il commento al vangelo della domenica

il report di una giornata tipo di Gesù
il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica del tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, andò subito nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. (…)

È il report di una giornata-tipo di Gesù, scandita dall’alternarsi di tre cose: annunciare, guarire, pregare. Cafarnao è il primo laboratorio del Regno, dove il mondo di Dio si misura con il mondo del dolore. Nella bibbia il futuro inizia sempre, come qui, dalle paludi.

Marco inanella le tre location preferite del Maestro: la strada (Gesù si reca), la casa (di Simone), la folla. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Subito. Fa tenerezza questo preoccuparsi di Simone e Andrea delle loro vicende familiari e metterne a parte Gesù, come si fa con gli amici stretti. Tutto ciò che occupa il cuore dell’uomo entra nel rapporto con Dio.

Egli si avvicinò. Il primo verbo bellissimo, rivelatore: Gesù non sopporta distanze e mostra il suo primo annuncio in atto: il regno si è fatto vicino ( Mc 1,15). Si avvicinò e la prese per mano. Potenza umile dei gesti: mano nella mano, una donna e Dio. Una mano è fatta per innalzarsi in un gesto di invocazione, per stringere altre mani in segno di amicizia o di aiuto, per accarezzare e per proteggere, per ricevere e per dare.

La prende e la solleva: toccare, arte della vicinanza, un parlare con il corpo, forza trasmessa a chi è stanco, fiducia per ogni figlio impaurito, carezza per chi è solo. Gesù la solleva, la fa “ri-sorgere”, la libera. Ed ella li serviva: il servizio è il test della vera guarigione per tutti. Il Vangelo usa lo stesso verbo nel racconto delle tentazioni, quando gli angeli si avvicinarono a Gesù e lo servivano. Una donna, la suocera di Simone, assimilata agli angeli, le creature più vicine a Dio, diventa la prima diaconessa del Vangelo.

Poi, dopo il tramonto del sole, finito il sabato con i suoi divieti (proibito anche visitare gli ammalati) tutto il dolore di Cafarnao si riversa alla porta della casa di Simone: la città intera era riunita davanti alla porta. Davanti a Gesù, in piedi sulla soglia, in piedi tra la casa e la strada, tra la casa e la città; davanti a Gesù che ama le porte aperte, che fanno entrare occhi e stelle, polline di parole e il rischio della vita; davanti alle porte aperte di Dio, s’addensa il dolore del mondo. La casa scoppia di folla e di dolore, e poi di vita ritrovata.
Queste guarigioni compiute dopo il tramonto, quando iniziava il nuovo giorno, sono il collaudo del mondo nuovo, raccontato sul ritmo della Genesi: “e fu sera e fu mattino”. Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, l’inizio del primo giorno della vita guarita. Quando era ancora buio, uscì in un luogo segreto e là pregava. Gesù sa inventare spazi, quegli spazi segreti che danno salute all’anima, a tu per tu con Dio, a liberare le sorgenti della vita, così spesso insabbiate.

(Letture: Giobbe 7,1-4.6-7; Salmo 146; Prima Lettera ai Corinzi 9,16-19.22-23; Marco 1,29-39)

il commento al vangelo della domenica

Gesù, “felice rovina” di ciò che non è amore

il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica del tempo ordinario Anno B

Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafàrnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento (…). Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». (…)

Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore: esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione creativa della meraviglia che re-incanta la vita. La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Salviamo allora lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il nervo delle cose, perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.

Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che alimentano la vita e la portano avanti; Gesù ha autorità perché non è mai contro ma sempre in favore dell’umano. E qualcosa, dentro chi lo ascolta, lo avverte subito: è amico della vita. Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù, in cui messaggio e messaggero coincidono. La sua persona è il messaggio.

L’autorità di Gesù è ribellione e liberazione da tutto ciò che fa male: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulla sofferenza dell’uomo, vede che è un “posseduto”, prigioniero e ostaggio di uno più forte di lui. E Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non inanella spiegazioni sul male, si immerge nelle ferite di quell’uomo come liberatore, entra nelle strettoie, nelle paludi di quella vita ferita, e mostra che “il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione” (G. Vannucci).

