il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

VEGLIATE, PER ESSERE PRONTI AL SUO ARRIVO  

commento al vangelo della prima domenica di avvento (27 novembre 2016) di p. Alberto Maggi:

Mt 24,37-44Maggi

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.  Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

avvento

La liturgia della prima domenica di Avvento, ci presenta un brano di non facile lettura e, per comprenderlo, va inserito nel suo contesto, che è il capitolo 24, l’inizio dell’ultimo discorso di Gesù, prima di essere arrestato. Questo capitolo 24 iniziava con Gesù, che è uscito dal tempio e, di fronte ai discepoli che ne ammirano lo splendore, dice: “non rimarrà pietra su pietra che non sarà distrutta”. Perché questo ? C’ era stato l’episodio dell’offerta della vedova, che si dissanguava, per offrire tutto quello che aveva, al tesoro del tempio. Allora per Gesù, un’ istituzione religiosa che, anziché aiutare i deboli, si fa mantenere dai deboli e sfrutta i deboli in nome di Dio, non ha diritto all’esistenza. Per cui Gesù dichiara la fine di tutto questo: ecco non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta.
Ma questo è appena l’inizio di uno sconvolgimento, di un cambiamento che avverrà nella storia e nell’ umanità. E Gesù prosegue affermando, usando il linguaggio profetico, che il sole non darà più il suo splendore. Il sole in quella cultura rappresentava le divinità pagane. Gesù, in questa azione di cambiamento dell’umanità, chiede la collaborazione dei suoi discepoli. L’annunzio del vangelo del vero Dio porterà l’ eclisse delle false divinità e, dice Gesù, gli astri cominceranno a cadere. Chi sono questi astri ? Gli astri erano  immagini dei re, dei potenti, degli imperatori, che, su queste divinità, basavano il loro potere. Quando l’annunzio del vangelo oscura questa divinità, ecco che questi re, questi principi, uno dopo l’altro, cadono. Quindi è l’inizio di un cambiamento dell’umanità e, dice  Gesù, così vedrete in cielo il segno del figlio dell’uomo.
Che cos’è questo figlio dell’uomo ? È il titolo che più appare nei vangeli, insieme a figlio di Dio, ed è sempre in bocca a Gesù. L’espressione viene presa dal libro del profeta Daniele, nel capitolo settimo, dove il profeta, in un sogno, vede sorgere dal mare, il mare Mediterraneo, quattro bestie. Le bestie sono immagini dei
poteri politici, conosciuti per la loro ferocia, uno più brutale dell’altro. La prima bestia  rappresenta l’ impero Babilonese, poi quello dei Medi, dei Persiani. La quarta è talmente orrenda che il profeta non sa neanche come descriverla, e rappresenta Alessandro Magno. Bene, Dio distruggerà questi poteri politici disumani, e darà il suo potere ad un figlio dell’uomo, espressione che significa l’uomo. Cioè l’azione di Dio nell’umanità è di eliminare tutto quello che è disumano, per far trionfare l’ umano. Allora, quando Gesù parla di sé come il figlio dell’uomo, cosa significa ? Gesù è il figlio di Dio in quanto rappresenta, manifesta Dio nella sua  condizione umana, ma è il figlio dell’uomo, in quanto rappresenta l’uomo nella sua condizione divina. E questa condizione divina non è un privilegio esclusivo di Gesù, ma un’offerta a tutti quelli che lo accolgono e che lo vogliono seguire.
Negli annunzi della passione, Gesù dirà che tutto l’odio, l’ astio, la ferocia dell’ istituzione religiosa non saranno contro il Cristo, cioè il Messia, perché il Messia è uno, ed una volta eliminato, l’istituzione può dormire sonni tranquilli. Ma sarà contro il figlio dell’uomo, e questo è pericoloso, perché non è soltanto Gesù, ma tutti coloro che lo seguono. Ricordiamo che l’ ordine di cattura non fu soltanto per Gesù, ma per tutti i suoi discepoli. È pericolosa la dottrina. Quindi Gesù, quando fa gli annunzi della passione, dice che è il figlio dell’uomo che sarà condannato, sarà ammazzato, ma poi risusciterà.
Questa offerta di condizione divina non è un privilegio di Gesù, ma è offerta a tutti quelli che lo seguono. Ma, dice Gesù, bisogna stare attenti perché, e qui ecco il riferimento ai giorni di Noè. Cosa dice Gesù ? “Nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano”, tutte azioni normali. Ma c’è da stare attenti che questa offerta di pienezza di vita non venga distratta da quella che è la routine quotidiana. Il fatto del diluvio non fu la fine del mondo, ma fu l’inizio di un’umanità nuova. E perché questo umanità nuova inizi, Gesù ha bisogno di collaborazione. La linea di Gesù, che è il figlio dell’uomo, cioè la persona pienamente umana, completamente umana, è l’umanizzazione della società. I poteri, tutto quello che domina, sono disumani, allora l’azione di Gesù è umanizzare questa umanità. Ma questo, come per lui, non sarà indolore.
Ecco perché Gesù avverte i suoi discepoli: vigilate, vegliate. È lo stesso invito che darà nel momento dell’agonia del Getsemani ai suoi discepoli, perché è chiaro che i poteri non staranno fermi vedendo erodere il loro sistema, e quindi si scateneranno con ferocia, ci sarà la persecuzione come per Gesù. Ma Gesù lo ha assicurato: Dio tra chi perseguita e chi viene perseguitato si pone sempre al fianco dei perseguitati.
E l’evangelista racchiude in questo insegnamento quello che aveva annunciato con le beatitudini: quelli che scelgono di collaborare con Gesù al regno di Dio, anche se si scatena la persecuzione, ebbene questa sarà una beatitudine, che confermerà che Dio è dalla loro parte.

il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

SIGNORE RICORDATI DI ME QUANDO ENTRERAI NEL TUO REGNO 

commento al vangelo della trentaquattresima domenica del tempo ordinario (20 novembre 2016) di p. Alberto Maggi:

