non fosse stato chiara la sua affermazione, dice: “Chi mastica la mia carne”. Il verbo masticare i greco è molto rude, primitivo, in greco è trogon. Già il suono dà l’idea di qualcosa di primitivo, e significa “masticare, spezzettare”.
Quindi Gesù vuole evitare che l’adesione a lui sia un’adesione ideale, ma dev’essere concreta. Infatti dice: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna »”. La vita eterna per Gesù non è un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una possibilità di una qualità di vita nel presente. Gesù non dice “avrà la vita eterna”. La vita eterna c’è già. Chi, come lui, fa della propria vita un dono d’amore per gli altri, ha una vita di una qualità tale che è indistruttibile. 
“«E io lo risusciterò nell’ultimo giorno »”. L’ultimo giorno non è la fine dei tempi. L’ultimo giorno, nel vangelo di Giovanni, è il giorno della morte in cui Gesù, morendo, comunica il suo Spirito, cioè elemento di vita che concede, a chi lo accoglie, una vita indistruttibile.
E Gesù conferma che la sua “ «carne è vero cibo e il suo sangue è la vera bevanda »”. Con Gesù non ci sono regole esterne che l’uomo deve osservare, ma l’assimilazione di una vita nuova. E la sua carne è vero cibo, quello che alimenta la vita dell’uomo, e il suo sangue vera bevanda, cioè elementi che entrano nell’uomo e si fondono con lui. Non più un codice esterno da osservare, ma una vita da assimilare.
Gesù ci presenta un Dio che non assorbe gli uomini, ma li potenzia. Un Dio che non prende l’energia degli uomini, ma comunica loro la sua. E Gesù continua ad insistere: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui »”. Ecco la piena fusione di Gesù con gli uomini e degli uomini con Gesù.
Quello di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con gli uomini e dilatarne la capacità d’amore. “«Come il Padre, che ha la vita»”, ed è l’unica volta che Dio viene definito come il Padre che è vivente, “«ha mandato me»”, il Padre ha mandato il figlio per manifestare il suo amore senza limiti, “«e io vivo per il Padre, così anche colui che mastica …»”, di nuovo Gesù insiste con questo verbo che indica non un’adesione teorica, ma reale e concreta, “«… me, vivrà per me»”.
Alla vita ricevuta da Dio corrisponde una vita comunicata ai fratelli. Questo è il significato dell’Eucaristia. E, come il Padre ha mandato il figlio ad essere manifestazione visibile di un amore senza limiti, così quanti accolgono Gesù sono chiamati a manifestare un amore incondizionato.
E conclude Gesù: “ «Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono»”. Gesù mette il dito nella piaga del fallimento dell’Esodo. Tutti quelli che sono usciti dall’Egitto sono morti. I loro figli sono entrati. E Gesù contrappone il suo esodo che è destinato invece a realizzarsi pienamente.
E di nuovo Gesù insiste: “«Chi mastica»”, quindi adesione piena e totale, non simbolica, “ «questo pane vivrà per sempre»”. Chi orienta la propria vita, con Gesù e come Gesù, a favore degli altri, ha già una vita che la morte non potrà interrompere.




il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

DIO HA MANDATO IL FIGLIO SUO PERCHÉ IL MONDO SIA SALVATO PER MEZZO DI LUI

commento al vangelo della domenica della trinità (11 giugno 2017) di p. Alberto Maggi:

Gv 3,16-18

In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

COME IL PADRE HA MANDATO ME ANCH’IO MANDO VOI

commento al vangelo della domenica di Pentecoste (4 giugno 2017) di p. Alberto Maggi:

Gv 20,19-23

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

La nuova relazione che Gesù ha instaurato tra gli uomini e Dio, aveva bisogno di una nuova alleanza. Per questo Luca, negli Atti degli Apostoli, presenta l’episodio della Pentecoste. La Pentecoste era il giorno in cui la comunità  giudaica festeggiava il dono della legge. Bene mentre gli ebrei festeggiano il dono della legge, sulla comunità  dei discepoli di Gesù scende, piomba lo Spirito Santo. Con Gesù non c’è più una legge che è esterna all’uomo da osservare, ma da cogliere, una , una forza interna, che sprigiona energia d’amore. Questo è il dono dello Spirito. Anche gli altri evangelisti hanno la loro Pentecoste, seppur narrata in maniera diversa. Per esempio Giovanni ha la piccola Pentecoste nel momento della morte, quando Gesù consegna il suo Spirito, e poi nel brano che adesso esaminiamo, il capitolo 20, versetti 19-23, leggiamolo. “La sera di quel giorno”, è il giorno della risurrezione di Gesù, “il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei”, il mandato di cattura non era stato soltanto per Gesù, non era pericoloso soltanto Gesù, era pericolosa la sua dottrina. Per questo, quando Gesù si trova di fronte al sommo sacerdote, costui non gli chiede niente di lui, ma gli chiede due cose: dei discepoli e della dottrina. Quindi, per paura di fare la stessa fine di Gesù, si sono chiusi a porte sbarrate. “venne Gesù, stette in mezzo”, è importante questa indicazione che ci dà l’evangelista: quando Gesù risuscitato si manifesta ai suoi, si pone in mezzo, Gesù non si pone davanti, in modo che le persone che gli sono vicine sono quelle che gli sono più prossime, o in alto. Gesù si pone in mezzo. Questo significa che tutti coloro che gli sono intorno, hanno tutti la stessa identica relazione con lui, non c’è qualcuno di più, qualcuno di meno, qualcuno prima e qualcuno dopo. “e disse loro: «Pace a voi!»”, questa di Gesù non è un augurio, Gesù non dice: “la pace sia con voi”, ma è un dono. Pace – sappiamo che il termine ebraico è “shalom” – indica tutto quello che concorre alla felicità  degli uomini. Ma poi Gesù mostra il motivo di questo dono: “Detto questo”, quindi dopo aver detto “pace”, “mostrò loro le mani e il fianco”, le mani ed il fianco portano i segni della passione. È stato Gesù che, al momento della cattura, aveva detto: “se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. Lui è il pastore che dà la vita per le sue pecore, e questo non in un episodio isolato, ma sempre. Gesù, nella comunità, è colui che difende i suoi. A questo punto i discepoli, che l’evangelista aveva descritto nel timore dei Giudei – ricordo che, per Giudei, in questo vangelo non si intende mai il popolo, ma sempre l’autorità, i capi religiosi – passano dal timore alla gioia al vedere il Signore: “Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi!”, di nuovo Gesù ripete questo dono della pace, il termine pace in questo capitolo sarà ripetuto per ben tre volte, ma questa volta questo dono della pace è per andare a condividerlo. Infatti aggiunge Gesù: “come il Padre ha mandato me”, il Padre ha mandato Gesù per manifestare visibilmente il suo amore e qual è l’amore di Dio? Un amore generoso che si mette al servizio degli altri, che è stato manifestato da Gesù nell’episodio della lavanda dei piedi.
“Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi»”, il compito dei credenti il compito della comunità cristiana non è andare a proporre o, peggio, imporre dottrine, ma comunicazioni d’amore: come il Padre ha mandato il Figlio per manifestare il suo amore, così la comunità deve essere la testimone visibile di un amore generoso che si mette a servizio. “detto questo”, prima il “detto questo” era riferito al dono della pace, giustificato dai segni della sua passione, ora “detto questo”, questo secondo dono della pace, “soffiò”, perché questo verbo soffiare? L’evangelista lo prende dal libro del Genesi, nell’episodio della creazione, quando Dio, il Creatore soffiò nelle narici del primo uomo e lo rese un essere vivente. “e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo”, esattamente Spirito Santo, senza l’articolo. Gesù aveva detto che lui dà lo Spirito senza misura, il dono dello Spirito è totale, sta alla persona dipendere quanto ne può accogliere o meno, ma comunque questo è il dono in pienezza, il dono dello Spirito, la forza divina, che si chiama Santo per la sua, non solo per la sua qualità, ma per la sua attività, che è capace di separare gli uomini che lo accolgono dalla sfera del male. “A coloro a cui perdonerete”, letteralmente condonerete, cancellerete, “i peccati”, il termine peccato adoperato dall’evangelista non indica la colpa della persona, ma, nei vangeli, questo termine indica sempre il passato ingiusto dell’individuo, “A coloro a cui cancellerete i peccati, saranno cancellati; a coloro a cui non cancellerete, non saranno cancellati»”, cosa ci vuol dire Gesù con questa espressione? Gesù non sta dando un potere per alcuni, ma una responsabilità per tutta la comunità cristiana: la comunità  cristiana deve essere come luce che spande il raggio d’azione del suo amore. Quanti vivono nell’ambito del peccato, dell’ingiustizia e vedono questa luce, se ne sentono attratti, hanno tutti il loro passato, qualunque esso sia, completamente cancellato. Quanti invece, pur vedendo brillare la luce, si rintanano ancora di più nelle tenebre – Gesù aveva detto che chi fa male odia la luce – rimangono sotto la cappa del peccato. Allora quello di Gesù non è un mandato per giudicare le persone, ma offrire ad ogni individuo una proposta di pienezza di vita.