Lui è il Dio il cui nome è gioia, libertà e pienezza (M. Marcolini) e si oppone a tutto ciò che è diminuzione d’umano. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazareth? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a spezzare catene; a portare spada e fuoco, per separare e consumare tutto ciò che amore non è; a rovinare i desideri sbagliati da cui siamo “posseduti”: denaro, successo, potere, competizione invece di fratellanza. Ai desideri padroni dell’anima, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui. Taci, non parlare più al cuore dell’uomo, non sedurlo. Esci dalle costellazioni del suo cielo.

Un mondo sbagliato va in rovina: vanno in rovina le spade e diventano falci (Isaia), si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è un uomo libero e amante. Lo sarò anch’io, se il Vangelo diventerà per me passione e incanto, patimento e parto. Allora scoprirò “ Cristo, mia dolce rovina” (D.M. Turoldo), felice rovina di tutto ciò che amore non è.

(Letture: Deuteronomio 18,15-20; Salmo 94; Prima Lettera ai Corinzi 7,32-35; Marco 1,21-28)

il commento al vangelo della domenica

convertirsi

cioè volgersi verso la luce che è Cristo


il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica del tempo ordinario – Anno B

Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. (…)
Marco ci conduce al momento sorgivo e fresco del Vangelo, quando una notizia bella inizia a correre per la Galilea: l’attesa è finita, il regno di Dio è qui. Gesù non dimostra il Regno, lo mostra, lo fa fiorire dalle sue mani: libera, guarisce, perdona, toglie barriere, ridona pienezza a tutti, a cominciare dagli ultimi della fila. Viene come guaritore del disamore del mondo. La seconda parola di Gesù: convertitevi, giratevi verso il Regno. C’è un’idea di movimento nella conversione, come nel moto del girasole che ogni mattino rialza la sua corolla e la mette in cammino sui sentieri del sole. Allora: “convertitevi” dice: “giratevi verso la luce perché la luce è già qui”. Ogni mattino, ad ogni risveglio, posso anch’io “convertirmi”, muovere pensieri e sentimenti e scelte verso una stella polare, verso la buona notizia che Dio è più vicino, è entrato di più nel cuore del mondo, nel mio, ed è all’opera con mite e possente energia. Gesù ha camminato per tre anni, ha percorso tutte le strade di Galilea, innamorato non di recinti ma di orizzonti. E se ti eri fermato, proprio da là ti fa ripartire, vivrai ancora inizi, perché non sei al mondo per essere immacolato ma incamminato. Camminando lungo il lago, Gesù vide… L’ambiente di lavoro è il luogo privilegiato della vocazione, lo è stato per Mosè, per Saul, Davide, Eliseo, Amos, per i pescatori Andrea e Pietro. «Dio si trova in qualche modo sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago, del mio cuore, del mio pensiero» (Teilhard de Chardin). Gesù ha gli occhi di un profeta, guarda e in Simone intuisce Pietro, la Roccia. Vede Giovanni e in lui indovina il discepolo dalle più belle parole d’amore. Un giorno, guarderà l’adultera trascinata a forza davanti a lui, e in lei vedrà la donna capace di amare bene di nuovo. Il Maestro guarda anche me, nei miei inverni vede grano che spunta, generosità che non sapevo di avere, capacità che non sospettavo. Dio ha verso di me la fiducia di chi contempla le stelle prima ancora che sorgano. Seguitemi, venite dietro a me. Gesù non si dilunga sulle motivazioni, perché il motivo è la sua persona, lui che ti mette il Regno appena nato fra le mani. E lo dice con una frase inedita: Vi farò pescatori di uomini. Come se dicesse: “vi farò cercatori di tesori”. Mio e vostro tesoro sono gli uomini. Li tirerete fuori dall’oscurità, come pesci da sotto la superficie delle acque, come neonati dalle acque materne, come tesoro dissepolto dal campo. Li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. Mostrerete che è possibile vivere meglio, per tutti, e che il Maestro del cuore e delle strade ne possiede la chiave.
(Letture: Giona 3,1-5.10; Salmo 24; Prima Corinzi 7,29-31; Marco 1,14-20)

il commento al vangelo della domenica

in quel «cosa cercate?» la pedagogia del Signore

il commento di E. Ronchi  al angelo della  seconda domenica del tempo ordinario-anno B

In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». (…) Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete»(…). Gesù allora si voltò e disse: «Che cercate?».