Lc 23,35-43

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Maggi

L’episodio delle tentazioni nel deserto si erano concluse con queste parole: “e il diavolo si allontanò da Lui [Gesù] per ritornare al tempo fissato”; ed ecco il momento fissato: il momento di massima debolezza di Gesù. Gesù è crocefisso è già agonizzante, sulla croce, e nel momento di massima debolezza di nuovo si presentano le tentazioni di forza, le tentazioni di potere.    Leggiamo quello che ci scrive Luca, l’evangelista al cap. 23 nei versetti 35-43; Gesù che ha avuto come unica missione quella di portare vita, di salvare le persone ha pronunciato già le parole rivolte al Padre, una preghiera di perdono: Padre perdonali perché non sanno quello che fanno; e, scrive l’evangelista: il popolo stava a vedere.    Questo popolo che lo ha seguito, queste folle che erano incantate dal suo messaggio ora sono sottomesse alle decisione dei capi, non prendono nessuna iniziativa, stanno a vedere.    I capi invece lo deridevano; ecco senza un minimo di umanità, senza un po’ di compassione. In fondo Gesù, anche se ai loro occhi è un colpevole, è un uomo agonizzante sulla croce, questa tortura terribile, ebbene loro sono spietati, lo deridono dicendo: ha salvato gli altri, e qui c’è un eco di quello che Gesù disse nell’episodio della Sinagoga di Nàzaret quando disse: medico cura te stesso: ha salvato gli altri salvi se stesso se è Lui il Cristo di Dio l’eletto, ecco ritornano le tentazioni. 
Questa espressione: se è Lui il Cristo di Dio, ritornerà tre volte e noi sappiamo che il numero tre nella simbolica numerica ebraica significa quello che è completo, quindi il diavolo ritorna con forza, con le sue tentazioni nel momento di massima debolezza dii Gesù. Quindi i capi lo deridono, non hanno un minimo di compassione e dicono se ha salvato gli altri provi a salvare se stesso, se è Lui il Cristo di Dio, l’eletto. L’eletto che viene abbandonato. Una delle prove che Gesù non è stato il Messia, il Cristo d’Israele, è che il Messia non poteva morire.    Anche i soldati, sono i soldati romani, lo deridevano, letteralmente “lo schernivano”, si prendono gioco di Lui, una burla, gli si accostavano per porgergli dell’aceto. Mentre il vino è l’immagine dell’amore, il suo contrario l’aceto è l’immagine dell’odio. C’è un salmo, il salmo 69 versetto 22 che dice: “quando avevo sete mi hanno dato l’aceto”, e dicevano “se tu sei il re dei giudei, ecco che di nuovo ritorna questa tentazione, salva te stesso”.    Ma Gesù è venuto a salvare chi è perduto, Gesù non è venuto a salvare se stesso, ma a salvare gli altri, e l’evangelista commenta: sopra di Lui c’era anche una scritta: “costui è il Re dei giudei”, letteralmente “Il Re dei giudei è questo”. È una scritta molto derisoria, ed è l’unica scritta conosciuta di Gesù nella sua vita, per prenderlo in giro. Questo è il Re dei giudei quindi è un’espressione che indica il massimo disprezzo, verso questo popolo che i romani sottomettevano; ma ecco dove l’evangelista ci vuol portare; “Uno dei malfattori, la croce era uno strumento di tortura riservato alla feccia della società, ai criminali più feroci, quindi finire sulla croce significava aver combinato veramente qualcosa di tremendo. “Uno dei malfattori appesi (si intende alla croce) lo insultava: “non sei tu il Cristo? Salva te stesso”. Ecco per la terza volta c’è la tentazione “salva te stesso”: è la tentazione del diavolo, usare il potere per se stesso.    Ma Gesù la forza del suo amore non la usa per se ma la usa per gli altri. “salva te steso e noi , l’altro invece lo rimproverava dicendo: “non hai alcun timore di Dio tu che sei condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni”.  Quindi questo individuo crocefisso con Gesù è un criminale, è un delinquente. “Egli invece non ha fatto nulla di male”. Ecco, riconosce questo bandito, questo criminale crocefisso con Gesù, riconosce la realtà di Gesù, quella realtà che negli Atti degli Apostoli per parola di Pietro: “Gesù di Nàzaret che passo beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo perché Dio era con lui”.    Quindi questo delinquente riconosce che Gesù è innocente, e si rivolge a Gesù e gli chiede: “Gesù ricordati” questo verbo ricordare fa parte del linguaggio della preghiera ebraica, ricordare significa chiedere a Dio di posare uno sguardo di bontà, intervenire a favore di colui che prega, quindi è una richiesta; “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno” o meglio secondo  una variante di questo versetto; quando verrai nel tuo Regno, cioè quando verrai come Re ricordati di me.    Ebbene la risposta di Gesù spiazza tutti, spiazza ascoltatori, lettori del tempo e spiazza anche noi, perché ripeto: non è come poi la storia cercherà di annacquare questo episodio in “il buon  ladrone”. Questo è un delinquente, un criminale, che come dice lui ha giustamente meritato questa tremenda pena. Ebbene la risposta di Gesù: “ in verità, quindi un’affermazione solenne, io ti dico oggi con me sarai nel paradiso”. Mentre il bandito aveva chiesto ”ricordati” quando entrerai nel tuo Regno quindi non immediatamente, la risposta di Gesù è immediata: oggi stesso; quindi non un domani, non nel tempo, ma oggi stesso, immediatamente, sarai con me nel paradiso. È l’unica volta che nel vangelo di Luca appare il termine paradiso, Gesù quando deve parlare della vita che continua oltre la morte parla di vita eterna, di vita indistruttibile, ma non usa mai questo termine paradiso. Paradiso è un termine persiano che significa semplicemente “giardino”, era quel luogo intermedio dove le anime stavano in attesa della resurrezione.    Perché Gesù parla proprio di paradiso? L’evangelista vuol contrapporre l’azione di Gesù con quella descritta nel libro della Genesi. Nel libro della Genesi Dio caccia dal paradiso l’uomo peccatore; con Gesù il primo ad entrare con Lui in paradiso è proprio l’uomo peccatore. Quello che l’evangelista vuol dire è quello che ha seguito per tutto il filone del suo vangelo, l’amore di Dio non è rivolto alle persone per i loro meriti, ma per i loro bisogni.    Che merito ha questo bandito, per entrare in paradiso? Non ne ha nessuno merito, ma ha bisogno, l’amore di Dio guarda i bisogni delle persone. Non esistono per Gesù, per la forza del suo amore, non esistono casi impossibile che l’amore di Dio o l’amore di Gesù non possa vincere .

il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

CON LA VOSTRA PERSEVERANZA SALVERETE LA VOSTRA VITA

commento al vangelo della trentatreesima domenica del tempo ordinario (13 novembre 2016) di p. Alberto Maggi:p. Maggi