 




il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

A ME È STATO DATO OGNI POTERE IN CIELO E SULLA TERRA

commento al vangelo della domenica dell’ascensione (28 maggio 2017)di p. Alberto Maggi: 

 

Mt 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

L’episodio dell’ascensione di Gesù lo troviamo soltanto nel vangelo di Luca, e poi nella finale aggiunta, nel vangelo di Marco, ma non negli altri evangelisti, né in Matteo, né in Giovanni, ma il messaggio dell’evangelista, di Luca, è identico a quello degli altri: quella di Gesù e non è una separazione, ma una vicinanza, non è una lontananza, ma una presenza ancora più intensa, perché Gesù è nella pienezza della condizione divina. Il finale del vangelo di Matteo sono cinque versetti, nei quali l’evangelista racchiude, riassume tutto il suo vangelo, vediamo. “Gli undici discepoli”, i discepoli non sono più dodici, e il numero, in questo vangelo, non viene ricostituito. Il dodici significava il nuovo Israele, l’undici significa che il nuovo Israele non viene ricostituito, pertanto il messaggio di Gesù è universale, è per tutta l’umanità. “andarono in Galilea”, vanno in Galilea perché per ben tre volte, c’era stato l’invito di incontrare Gesù in Galilea – Gesù, risuscitato in questo vangelo, non si manifesterà mai a Gerusalemme. Ma, dice l’evangelista, scrive “su-il monte”, l’articolo determinativo, quindi un monte particolare, “che Gesù aveva loro indicato”, ma Gesù in questo vangelo non ha indicato nessun monte. Perché i discepoli vanno su “il” monte? Il significato non è topografico, ma teologico: il monte, in questo vangelo, è il monte delle beatitudini, dove Gesù ha proclamato il suo messaggio, beatitudini che sono otto, ed il numero otto è la cifra della risurrezione nel cristianesimo primitivo, perché Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana. Quindi i discepoli chiaramente vanno su “il” monte: l’evangelista vuol dire che l’esperienza di Gesù risorto, non è un privilegio concesso duemila anni fa a poche persone, ma una possibilità per tutti i credenti di tutti i tempi, basta situarsi su “il” monte delle beatitudini, cioè accogliere il suo messaggio, che è stato formulato e riassunto nelle beatitudini. “quando lo videro”, il verbo vedere adoperato dall’evangelista non indica la vista fisica, ma una profonda esperienza interiore, “si prostrarono”, quindi riconoscono in Gesù una condizione divina, e poi, stranamente, l’evangelista dice “essi però dubitarono”, ma di che cosa dubitano? Non che Gesù sia risuscitato, lo vedono, non che sia nella condizione divina, si prostrano; allora perché dubitano? L’evangelista ha adoperato questo verbo dubitare soltanto un’altra volta, nell’episodio conosciuto, quando Gesù cammina sulle acque, che indica la condizione divina, e Pietro, il discepolo, voleva anche lui camminare sulle acque, cioè voleva anche lui la condizione divina. Gesù gli dice che può andare, ma quando vede la difficoltà, Pietro incomincia ad affogare e chiede aiuto. Lui credeva che la condizione divina sarebbe stata concessa come un dono dall’alto, e non sapeva attraverso quali difficoltà passava. Ebbene Gesù rimproverò quella volta Pietro con le parole “uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Allora qui questo dubbio che l’evangelista scrive, qual è? Hanno visto Gesù nella condizione divina, però ora sanno attraverso cosa è passato Gesù: la morte più infamante, più disprezzata per un ebreo, la maledizione della croce.  Allora di chi dubitano ? Dubitano di se stessi: sono invitati a raggiungere la condizione divina, ma non sanno se saranno capaci di affrontare la persecuzione e anche la morte. Ecco il perché dubitano.