Le prime parole del Gesù storico sono una domanda. È la pedagogia di quel giovane rabbi, che sembra quasi dimenticare se stesso per mettere in primo piano i due che lo seguono, le loro attese, le loro domande: prima venite voi, dopo io. Amore vero mette sempre il tu prima dell’io. Le prime parole del Gesù storico e le prime del Cristo risorto sono la stessa domanda raddoppiata (che cercate? donna chi cerchi?) e rivelano che il Maestro dell’esistenza non vuole imporsi, non gli interessa stupire, abbagliare, indottrinare, ma la sua passione è farsi vicino, mettersi a fianco, ascoltare, rallentare il passo, l’arte dell’accompagnamento. Che cosa cercate? Con questa domanda Gesù non si rivolge all’intelligenza, alle emozioni, alla volontà dei due, ma va più a fondo; non interroga la teologia di Maddalena, ma scende nella sua nuda umanità. E formula un interrogativo al quale tutti sono in grado di rispondere, i colti e gli ignoranti, i laici e i religiosi, i giusti e i peccatori. Gesù, il Maestro del cuore, pone le domande del cuore, quelle che fanno vivere: si rivolge subito al desiderio profondo, al tessuto sorgivo dell’essere. Che cosa cercate? Significa: qual è il vostro desiderio più forte? Che cosa desiderate più di tutto dalla vita?
Gesù, che è il vero Maestro ed esegeta del desiderio, ci insegna a non consultarci con le nostre paure, ma con i nostri desideri, progetti e speranze. Libera il futuro e fame di cielo, salva l’importanza del desiderio, motore della vita, dalla depressione, dal rattrappirsi, dall’essere banale. Con questa semplice domanda: che cosa cercate? Gesù fa capire che la nostra identità specifica è di essere creature di ricerca e di desiderio. Perché a tutti manca qualcosa: infatti la ricerca nasce da una assenza, da un vuoto che chiede di essere colmato. E la domanda diventa: che cosa mi manca? Quale vuoto mi morde? Gesù non chiede, ai due ragazzi che lo seguono, per prima cosa sacrifici, rinunce o penitenze; non impone di immolarsi sull’altare del dovere o dello sforzo. Chiede la cosa più importante: di rientrare nel cuore, di comprenderlo, di conoscere che cosa desiderano di più, che cosa li fa felici, che cosa si muove nel loro spazio vitale, cosa li muove. Di ascoltare il cuore, di abbracciarlo: “accosta le labbra alla sorgente del cuore e bevi” (San Bernardo). I Padri definiscono, questo primo passo della vita spirituale, il ritorno al cuore:
“trova la chiave del cuore. Questa chiave, lo vedrai, apre anche la porta del Regno” (Giovanni Crisostomo). Che cosa cercate? Per chi camminate? Io ormai lo so: cammino per Uno che fa felice il cuore. (Letture: 1Sam 3,3-10.19; Sal 39; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42).

il commento al vangelo della domenica

«Tu sei mio Figlio»

il commento di  E. Ronchi al vangelo della domenica  del Battesimo del Signore – Anno B

In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». (…)E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. (…)​​

«E subito, uscendo dall’acqua vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere come una colomba ».

Sento tutta la bellezza e la potenza del verbo: si squarciano i cieli, si lacerano, si strappano sotto la pressione di Dio, sotto l’impazienza di Adamo e dei poveri. Si spalancano, come le braccia dell’amata per l’amato. Noi siamo figli di un cielo lacerato per amore: vita ne entra, vita ne esce, e nessuno lo richiuderà più. Da questo cielo aperto e sonante di vita, viene, come colomba, il respiro di Dio. Una danza dello Spirito sull’acqua è il primo movimento della Bibbia ( Genesi 1,2).

Una danza nelle acque del grembo materno è il primo movimento di ogni figlio della terra. Una colomba che danza sul fiume è l’inizio della vita pubblica di Gesù. Il brano, quasi un Vangelo in miniatura, raccolto attorno a tre simboli: una voce, un figlio, una colomba. «Venne una voce dal cielo e disse “Tu sei mio Figlio”». Primo viene il “tu”, la parola più importante del cosmo. In amore, il tu viene sempre prima dell’io. Venne una voce, con le parole proprie di una nascita: Figlio, il termine più potente per il cuore. E per la fede. Vertice della storia umana, culmine della storia divina. Era la voce di chi veniva a prendere in braccio lo storto mondo umano.​ Seconda parola: amato. E lo sono da subito, a prescindere, prima che io faccia qualsiasi cosa, prima che io dica sì o dica no. Per quello che sono, così come sono, io sono amato. E che io lo sia, dipende da lui, non dipende da me. La terza parola: in te ho posto il mio compiacimento.