Lc 21,5-19

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Il vangelo di questa domenica è abbastanza complesso e rischia di essere travisato. Per questo dobbiamo situarlo nel suo contesto storico. Il vangelo è di Luca, cap. 21 versetti 5-19. Per comprenderlo dobbiamo fare un passo indietro, di ben sette secoli, situarci nel 701, quando Sennacherib, il potente re d’Assiria, iniziò la sua marcia verso la Palestina e nel suo percorso aveva già assediato e devastato ben 46 città e aveva posto d’assedio la piccola Gerusalemme. Re Ezechia e tutto il popolo si videro perduti perché tutta Gerusalemme era circondata dal potente esercito degli assiri. Ebbene, quale sorpresa al mattino quando sarebbe dovuto scattare l’attacco, videro che l’accampamento era vuoto, era stato abbandonato.
Per quale motivo? La spiegazione religiosa, ufficiale che viene data: un intervento di Dio. Infatti troviamo nel secondo libro dei Re, al capitolo 19, versetto 23, che questa stessa notte, l’angelo del Signore, l’angelo di Javeh uscì e colpì nel campo assiro 185.000 uomini, quindi lasciò un deserto di cadaveri, e Sennacherib, il re d’Assiria, tolse le tende, partì per far ritorno a Ninive.
Questa la spiegazione religiosa. In realtà negli scritti di Sennacherib si dice che il re Ezechia ha pagato un pesantissimo tributo. Fatto sta che questo avvenimento aveva dato origine alla credenza che, nel momento di massimo pericolo per Gerusalemme, Dio sarebbe intervenuto. C’è un salmo che celebra tutto questo, il salmo 46 al versetto 6 dove dice Dio è in mezzo a essa, non potrà vacillare.
Quindi nel momento di massimo pericolo interviene Dio. Allora leggiamo il vangelo.
Mentre alcuni parlavano del tempio, questi alcuni sono i discepoli, che era ornato di belle pietre e di doni votivi… Il tempio di Gerusalemme era uno splendore.  Gesù disse: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete…” Il verbo significa letteralmente ammirate. Ed è strano questo. Gesù aveva parlato del tempio come di una spelonca di ladri e di bandini. I suoi discepoli, invece, continuano a sentirne il fascino, l’ammirazione. “…Non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”.
Perché questo? L’episodio precedente era stato quello della vedova che si dissanguava, offriva tutta la sua vita per mantenere in piedi questa istituzione. Era l’istituzione che con i proventi doveva mantenere i deboli della società. Ma l’istituzione religiosa aveva stravolto tutto questo. Erano i deboli che mantenevano quest’istituzione. Allora, per Gesù, un’istituzione religiosa che, anziché aiutare gli ultimi, i deboli, li sfrutta per il proprio mantenimento, non ha ragione di esistere. Ecco perché Gesù dice: non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. E ancora oggi a Gerusalemme si possono vedere le pietre gettate giù dai romani nell’assedio nel 70.
Gli domandarono: “Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?”. I discepoli non sono preoccupati né allarmati, vogliono solo sapere quando. Perché? Come abbiamo detto prima si credeva che nel momento di massimo pericolo per Gerusalemme Dio sarebbe intervenuto. Questo è quello che sperano i discepoli. Loro sperano ancora che il Signore venga a restaurare il defunto regno di Israele. Ma Gesù rispose: “Badate…” Ed è un imperativo “Di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Io sono”” Io sono è il nome divino. “E: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro!
Gesù è categorico. Sempre nella storia ci saranno persone che penseranno di avere questo mandato divino di restaurare, di riformare, Gesù chiede di non seguirli. Storicamente sappiamo che dopo Gesù si presentarono diversi altri presunti messia, l’ultimo dei quali fu Bar Kochba, detto il figlio della stella, che alcuni rabbini avevano riconosciuto addirittura come il messia inviato da Dio, e che causò sotto l’imperatore Adriano, la rivolta contro i romani e, da parte dei romani, la distruzione completa di Gerusalemme. 
“Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine”. Gesù dice di non eccitarsi con questa attesa, perché loro pensano che sia il momento per inaugurare il regno di Israele. Gesù dice che non sarà così.
Poi diceva loro… E qui per comprendere queste espressioni bisogna rifarsi al linguaggio dei profeti con i quali i profeti descrivono grandi sconvolgimenti sociali.  “Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze…” Sono le immagini che i profeti usano per indicare i grandi cambiamenti sociali.
 “Vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.” Tutto questo è un’immagine per atterrire. Vedremo alla fine di questo episodio come Gesù parlerà di segni di liberazione per i suoi. Ma questo sconvolgimento, cambiamento, purtroppo non sarà indolore per i suoi discepoli. Questo messaggio che scrive Luca è di incoraggiamento alle comunità cristiane che si vedono perseguitate, emarginate.
“Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno…” E qui Gesù presenta i tre valori sacri sui quali si regge la società che sono Dio, patria e famiglia, tutti uniti sotto l’insegna del potere sugli uomini. Ebbene questi tre valori sacri … – per valore sacro si intende un valore per il quale è lecito sacrificare la propria vita e togliere la vita all’altro – si rivolteranno contro i discepoli di Gesù.
“… Consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.”
L’evangelista sta anticipando la scena che poi presenterà negli Atti degli Apostoli, del martirio di Stefano, che avrà parole verso le quali i suoi avversari non sapranno resistere. E anche Stefano ha toccato il tempio di Gerusalemme, l’istituto nevralgico di questa istituzione religiosa. Perché tutta questa avversione verso Gesù e i suoi? Perché il messaggio universale – annunziato da Gesù – del regno di Dio, annulla il privilegio di Israele di essere la prima tra le nazioni e il sogno del suo regno. Tutto questo non sarà indolore.
E addirittura, dice Gesù… quindi abbiamo visto Dio, la religione, la patria, i governati, ma “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi”; qui il riferimento è al libro del Deuteronomio dove si prescrive che è lecito uccidere anche il parente idolatra. Quindi l’adesione a Gesù, agli occhi della società, è una idolatria che merita la morte.
L’adesione a Gesù, col radicale sovvertimento dei valori, è un crimine così grande da riuscire ad annullare persino i legami più stretti. “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome”. Quindi la persecuzione non è un imprevisto nella vita del credente, ma è la conferma che si sta seguendo Gesù.
Ed ecco la rassicurazione di Gesù: “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. Quindi Gesù assicura che da parte di Dio ci sarà la sua protezione e che questo non sia un messaggio che mette paura o dona angoscia, ma anzi la toglie. E troviamo in fondo al capitolo, al versetto 28, quando Gesù dice: “E quando cominceranno ad accadere queste cose alzatevi e levate il capo perché la vostra liberazione è vicina”. Quindi tutto questo che abbiamo detto non è un messaggio che mette paura, ma che la toglie.
Gesù ci assicura che la liberazione è vicina. Certo questa liberazione non sarà indolore, ci sarà da soffrire, ma Gesù sta sempre dalla parte dei perseguitati, mai da quella di chi perseguita, anche se chi perseguita pretende di farlo in nome suo.

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

“DIO NON E’ DEI MORTI, MA DEI VIVENTI”

commento al vangelo della trentaduesima domenica del tempo ordinario ( novembre 201) di p. Alberto Maggi:

maggi20

Lc 20,27-38

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

I sadducei hanno congegnato bene la trappola in cui far cadere Gesù. Non osano affrontarlo sul piano dottrinale e politico perché sanno che potrebbero avere la peggio. Gesù infatti ha già zittito con le sue risposte i sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani, ed è riuscito a lasciare senza parole anche i pur agguerriti farisei.
Scrive l’evangelista che “Costoro”, i farisei, “meravigliati della sua risposta, tacquero”. D’altro canto Gesù non possono eliminarlo perché Gesù ha un gran seguito tra la gente, ne farebbero un martire. E così i sadducei decidono di attirarlo in un terreno scivoloso da dove, una volta caduto, l’aspirante messia avrebbe avuto difficoltà a rialzarsi, il ridicolo e il discredito.
L’aristocratica casta sacerdotale dei sadducei, il cui nome deriva da sadoc, il sacerdote che consacrò come re Salomone, il figlio dell’amante di Davide e Betsabea, al posto del legittimo re Adonia. Questa

casta sacerdotale dei sadducei deteneva non soltanto il potere politico, ma anche il potere economico, erano molto ricchi.
Loro accettavano come parola di Dio soltanto i primi cinque libri della Bibbia e rifiutavano i libri dei profeti. Per quale motivo? Perché nei profeti è costante la denuncia di Dio contro l’ingiustizia che crea grandi ricchezze, ma anche tanta povertà. Quindi loro lo rifiutavano perché per loro andava bene la situazione così com’era.
Si rivolgono a Gesù con un titolo ossequioso, Maestro, ma in realtà non vanno a prendere da lui, vogliono soltanto screditarlo. E si rifanno a una questione che ha le sue basi nella legge di Mosè, nel libro del Levitico, dove Mosè prescrive: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello.
Qual è il significato di questa legge? La legge del levirato prevedeva che il cognato di una donna rimasta vedova e senza figli avesse l’obbligo di metterla incinta, perché era importante che il nome del marito continuasse. Era una maniera per diventare eterni, per perpetuare il proprio nome; ogni figlio portava il nome del padre.
Quindi quando una donna rimaneva vedova e, senza aver avuto un figlio maschio, il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta e il bambino nato avrebbe portato il nome del defunto. La legge prescrive: In modo da assicurargli la perpetuità, come c’è scritto nel libro del Deuteronomio: Perché il nome di questi non si estingua da Israele.
Secondo la cultura dell’epoca – e questo va compreso per una migliore comprensione del brano – il matrimonio aveva il solo scopo di assicurare una discendenza all’uomo, la donna serviva unicamente per mettere al mondo figli, figli maschi.
Quindi qui non si tratta di uno scrupolo sull’amore, ma su una realtà del figlio maschio. Allora, ispirandosi alla popolare storia di Sara, la sfortunata sposa alla quale morirono ben sette mariti la sera stessa delle nozze, i sadducei spacciano – come se fosse vera – la macabra vicenda di questi sette fratelli tutti morti senza essere riusciti ad avere un figlio da quella che è stata la moglie di tutti e sette.
Della donna ai sadducei non interessa nulla, non desiderano conoscere la sorte della donna, desiderano solo sapere a quale dei defunti, una volta risuscitati, spetterà poi averla per immortalare con un figlio maschio il proprio nome. Quindi non si tratta di un problema affettivo (di chi sarà la moglie?), ma chi da questa donna riuscirà ad avere un figlio maschio.
Quindi i sadducei cercano di ridicolizzare Gesù e di burlarsi di lui. Ebbene nella sua risposta Gesù si distanzia dall’interpretazione popolare della risurrezione, intesa come un ritorno alla vita fisica dei morti, e Gesù risponde che la vita dei risorti non dipende dalla procreazione, dal rapporto tra marito e moglie, ma proviene direttamente dalla potenza di Dio.
E Gesù cita gli angeli? Perché Gesù cita gli angeli? Perché i sadducei non credevano all’esistenza degli angeli. Come gli angeli ricevono la vita non certo dal padre e dalla madre, ma direttamente da Dio, così con la risurrezione la vita rimane eterna perché proviene da Dio. 
Ai sadducei, che si sono fatti forza dell’autorità di Mosè per opporsi a Gesù, Gesù ribatte a sua volta, riconducendosi proprio a Mosè, a quello che ha scritto, mostrando quanto sia miope e limitata la loro lettura della scrittura e si rifà alla risposta che Dio diede a Mosè nel famoso episodio del roveto ardente, quando disse: “Il Signore è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”.
Quando si dice che il Signore è il Dio di … non si intende tanto il Dio creduto da … Abramo, Isacco o Giacobbe, ma il Dio che protegge Abramo, Isacco e Giacobbe. E come protegge? Protegge con la sua vita, tenendoli lontani dalla morte.
Quindi essere sotto la protezione di Dio significa avere la sua stessa vita e il Dio fedele non permette che muoiano quelli che lui ha amato. E il perché ce lo dice la frase più importante di tutto questo brano, che getta nuova luce sull’immagine della vita, della morte e delle risurrezione, “Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché vivono tutti per lui”.
Il Dio di Gesù non risuscita i morti, ma comunica ai vivi, ai viventi, la sua stessa vita, una vita di una qualità tale che è capace di superare la morte.