Mentre le donne si sono avvicinate a Gesù, qui è Gesù che si deve avvicinare ai discepoli: “Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”, qui l’evangelista si richiama al profeta Daniele, dove al figlio dell’uomo è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Ma Gesù, Gesù questo potere non lo usa per essere servito, ma, come lui dirà, “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire”, quindi è un potere di servire. E poi ecco che arriva l’ordine imperativo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”, il termine popoli indica le nazioni pagane, “battezzandole”, il verbo battezzare significa immergere, inzuppare, “nel nome”, il nome indica la realtà profonda di un essere, “del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, cioè immergeteli nella realtà profonda di Dio, fate fare loro esperienza di chi è Dio, “insegnando”, ed è l’unica volta che (l’evangelista autorizza) Gesù autorizza i suoi discepoli a insegnare, “loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”, l’unica volta che appare il verbo comandare, in questo vangelo, è proprio in riferimento alle beatitudini. Allora qual è il significato di questo comando di Gesù? Gesù aveva invitato i suoi discepoli a seguirlo per essere pescatori di uomini: pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua, che può dare loro la morte, quindi dalla situazione mortale, per dare loro la vita. Ebbene Gesù ora indica come e dove: come si diventa pescatori di uomini? Immergendoli nello Spirito del Signore, nella realtà più profonda dell’amore divino, e dove? Dove lo spazio è tutta l’umanità. E poi l’assicurazione finale di Gesù: “ecco io sono con voi”,questo è il tema, il filo conduttore di tutto il vangelo. Al capitolo primo,versetto ventitre, l’evangelista aveva indicato Gesù come il “Dio con noi”; a circa metà del suo vangelo Gesù aveva detto che lui era con i suoi discepoli: “dove sono due o più io sono con loro”; e ora conclude, le parole di Gesù, con l’assicurazione della sua presenza: “con voi tutti i giorni fino”, ora la traduzione della Cei è tornata a scrivere “fine del mondo”, era migliore nel ’97, quando la vecchia edizione aveva “fino a quando questo tempo sarà compiuto”. Non c’è una fine del mondo, è una fine del tempo, che non indica una scadenza, ma la qualità d’una presenza, quindi le ultime parole di Gesù: “ecco io sono in mezzo a voi per sempre”. E l’evangelista, che ha aperto il suo vangelo riferendosi al libro del Genesi  -inizia il vangelo di Matteo scrivendo “libro della Genesi”, lo chiude con il riferimento all’ultimo libro della Bibbia ebraica, il secondo libro delle Cronache, dove c’è l’invito di Ciro, re di Persia, che dice al popolo degli ebrei: “il Signore Dio del cielo mi ha concesso tutti i regni della terra; egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo il signore suo Dio sia con lui e salga”. È l’invito di Ciro agli ebrei di uscire dal suo regno per tornare a Israele, e costruire un tempio al Signore. Anche Gesù invita i suoi discepoli ad andare, lasciare l’istituzione religiosa, ma non a costruire un tempio, perché la comunità dei discepoli sarà il nuovo tempio dove si manifesta l’amore, la misericordia del Signore.




il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

PREGHERÒ IL PADRE E VI DARÀ UN ALTRO PARÀCLITO

commento al vangelo della sesta domenica di pasqua (21 maggio 2017) di p. Alberto Maggi:

Gv 14,15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».