La Voce grida sul mondo e in mezzo al cuore la gioia di Dio: tu mi piaci, è bello stare con te, tu mi fai contento. Dio ha affidato a noi la sua gioia. A me che non l’ho ascoltato, che me ne sono andato, che l’ho anche tradito, a me sento dire: «In te ho posto la mia soddisfazione». Uscito dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere. È il compito di ciascuno: aprire finestre di luce, un pertugio d’azzurro, aprire spazi al volo. Da questo cielo aperto scende, come colomba, la vita stessa di Dio. Si posa su noi, ci avvolge, penetra, trasforma i pensieri e gli affetti, secondo la legge dolce ed esigente del vero amore. Allora ti prende una nostalgia, un desiderio di fare qualcosa che assomigli a ciò che è detto di Gesù che “passò nel mondo facendo del bene”. Essere, nella vita, donatori di vita, accendendo, perdonando, guarendo il disamore, aprendo spazi a un profumo di bellezza.

Che è mescolare in giuste proporzioni il finito e l’infinito, le vie della carne e le vie del Verbo, fino a che la sua e nostra vita formino un fiume solo.

( Letture: Is 55,1-11; Is 12; 1Gv 5,1-9; Mc 1,7-11)

il commento al vangelo della domenica

l’abbraccio di Anna e Simeone al bambino Gesù

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica fra l’ottava di natale – anno B

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore. (…) Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio. (…)

Maria e Giuseppe portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore. Il figlio è dato ai genitori, ma subito da loro è offerto ad un altro sogno, ad un’altra strada che si apre per lui. I figli non sono nostri, appartengono a Dio, al mondo, ad una loro vocazione, «essi abitano case future che nemmeno in sogno potrete visitare» (K. Gibran).

Salgono al tempio, ma ancora sulla soglia, altre braccia subito se lo contendono, quel bambino. E non sono braccia di sacerdoti o di leviti, ma quelle di due anziani, che non hanno ruolo nell’istituzione ma sono due innamorati di Dio. Occhi velati dalla vecchiaia, ma ancora accesi dal desiderio. È la vecchiaia del mondo che abbraccia l’eterna giovinezza di Dio. L’alternativa vera per i credenti non è tra progressisti o conservatori, ma tra innamorati e abituati (papa Francesco), tra accesi e accomodati. Gesù non appartiene al tempio, appartiene all’uomo, a chiunque ne sia assetato, è di quelli che sanno vedere oltre come Anna; è di quelli che non smettono di sognare, come Simeone, che sentono Dio come il loro futuro. Simeone prende in braccio Gesù e benedice Dio. Compie un gesto sacerdotale, una autentica liturgia, possibile a tutti, un arte straordinaria. Un anziano, diventato onda di speranza, una laica sotto l’ala dello Spirito benedicono: la benedizione non è un ufficio d’élites, ma esubero di gioia che ciascuno può offrire a Dio (R. Virgili), che sta nelle case fuori dal tempio. È Dio che si incarna nelle creature, nella vita che finisce e in quella che fiorisce. Anche Maria e Giuseppe sono benedetti, si comportano secondo le regole ma al tempo stesso accolgono l’imprevisto, rassicurati dal rito e stupiti dai due profeti. Poi Simeone dice tre parole immense su Gesù: egli è qui come caduta, risurrezione, come segno di contraddizione. Tre parole che danno respiro e movimento alla vita, con dentro il luminoso potere di far vedere che tutte le cose sono ormai abitate da un oltre.

Gesù come caduta. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, rovina del nostro mondo di maschere e bugie, della vita insufficiente e malata. Venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare ciò che è contro l’umano.

Egli è qui per la risurrezione: è la forza che ti fa rialzare quando credi che per te è finita, che ti fa ripartire anche se hai il vuoto dentro e il nero davanti agli occhi. Perché vivere è l’infinita pazienza di ricominciare.

Cristo contraddizione che contraddice tutta la mia mediocrità, tutte le mie idee sbagliate su Dio.

Ogni famiglia è grande ha il dovere di credere alla propria nobiltà e santità, che si gioca in una casa, ma che coinvolge il mondo.