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

IL FIGLIO DELL’UOMO ERA VENUTO A CERCARE E A SALVARE CIO’ CHE ERA PERDUTO

commento al vangelo della domenica trentunesima del tempo ordinario (30 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:p. Maggi

Lc 19,1-10

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».  Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Il vangelo di Luca si è aperto con l’affermazione che nulla è impossibile a Dio. Non esistono casi disperati, non esistono persone che, qualunque sia la loro situazione, la loro condizione, possano essere esclusi dall’amore di Dio. Eppure nel vangelo ci sono due categorie che sembrano essere escluse dall’amore di Dio, dalla salvezza, la prima è quella dei pubblicani, gli esattori delle imposte, che erano considerati trasgressori di tutti i comandamenti; persone impure per le quali non c’era alcuna speranza di salvezza.
E l’altra esclusione viene da parte di Gesù che esclude tassativamente la presenza di ricchi nella sua comunità. Gesù l’ha detto chiaramente “E’ più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”.
La comunità di Gesù è composta da signori e non da ricchi. Qual è la differenza? Il ricco è colui che ha e trattiene per sé, il signore è colui che dà e condivide con gli altri.
Ebbene l’evangelista ci presenta nel capitolo 19, nei primi dieci versetti, un caso disperato, che sembra senza soluzione. Ma vediamo.
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo…. Ironia della sorte, in ebraico Zaccai significa puro, ma vedremo che è la persona più impura. Capo dei pubblicani e ricco. Ecco, ha le due caratteristiche che lo escludono dalla salvezza. Non solo è un pubblicano, un esattore delle imposte, ma è il capo. E addirittura è ricco. Quindi dal punto di vista della società religiosa è un escluso da Dio, ma anche per Gesù non può appartenere alla sua comunità. Quindi è un caso disperato.
Cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. L’evangelista non vuole darci una indicazione folcloristica sull’altezza o meno di questo personaggio, il termine che adopera per “piccolo”, cioè  micros, significa che non è all’altezza di Gesù. Perché non è all’altezza di Gesù? Per l’attività che fa, un’attività che lo porta ad ingannare e derubare gli altri, quindi a fare del male e soprattutto perché è ricco. I ricchi non sono all’altezza di Gesù.
Allora corse avanti. Ecco il primo dei cambiamenti che c’è in questa persona. E’ un capo dei pubblicani, è una persona che venisse disprezzata, è temuta e riverita. E lui si mette a correre. Correre in quella cultura è qualcosa di disonorevole perché non si corre mai.
E, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Il sicomoro è una pianta tipica della zona, ne mostro uno nell’immagine, che si trova nella città di Gerico in ricordo di questo episodio. E’ una grande piante. Ebbene Zaccheo pensa che per vedere Gesù deve salire, invece Gesù lo inviterà a scendere.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zacchèo, scendi subito”. Lui pensava secondo la mentalità religiosa che per avvicinarsi a Dio bisognasse salire, invece Gesù lo inviata a scendere. “Perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Il verbo “dovere” adoperato dall’evangelista è un verbo tecnico con il quale gli evangelisti affermano la volontà divina. Quindi questo doversi fermare a casa di Zaccheo fa parte della volontà di Dio, del piano di salvezza, di questo Dio che a tutti è venuto a proporre il suo amore.
Scese in fretta (prima corre ora di nuovo in fretta) e lo accolse pieno di gioia. Qual è il motivo della gioia? Non è soltanto dell’accoglienza della figura di Gesù. La gioia gli viene da quello che sta per fare. Gesù, in un’espressione che è contenuta negli atti degli apostoli dirà: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. E Gesù aveva proclamato beati quelli che fanno la scelta della povertà, della condivisione. Ecco il motivo della gioia di Zaccheo.
Ma, alla gioia, all’allegria di Zaccheo, corrisponde il malumore degli altri. Vedendo ciò, tutti  (nessuno escluso) mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore!”. I peccatori vanno ammoniti, vanno rimproverati e soprattutto vanno evitati. E’ impensabile che una persona pura entri in casa di una persona impura perché viene contagiato da questa sua impurità. Gesù mostra che non è vero che l’uomo peccatore si deve purificare per essere degno di accoglierlo, ma è accogliere il Signore quello che purifica.
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri”, quindi lui che era ricco, già non era più ricco, perché la metà di quello che ha lo dà ai poveri. E’ l’accoglienza della beatitudine di Gesù.
“E, se ho rubato a qualcuno (certo che ha rubato), restituisco quattro volte tanto”.  Zaccheo fa molto di più di quello che era previsto nella legge. Infatti nel libro del Levitico, al capitolo 5, si legge che il colpevole doveva restituire sì quello che ha rubato con l’aggiunta di un quinto. Lui fa molto di più. Dice “Io restituisco quattro volte tanto”. Che cosa è successo? Era ricco, ora non lo è più, però adesso è nella beatitudine, nella felicità e nella gioia.
Gesù gli rispose: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza”. Gesù è stato indicato in questo vangelo all’inizio come il salvatore e per la prima e unica volta, appare il termine “la salvezza”. “Perché anch’egli è figlio di Abramo.” La gente pensava che, per la sua condotta, fosse una persona esclusa, un impuro, un maledetto. No, è un figlio di Abramo. “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.
Il figlio dell’Uomo non attende che i peccatori vengano a lui pentiti, ma è lui che va incontro a questi peccatori per comunicare vita. Perché Gesù dice: “Salvare ciò che era perduto?” Perché la ricchezza distrugge le persone. La vita si ottiene dando e non accumulando. Questa è la buona notizia portata da Gesù, quindi per lui non esistono casi impossibili, casi disperati.

 

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

IL PUBBLICANO TORNO’ A CASA GIUSTIFICATO, A DIFFERENZA DEL FARISEO 

 

  commento al vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario (29 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:Maggi

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Gesù, nel suo insegnamento ha presentato Dio come un Padre il cui amore non è attratto dai meriti delle persone, ma dai loro bisogni. E’ quanto esprime l’evangelista Luca nel capitolo 18, versetti 9-14. Leggiamo.
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola. E la parabola ha un indirizzo ben preciso, per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. Quindi Gesù rivolge questo messaggio a coloro che si sentono giusti. Giusti significa – da un punto di vista religioso – coloro che si ritengono completamente a posto con Dio in base alla loro pratica religiosa, in base alla loro situazione, e per questo motivo disprezzano gli altri. E’ tipico delle persone religiose. 
Quanto uno si sente tanto a posto con Dio, si permette poi di giudicare, condannare e poi disprezzare gli altri. Ed è a questo tipo di persone, quindi le persone molto pie, molto religiose, che Gesù rivolge questa parabola.
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.” Gesù presenta gli opposti della società religiosa e civile dell’epoca. Il termine fariseo significa separato. Chi erano i farisei? Erano laici che si impegnavano ad osservare nella vita quotidiana tutti i precetti, le leggi e le osservanze prescritte nella legge.
Ne avevano estrapolate addirittura ben 613. Erano attenti a non mangiare nulla di impuro, erano scrupolosi osservanti del riposo del sabato. Erano i santi per eccellenza. Quindi il fariseo è la persona che si ritiene – ed è ritenuta – la più vicina a Dio.
All’opposto il pubblicano. Pubblicano viene da publicum, la cosa pubblica. Erano gli esattori del dazio; erano considerati ladri di professione, al servizio spesso dei dominatori pagani, erano considerati i trasgressori di tutti i comandamenti e avevano come un marchio di impurità per il quale per loro non c’era speranza alcuna di salvezza.
Anche se un domani un pubblicano si fosse convertito, lui non avrebbe più potuto cambiare mestiere e poi per lui non c’era nessuna speranza di salvezza.
Quindi Gesù presenta i due opposti. Il più vicino a Dio, e non il più lontano, ma addirittura l’escluso da Dio.
“Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé…” Letteralmente l‘evangelista scrive “pregava verso se stesso”. La preghiera del fariseo non è rivolta a Dio, ma lui ha fatto di se stesso il proprio Dio, il proprio idolo. La sua è un inutile sbrodolamento delle inutili virtù che Gesù non richiede, che Dio non richiede. Ed ecco la sua preghiera: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”. Ecco la preghiera di questa persona che si ritiene giusta, che si ritiene un modello di santità, porta subito al giudizio e al disprezzo degli altri uomini. “Ladri, ingiusti, adùlteri, e (qui c’è proprio una punta di disprezzo) neppure come questo pubblicano.”
Cos’è che lo fa sentire tanto a posto con Dio, cos’è che lo fa ritenere tanto santo, tanto giusto? Quello che Dio non richiede. Le cose inutili. Infatti ora vedremo che questo fariseo elenca tutte azioni superflue, inutili e per questo nocive.
“Digiuno due volte alla settimana …” Il digiuno era comandato una volta all’anno, il giorno del perdono, ma le persone pie, come i farisei, digiunavano due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, in ricordo della salita di Mosè sul monte Sinai e poi della sua discesa. Erano i giorni di digiuno.
“E pago le decime di tutto quello che possiedo”. La decima era una tassa che si pagava su certe derrate alimentari ma non su tutto. Lui, per scrupolo, offre tutto e paga tutto quanto. Notiamo che non elenca nessun atteggiamento benevolo e favorevole ai bisogni degli altri, tutto rivolto a se stesso e a Dio. C’è un fariseo che dice che come lui nessuno osservava la legge e che quando si è poi pentito – è San Paolo di Tarso – dirà che “Tutte queste prescrizioni hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità, e umiltà e mortificazione del corpo, ma il realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare l’egoismo, la carne”. San Paolo, che pure aveva sperimentato questo, dice che non servono a niente. Tutte queste devozioni, tutte queste pratiche religiose, non solo sono inutili, ma sono nocive perché non fanno altro che soddisfare il proprio io.
Nella lettera ai Filippesi San Paolo arriverà a dire che quando ha conosciuto il messaggio di Gesù tutte queste devozioni e pratiche che gli sembravano tanto importanti le ha considerate un escremento.
“Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”. Si sente in colpa, sa che è un escluso da Dio. “Ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, letteralmente “sii benevolo, mostrami la tua misericordia”. Il pubblicano mostra di avere fede. Lui sa che è in una situazione disperata, per lui non c’è perdono, per lui non c’è salvezza, ma nonostante questo – e qui sembra di sentire l’eco del Salmo 23 dove il salmista dice “anche se vado in una valle oscura tu sei con me” – dice “mostrami la tua misericordia”.
“Tu vedi Signore che vita faccio, non posso cambiare, questa è la mia situazione, tu la conosci. Ebbene, nonostante questo, mostrami il tuo amore e la tua misericordia”.
La conclusione di Gesù è sconcertante. “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato”. All’inizio l’evangelista ha presentato quelle persone che si ritenevano “giusti” e ora parla di “giustificato” cioè a posto con Dio, in sintonia con Dio. Ma che cosa ha fatto? Non si è pentito. Non ha detto che cambia il suo comportamento, non ha detto nulla di tutto questo, ma ha chiesto al Signore di mostrargli la sua misericordia.
E il Dio di Gesù, il suo amore non lo dirige a chi lo merita, ma a chi ne ha bisogno.
“Perché chiunque si esalta (letteralmente si innalza) sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. Quindi Gesù rovescia i paradigmi della società, quello che si riteneva più vicino a Dio per le sue pratiche religiose, per Gesù è il più lontano, perché non fa nulla per gli altri. Quello che conta per Gesù non è quello che si rivolge alla divinità, ma gli atteggiamenti di bene, di benessere che si fanno nei confronti degli altri. E soprattutto, a conclusione, Gesù ricorda che l’amore di Dio non è concesso come un premio per i propri meriti, ma come un regalo per i propri bisogni.

 

 

il vangelo della domenica commentato da padre Maggi

DIO FARA’ GIUSTIZIA AI SUOI ELETTI CHE GRIDANO VERSO DI LUI 

commento al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario (16 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi
Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Il capitolo 18 del vangelo di Luca si apre con un insegnamento di Gesù che non riguarda la preghiera, ma la fede. Non una preghiera insistente, ma la fede. Cosa significa la fede? Avere fiducia, credere profondamente, che Dio realizza il suo progetto. E qual è il progetto di Dio? Il suo regno. Sulla preghiera Gesù già nel capitolo 12 ed altri aveva ampiamente parlato ai suoi discepoli, aveva presentato Dio come un Padre che si prende cura del bene dei suoi figli, un Padre che non va incontro ai loro bisogni, alle loro necessità, ma addirittura li precede. Un Padre che, come aveva detto Gesù, sa ciò di cui avete bisogno.
Quindi non c’è la necessità di elencargli le nostre richieste, perché il Padre già le sa. E Gesù, concludendo questo insegnamento sulla preghiera, aveva detto “Cercate piuttosto il suo regno e queste cose vi saranno date in aggiunta”.