(Letture: Genesi 15,1-6; 21,1-3; Salmo 104; Lettera agli Ebrei 11,8.11-12.17-19; Luca 2,22-40)

il commento al vangelo della domenica

la vergine e l’amore di Dio che ci precede


La Vergine e l’amore di Dio che ci precede

 il commento di Ermes Ronchi  al vangelo della quarta domenica di avvento Anno B

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.

Entrando da lei, disse: “Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te”. […]»

L’angelo Gabriele vola via dal tempio, dall’anziano sacerdote senza parola, verso una giovane laica, dalla Città Santa a un villaggio senza storia, da un maschio a una donna, dall’unico tempio a una casa come tante, dove «arde in appartata fiamma la vita» (L. Borges) che diventa finestra di cielo. Così inizia il Vangelo: Dio esce dai recinti del sacro e si immerge nella normalità della vita; non fra incensi e candelabri, ma pentole e telai.

L’angelo migratore parla in modo chiaro e nuovo.

Gioia è la prima parola, Xaire, rallegrati, gioisci, sii felice Maria, apriti alla gioia come una porta al sole.

Non le ordina: inginocchiati, obbedisci, prega, vai al tempio. Gabriele brucia le distanze tra Dio e l’umano: tra i due poli scocca la prima scintilla, quella di ogni “in principio”, quella della felicità. Che sarà anche il primo tema del Maestro nella sua prima lezione sul monte (Mt 5). Dio è legittimato a proporsi all’uomo perché sa parlare il linguaggio della gioia. Nella seconda parola, il perché della gioia: sei piena di grazia, riempita, intrisa di Dio. La grazia di Dio è la vita stessa di Dio, il suo amore. Dio è innamorato di te, Maria, il tuo nome è “amata per sempre”, senza rimpianti, teneramente amata. Dio ha detto sì a Maria prima ancora che Maria dicesse sì a Dio, prima di ogni sua risposta. E questo è anche il nostro nome: come lei, tutti amati per sempre, di amore asimmetrico, unilaterale, incondizionato. Per come siamo, per quello che siamo. Il Signore è con te.

Quando nella Bibbia Dio dice a qualcuno “Io sono con te” gli sta offrendo un futuro bello e arduo (R. Virgili), un compito alto e difficile: tuo figlio sarà figlio di Dio. Maria è sbalordita: come è possibile? Questo angelo dice eresie. Dio è uno, non ha figli. Ma nel Vangelo gli angeli vengono proprio per dire questo: che l’impossibile è diventato possibile. Non aver paura Maria, se l’infinito si nasconde in un pugno di carne, in una perla di sangue nel tuo grembo. Non aver paura delle nuove, sconosciute vie di Dio che diventa bambino, vagito, fame di latte, occhi spalancati, mano piccola che si protende. Non temere questo Dio bambino, che vivrà perché tu lo amerai.

Lo nutrirai di latte, di carezze, di sogni. E lo farai felice. Ragazza pratica, concreta, Maria vuole sapere: come è possibile, non conosco uomo? Sarai umile tenda mossa solo dal vento dello Spirito. E Maria con gioia, con slancio, si butta sulle vie di Dio: eccomi, io ci sono, ci metto la mia fede, il mio corpo, il mio futuro, la mia femminilità, tutto. Oggi quell’annunciazione continua: anche intorno alla tua casa volteggiano angeli, e un Dio sempre in cerca di madri.

(Letture: 2 Samuele 7,1-5.8-12.14.16; Salmo 88; Romani 16,25-27; Luca 1,26-38)

il commento al vangelo della domenica

Giovanni

l’uomo mandato da Dio

il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di Avvento – Anno B

(…) Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». (…)

Venne Giovanni, mandato da Dio, per rendere testi-monianza alla luce. Il profeta del Giordano è il testimone che la pietra angolare su cui si fonda la storia di Dio non è il peccato ma la luce, non il male ma la grazia. Ad ogni credente è affidata la stessa profezia: avere occhi così limpidi da vedere Dio dovunque, sandali da pellegrino e cuore di luce; essere anche noi rabdomanti del buono e del bello seminato anche nei nostri deserti.

In mezzo a voi sta Uno che voi non conoscete, è così vicino da poterci inciampare: “cercatore verace di Dio / è solo chi inciampa / su di una stella…. e, tentando strade nuove,/ si smarrisce nel pulviscolo / magico del deserto (D. M. Montagna).