Il regno è l’oggetto della preghiera. Tanto è vero che Gesù nella preghiera del Padre Nostro lo inserirà con la richiesta “Venga il tuo regno”. Cos’è questo regno? Una società alternativa. Allora questo brano che adesso leggiamo – capitolo 18 i primi otto versetti del vangelo di Luca – non è un insegnamento sull’insistenza della preghiera verso un Dio che è sordo e va supplicato. Questo è il Dio dei pagani, non è il Padre di Gesù.
E’ un insegnamento sulla certezza delle promesse di Dio che vengono realizzate, anche se all’apparenza può sembrare il contrario. Scrive l’evangelista: Diceva loro, quindi Gesù si sta rivolgendo ai discepoli, questi discepoli che hanno dimostrato di non avere un minimo di questa fiducia, una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Ecco l’insegnamento non è sulla preghiera, la preghiera è un mezzo, ma l’insegnamento è sulla giustizia.
Infatti il termine giustizia in questo vangelo comparirà per ben quattro volte. E’ la giustizia del regno, questa società alternativa che Gesù è venuto a proporre.
“In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno.” Il ritratto che Gesù fa del giudice è quello di una persona potente e superba. E ci richiama subito l’annunzio che aveva fatto Maria in questo vangelo con il suo canto, di quello che è il progetto di Dio sulla creazione, ma progetto che, per realizzarsi, ha bisogno della collaborazione delle persone. Maria aveva detto che Dio ha disperso i superbi, rovesciato i potenti dai troni – e qui abbiamo un potente che è superbo – innalzato gli umili, ricolmato di beni gli affamati, rimandato i ricchi a mani vuote. Questo è il progetto di Dio. Ed è su questa fiducia che Gesù insiste. E’ questa la fede che devono avere i suoi discepoli e per la quale devono attivarsi, collaborare.
In quella città c’era anche una vedova. L’immagine della vedova nella Bibbia rappresenta la persona che, non avendo un uomo che pensa a lei, è alla mercé di tutti, è la persona emarginata, senza protezione, la più bisognosa. E Dio nella Bibbia viene chiamato “il difensore delle vedove”, perché Dio ha a cuore queste creature che sono emarginate. Che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Ecco per la prima volta appare il termine giustizia, che apparirà per ben quattro volte in questo brano.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio… “, ecco riconosce di non temere Dio, “… e non ho riguardo per alcuno.. “, il ritratto che Gesù fa del potente è atroce, “… dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”. Letteralmente “fare un occhio nero” perché fa un danno alla mia reputazione.
E il Signore soggiunse: “Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto.” Ed è un invito ai suoi discepoli. Ed ecco la lezione che Gesù dà. “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte (gridare giorno e notte nei salmi dell’Antico Testamento è immagine del grido degli oppressi) verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.” Quindi Gesù garantisce che quel progetto di Dio sull’umanità, il regno, una società alternativa dove ai falsi valori dell’avere, del comandare e del salire, si contrappongano i valori giusti, quelli che creano la fraternità, cioè la condivisione, lo scendere e il servire. Questo è il regno di Dio, la società alternativa. Gesù assicura che questo si realizza. Ma per farlo bisogna che i suoi discepoli collaborino con lui rompendo con questi valori falsi della società. Se non lo fanno questo regno non si può realizzare.
Ecco perché poi Gesù conclude con un’espressione che sembra carica di amarezza, “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà…”. Il Figlio dell’Uomo, cioè Gesù, viene con la distruzione di Gerusalemme. Quando si distrugge Gerusalemme ecco che si annuncia la venuta del Figlio dell’Uomo. “Troverà la fede sulla terra?” E infatti non la trova. Il vangelo di Luca finisce amaramente con i discepoli che, nonostante tutto l’insegnamento di Gesù, nonostante tutto quello che Gesù ha detto, continuano ancora a frequentare il tempio.
Quel covo di ladri che Gesù aveva denunciato e del quale aveva annunciato la distruzione, per il discepoli ancora rappresenta un valore, cioè non hanno rotto con il passato, con l’istituzione ed il potere. E allora se non rompe con questo il regno di Dio, questa società alternativa, non può emergere.

il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

NON SI E’ TROVATO NESSUNO CHE TORNASSE INDIETRO A RENDERE GLORIA A DIO, ALL’INFUORI DI QUESTO STRANIERO

commento al vangelo della domenica ventottesima del tempo ordinario (9 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:

maggi20
Lc 17,11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
E mentre essi andavano, furono purificati.  Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il capitolo 17 del vangelo di Luca, versetti 11-19, presenta un brano che esclusivo di questo evangelista. Per interpretarlo ci facciamo aiutare da quelle chiavi di lettura, da quelle cifre, da quelle indicazioni che l’autore, l’evangelista stesso pone nel testo per una retta comprensione. Vediamo allora questo brano.
Lungo il cammino verso Gerusalemme. Gerusalemme, nella lingua greca si scrive in due maniere. Una è Ierusalem, che è la traslitterazione del nome sacro ebraico Yerushalaym, che indica la città santa, l’istituzione. L’altro invece è il nome geografico, Jerozolima. Qui c’è il primo nome, Ierusalem, che indica che Gesù sta andando verso quella che è l’istituzione sacrale, il punto più importante della religione per il suo popolo. E sarà proprio là dove troverà la morte.
Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. E’ strano questo itinerario; per la comprensione del testo bisogna tener presente che, mentre la Galilea è la regione al nord della Palestina, al centro c’è la Samaria, e poi al sud la Giudea con la capitale Gerusalemme. Quindi l’evangelista avrebbe dovuto scrivere “attraversava la Galilea”, quindi al nord, “la Samaria per andare verso Gerusalemme”. Perché l’evangelista mette questo itinerario strano? Attraversava la Samaria e la Galilea… Perché vuole centrare l’attenzione sulla Galilea, cioè sul territorio di Israele. E’ lì che succede questo fatto.
Entrando in un villaggio… Questa è un’altra delle indicazioni che l’evangelista (tutti gli evangelisti in effetti) pone per la comprensione del testo. Il villaggio, anonimo, nei vangeli ha sempre il significato di incomprensione o addirittura di opposizione e ostilità a Gesù e alla novità che lui porta. Perché questo? Perché il villaggio – si sa – è il luogo dove le mode, le novità arrivano sempre in ritardo, ma poi attecchiscono e quando mettono radici diventano una tradizione che è difficile sradicare.
Quindi il villaggio nel vangelo significa il luogo del “si è sempre fatto così” e dove le novità vengono viste con sospetto. Questo villaggio è anonimo quindi indica questo tipo di ambiente.
Gli vennero incontro dieci lebbrosi. Questo è impossibile. E’ impossibile perché i lebbrosi, dal momento in cui veniva certificata l’esistenza, erano espulsi dal villaggio, dovevano vivere al di fuori del villaggio, in un luogo appartato. Come mai l’evangelista dice che “entrando in un villaggio gli vennero incontro dieci lebbrosi”? I lebbrosi non possono vivere in un villaggio. Luca ci sta dicendo che la lebbra, questa impurità, si deve proprio al fatto che dimorano in questo villaggio.
Chi dimora nella tradizione, chi rifiuta le novità che Dio propone, non ha più alcuna comunicazione con il Signore, poiché essere impuro significa non avere più alcuna comunicazione. Pertanto questa lebbra, questa impurità si deve al fatto che vivono in questo villaggio.
Che si fermarono a distanza… vivono nel villaggio, nel luogo della tradizione, e osservano la legge. Il libro del Levitico al capitolo 13, versetti 45-46, dà delle indicazioni precise su come si deve comportare il lebbroso. E dissero ad alta voce: “Gesù, maestro…” letteralmente lo chiamano “capo”, proprio come i suoi discepoli, “Abbi pietà di noi!”. Quindi da una parte vivono nella tradizione e dall’altra vedono in Gesù la speranza di salvezza che ci può essere.
Gesù non guarisce.  Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Perché? A quel tempo, sotto il nome lebbra, si intendeva qualunque malattia della pelle. E ci sono alcune malattie che, naturalmente, si possono guarire. Ma, per essere riammessi nel villaggio, bisognava andare dal sacerdote a Gerusalemme che certificasse la scomparsa di questa infezione, di questa malattia.
Quindi si otteneva una sorta di certificato per essere riammessi nel villaggio. Allora Gesù per questo dice “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati. E’ uscendo dal villaggio che diventano purificati. Gesù non guarisce, uscendo dal villaggio i lebbrosi guariscono. Quindi è la prova che questa impurità era dovuta alla loro permanenza in questo ambiente di tradizione.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, atteggiamento tipico dei discepoli, per ringraziarlo. Dal verbo ringraziare deriva l’eucaristia che significa appunto “ringraziamento”. Ed ecco la novità, la sorpresa dell’evangelista,  Era un Samaritano.
E’ interessante che, mentre la malattia accomuna questi lebbrosi giudei, galilei e samaritani, poi dopo, una volta guariti, l’unico che mostra un sentimento di gratitudine e di riconoscenza non è uno appartenente al popolo d’Israele, ma quello che era considerato l’essere più lontano, peccatore, impuro fin dalla nascita, escluso comunque da ogni rapporto con Dio. Era un Samaritano.
E’ una caratteristica di questo evangelista vedere che i modelli della fede in questo vangelo sono sempre gli stranieri o sempre le persone più lontane. Gesù già aveva elogiato la fede del centurione, la fede della prostituta, dell’emorroissa e quella del cieco. Più le persone sono ritenute lontane da Dio e più in loro c’è questo sentimento di gratitudine; percepiscono subito i segni di Dio nella loro vita.
Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio…”; rendere gloria a Dio era il privilegio di Israele. Ebbene questo privilegio che era esclusivo di Israele, ora è per tutta l’umanità, compresi i samaritani.
“All’infuori di questo straniero?”. E’ l’unica volta che nel vangelo appare il temine straniero, e straniero indicava il nemico, il rifiutato, in maniera positiva.  E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Gesù, secondo Luca, continua questo insegnamento su che cos’è la fede. La fede non è un dono che Dio dà ad alcuni, ma la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutti.
Quelli che percepiscono questo amore e rispondono, questo si chiama fede. Qui abbiamo visto, Gesù stesso lo dice, tutti i dieci sono stati guariti, ma soltanto uno è tornato, ha risposto a questa guarigione. E questa è la fede. Quindi la fede non è un dono che Dio fa ad alcuni e ad altri meno, ma la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa. E che cos’è la fede? La fede è saper rispondere positivamente a quegli avvenimenti che la vita ci fa incontrare.

il commento di padre Maggi al vangelo della domenica

SE AVESTE FEDE! 

commento al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario (2 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi: Maggi

Lc 17,5-10

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Gesù vuole traghettare i suoi discepoli dalla religione alla fede, da un rapporto con Dio basato sulla sottomissione, sull’obbedienza alle sue leggi, un rapporto che rende il credente un servo nei confronti del suo Signore, a un rapporto con il Padre basato sulla somiglianza e la pratica del suo amore. Un rapporto questo che rende il credente figlio di Dio.
Perché questo sia possibile – e Gesù più volte in questo vangelo di Luca che stiamo commentando ha invitato i suoi discepoli ad essere come il Padre, cioè ad essere buoni fino in fondo – bisogna che l’amore del discepolo raggiunga una qualità simile a quella di Dio. E qual è la qualità dell’amore di Dio? Quella che si esprime in un perdono senza condizioni.
Ecco perché allora … siamo al capitolo 17 di Luca, dal versetto 5 … Gesù afferma: “Se tuo fratello commetterà una colpa rimproveralo, ma se si pentirà, perdonagli”. E Gesù già prevenendo l’obiezione dice: “E se commetterà una colpa sette volte al giorno…”  –  numeri non indicano una quantità, ma una qualità –  “… contro di te, e sette volte a te ritornerà dicendo ‘sono pentito’, tu gli perdonerai”.
Questa ultima espressione l’evangelista l’adopera con un verbo imperativo. Quindi è un imperativo il dover perdonare chi commette qualche colpa. Il numero, come dicevo, non indica una quantità, ma la qualità. La qualità del tuo perdono, afferma Gesù, deve essere simile a quella di Dio.
Ed è a questo punto che gli apostoli intervengono con una domanda, con una affermazione completamente fuori posto. Gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”. Ma la fede non può essere accresciuta, non può essere data perché la fede non viene data da Dio. La fede non è un dono che Dio dà ad alcuni in grande misura, ad altri meno, ed ad altri per niente. La fede è la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutta l’umanità.
Chi risponde, questa è fede. Per cui accrescere o no non dipende da Dio, ma dipende dalla risposta dell’uomo. Ecco perché Gesù risponde: “Se aveste fede quanto un granello di senape…”, il granello di senape è proverbialmente il chicco più piccolo, minuscolo, quindi un niente,  “… potreste dire a questo gelso…” o sicomoro, qui la traduzione può essere gelso o sicomoro, una pianta che aveva radici talmente profonde che si pensava difficilmente sradicabile, era una pianta che, una volta piantata, durava per ben seicento anni.
“Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe”. Quindi Gesù sta dicendo che questi discepoli non hanno fede per niente, perché basterebbe un pizzico di questa fede. Ancora non hanno risposto al dono d’amore che Dio ha dato loro. Per questo Gesù propone un’alternativa. Se non accolgono la sua offerta di diventare figli di Dio, di avere un rapporto con il Padre basato sulla somiglianza al suo amore, restano nella condizione di servi di Dio, servi del loro Signore, basati sulla sottomissione.
Gesù in questo vangelo, nell’ultima cena affermerà: “Ecco io sono in mezzo a voi come colui che serve”. La novità portata da Gesù è che Dio non chiede di essere servito dagli uomini, ma è Dio che si mette lui a servizio degli uomini. E poco prima, nel capitolo 12, quasi come immagine dell’Eucaristia, Gesù aveva parlato di quel signore che tornava di notte nella sua casa e, trovando i servi ancora in piedi, cosa farà? Non si farà servire, ma si metterà lui a servirli.
Qui invece tutto il contrario.
“Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Esattamente il contrario di quello che Gesù aveva affermato nel capitolo 12. Lì era il signore che faceva mettere a tavola i suoi servi e passava a servirli. Qui dice tutto il contrario.
“Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? “ Cos’è questa contraddizione? Ebbene Gesù propone un’alternativa. O accogliete questa offerta d’amore di Dio e l’amore di Dio vi rende liberi e quest’amore si esprime attraverso il perdono incondizionato, o altrimenti rimanete nella condizione di servi verso il vostro Signore.
Ecco allora la conclusione di questo brano che spesso è stata equivocata quasi a significare l’inutilità dell’agire cristiano. “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato… “ questo
verbo ordinare si riferiva all’osservanza della legge, “Dite: “Siamo servi inutili.”. Qui la traduzione non è esatta perché non sono servi inutili, avevano fatto quello che dovevano fare, non è vero che sono inutili. Meglio tradurre con “siamo semplicemente servi. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Ecco Gesù propone un’alternativa, lui non impone, ma offre. O si diventa figli di Dio, quindi pienamente liberi di amare di servire, o si rimane nella condizione di servi. Ma chi rimane nella condizione di servo non potrà mai sperimentare la libertà, la pienezza e la gioia che la comunione di Dio che si rivela come un Padre ai suoi può manifestare.

il commento di p. Bianchi al vangelo della domenica


25 settembre 2016 
XXVI domenica del tempo Ordinario anno C  
commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI Bianchi


Lc 16,19-31

In quel tempo Gesù diceva ai discepoli: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Ma Abramo rispose: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». E quello replicò: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento». Ma Abramo rispose: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro». E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»».

Dopo la parabola dell’economo ingiusto ascoltata domenica scorsa (cf.Lc 16,1-8), oggi ci viene proposta una seconda parabola di Gesù sull’uso della ricchezza, contenuta sempre nel capitolo 16 del vangelo secondo Luca: la parabola del ricco e del povero Lazzaro.

“C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e bisso, banchettando splendidamente ogni giorno”. Di costui non si dice il nome, ma viene definito dal suo lusso e dal suo comportamento. I ricchi devono farsi vedere, devono imporsi e ostentare: da allora fino a oggi non è cambiato nulla, e chi pensa di essere potente e ricco, anche nella chiesa, vuole esibire i segni del potere e osa addirittura affermare che la porpora è indossata per dare gloria a Dio…

L’altra dimensione con cui i ricchi nell’antichità si facevano vedere era il loro banchettare con ostentazione. Per gli altri uomini la festa è un’occasione rara, per i poveri è impossibile, mentre per i ricchi ogni giorno è possibile festeggiare. Ma festeggiare cosa? Se stessi e la loro situazione privilegiata, senza mai pensare alla condivisione. Questo ricco, in particolare, mai aveva invitato i poveri, mai si era accorto del povero presente davanti alla sua porta, e dunque mai aveva praticato quella carità che la Torah stessa esigeva. Ma qual è la malattia più profonda di quest’uomo? Quella che papa Francesco, in una sua omelia mattutina, ha definito mondanità: l’atteggiamento di chi “è solo con il proprio egoismo, dunque è incapace di vedere la realtà”.

Accanto al ricco mondano, alla sua porta, sta un altro uomo, “gettato” là come una cosa, coperto di piaghe. Non è neanche un mendicante che chiede cibo, ma è abbandonato davanti alla porta della casa del ricco. Nessuno lo guarda né si accorge di lui, ma solo dei cani randagi, più umani degli esseri umani, passandogli accanto gli leccano le ferite. Questo povero ha fame e desidererebbe almeno ciò che i commensali lasciano cadere dalla tavola o buttano sul pavimento ai cani (cf. Mc 7,28; Mt 15,27). La sua condizione è tra le più disperate che possano capitare a quanti sono nella sofferenza. Eppure Gesù dice che costui, a differenza del ricco, ha un nome: ‘El‘azar, Lazzaro, cioè “Dio viene in aiuto”, nome che esprime veramente chi è questo povero, un uomo sul quale riposa la promessa di liberazione da parte di Dio.