Sacerdoti e leviti sono scesi da Gerusalemme, una commissione d’inchiesta istituzionale e clericale, scesa non per capire ma per affermare il loro potere e ribadire il primato del sacerdozio su quel libero profeta, non allineato, senza autorizzazione. Giovanni era, per nascita, un levita, apparteneva a quella casta sacerdotale maschile, ereditaria e autoreferenziale, che era di suo padre Zaccaria. Sacerdoti si nasceva, si era tali di generazione in generazione. Ma Giovanni, il figlio del miracolo, ha abbandonato il tempio e rinnegato il sacerdozio, diventati il silenzio di Dio, e aveva scelto di essere voce. Tu chi credi di essere? Elia? Il profeta che tutti aspettano? Lo affrontano con sei domande sempre più incalzanti. Ad esse Giovanni risponde “no”, per tre volte, con risposte sempre più brevi; e anziché affermare “io sono” , preferisce dire “io non sono”, svestendosi di proiezioni e attese prestigiose, che forse sono perfino pronti a riconoscergli, se…. Risponde non per addizione di titoli, ma per sottrazione, indicandoci il cammino verso l’essenziale: non si è profeti per accumulo, ma per spoliazione. Davanti al sole, come davanti a Dio, non c’è nulla di meglio che essere nulla, aria, pura trasparenza. Io sono solo voce, parlo parole non mie, che vengono da prima di me, che vanno oltre me.

“Giovanni venne per dare testimonianza alla luce”. Il profeta roccioso e selvatico, l’uomo della sabbia e delle acque, è il testimone del sole. Come Isaia testimonia che la terra non è orfana di Dio, che in qualche parte del mondo, già ora, il lupo e l’agnello pascolano insieme; testimonia che Dio viene, guaritore delle vite, cercatore di prigionieri da rimettere nel sole. “Venne un uomo mandato da Dio” è detto per Giovanni e per me; ognuno è uomo mandato, sillaba pronunciata da Dio chiamandoci all’esistenza, unica e che non ripeterà mai più. Ognuno testimone che Dio c’è, è qui, ed ha un cuore di luce. E il tuo cuore ti dirà che anche tu sei fatto per la luce.

(Letture: Isaia 61,1-2.10-11; Salmo Luca 1,46-50.53-54; Prima Tessalonicesi 5,16-24; Giovanni 1,6-8.19-28)

il commento al vangelo della domenica

è il Battista che sussurra al mio cuore che Dio viene


È il Battista che sussurra al mio cuore che Dio viene

a cura di padre Ermes Ronchi al vangelo della seconda  domenica di Avvento – Anno B

(…) Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. (…)

Due profeti, due voci narranti un Dio camminatore dei secoli, viaggiatore dell’anima, orma sulla sabbia, piede che si ferma alla tua porta (cf. Ap 3,20), fremito nel grembo di Maria ( Lc 1,41), passione nella voce di Giovanni, miele nella voce di Isaia: «viene il tuo Dio». Due testimoni, che usano lo stesso verbo, al presente, semplice, diretto, sicuro: “viene”. Non probabilmente, non simbolicamente, non apparentemente, ma “veramente” Dio viene. Non parlano di un domani: “ecco, sta per venire, verrà tra poco”, e ci sarebbe bastato. Ma giorno per giorno, instancabilmente, continuamente Dio viene. L’Infinito prende corpo perché la nostra vita prenda corpo.

Come seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia che ingoia la notte. Anche se non lo vedi, anche se non ti accorgi, Dio viene, e ogni strada del mondo è Galilea. È bello immaginare il creato come un reticolo, un calpestio di orme di Dio.