In ogni caso, sia il ricco sia il povero condividono la condizione umana, per cui per entrambi giunge l’ora della morte, che tutti accomuna. Un salmo sapienziale, già citato altre volte, presenta un significativo ritornello: “L’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che, ignari, vanno verso il mattatoio” (cf. Sal 48,13.21). Il ricco della parabola non ricordava questo salmo per trarne lezione e neppure ricordava le esigenze di giustizia contenute nella Torah (cf. Es 23,11; Lv 19,10.15.18, ecc.) né i severi ammonimenti dei profeti (cf. Is 58,7; Ger 22,16, ecc.). Di conseguenza, era incapace di responsabilità verso l’altro, di condivisione. Il vero nome della povertà è condivisione, al punto che Gesù si è spinto fino ad affermare: “Fatevi degli amici con il denaro ingiusto, perché, quando questo verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Ma questo ricco non l’ha capito…

Quando muore Lazzaro, il suo nome mostra tutta la sua verità, perché il funerale del povero (che forse non c’è stato materialmente, perché l’avranno gettato in una fossa comune!) è officiato dagli angeli, che vengono a prenderlo per condurlo nel seno di Abramo. La vita di Lazzaro non si è dissolta nel nulla, ma egli è portato nel regno di Dio, dove si trova il padre dei credenti, di cui egli è figlio: colui che era “gettato” presso la porta del ricco, ora è innalzato e partecipa al banchetto di Abramo (cf. Mt 8,11; Lc 13,28). Il ricco invece ha una sepoltura come gli si conviene, ma il testo è laconico, non precisa nulla di un suo eventuale ingresso nel Regno.

Ecco infatti, puntualmente, una nuova situazione, in cui i destini dei due uomini sono ancora una volta divergenti, ma a parti invertite. Ciò che appariva sulla terra viene smentito, si mostra come realtà effimera, mentre ci sono realtà invisibili che sono eterne (cf. 2Cor 4,18) e che dopo la morte si impongono: il povero ora si trova nel seno di Abramo, dove stanno i giusti, il ricco negli inferi. Alla morte viene subito decisa la sorte eterna degli esseri umani, preannuncio del giudizio finale, e le due vie percorse durante la vita danno l’esito della beatitudine oppure quello della maledizione. A Lazzaro è donata la comunione con Dio insieme a tutti quelli che Dio giustifica, mentre al ricco spetta come dimora l’inferno, cioè l’esclusione dal rapporto con Dio: egli passa dall’avere troppo al non avere nulla.

Nelle sofferenze dell’inferno, il ricco alza i suoi occhi e “da lontano” vede Abramo e Lazzaro nel suo grembo, come un figlio amato. Egli ora vive la stessa condizione sperimentata in vita dal povero, ed è anche nella stessa posizione: guarda dal basso verso l’alto, in attesa… Non ha potuto portare nulla con sé, i suoi privilegi sono finiti: lui che non ascoltava la supplica del povero, ora deve supplicare; si fa mendicante gridando verso Abramo, rinnovando per tre volte la sua richiesta di aiuto. Comincia con l’esclamare: “Padre Abramo, abbi pietà di me”, grido che durante la vita non aveva mai innalzato a Dio, “e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché sono torturato in questa fiamma”. Chiede insomma che Lazzaro compia un gesto di amore, che lui mai aveva fatto verso un bisognoso.

Ma Abramo gli risponde: “Figlio, durante la tua vita hai ricevuto i tuoi beni, mentre Lazzaro i suoi mali; ora egli qui è consolato, tu invece sei torturato”. Un modo schematico ma efficace per esprimere come il comportamento vissuto sulla terra abbia precise conseguenze nella vita oltre la morte: il comportamento terreno è già il giudizio, da esso dipendono la salvezza o la perdizione eterne (cf. Mt 25,31-46). Così la beatitudine rivolta da Gesù ai poveri e il “guai” indirizzato ai ricchi (cf. Lc 6,20-26) si realizzano pienamente. Poi Abramo continua servendosi dell’immagine dell’“abisso grande”, invalicabile, che separa le due situazioni e non permette spostamenti dall’uno all’altro “luogo”: la decisione è eterna e nessuno può sperare di cambiarla, ma si gioca nell’oggi…

Qui il racconto potrebbe finire, e invece il testo cambia tono. Udita la prima risposta di Abramo, il ricco riprende la sua invocazione. Non potendo fare nulla per sé, pensa ai suoi famigliari che sono ancora sulla terra. Lazzaro potrà almeno andare ad avvertire i suoi cinque fratelli, ad ammonirli prospettando loro la minaccia di quel luogo di tormento, se vivranno come l’uomo ricco. Ma ancora una volta “il padre nella fede” (cf. Rm 4,16-18) risponde negativamente, ricordandogli che Lazzaro non potrebbe annunciare nulla di nuovo, perché già Mosè e i Profeti, cioè le sante Scritture, indicano bene la via della salvezza. Le Scritture contenenti la parola di Dio dicono con chiarezza come gli uomini devono comportarsi nella vita, sono sufficienti per la salvezza. Occorre però ascoltarle, cioè fare loro obbedienza, realizzando concretamente quello che Dio vuole!

Ma il ricco non desiste e per la terza volta si rivolge ad Abramo: “Padre Abramo, se qualcuno dai morti andrà dai miei fratelli, saranno mossi a conversione”. Abramo allora con autorità chiude una volta per tutte la discussione: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neppure se qualcuno risorge dai morti saranno persuasi”. Parole definitive, eppure ancora oggi molti cristiani faticano ad accoglierle, perché sono convinti che le Scritture non siano sufficienti, che occorrano miracoli straordinari per condurre alla fede…

No, i cristiani devono ascoltare le Scritture per credere, anche per credere alla resurrezione di Gesù, come il Risorto ricorderà agli Undici: “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24,44). Egli stesso, del resto, poco prima aveva detto ai due discepoli in cammino verso Emmaus: “‘Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i Profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?’. E, cominciando da Mosè e da tutti i Profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). Non a caso anche nella professione di fede il cristiano confessa che “Cristo morì secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Le Scritture testimoniano ciò che si è compiuto nella vita e nella morte di Gesù Cristo, testimoniano la sua resurrezione. Se il cristiano prende consapevolezza delle parole di Gesù (cf. Lc 24,6-7) e ascolta le Scritture dell’Antico Testamento, giunge alla fede nella sua resurrezione.

Questa parabola ci scuote, scuote soprattutto noi che viviamo nell’abbondanza di una società opulenta, che sa nascondere così bene i poveri al punto di non accorgersi più della loro presenza. Ci sono ancora mendicanti sulle strade, ma noi diffidiamo delle loro reale miseria; ci sono stranieri emarginati e disprezzati, ma noi ci sentiamo autorizzati a non condividere con loro i nostri beni. Dobbiamo confessarlo: i poveri ci sono di imbarazzo perché sono “il sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli), sono il segno della nostra ingiustizia. E quando li pensiamo come segno-sacramento di Cristo, sovente finiamo per dare loro le briciole, o anche qualche aiuto, ma tenendoli distanti da noi. Eppure nel giorno del giudizio scopriremo che Dio sta dalla parte dei poveri, scopriremo che a loro era indirizzata la beatitudine di Gesù, che ripetiamo magari ritenendola rivolta a noi. Siamo infine ammoniti a praticare l’ascolto del fratello nel bisogno che è di fronte a noi e l’ascolto delle Scritture, non l’uno senza l’altro: è sul mettere in pratica qui e ora queste due realtà strettamente collegate tra loro che si gioca già oggi il nostro giudizio finale.

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