Alzate il capo, guardate in alto e lontano, perché la vostra liberazione è vicina. Uomini e donne in piedi, eretti, occhi alti e liberi: così vede i discepoli il profeta Isaia, come veggenti dalla vita verticale e dallo sguardo profondo. Viene dopo di me uno più forte di me. Gesù è “il forte” perché ha il coraggio di non prendere niente e di dare tutto. Di innalzare speranze così forti che neppure la morte di croce ha potuto far appassire, anzi ha rafforzato. È “il più forte” perché è l’unico che parla al cuore. E chiama tutti a essere “più forti”, a fare come Isaia e Giovanni: a essere voce che grida e poi sussurra al cuore che Dio viene. Ci chiama tutti a gridare, a dire con passione, quella che è la nostra passione per Cristo e per l’uomo, inscindibilmente. Il vivere appassionato è ciò che rende forte la vita. E poi ci invita a semplicemente sussurrare il vangelo al cuore della terra, testimoni della luce, rabdomanti del buono sepolto. Inizio di una notizia buona. Il nostro é il Dio degli inizi, il Dio creativo che avvia processi, intraprende percorsi, innamorato di orizzonti e non di recinti, che ci porta a pienezza e poi a sconfinamento; un Liberatore, esperto di nascite, che viene, è qui, si è radicato, si arrampica in noi come un germoglio, «un fiore di luce nel nostro deserto» (Turoldo). «Inizio del vangelo di Gesù», che è Gesù, la buona notizia è lui, i suoi occhi che guariscono quando accarezzano, e la sua voce che atterra i demoni tanto è forte, e che incanta i bambini tanto è dolce; il guaritore del disamore del mondo, il seduttore dietro cui ho perso il cuore, che fa ripartire la vita ogni volta si è ferma, fino a che inciampi in una stella.

(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 84; Seconda lettera di san Pietro 3,8-14; Marco 1,1-8)

il commento al vangelo della domenica

avvento

tempo di un Dio che si fida


Avvento, tempo di un Dio che si fida
il commento di E. Ronchi al vangelo della prima domenica di Avvento Anno B

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino. (…)

Se tu squarciassi i cieli e discendessi! (Isaia 63,19). Il profeta apre l’avvento come un maestro dell’attesa: i cieli sono un grembo che sta per partorire vita più grande. Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci dà forma (Isaia 64,7). Siamo argilla che il Vasaio non butta via mai, e se questo vaso riesce male, o qualche volta si rompe, ci prende di nuovo in mano, ci mette ancora su quel suo tornio, che ruota sempre come una mistica danza di creazione.

Illogica e magnifica fiducia in noi, che siamo i vasi rotti di Dio. Fiducia che ho tante volte tradito, ogni volta rinata. Il profeta è testimone ancora una volta che è sempre possibile rinascere, è sempre possibile il passaggio da «terra ferita» a «terra guarita». La voce di Isaia grida il desiderio del cosmo: tutto nell’universo attende, attendono anche le pietre, anche il grano attende un Dio che ha sempre da nascere. Un germe divino attende la sua risurrezione nel cuore umano (Giovanni Vannucci).Avvento è un tempo di incamminati: tutto si fa più vicino, Dio in esodo verso di noi, io che mi accodo a questa carovana di nomadi cercatori di stelle, la terra che si fa prossima e cerca pace. Pace in terra, canteranno gli angeli, affascinando la notte di Betlemme. E sappiamo, sempre più e sempre meglio, che significa far pace con madre terra, depredata, devastata, avvelenata, che però come una madre bella ci prende fra le sue braccia. L’ingresso del Vangelo di Marco,

in questa prima domenica d’avvento, racconta di una notte, e ne stende l’elenco faticoso delle tappe: “non sapete quando arriverà, se alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo o al mattino”. Una sola cosa però è certa: arriverà. Ma intanto Isaia lotta, a nome nostro, contro il ritardo di Dio: «ritorna per amore dei tuoi servi!» Il padrone è partito e ha lasciato tutto in mano ai suoi servi, a ciascuno il suo compito. Una costante di molte parabole, in cui Gesù racconta il volto di un Dio che si fida, mette il mondo nelle nostre mani, affida le sue creature all’intelligenza fedele e alla combattiva tenerezza dell’uomo.

Un rischio grande preme su di noi. Un poeta lo esprime così: «io vivere vorrei/ addormentato/ entro il dolce rumore della vita» (Sandro Penna). La tentazione è di non vivere, ma solo di sopravvivere, in un ottundimento dei sensi, una sedazione dei desideri, per troppa sazietà. Il nostro mondo vive una triplice crisi, della fiducia, del futuro e del generare. Ma proprio qui e ora Avvento viene a ricordare che nascerà un figlio, che il futuro è assicurato, che il cielo non è chiuso sopra di noi, ma si apre. Dio prende corpo, affinché la nostra speranza prenda corpo; si fida di questa terra ferita perché diventi terra incinta di Dio.

(Letture: Isaia 63,16-17.19; 64,2-7 Salmo 79 Pirma Corinzi 1,3-9 Marco 13,33-37)

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